Impressioni di Pilato

Sapete che mi piace ascoltare le canzoni e fantasticarci un po’ sopra, cercando magari dei legami con dei personaggi biblici o comunque delle tracce di spiritualità. Oggi pomeriggio riascoltando “Impressioni di settembre” della PFM nella cover di Franco Battiato, oltre che a godere di quel fantastico (e primo per l’Italia) assolo di moog, ho immaginato che quelle parole potessero essere dette da Pilato qualche tempo dopo aver mandato a morte Gesù. So che non appartiene alla tradizione della Chiesa l’immagine di un procuratore romano così tormentato e dubbioso, ma frasi come “cerco un sole ma non c’è… e la vita nel mio petto batte piano. Respiro la nebbia… penso a te. … e leggero il mio pensiero vola e va, ho quasi paura che si perda.”mi fanno pensare a un uomo che si interroga quasi con amarezza e paura (“no… dove sono… adesso non lo so”), a un uomo che ha salvato il suo potere (per lui il problema-Gesù non era tanto un pericolo religioso, quanto una questione di fedeltà a Cesare e a Roma) ma ha perso se stesso (“sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso”) e si ritrova a camminare solo (“no…cosa sono…adesso non lo so, sono solo il suono del mio passo”). Voglio però cogliere nelle ultime parole il segno della speranza anche per colui che, come dice una battuta, è l’unico uomo della storia a essere diventato più sporco dopo essersi lavato le mani (“ma intanto tra la nebbia filtra già. Un giorno come sempre sarà”). Se invece volessimo dare una chiave negativa anche alla parte finale, pensando a un Pilato che trova spazio solo per la rassegnazione, è sufficiente citare queste parole di Cesare Pavese: “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà, non c’è cosa più amara della inutilità… La lentezza dell’ora è spietata per chi non aspetta più nulla”.

A seguire vi posto il video nella versione dei Marlene Kuntz e il testo del brano.

Quante gocce di rugiada intorno a me,

cerco un sole ma non c’è

dorme ancora la campagna.. forse no,

è sveglia mi guarda… non so.

Già l’odore della terra, odor di grano,

sale adagio verso me,

e la vita nel mio petto batte piano.

Respiro la nebbia… penso a te.

Quanto verde tutto intorno e ancor più in là

sembra quasi un mare l’erba

e leggero il mio pensiero vola e va

ho quasi paura che si perda.

Un cavallo tende il collo verso il prato

resta fermo come me

faccio un passo, lui mi vede…è già fuggito

respiro la nebbia… penso a te

no… dove sono…adesso non lo so

sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso

no…cosa sono…adesso non lo so

sono solo il suono del mio passo

ma intanto tra la nebbia filtra già.

Un giorno come sempre sarà.

I “nuovi” Depeche

Dimensioni Nuove (www.dimensioni.org) è una rivista a cui sono abbonato da quando ero in IV liceo e che quindi mi ha accompagnato nel mio percorso di animatore prima e di insegnante poi. Non tratta di musica, ma molto spesso pubblica degli articoli interessanti, come quello che vi posto di Claudio Facchetti sull’ultima fatica dei Depeche Mode.

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DEPECHE MODE, IL SUONO ELETTRONICO DELL’UNIVERSO di Claudio Facchetti

A quattro anni di distanza dall’ultimo album ritorna in azione la band inglese. Con un ottimo disco che mischia electro pop, soul e suoni vintage. E un ambizioso tour negli stadi.

Forse, quando hanno iniziato nel 1980, i Depeche Mode non pensavano neanche loro che sarebbero diventati così famosi, al punto che la tournée mondiale in programma quest’anno da maggio si svolgerà negli stadi. Ancor più considerando il genere che da sempre frequentano, un electro pop venato talvolta di dark, costruito principalmente sulle architetture dei synth, che però ha fatto breccia nel pubblico e mantenuto, anzi aumentato, il loro successo in quasi trent’anni di onorata carriera.

Carriera che, seppur baciata da una costante popolarità, ha avuto i suoi momenti di bufera, con qualche cambio di formazione lungo il cammino e il momento difficile passato dal carismatico cantante Dave Gahan, culminato nel 1995 con il suo tentato suicidio dopo gli eccessi per droga.

Una pagina della storia dei Depeche Mode che poteva diventare buia e che per fortuna si è risolta invece con il pieno recupero di Gahan dopo una lunga cura riabilitativa. Tornato insieme agli amici di sempre, Martin Gore e Andy Fletcher, la macchina della band si è rimessa in moto per non fermarsi più.

Oggi, con alle spalle oltre 75 milioni di album venduti, i Depeche Mode aggiungono un altro brillante tassello alla loro ricca discografia con il nuovo Sound of the Universe, tredici brani spruzzati qui e là di sonorità industrial e vintage. Canzoni scritte per la maggior parte, come al solito, da Gore, con l’aggiunta della firma di Gahan, accreditato solo di recente come compositore, che formano un disco ampiamente sopra una spanna rispetto a ciò che passa abitualmente il mercato. La conferma che il trio inglese è in salute e pronto a continuare il suo viaggio nella musica, ieri come oggi. Alla faccia anche del nome che portano, Depeche Mode, che in francese vuol dire “moda veloce”.

Sono passati quattro anni dal vostro ultimo disco, Playing the angel. Perché questa lunga attesa?

Andy: Non siamo stati completamente inattivi. Abbiamo fatto un tour nel mondo sull’onda del successo di Playing the angel, per poi prenderci un po’ di riposo. Nel frattempo Dave ha realizzato il suo primo album da solista, che ha avuto ottimi riscontri di vendita, mentre Martin ha approfittato della pausa per comporre nuove canzoni. Alla fine dell’anno scorso, ci siamo ritrovati per mettere a punto questo progetto.

È stato complicato realizzare il nuovo album?

Dave: È filato via tutto con molta naturalezza, senza grandi problemi. Quasi tutti i brani hanno preso subito il volto che volevamo dare loro. Siamo molto orgogliosi del risultato ottenuto con Sound of the Universe.

Quanto c’è del vostro passato e quali sono gli elementi di novità presenti nelle canzoni?

Martin: Dopo molti anni di lavoro, sappiamo di avere un nostro codice espressivo ben preciso, un suono riconoscibile, a cui si aggiunge la caratteristica voce di Dave. Sono senza dubbio una specie di nostra “firma”, tuttavia in ogni disco cerchiamo di trovare soluzioni diverse rispetto a ciò che abbiamo finora fatto, di dare un volto contemporaneo ai pezzi.

Nel dare questo volto, a cosa vi siete ispirati?

Martin: Musicalmente è un album molto variegato, dove ci puoi trovare anche del soul e dello spiritual, ovviamente filtrati con la nostra sensibilità, mentre nei testi si parla di fede e redenzione. Sono comunque processi naturali, che nascono al momento dell’incisione, come certe sonorità scaturite dall’utilizzo di una serie di tastiere e chitarre vintage che ho scovato e comprato su eBay per dare un suono più caldo ai brani.

Nel disco precedente, Gahan aveva esordito come autore. E anche in questo ci sono sue composizioni. Sei stato dunque “promosso”?

Dave: Non è questo il problema. Semplicemente, oggi mi viene naturale scrivere anche per la band. Nel realizzare questo album non ci sono stati problemi o differenze nel lavorare sui miei pezzi o quelli di Martin, tutto è maturato in uno spirito di forte collaborazione. Lui ha fatto un lavoro straordinario per il disco e mi ha aiutato molto nell’arrangiare le mie canzoni. È stato sorprendente riascoltarle dopo i suoi interventi, apprezzarne i cambiamenti rispetto alla stesura iniziale.

Allora si può dire che il gruppo ha un altro autore “abile e arruolato”.

Dave: Non posso assolutamente paragonarmi a Martin come autore, anche solo per la quantità e qualità di composizioni che sforna e ha sfornato. Per il momento, mi sento come una buona riserva in panchina, pronto a entrare in campo quando serve. Non sono più, insomma, nello spogliatoio o in tribuna.

Il mercato della musica è in continua evoluzione, oltre che in crisi. Con quali prospettive i Depeche Mode affrontano questi cambiamenti?

Andy: In effetti, ogni volta che pubblichiamo un album troviamo una situazione diversa dalla precedente, ed è difficile da interpretare. Mi sembra ci sia una certa ripresa da parte delle case discografiche, che stanno risolvendo i problemi per il download selvaggio. Per quanto ci riguarda, abbiamo preso in considerazione varie possibilità per l’uscita del disco, compresa quella di gestirci in modo indipendente. Poi, per questo disco, ci siamo intesi ancora con la nostra etichetta, la EMI, che ha fatto un lavoro eccellente con i Coldplay.

Da anni affidate la vostra immagine al celebre fotografo e regista Anton Corbjin. Anche per questo progetto ha lavorato con voi?

Martin: Sì, ha realizzato le foto per la copertina e curato l’allestimento del tour: è lui che ha lavorato alle luci, alla scenografia e agli effetti visivi del palco. Con Anton, c’è ormai un rapporto fraterno e riesce sempre a capire le nostre esigenze.

Per questo tour suonate per la prima volta negli stadi. Non pensate che il vostro tipo di musica sia poco adatta a spazi così grandi?

Dave: È un’idea sorpassata pensare che solo le rock band possano suonare negli stadi. Per esempio, Madonna fa pop eppure offre un ottimo show. Quindi siamo convinti che anche una band come la nostra possa realizzare un concerto coinvolgente. D’altra parte, alcuni anni fa abbiamo già felicemente sperimentato l’esperienza esibendoci allo stadio di Pasadena, negli USA: tutti ci sconsigliavano di farlo, poi è stato un trionfo. Tuttavia, sappiamo che non è facile mettere in piedi uno spettacolo di queste dimensioni, è una sfida anche per noi, ma pensiamo di vincerla.

La spiritualità di Vecchioni

di-rabbia-e-di-stelle-1.jpgSto studiando i testi dell’ultimo album di Roberto Vecchioni uscito da qualche mese: Di rabbia e di stelle. Intanto posto un’intervista rilasciata ad Antonio Lodetti de Il Giornale

C’è modo e modo di uscire da un annus horribilis di sofferenze personali e familiari. Roberto Vecchioni ne è uscito con lo slancio e la carica di un ragazzino, rivendicando «la ricerca di un nuovo umanesimo» nell’album “Di rabbia e di stelle”, e trovando una nuova via attraverso la riscoperta di Dio e della spiritualità. «Non esiste la casualità. La vita mi ha convinto che nulla avviene per caso, Dio è il grande regista dell’universo e delle nostre vite», dice il cantautore, che si mette in gioco in una nuova veste lirico sinfonica con lo spettacolo In-cantus. Suoni dell’anima tra poesia e musica, cantando brani di Ciaikovskij, Händel, Rachmaninov, lo Stabat mater di Jacopone da Todi, suoi brani a sfondo religioso e molte poesie accompagnato dagli archi del Nu-Ork String Quartet.

«A 60 anni ho riscoperto la spiritualità. Ho superato la rabbia e lo sconforto sapendo che ci si può salvare con la forza dell’amore. Mi sento come un bambino perché fra l’altro ho scoperto quella che io chiamo la saggezza del canto».

La sua in pratica è una riscoperta della fede.

«Sì, sono un credente e un cristiano che però usa anche l’intelletto. Quindi la mia fede è lacerata e al tempo stesso rafforzata dai dubbi. Mi piace questa non certezza, ma la scoperta di mille possibili speranze e verità».

Di solito l’incertezza fa paura.

«No, anzi. La certezza è la fine della speranza, è la domenica sera. Io ho il gusto della ricerca, del viaggio che non finisce mai alla ricerca di Dio e delle sue manifestazioni che ognuno è libero di interpretare a modo suo. Amo indagare nei meandri dello spirito per illudermi di scoprire l’ignoto».

Eppure nell’album di Rabbia e di stelle c’è molta rabbia?

«È la rabbia della vitalità. Non è la rabbia degli operai degli anni Sessanta, è la rabbia dello sconforto che si supera con la convinzione che bisogna guardare in altre direzioni per salvarsi».

Negli anni ’70 per voi cantautori era quasi blasfemo parlare di Dio.

«Sì, era un periodo di presunto illuminismo; si veniva da una grande repressione dei sentimenti, si scopriva la libertà di fare tante cose fino ad allora proibite. Del resto qualche degenerazione è normale nei movimenti epocali, e il ’68 lo è stato, anche se l’Italia è arrivata dopo l’America e la Francia. Il Futurismo è stato l’unico movimento autenticamente italiano».

Quindi s’è dedicato a uno spettacolo «alto» e impegnativo.

«Parlo di Dio e del Natale riflettendo e anche un po’ giocando. L’ho anche un po’ alleggerito, aggiungendo brani popolari come Vissi d’arte di Puccini, e alcuni brani che trattano del mio rapporto con Dio come Le rose blu, Blumun, Sogna ragazzo sogna. È una grande sfida per me: ho scritto un testo sul Concerto n. 2 in do minore di Rachmaninov, eseguo arie di Händel, lo Stabat mater di Jacopone, Vissi d’arte di Puccini, Jingle Bells e Tannenbaum in versione jazz. Il tutto inframmezzato da testi di Papa Giovanni e Madre Teresa, Gandhi e poesie come Ode alla pace di Neruda, Borges, Gassman. Insomma un incontro tra parole e musica che testimoni l’amore e la pace. Io farò da tramite portando le mie canzoni, le arie sacre, le poesie al pubblico».

Un lavoro complesso.

«Faticoso fisicamente perché saranno cinque serate consecutive. Poi con la musica sinfonica non posso sbagliare o prendere le licenze che uso nel pop».

La sua voce sarà messa a dura prova.

«Cercherò di fumare meno sigarette; del resto penso che nessuno si aspetti che io canti come Pavarotti; l’importante è commuovere che non significa piangere ma godere delle stesse emozioni».

Sarà che lei è professore, ma il suo percorso è sempre più colto.

«A questo ho sempre tenuto moltissimo. Non ho mai scritto canzonette tanto per farle, il mio è un modo di studiare l’animo umano e non me ne frega niente di quanto un mio disco possa vendere o no. Però ho sempre cercato di separare il mondo della canzone da quello dell’insegnamento. Non vorrei mai che un mio brano suonasse troppo accademico. Prendo spunto dai sentimenti e dalla vita di tutti i giorni».

La differenza tra i cantautori della sua generazione e quelli di oggi?

«Le nostre canzoni dovevano avere tante parole, ogni brano era un romanzo, si cercava il messaggio a tutti i costi. Oggi i cantautori sintetizzano i sentimenti cantando tutto, dal cinismo all’indifferenza».

Meglio quelli di ieri?

«Ciò che manca oggi è la letterarietà. I testi di De André, Guccini, De Gregori sono veri e propri pezzi di letteratura».

Oggi molti cantautori si fanno sedurre dai duetti.

«C’è duetto e duetto. Anch’io lo farei un duetto con Guccini. Oppure ci sono quelli di Ornella Vanoni, bellissimi e intensi cui è permesso tutto, primo perché è una grandissima cantante e interprete in grado di dominare qualsiasi brano, poi perché non è una cantautrice».

Quando rivedremo il Vecchioni cantautore?

«A gennaio, vorrei portare In-cantus a Milano, sarebbe bello organizzare il concerto nel Duomo: voglio provarci. Poi sto scrivendo il mio romanzo, molto complesso e lento da costruire perché richiede approfondite ricerche storiche. Per un po’ dunque niente musica».

Il ripensamento di Pietro

Mi sono immaginato la mattina di Pietro dopo aver rinnegato Gesù, dopo aver sentito il canto del gallo… e l’ho collegato a questa canzone di Ornella Vanoni rivista insieme a Claudio Baglioni

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Musica e Dio / 4

Jovanotti si rivolge a un Dio dell’universo col quale ha perso il contatto che un tempo aveva (“non sa neanche più parlare con te”). Vive una religiosità pluralista formata da un mix di diverse forme religiose (cristianesimo, buddhismo, islamismo, animismo) che professano una rivelazione divina che si esplicita nelle forme creaturali e umane. E’ un Dio che deve ascoltare, proteggere e illuminare il cammino dell’uomo quando esso si fa buio. E’ un Dio che viene comunque cercato e non atteso (“il lato buono delle cose, … in zone pericolose, ai margini di ciò che è comprensione, di ciò che è conformismo, di ogni moralismo”). E’ un Dio che ascolta l’uomo anche se a volte non sembra. L’ultima strofa della canzone sembra mettere da parte Dio per parlare di un mondo interculturale e di una natura protagonista della storia.

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Questa è la mia casa     
O Signore dell’universo ascolta questo figlio disperso, che ha perso il filo e che non sa dov’è e che non sa neanche più parlare con te. Ho un Cristo che pende sopra il mio cuscino e un Buddha sereno sopra il comodino, conosco a memoria il Cantico delle Creature grandissimo rispetto per le mille Sure del Corano c’ho pure un talismano che me l’ha regalato il mio fratello africano, e io lo so che tu da qualche parte ti riveli, che non sei solamente chiuso dietro ai cieli e nelle rappresentazioni umane di te. A volte io ti vedo in tutto quello che c’è e giro per il mondo tra i miei alti e bassi, e come Pollicino lascio dietro dei sassi sui miei passi per non dimenticare la strada che ho percorso fino ad arrivare qua. E ora dove si va, adesso si riparte per un’altra città.  Voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa dove posso stare in pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te, in pace con te.  O Signore dei viaggiatori, ascolta questo figlio immerso nei colori, che crede che la luce sia sempre una sola, che si distende sulle cose e le colora di rosso, di blu, di giallo e di vita dalle tonalità di varietà infinita. Ascoltami, proteggimi ed il cammino quando è buio illuminami. Sono qua, in giro per la città, e provo con impegno a interpretare la realtà cercando il lato buono delle cose, cercandoti in zone pericolose, ai margini di ciò che è comprensione, di ciò che è conformismo, di ogni moralismo, ie ie. E il mondo mi assomiglia nelle sue contraddizioni, mi specchio nelle situazioni, e poi ti prego di rivelarti sempre in ciò che vedo. Io so che tu mi ascolti, anche se a volte non ci credo.  Voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa dove posso stare in pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te, in pace con te, in pace con te, in pace con te.  O Signore della mattina che bussa sulle palpebre quando mi sveglio, mi giro e mi rigiro sopra il mio giaciglio e poi faccio entrare il mondo dentro me e dentro al mondo entro fino a notte. Barriere, confini, paure e serrature, cancelli, dogane e facce scure. Sono arrivato qua attraverso mille incroci, di uomini, di donne, di occhi e di voci. Il gallo che canta e la città si sveglia ed un pensiero vola giù alla mia famiglia, e poi si allarga fino al mondo intero e vola su, su in alto fino al cielo. E il Sole, la Luna e Marte e Giove, Saturno coi satelliti e poi le stelle nuove, e quelle anziane piene di memoria, che con la loro luce hanno fatto la storia, storia. Tutta l’energia che c’è nell’aria. Questa è la mia casa, la casa dov’è? La casa è dove posso portar pace. Questa è la mia casa, la casa dov’è? La casa è dove posso portar pace. Questa è la mia casa, la casa dov’è? La casa è dove posso portar pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te, in pace con te. Questa è la mia casa…

Anziano rock

Vi posto un articolo di Alessandro Peroni che mi ha divertito moltomick-jagger.jpg ed è preso dal numero di Diogene Magazine che è da pochissimo in edicola. E’ un bel testo su chi, pur avendo una certa età, è ancora in grado di fare del buon rock.

Duemila anni fa lo storico e filosofo Plutarco (46-120 d.C.) scriveva un testo nel quale si chiedeva se la politica fosse un’attività alla quale gli anziani potessero liberamente dedicarsi. Le sue conclusioni erano, in realtà, assai ampie: la politica è un compito in cui tutti i cittadini devono impegnarsi: “Solo gli stolti non fanno politica. Chi invece è socievole, umano, amante autentico della Patria fa sempre politica, sia che esorti i potenti o si offra da guida a chi ne ha bisogno, oppure sia di sostegno a chi deve prendere decisioni importanti, sia che distolga dal male i cattivi e incoraggi gli onesti” (Plutarco, Se un anziano debba fare politica, 260). La politica, dunque, è un’attività nella quale tutti gli uomini devono investire, consacrandovi le proprie forze, sia quando sono giovani e valenti, sia quando sono più anziani, allorché, con la loro esperienza, possono consigliare e sostenere gli altri.

Plutarco era infatti uno strenuo sostenitore dell’impegno “civile”, che si esplicava anche nell’esercizio quotidiano della filosofia: “La maggior parte delle persone immagina che la filosofia consista nel dibattere dall’alto di una cattedra e nel fare corsi su alcuni testi. Ciò che tuttavia sfugge, a persone del genere, è la filosofia che si vede esercitata nelle opere e nelle azioni di ogni giorno. Socrate non si sedeva su una cattedra professorale, non aveva un orario fisso per discutere o passeggiare con i suoi discepoli, ma scherzando con loro, bevendo o andando alla guerra o in piazza, egli ha fatto filosofia. È stato il primo a dimostrare che, in ogni tempo e luogo, in tutto ciò che ci accade, la vita quotidiana dà la possibilità di filosofare” (ibidem).

Il profondo umanesimo di questo testo di Plutarco mi ha sempre colpito, sicché mi sono chiesto se esso potesse, in qualche modo, essere applicato anche alla musica rock. Questa, come ben sappiamo, è la musica “dei giovani” ormai da oltre mezzo secolo: per questo motivo, i sopravvissuti della prima ondata del rock’n’roll si trovano oggi a essere “giovani” di circa settant’anni. Uno di questi, Jerry Lee Lewis (detto The Killer), ha annunciato che tornerà presto in tour all’età di 72 anni, cantando Great Balls Of Fire e percuotendo il pianoforte con il suo stile selvaggio. Ha poi destato viva impressione un paio d’anni fa, durante la tournée mondiale dei Rolling Stones, la grande vitalità di Mick Jagger (classe 1943), che per tutta la durata dei lunghissimi concerti continuava a correre e saltare per il palco senza stancarsi, senza incappare in cali di voce, e con una simpatia e un’ironia molto british che in passato non aveva mai palesato on stage. Merito senz’altro della sua vita sanissima, della dieta equilibrata e di un’attività fisica controllata.

Poiché ho avuto modo di assistere a un concerto di questa tournée, sono testimone dell’esuberanza del vegliardo, così come delle precarie condizioni di salute di altri membri del gruppo. Degli altri tre Stones rimasti, il batterista Charlie Watts eseguiva il suo lavoro di onesto artigiano, come sta facendo da più di quarant’anni; i due chitarristi Keith Richards e Ron Wood destavano invece qualche preoccupazione, mentre, appoggiati l’uno all’altro in un angolo del palco quasi a sostenersi a vicenda, traevano note talora improbabili dai loro strumenti. Fortunatamente, la nutrita schiera di musicisti di supporto rendeva meno traumatica la resa sonora.

Questo esempio ci dimostra un’amara verità: purtroppo non tutti invecchiano allo stesso modo, nemmeno se militano da sempre nello stesso gruppo, come si è visto pure nel recente concerto italiano degli Who, dove la presenza sul palco del cantante Roger Daltrey era principalmente decorativa, poiché a cantare e suonare la chitarra provvedeva l’ancor tonico Pete Townshend. Recentemente Robert Smith, seppure fisicamente “appesantito”, ha dimostrato che i suoi Cure possono esprimere ancora molto dal vivo. Eric Clapton, il “dio della chitarra” degli anni Sessanta, oggi ha ancora molto da insegnare, David Bowie sembra eternamente giovane e siamo in attesa di vedere gli esiti dell’annunciata reunion dei Led Zeppelin.

Ma cosa possono ancora comunicare questi anziani signori del rock che non abbiano già espresso decenni fa? Dal punto di vista discografico, tutto sommato, spesso pubblicano opere valide. Ad esempio, certi inossidabili come gli Ac/Dc o i Motörhead sfornano da una trentina d’anni dischi dignitosi, seppure a fasi alterne: certo, ripropongono sempre lo stesso sound o le stesse idee, ma finché queste scalderanno i cuori dei fan dai 15 ai 50 anni (e oltre) e ispireranno i giovani a prendere uno strumento e mettersi a suonare, il loro ruolo “sociale” (nel senso inteso da Plutarco) dovrà essere riconosciuto e rispettato.

Del resto, è noto che la musica richiede tempi lunghi di maturazione, forse più di qualsiasi altra attività umana. Nella politica, con buona pace di Plutarco, l’inamovibilità di certi vecchi è cagione, sappiamo, di gravi danni per la società; l’invecchiamento precoce a cui poi vanno incontro i “giovani politici” è un fatto ancor più preoccupante. Nella filosofia, tranne che in rari casi, la grande idea e l’intuizione potente arrivano in gioventù: per il resto della loro (spesso lunga) vita, i filosofi affinano la loro intuizione giovanile, la “nobilitano” (o imprigionano) in ponderosi sistemi o, peggio, la rinnegano per aprire a un imbarazzante “nuovo corso” del loro pensiero.

Così non è per la musica. Certo, capita il caso in cui un autore non riesca mai a superare il proprio capolavoro giovanile (come fu il caso di Mascagni con Cavalleria rusticana), ma nella maggior parte dei casi i grandi compositori si rendono artefici di lunghe e fruttuose maturazioni. Un esempio su tutti, Giuseppe Verdi, che produsse le sue opere più complesse e tutt’altro che anacronistiche in tarda età, potremmo addirittura dire “fuori tempo massimo”. Per quel che riguarda gli interpreti, è noto che i grandi strumentisti e direttori vivono a lungo, come Horowitz, Toscanini o Karajan. Di quest’ultimo, possiamo ricostruire tutta la lunghissima carriera attraverso le testimonianze discografiche, dal disco a 78 giri fino al CD, confrontando come si è evoluto il suo apporto interpretativo.

Per quel che riguarda i musicisti rock, il genere comincia a essere abbastanza duraturo da poter azzardare qualche considerazione. Purtroppo, la vita sregolata fatta di eccessi ha causato la prematura scomparsa o la decadenza fisica e intellettuale di molti “grandi”; inoltre, le esigenze del mercato hanno cancellato o relegato a produzioni di nicchia alcuni artisti che forse avrebbero ancora qualcosa da dire; altri personaggi a tutt’oggi attivi a livello di grande pubblico oscillano tra l’eccellente e l’imbarazzante. Quello che conta, comunque, è sempre, come ci dice Plutarco, la capacità di comunicare, di consigliare, di ispirare.

Ma, come ci insegna ancora il pensatore di Cheronea, le attività umane non si svolgono solo nelle grandi occasioni, come in un grande concerto (eventualmente con un’unità coronarica dietro le quinte pronta a intervenire, come nell’ultima tournée dei Rolling Stones), ma anche nei piccoli spazi o sulla pubblica piazza, e tutti sono chiamati a impegnarvisi.

Cosa dire, allora, a tutti quelli che arrivano a una certa età: alle fatidiche soglie dei 30, 40, 50 o 60 anni? Per rispondere, andiamo a ripescare un film, uno storico rock movie che si intitola No Nukes (1980) e fu ricavato dalle riprese di un grande concerto collettivo contro il nucleare. Nel corso della sua straordinaria esibizione, Bruce Springsteen si rende protagonista di un divertente siparietto: durante una travolgente versione di Thunder Road, il Boss finge istrionicamente un collasso e si getta a terra. Rialzato dai membri della band, si scusa con il suo pubblico: “Non posso andare avanti così! Ho già trent’anni e il mio cuore sta cominciando ad andarsene…”. Da quel concerto al Madison Square Garden sono passati esattamente trent’anni: Springsteen è “andato avanti così” e scrive tutt’ora magnifiche canzoni che continua a proporre dal vivo. Qui sta la chiave del fare musica, al di là dell’età: avere buone idee da proporre (o, al limite, ri-proporre) e tanta energia per tenere concerti. Doti che non sono scontate nemmeno per i giovani, che spesso devono lottare più di quanto avevano fatto i loro padri (o nonni) per proporre una musica che esca dai canoni stabiliti dal mercato più commerciale. Per chi ha una certa età, la passione e l’esperienza sono sempre gradite anche dal pubblico più giovane, ed è proprio la presenza e l’apprezzamento di quest’ultimo a segnalare che si ha ancora qualcosa da dire. Certo, come insegna Mick Jagger, per continuare a calcare il palcoscenico è essenziale che non si trascurino le cautele del caso: vita sana e regolare, niente fumo e alcool, esercizio fisico di preparazione, visite regolari dal geriatra di fiducia… In questo modo, non si finirà in quel limbo cantato tristemente dai Jethro Tull: Too Old to Rock ’n’ Roll: Too Young to Die (Troppo vecchio per il rock’n’roll, troppo giovane per morire).

Nei momenti no

Ci sono momenti nella vita di ognuno in cui ci si sente a terra, fragili e vulnerabili. E’ la situazione descritta in questa canzone di Pacifico che mi piace molto per i suoi continui contrasti tra stati d’animo interiori e aspetti esteriori e ambientali. E apprezzo molto la conclusione “E sembri di carta di paglia di cera, la fiamma più debole che resisteva”

E sembri una foglia

Sola, ti protegge una coperta, e niente sembra farti bene. Guardi le mani, le vedi ingrassate, le unghie di smalto sporcate. Quadri, pareti gialline, tendine, ditate sui vetri. Tu guardi dovunque, chissà cosa vedi. Basta, non vuoi più sapere non vuoi più rialzarti così non potrai più cadere. Vene, qualcosa ti scorre lì dentro, lo sento. Sembri una foglia, una vela leggera, la barca più piccola in questa bufera. E sembri una foglia una vela leggera, una barca minuscola in questa bufera.

Sola, ti scalda una coperta. Ti stringi, ti metti sul fianco, ogni oggetto è fuori fuoco, è opaco, ogni cosa si copre di bianco. Tutto scorreva, tu andavi, non c’era motivo eppure sbandavi tremavi perché lo sentivi che non c’era più spiegazione. E sei caduta in ginocchio sotto una doccia bollente, hai sentito lo strappo e infine più niente, non sentivi più niente. E ora sembri una foglia, una vela leggera, la barca più piccola in questa bufera. E sembri di sfoglia, di tela leggera. Una barca minuscola in questa bufera.

Fuori c’è una sigaretta, una maglietta indossata storta, una lunga coda alla frontiera, una spiaggia nera. Fuori vento, temporale, fogli di giornale a volare agitati sui viali dei parchi spogliati. Fuori

buche da saltare, strade in salita, biglietti da fare, qualcuno che invita, che viene a chiamare. Fuori è arrivata l’estate. E’ una notte di frasi avverate, di carte girate. E sembri una foglia, una vela leggera, la barca più piccola in questa bufera. Sembri di sfoglia, di tela leggera, barca minuscola in questa bufera. E sembri di carta di paglia di cera, la fiamma più debole che resisteva.

 

La leggenda di Johnny Cash

Johnny Cash, vero eroe americano di Walter Gatti 

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Frasi tratte da un libro: «La vita di Cash diventò caratterizzata da uno spirito di gratitudine. Sentiva che aveva avuto una vita benedetta e non ne avrebbe cambiato un solo minuto». «Alla fine Johnny ha realizzato il sogno di vivere una vita che semplificasse il potere della redenzione. Ha combattuto la battaglia giusta. Ha partecipato alla gara. Ha mantenuto la fede». A chi chiede “ma chi è questo Johnny Cash”? la risposta non è “un uomo religioso, un monaco”, bensì “un cantante americano, uno dei più famosi per giunta”. Un cantante country, che ha vissuto con la chitarra in una mano e la Bibbia nell’altra. Un uomo che ha vissuto il successo totale condito di alcool e anfetamine, che mille volte è caduto e mille si è ripreso, sempre cercando di rendere grazie a Dio. Tutto questo, storia e risvolti umani, è contenuto in uno dei più bei libri musicali che mi sia capitato di leggere: Johnny Cash, la vita, l’amore e la fede di una leggenda americana (Ed. Kowalsky; titolo originale: The man called Cash). Scritto da Steve Turner, già autore di Paperback Beatles e di Conversations con Clapton, il libro racconta la vita di Cash con una partecipazione e una ricchezza di particolari da condurre per mano il lettore-ascoltatore dentro una storia umana di intensità sconosciuta. La storia di questo musicista è già stata in parte portata sullo schermo in Quando l’amore brucia l’anima, ma il film – con Joaquim Phoenix – si fermava ben lontano dalla realtà storica, non fosse altro perchè concudeva la sua narrazione negli anni Sessanta, nei giorni del matrimonio felice con June Carter. La vicenda musicale di Johnny è nata insieme alla nascita del rock’n’nroll, nei giorni di Elvis e Carl Perkins, si è snodata attorno a canzoni immortali come Folsom Prison Blues e Ring of fire, ha assunto toni di leggenda negli anni Settanta e Ottanta grazie alla sua voce inconfondibile, ed è diventata negli ultimi anni punto di riferimento per musicisti di generazioni più recenti, come Bono (U2), Nick Cave e Trent Reznor. Il libro racconta e racconta, nella migliore tradizione delle biografie “sul campo”: decine di interviste, testi, ritagli di giornale, citazioni mai supponenti, tratteggiando con partecipazione le ombre e le luci di una figura che negli States è stata influente come quella di Elvis Presley o di Bob Dylan. Ci sono i dischi e i concerti, il folk e il gospel, le amicizie e l’umanità («Johnny Cash è un vero eroe americano. Era di origini umili, come Abramo Lincoln, ed è diventato amico e fonte di ispirazione di carcerati e presidenti. Aveva il dono di far sentire chiunque la persona più importante del mondo»: queste le parole di Kris Kristofferson, cantante country e attore, nella prefazione), le milioni di copie vendute, i soldi sperperati, i 5 figli – John, Rosane, Tara, Kathy e Cindy – amati e a volte dimenticati, c’è l’universo dell’America tradizionale, quella del Sud, che prova a vivere i vecchi valori in una società cambiata, rivoluzionata, un’America che sbatte la testa, che prova a rialzarsi, che prega. L’onestà intellettuale di Turner, l’autore, salta fuori nei capitoli del racconto della fede di Johnny Cash. Una fede totale, continua: i periodi bui, autodistruttivi di Johnny, sono raccontati con accento freddo, come pure le “resurrezioni”, narrate come un continuo ritorno a casa del figliol prodigo. Su tutto la certezza del musicista che le cadute erano le prove per costruire una fede più grande: «Suo figlio, John Carter, riteneva che la sua forza spirituale fosse il risultato di tutte le avversità affrontate. Lui era come Pietro per Cristo. Credo che Dio sapesse che mio padre avrebbe sofferto, che sarebbe caduto, ma vide in lui qualcosa che sarebbe stato un fondamento per molte persone, così come Cristo vedeva qualcosa in Pietro». Johnny Cash è morto il 12 settembre 2003, a 71 anni, pochi mesi dopo sua moglie. Il Time gli ha dedicato una celebre copertina. Una delle sue ultime parole è stata «Il Signore della vita è stato buono con me». Questo libro ne racconta la storia. Vale la pena leggerlo.

Musica e Dio / 3

Tanti falsi agnelli di Dio, tante false vittime della storia vengono messe in luce da De Gregori prima di arrivare all’agnello di Dio riconosciuto dai cristiani, la reale vittima di soprusi, violenze e inganni.

L’AGNELLO DI DIO

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Ecco l’agnello di Dio / che toglie i peccati del mondo / disse la ragazza slava / venuta allo sprofondo, / disse la ragazza africana sul Raccordo Anulare.

Ecco l’agnello di Dio / che viene a pascolare / e scende dall’automobile per contrattare

Ecco l’agnello di Dio / all’uscita della scuola / ha gli occhi come due monete / il sorriso come una tagliola. / Ti dice che cosa ti costa / ti dice che cosa ti piace / prima ancora della tua risposta ti dà un segno di pace / e intanto due poliziotti / fanno finta di non vedere.

Oh, aiutami a fare come si può / prenditi tutto quello che ho / insegnami le cose che ancora non so, non so. / Dimmi quante maschere avrai / e quante maschere avrò.

Ecco l’agnello di Dio / vestito da soldato / con le gambe fracassate / col naso insanguinato. / Si nasconde dentro la terra / tra le mani ha la testa di un uomo.

Ecco L’agnello di Dio / venuto a chiedere perdono / si ferma ad annusare il vento / e nel vento sente odore di piombo.

Percosso e benedetto / ai piedi di una montagna / chiuso dentro una prigione / braccato per la campagna / nascosto dentro a un treno / legato sopra un altare.

Ecco L’agnello di Dio / che nessuno lo può salvare / perduto nel deserto / che nessuno lo può trovare.

Ecco L’agnello di Dio / senza un posto dove stare

Ecco L’agnello di Dio / senza un posto dove andare

Ecco L’agnello di Dio / senza un posto dove stare

Oh, aiutami a stare dove si può / e prenditi tutto quello che ho / insegnami le cose che ancora non so, non so

E dimmi quante maschere avrai / regalami i trucchi che fai / insegnami ad andare dovunque sarai sarò

E dimmi quante maschere avrò / se mi riconoscerai / dovunque sarò sarai.

Musica e Dio/2

Chi prende l’Inter?

Dove mi porti?

E poi soprattutto perché?

Ligabue accusa Dio: non risponde! O, quantomeno, lui non riesce a sentirlo. Sente di avere qualcosa in cui credere ma non riesce a ricordare cosa esso sia. Si sente solo come solo, in fondo si deve sentire Dio.

E allora, per lo meno, vorrebbe sapere se il viaggio (= la vita) sia unico. Cosa c’è dall’altra parte?

Sono i perché esistenziali dell’uomo…

HAI UN MOMENTO DIO 

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C’è un po’ di traffico nell’anima

Non ho capito che or’è

E c’ho il frigo vuoto

Ma voglio parlare perciò paghi te

Che tu sia un angelo od un diavolo

Ho tre domande per te

Chi prende l’Inter

Dove mi porti

E poi dì soprattutto perché

Forse la vita capisce

Chi è più pratico

Hai un momento Dio

Non perché sono qua

Insomma ci sarei anch’io

Hai un momento Dio

O te o chi per te

Avete un attimo per me

Li pago tutti io i miei debiti

Se rompo pago per tre

Quanto mi costa una risposta da te

Dì su! Quant’è

Ma tu sei lì

Per non rispondere

E indossi un gran bel gilet

E non bevi niente

O io non ti sento com’è perché

Perché

Ho qualche cosa in cui credere perché

Non riesco mica a ricordare che cos’è

Hai un momento Dio

non perché sono qua

se vieni sotto offro io

hai un momento Dio

lo so che fila c’è

ma tu hai un attimo per me

nel mio stomaco son sempre solo

nel tuo stomaco sei sempre solo

ciò che sento

ciò che senti

non lo sapranno mai

almeno dì se il viaggio è unico

e se c’e il sole di là

se stai ridendo

io non mi offendo però perché

perché

nemmeno una risposta ai miei perché

perché

non mi fai fare almeno un giro

col tuo bel gilet

hai un momento Dio

non perché sono qua

insomma ci sarei anch’io

hai un momento Dio

o te o chi per te

avete un attimo per me

ueh ueh ueh ueh

ueh ueh ueh ueh

Musica e Dio/1

Dice Antonello Venditti:

Sono comunista, ma ciò non toglie che sia anche profondamente cattolico. Credo fermamente che alla base della nostra vita ci sia il Cristo e la Croce. Questi due mondi possono coesistere e compenetrarsi l’un l’altro. Per me è così…  Vorrei che tutti fossimo accomunati nel nome di Cristo… Un tema che mi sta a cuore è la solidarietà, ma credo anche che la solidarietà con le canzoni sia un terribile inganno. Nessuna azione è vera se non è sorretta dallo spirito di carità. La solidarietà è vera solo se ha un contenuto spirituale. L’impegno più vero è quello personale e non andrebbe mai reso pubblico”

DIMMI CHE CREDI 
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“Se tu ragazzo cercherai nella stagione dei tuoi guai

un po’ d’amore un po’ d’affetto,
e nella notte griderai, in fondo al buio troverai
solo il cuscino del tuo letto,
non devi piangere, non devi credere
che questa vita non sia bella,
per ogni anima, per ogni lacrima,
nel cielo nasce un’altra stella.
Molti si bucano, altri si estasiano,
e non troviamo mai giustizia,
e non si parlano, e poi si perdono,
perché non amano abbastanza.
Tu non ti arrendere, non ti confondere,
apri il tuo cuore all’universo,
che questo mondo, sai, bisogna prenderlo
solo così sarà diverso.
Dimmi che credi, dimmi che credi,
come ci credo io,
in questa vita, in questo cielo,
come ci credo io.
Il tuo sorriso tra la gente
passerà forse indifferente,
ma non ti sentirai più solo,
sei diventato un uomo.
 

E nella notte cercherai, nella stagione dei tuoi guai,
un po’ d’amore, un po’ d’affetto,
e disperato griderai, e in fondo al buio stringerai
solo il cuscino del tuo letto,
non devi piangere, non devi credere
che questa vita non sia bella,
Per ogni lacrima, per ogni anima,
nel cielo nasce un’altra stella.
Dimmi che credi, dimmi che credi,
come ci credo io,
in questa vita, in questo mondo,
come ci credo io.
Tu non ti arrendere, non ti confondere,
apri il tuo cuore all’universo,
che questo mondo, sai, bisogna prenderlo
solo così sarai diverso.
Non devi piangere, non devi credere
che questa vita non sia bella,
per ogni anima, per ogni lacrima,
nel cielo nasce un’altra stella.
Che sia. Che sia.”

Musica e libertà

Gli studenti che mi conoscono sanno bene (I lezione del I anno) che Laura Pausini non è nelle mie priorità musicali; tuttavia pubblico il testo di una sua canzone, la prima del nuovo album, visto che parla di libertà…

Mille braccia
(Carta/ Pausini – Cheope)
Prodotto da Laura Pausini e Paolo Carta
Pieno di energia, questo brano è la scarica di gioiosa adrenalina di chi oggi sente “sulla faccia un vento nuovo” e vuole cercare la consapevole libertà “in ogni centimetro dell’anima”. Contagiosa, irresistibile.
«E’ dedicata a tutte le persone che usano la fantasia come rimedio all’ottusità e alla mancanza di libertà di espressione. E’ un inno all’autoconsapevolezza nato con l’idea di aprire i miei concerti.»

Anche d’estate nevicaPAUSINI%205.jpg
se la tua mente immagina
se la tua casa è un albero
di gommapiuma e canapa

Senti l’aria del mattino
che sa di incenso e di primula
ti rivedi in quel bambino
che rincorre una libellula

Alzando le sue braccia verso il cielo
come simbolo di libertà
del diritto naturale che ogni uomo ha
sentendo sulla faccia un vento nuovo
bell’istinto che non se ne va
l’esigenza che oggi provo
e che grida già

In libertà

Anche l’inverno illumina
se il tuo pensiero naviga
se ti lasci trasportare
oltre il male di chi giudica
oltre il muro di un frastuono
senza voce e senza musica

Alzando mille braccia verso il cielo
come simbolo di libertà
del diritto di sognare che ogni uomo ha
sentendo sulla faccia un vento nuovo
una nuova possibilità
l’esigenza di cercare una rivincita
che grida già

“Un’altra via
ora sarà
l’alternativa sola e unica
da oggi sia
in libertà
ogni centimetro dell’anima”

Liberamente alzandomi
un’altra via ora sarà
l’alternativa sola e unica
da oggi sia
in libertà

Ogni centimetro dell’anima
con tutta l’anima

Mondo punk

Nell’ultimo numero di Diogene Magazine c’era questo articolo, secondo me interessante

 

Punk! And fuck you all!

Alessandro Peroni

Da Giovanni Battista a Diogene, il punk può vantare maestri nobili e trasgressivi.

Secondo un’opinione comune il punk è stato (ed è tuttora) un movimento puramente nichilista, nato tra le frange più emarginate della popolazione e privo di un autentico sostrato culturale. Nulla di più sbagliato: in realtà, lo stile e l’ideologia punk sono figli di un’antica tradizione, che ha visto molti personaggi, in diversi momenti della storia della cultura, manifestare il proprio dissenso nei confronti della civiltà assumendo atteggiamenti che esprimevano provocatoriamente la scelta di una volontaria esclusione dal contesto sociale.

Punk: il movimento del ’77

Vale senz’altro qui la pena di ricordare che cosa intendiamo per “punk”. Si trattava, originariamente, di una subcultura giovanile fortemente legata a un movimento musicale nato nel Regno Unito e negli Stati Uniti (in particolare a New York) alla metà degli anni Settanta. I Ramones negli Usa e i Damned in Inghilterra possono essere ricordati tra i primi gruppi musicali propriamente punk, la cui musica era caratterizzata, come reazione nei confronti degli eccessi virtuosistici dell’allora imperante “progressive rock”, da una scarsa tecnica strumentale, da semplicità formale e da un’immediatezza, talora confinante con la rudezza, riconducibile alla purezza del rock’n’roll originario. Ancora lontano dall’avere un look caratteristico, il punk divenne vero e proprio fenomeno di costume grazie ad una geniale intuizione di Malcolm MacLaren e Vivienne Westwood, i quali raccolsero, presso la loro boutique londinese “Sex”, un gruppo di ragazzi emarginati, inventando per loro uno stile di abbigliamento e di comportamento. the-sex-pistols-gh-iii-1.jpg

Questi ragazzi (dotati, peraltro, al tempo di scarsissime capacità musicali) divennero una delle band più celebri e oltraggiose di tutti i tempi: i Sex Pistols. Il loro look era caratterizzato da abiti strappati, capelli corti e “artisticamente” spettinati e colorati, giubbotti e pantaloni in pelle, spille da balia, lucchetti usati come collane, collari, simboli nazisti e così via. Si può discutere a lungo sull’originalità o meno di tale abbigliamento, tuttavia ciò che è certo è che esso, unito a comportamenti pubblici volutamente e studiatamente provocatori, portò al gruppo una fama sinistra prima ancora che la sua musica fosse incisa e conosciuta, tanto che diverse case discografiche rifiutarono impaurite di pubblicare e distribuire i loro dischi. Ciò nonostante il loro unico LP (Never Mind The Bollocks), pubblicato infine dalla Virgin Records nel 1977, fu un clamoroso successo.

Le declinazioni del punk

Fu così che il termine “punk”, che prima di loro si riferiva solo al genere musicale rozzo e blandamente sovversivo, diventò sinonimo di nichilismo e delinquenza. I punk, nonostante la loro indole generalmente pacifica, divennero allora l’icona della violenza e del teppismo gratuito.

Al breve periodo del punk classico, detto “del ’77”, a cui appartengono anche i Sex Pistols, fecero seguito, nei decenni successivi, diverse ondate di movimenti assai eterogenei che si definirono punk, anche se erano molto distanti dal modello ideologico ed estetico originale. In ogni caso, essi erano accomunati dal rifiuto assoluto di sottostare al controllo della società, dalla volontà di vivere al di fuori della civiltà (e tuttavia non isolandosi da essa), sottolineando tale desiderio di esclusione attraverso atteggiamenti e abbigliamenti ritenuti sgradevoli e provocatori.

Dopo il punk classico, “Hardcore”, “Oi!”, “Street punk”, “Anarcho punk”, “Corporate punk” sono alcune delle etichette attraverso le quali questa subcultura ha trovato vie di espressione negli ultimi trent’anni. Si arriva così agli attuali “punkabbestia”, detti anche (impropriamente) “anarcho punk”, sebbene nulla abbiano a che vedere con gli omonimi anarcho punk della fine degli anni ’70. Questo movimento, tipicamente europeo, è costituito dai frequentatori dei grandi estemporanei raduni rave, tanto temuti dalle autorità. I punkabbestia sono soliti vivere ai margini della società praticando l’accattonaggio (spesso in compagnia di cani), adottano un look caratterizzato da scarpe da skater, pantaloni larghi, felpe, piercing, tatuaggi, capelli rasati sui lati della testa o con dreadlocks. È significativo che, contrariamente ai punk degli anni Settanta, i “punkabbestia” abbiano spesso alle spalle famiglie “normali”, delle quali rifiutano i valori.

Diogene cinico, filosofo punk

Generalmente temuti e disprezzati dai benpensanti, i punk possono però vantare, come dicevo all’inizio, nobili e antichi modelli culturali. Indiscutibilmente punk ante litteram fu, ad esempio, il filosofo Diogene di Sinope, detto “il Cinico”. Figlio di un ricco banchiere, ne ripudiò evidentemente i principi “borghesi”: si trasferì infatti ad Atene per vivere miseramente in una botte. Da bravo punk, Diogene rifiutava le convenzioni sociali della declinante società greca, che stigmatizzava attraverso atteggiamenti offensivi: si presentava all’assemblea cittadina compiendo atti osceni e viveva in compagnia dei cani, con i quali condivideva il cibo e lo stile di vita.

Diogene aprì un nuovo modo di fare filosofia: non più i tradizionali discorsi dei filosofi (che peraltro si divertiva a sbeffeggiare), bensì l’esempio di vita portato attraverso il comportamento e le affermazioni provocatorie che oltraggiavano alcune delle interdizioni ritenute più sacre dall’uomo greco. Diogene, infatti, esaltava pubblicamente l’incesto e auspicava addirittura di essere lasciato, dopo la morte, insepolto in pasto a cani e uccelli. Dichiarazioni scandalose, queste, che erano quanto di più punk si potesse immaginare ai suoi tempi. Ricordiamo che anche un grande punk della cultura medievale, il poeta Jacopone da Todi, si augurava in sommo dispregio della corporalità: “Aleggome en sepoltura un ventre de lupo en voratura, e l’arliquie en cacatura en espineta e rogaria”.

Giovanni Battista, anarcho punk

punksnotdeadoh9.jpgUn altro personaggio assolutamente punk è senz’altro Giovanni il Battista, che scelse di vivere nel deserto per annunciare la venuta di Cristo. Egli si vestiva di pelli e si nutriva di locuste e miele selvatico. Lungi dall’essere un eremita penitente, faceva parte di un “movimento”: era infatti legato alla comunità degli Esseni, coloro che, nella società ebraica sottomessa ai Romani, attendevano la venuta di un Messia. La figura del Battista è affine, anche per la sua valenza politica, a quella di un moderno anarcho-punk. Così, è evidente che il suo rifiuto dell’amore della lasciva principessa Salomè, che lo fece incarcerare e decapitare, costituì una scelta estrema di libertà dai vincoli sociali e dalle seduzioni della società e del potere!

Così come i punk, Diogene, Giovanni il Battista e tanti altri personaggi scomodi e irriverenti della storia compirono la scelta estrema di vivere al di fuori delle convenzioni, combattendole mediante un comportamento anarcoide ed eversivo. Certamente non si può dire che dietro ad ogni punk ci sia un “pensiero”, ma è senz’altro vero che, in diversi momenti critici della storia, siano comparsi personaggi il cui pensiero presentava caratteri di aggressiva trasgressione, tanto da renderli indiscutibilmente “punk”. E allora, in varie lingue e accezioni, risuonò il grido: Fuck off! Punk’s not dead!

About rock

Visto che in II abbiamo accennato al rock satanico, vi posto un articolo di cui non ricordo l’autore ma che mi sembra abbastanza equilibrato. Buona lettura

 

ROCK SATANICO

Le polemiche sul concerto di Marilyn Manson hanno risvegliato un notevole interesse sul tema del “rock satanico”. Ma qual é la reale dimensione di questo fenomeno? Esiste davvero il “rock satanico”, o si tratta di una leggenda? La questione deve essere affrontata con grande equilibrio. Di fronte al tema del “rock satanico” esistono diversi atteggiamenti, che si possono riassumere in due schieramenti opposti: gli “scettici” e i “catastrofisti”. I “catastrofisti” sono quelli che vedono il diavolo dappertutto. Considerano il rock intrinsecamente satanico e vorrebbero cancellare ogni forma di musica moderna. Gli “scettici”, invece, amano così tanto i loro idoli musicali da rifiutare di metterli in discussione. Non accettano critiche e tendono a giustificare ogni eccesso del rock con la scusa della “libertà d’espressione”. Entrambi gli schieramenti, pur trovandosi su fronti opposti, hanno qualcosa in comune: la mancanza di approfondimento e di obiettività. Per questa ragione, sono caduti spesso in bugiarde esagerazioni o in faziosi riduzionismi. Al contrario, il fenomeno del rock satanico non dev’essere né gonfiato, né sottovalutato. Dev’essere semplicemente analizzato alla luce dei fatti, evitando di scadere in valutazioni superficiali ed estremiste.

Il primo, timido riferimento al mondo del satanismo compare sulla copertina di uno dei dischi più famosi della storia del rock: “Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles (1967). Sulla copertina dell’album compaiono tanti personaggi noti: Karl Marx, Stanlio e Ollio, Marlon Brando, Bob Dylan ed altri. Il batterista Ringo Starr, all’epoca, dichiarò che i Beatles avevano voluto riunire i volti delle persone che amavano ed ammiravano. E tra questi, in alto a sinistra, spicca l’immagine di un uomo calvo. E’ l’occultista inglese Aleister Crowley (1875-1947), padre del satanismo moderno ed ispiratore della maggior parte dei gruppi esoterici contemporanei.
Negli ambienti rock degli anni sessanta, in cui fioriva l’interesse per l’esoterismo, Aleister Crowley era considerato un personaggio “di moda”. Era apprezzato per la sua natura trasgressiva e per l’invito a rifiutare ogni regola imposta dall’alto. Per questa ragione, probabilmente, i Beatles lo inserirono sulla copertina del loro disco più famoso. Negli anni settanta, il rock comincia ad assumere toni più accesi. Nasce l’hard rock (rock duro), caratterizzato da suoni metallici, chitarre elettriche distorte e voci potenti. Tra i pionieri del genere ci sono gli inglesi Led Zeppelin. Leader dei Led Zeppelin é il chitarrista Jimmy Page, accanito sostenitore delle dottrine di Aleister Crowley. Il suo interesse nei confronti dell’occultista inglese é tale da spingerlo a collezionare tutti i suoi oggetti personali: libri, manoscritti, cappelli, canne da passeggio, quadri e perfino le tuniche utilizzate durante i rituali. Page ha comprato, addirittura, la casa in cui Crowley abitava. Negli anni ottanta e novanta la corrente dell’hard rock si farà sempre più dura, dando vita al filone dell’heavy metal (metallo pesante). Ovviamente, non tutto l’heavy metal è satanico. Ma é proprio in questo genere musicale che il satanismo diventa esplicito, con una forte tendenza all’uso di tematiche esoteriche nei testi delle canzoni e nelle immagini delle copertine. Tra i gruppi più rappresentativi ci sono i danesi Mercyful Fate. Una loro canzone, “Don’t break the oath”, riproduce la formula di un vero e proprio giuramento al diavolo: “Io bacerò il caprone e giuro di dedicarmi mente, corpo ed anima, senza riserve, per promuovere i piani del nostro signore Satana”. Dello stesso genere sono i Deicide, il cui leader, Glen Benton, é arrivato al punto di farsi bruciare una croce rovesciata sulla fronte, mantenendo perennemente l’ustione prodotta. La croce raffigurata al contrario, che rappresenta l’Anticristo, é un tipico simbolo dei satanisti, che compare su molte copertine di dischi rock. Anche le riviste rock rappresentano un punto di contatto con gli ambienti del satanismo. Uno dei più noti mensili musicali italiani, “Flash”, ha pubblicato l’indirizzo della Chiesa di Satana americana, descrivendola come “l’associazione più seria ed affidabile a cui si possano rivolgere gli amanti e i cultori delle teorie occulte”. L’articolo in questione termina con un chiaro invito ai lettori: “Se pensate che vi possa aiutare la conoscenza del satanismo, e se volete far parte di quella grande palestra del pensiero che é la filosofia satanica, la Chiesa di Satana vi aspetta”.

Un fenomeno che ha destato molta curiosità é quello dei “messaggi nascosti” nei dischi di famose rock-star. I messaggi nascosti vengono registrati al contrario, in sala di incisione. E si possono decifrare facendo girare il disco al rovescio. Questo tipo di tecnica si può ricondurre all’antica tradizione dei satanisti di recitare preghiere cattoliche al contrario, durante le “messe nere”, per dissacrarle e rivolgerle al diavolo. In linea con questo tipo di rituali é un disco del complesso Christian Death, “Prayer”, in cui é stato registrato il Padre Nostro al contrario. Ovviamente, trattandosi di una preghiera al demonio, sono state eliminate le ultime due frasi: “Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”. Satana, di sicuro, non le avrebbe gradite. La questione dei messaggi nascosti, da sempre, suscita molta curiosità, ma non é l’aspetto più importante del problema. Ciò che desta maggiori preoccupazioni é la corrente del rock satanico esplicito, attualmente in grande espansione. Ma c’è un altro genere musicale che sta conquistando sempre maggiore successo tra i giovani: la “Christian music”, musica cristiana contemporanea. Su Internet è attivo il portale http://www.informusic.it che informa costantemente su questa corrente artistica. Basta un semplice “clic” con il mouse per essere catapultati in un mare di notizie d’attualità sulla musica di ispirazione cristiana, in Italia e nel mondo: articoli, biografie, foto, novità discografiche, segnalazioni di concerti, libri specializzati, videoclip e collegamenti ad altri link interessanti. Curatrice dell’iniziativa è Paola Maschio, moglie di Roberto Bignoli, uno dei più noti cantautori cattolici, autore di brani che hanno fatto il giro del mondo, come “Concerto a Sarajevo”, “Ballata per Maria” e “Ho bisogno di te”. Fino a qualche anno fa, la “Christian music” era un genere riservato a pochi. Oggi, invece, stiamo assistendo ad una vera e propria esplosione di questo genere.

 

 

Jovanotti e la religione

Dal blog maxgranieri.blogspot.com traggo un pezzo di una puntata radio sul rapporto tra musica e religione in Jovanotti

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Il mondo degli Emo

Diogene Magazine è una rivista di filosofia del quotidiano. Da lì ho tratto questo articolo di Alessandro Peroni pubblicato sul numero di marzo 2008, che ne dite?

 

Gli Emo: chi sono e perché (non) è giusto disprezzarli

Una ricerca sulla nuova ineffabile moda giovanile: fenomeno superficiale o ultima frontiera del nichilismo? 1918953827.jpg

Nel corso delle mie ricerche sul mondo goth (cfr. Diogene, n. 9), mi sono imbattuto in un nuovo termine: “emo”. I Goth (o Dark) ci tengono infatti a rimarcare la loro differenza dai cosiddetti Emo Kids, una corrente della subcultura giovanile con la quale i Goth sono talora confusi. Dal punto di vista dello stile e dell’abbigliamento, l’elemento comune tra le due tendenze è senz’altro il colore nero, ma questo, naturalmente, non basta a fare di un Emo un Goth o viceversa. Peraltro, è da immaginare che neppure gli Emo vogliano essere scambiati per Goth. Addirittura, nella maggior parte dei casi, gli Emo negano di essere Emo! Ma cerchiamo di definire un fenomeno che sembra sfuggire a ogni determinazione.

Il Corriere della Sera nel luglio scorso ha pubblicato un articolo che si occupava della moda emo. Questa, per la precisione, era stata individuata e descritta poco tempo prima dal Times, che aveva dedicato a essa ben due pagine. Come sempre, è stata la stampa inglese a identificare e “canonizzare” una nuova moda giovanile: ricordiamo, ad esempio, che uno stile tipicamente americano come il grunge degli anni Novanta fu in realtà “scoperto” dai giornali inglesi. Anche nel caso dell’emo, la componente musicale risulta essere fondamentale: il termine “emo” deriva, infatti, da emotional hardcore (o emocore), un filone musicale del post-punk nato nella città di Washington alla metà degli anni Ottanta (così come, pochi anni dopo, Seattle fu la patria del citato grunge). Il termine fu coniato dagli iniziatori del genere (ad esempio Rites of Spring ed Embrace) per indicare una svolta “ideologica” ed estetica dell’hardcore originario: il nuovo stile voleva, infatti, in primo luogo “emozionare” l’ascoltatore. Al di là del termine, sono scarsi i legami tra la scena musicale

di Washington D.C. della metà degli anni ’80 e la moda attuale. Ideologicamente, rimane però la ricerca di una musica che riesca a “emozionare”. Gli Emo, quindi, non mancano di propri punti di riferimento nel mondo della musica (30 Seconds To Mars, My Chemical Romance, per citare i più noti), ma, al contrario di altre sottoculture, non risulta che coltivino il mito di grandi artisti del passato. Se Rocker, Punk o Goth non possono trascendere i 30 (o anche 40) anni di storia dei rispettivi movimenti, gli Emo sembrano assolutamente (e desolatamente) immersi nella loro contemporaneità.

Come in tutti i movimenti giovanili, alla musica si associa invariabilmente un look. Nel caso degli Emo, le scarpe sono generalmente le classiche Converse All Star, calzature che hanno fatto la storia del rock (erano quelle dei Ramones, degli AC/DC e di molti altri), ma gli Emo non disdegnano neppure le Vans e altri capi dell’abbigliamento tipici degli Skater (ovvero, coloro che utilizzano lo skateboard: più che un gioco, uno stile di vita). Le caratteristiche estetiche principali degli Emo, comunque, sono il tipico ciuffo asimmetrico che copre un occhio (i capelli sono generalmente tenuti lisci e scuri) e il trucco nero sugli occhi. Gli accessori più diffusi sono vari oggetti metallici pendenti a forma di teschio o cuore spezzato. Poiché gli Emo sono un fenomeno essenzialmente adolescenziale, i luoghi in cui li si può sicuramente incontrare sono le scuole, dove la loro presenza è sommamente discreta. È infatti una loro caratteristica quella di tenersi in disparte con aria depressa. L’Emo non è alla ricerca di un’autoaffermazione, né desidera rendere manifesta una rabbia generazionale: piuttosto esprime silenziosamente la propria estraneità alle tensioni dell’esistenza. Con lo sguardo triste, egli ci comunica tutta la sua profonda disperazione.

Gli Emo sembrano dunque rappresentare l’ultima frontiera nel campo del nichilismo giovanile. Non “credono” in nulla, neppure nella loro stessa subcultura: come nota Michele Kirsch nel suo “tentativo di inchiesta” sul Times, un Emo non dichiara mai di essere tale, non mostra orgoglio di appartenere a un “movimento”, e neanche è in grado di spiegare cosa significhi “emo”. Semplicemente si lascia vivere con il pensiero costantemente rivolto alla morte, eventualmente per suicidio. Un atto che, comunque, il bravo Emo non commette in quanto, di per sé, troppo determinato: piuttosto, si lamenta per non avere la forza di suicidarsi! Lo spazio dove la cultura emo si esprime con maggiore evidenza è, ovviamente, Internet, in particolare nelle pagine personali di MySpace, dove chiunque può scrivere liberamente i propri interventi.

Su Internet si trovano, infatti, i post degli Emo e i disegni emo, questi ultimi spesso cupamente autoironici. Ricordiamo, ad esempio, la divertente vignetta di un Emo Kid che, per corteggiare una ragazza, letteralmente le “dà il suo cuore”, nel senso che se lo strappa dal petto e lo porge all’amata ancora sanguinante. Se gli Emo manifestano (più coi fatti che con le parole) il loro desiderio di isolarsi dal mondo, il mondo non sembra disposto a concedere loro questo lusso: se si compie una ricerca su Internet, infatti, non è raro imbattersi in siti che degli Emo si fanno beffe. Nel mondo reale, poi, gli Emo Boys sono generalmente fatti oggetto di scherno e di scherzi pesanti da parte dei compagni di scuola: il loro rifiuto di assumere gli atteggiamenti da macho tipici degli adolescenti è, infatti, percepito come segno di una debolezza che deve essere punita. Della persecuzione di cui è fatto oggetto, l’Emo, coerentemente, sembra godere, traendone conferma della propria “diversità” e dell’incapacità degli “altri” di comprendere la sua profonda sensibilità.

Secondo il giornalista del Times, tuttavia, gli Emo Boys riscuotono un grande successo tra le coetanee (e non solo tra le Emo Girls). Gli Emo sono infatti considerati sensibili, fedeli, gentili e affidabili, l’esatto contrario del classico maschio adolescente. Nonostante la sua assoluta impalpabilità, il “fenomeno emo” mi sembra comunque degno di una certa attenzione in virtù di alcune sostanziali singolarità: nonostante l’inevitabile esibizione di simboli identificativi (scarpe, pettinature, abiti, accessori), forse per la prima volta ci imbattiamo infatti in una subcultura giovanile che non si basa sull’orgogliosa appartenenza a un movimento. Come si è detto, l’Emo, con i suoi atteggiamenti distaccati e con il rifiuto stesso di un’etichetta, compie un atto di supremo nichilismo. Se, come sosteneva Nietzsche, negare è già di per sé una manifestazione di volontà, gli Emo, nel loro radicale antivitalismo, vanno oltre: ritengono che negare sia un atto superfluo e trascinano la loro esistenza nell’accettazione della sua superfluità.

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