
Pubblico un articolo interessante di Federico Pace, in cui presenta un libro che a breve leggerò, frutto della collaborazione della conterranea scalatrice Nives Meroi e il teologo “scomodo” Vito Mancuso. La fonte è La Repubblica.
«Ci sono luoghi al mondo che non si esauriscono nelle loro sembianze geografiche. Luoghi che contengono gli antichi semi che hanno dato vita alla nostra cultura, ai nostri pensieri e ai nostri più profondi aneliti. Il Sinai è di certo tra questi. Circondato dalla silenziosa maestosità del deserto e indelebilmente caratterizzato dall’aspetto trascendente e religioso del Dio che consegnò a Mosè le tavole con il Decalogo, il monte ora viene raccontato in un libro, in uscita in questi giorni, da Nives Meroi e Vito Mancuso. La prima, grande scalatrice che ha raggiunto undici delle quattordici vette sopra gli Ottomila metri senza utilizzare ossigeno supplementare, portatori d’alta quota e campi fissi. Il secondo, teologo, docente di storia delle dottrine teologiche presso l’università di Padova e protagonista quotidiano del discorso tra religione e società civile.
Il libro dal titolo Sinai, che inaugura la collana Wild della Fabbri, è un cahier de voyage originale come forse solo i diari di viaggio scritti da più persone riescono a essere. Nives Meroi descrive la partenza, con il suo compagno di cordata e marito Romano Benet, dalle nevi del Friuli Venezia Giulia per quel deserto spesso territorio di scontri e conflitti, racconta l’atterraggio in Egitto a Sharm El-Sheikh, senza nascondere il fastidio per i metri cubi di cemento delle costruzioni alberghiere e lasciando trasparire la gioia per l’incontro con l’accompagnatore Mustafa. Dal canto suo, Mancuso percorre un’altra strada, più rarefatta e astratta e porta per mano il lettore tra le parole dei testi sacri. I monti, scrive nelle sue prime pagine, sono “un luogo privilegiato per l’incontro con il divino” dove si riscopre “un’origine dimenticata, ma tuttavia radicata dentro di sé”.
L’alpinista, che per scrivere usa carta e penna, entra in contatto con la natura, sale sui dromedari e partecipa alla cena beduina. Assaggia il pane, il tè che profuma di salvia, il riso, il kebap e le verdure. Arriva al monastero di Santa Caterina e alle 2 e 45 di notte si avvia verso la salita al monte mentre si leva “un rumore sordo di tribù che si mette in cammino”. In vetta, al sorgere del sole, scopre di essere in compagnia di cinquecento giovani, molti dei quali probabilmente sono tra quelli che qualche anno fa erano scesi in piazza Taqrir pieni di speranze poi andate deluse. Dall’altro canto, Mancuso si inerpica tra le parole dei sacri testi, mette a confronto le narrazioni dell’Esodo con quelle del Deuteronomio, scompone ogni singola parola per capire, in che modo e a chi, sia davvero apparso Dio, quel Dio che sul Sinai, tra lampi e fulmini, “interviene direttamente nella storia degli uomini come mai aveva fatto prima e come mai farà dopo”.
L’aspetto trascendente e quello naturale. Il deserto, il vento, il silenzio. Il rapporto fisico con la montagna. Nel libro Nives Meroi, che intercala il suo racconto con memorie delle scalate degli Ottomila, pone al centro il suo rapporto con la natura. “Generatrice di sublime – scrive – e allo stesso tempo capace di indifferenza assoluta”. Percepita alle volte come forza potentissima, di fronte al quale l’essere umano non può nulla, e altre come entità fragilissima aggredita spietatamente dalla nostra moderna sete di crescita spesso priva di equilibrio. La natura, ci racconta al telefono Meroi, “è quello di cui noi siamo parte. Penso che la cosa più importante e semplice che ho imparato anche da questo viaggio, è proprio questo. Nelle spedizioni che ho fatto, in questo viaggio in Sinai, il delirio di onnipotenza viene subito ridimensionato. Noi siamo elementi della natura, e dobbiamo imparare a rimanere in contatto con lei”. Traspare forte anche il legame tra lo scalare una montagna e la necessità di narrare una storia. “So di non essere né una studiosa, né una scrittrice – ci confessa candidamente – ma per me è importante narrare delle storie perché, quello che conta dal mio punto di vista, non è tanto raggiungere la cima, quanto tornare giù e raccontare quello che ho visto, quello che ho vissuto e condividere in qualche modo quello che ho compreso”.
Mancuso sottolinea come gli studi e le indagini archeologiche testimoniano la difficoltà a stabilire che il Sinai di cui noi oggi parliamo, sia effettivamente il Sinai di cui parla la Bibbia. Eppure il fascino per questo monte non si esaurisce. Perché? Mancuso risponde alla domanda che gli poniamo spiegando come esista “un Sinai interiore che significa una dimensione di altezza e di trascendenza verso cui ogni civiltà si sente attratta”. Ma non solo, c’è un altro aspetto per il teologo che alimenta l’attrazione verso questo luogo, un aspetto “che riguarda la dimensione della sollecitazione e della provocazione che la libertà umana riceve di fronte alle dieci parole, al decalogo, a un imperativo etico. La tua libertà esiste, ma è fatta per aderire alla giustizia, al bene, a tutte quelle cose che i comandamenti del Sinai ci presentano”.
Il Sinai ancora oggi così provoca incanto e spaesamento. Il monte è stato cercato e inseguito nel tempo da un numero infinito di artisti. Dipinto da El Greco, raccontato da Alexandre Dumas e terra di rifugio per Antonio Tabucchi. Forse è nelle parole che Mancuso ci rivolge prima di chiudere la chiacchierata che ci ha concesso, la chiave di tutto il libro: “Scrivere del Sinai mi ha insegnato di nuovo che l’ultima parola riguardo al problema di Dio, a questa attrazione, a questa ricerca, non è la razionalità, non è un pensiero, ma la nube della non conoscenza, è un misto di timore per i lampi e le teofanie (ndr. apparizioni della divinità), questa dimensione quasi vulcanica, la scrittura di questo libro mi ha richiamato profondamente a questa dimensione che chiamerei “apofatica”: c’è qualcosa di più importante delle parole, c’è la vita nuda che si pone di fronte alla misteriosità dell’esistenza”.»
Perché?
Pubblico un breve racconto (la lunghezza è un’apparenza, le battute sono molto brevi) dello scrittore egiziano Nagib Mahfuz, nobel per la letteratura nel 1988. Un dialogo tra padre e figlia dal titolo “Il paradiso dei bambini”. La conoscenza e l’amore su ogni cosa.
“- papà…
– dimmi.
– io e Nadia stiamo sempre insieme.
– certo, tesoro: è la tua amica…
– in classe, in cortile, anche alla ricreazione.
– bene! Nadia è una bambina bella e bene educata.
– nell’ora di religione però io vado in un’aula e lei in un’altra.
Lanciai un’occhiata alla mamma e la vidi sorridere mentre era intenta a cucire. Sorrisi anch’io dicendo:
– ma è solo nell’ora di religione…
– e perché?
– perché tu hai una religione e Nadia un’altra.
– come?
– tu sei musulmana e Nadia è cristiana.
– perché, papà?
– sei ancora piccola. Un giorno capirai.
– no. Io sono grande!
– ma no che sei piccola, tesoro!
– e perché sono musulmana?
Dovevo essere disponibile e accorto e soprattutto non tradire i nuovi sistemi educativi alla prima difficoltà.
– il tuo papà è musulmano e la tua mamma è musulmana, per questo anche tu sei musulmana.
– e Nadia?
– i suoi genitori sono cristiani, perciò è cristiana pure lei.
– forse è perché il suo papà porta gli occhiali…?
– non c’entrano gli occhiali. E’ che anche suo nonno era cristiano… dissi, deciso a risalire le generazioni senza smetterla finché non si fosse stancata e avesse finito per cambiare argomento. Ma ella riprese:
– chi è meglio?
Riflettei un poco, poi risposi:
– la musulmana è buona e anche la cristiana è buona.
– una dev’essere migliore per forza.
– son buone tutt’e due.
– e se mi faccio cristiana per stare sempre con Nadia…?
– non si può, amore. Ognuno deve restare come il suo papà e la sua mamma.
– e perché?
Ecco qua la tirannia dei nuovi metodi educativi!
– non vuoi proprio aspettare quando sarai grande?
– no, papà.
– bene. Lo sai cos’è la moda? A uno piace una moda, all’altro un’altra. Essere musulmani è l’ultima moda, per questo devi rimanere musulmana.
– allora quella di Nadia è una moda vecchia!
Benedette tu e la tua Nadia! Nonostante la mia prudenza mi ero sbagliato e avevo finito col mettermi in un bel pasticcio.
– e´ una questione di gusti… però ognuno deve restare come i suoi genitori.
– dirò a Nadia che la sua è una moda vecchia e che la mia è nuova.
– tutte le religioni sono buone – mi affrettai a dire – chi è musulmano adora Dio e chi è cristiano anche.
– ma perché lei lo adora in un posto e io in un altro?
– perché da una parte lo si fa in un modo e dall’altra in un altro modo.
– e perché?
– lo saprai l’anno prossimo, o quello dopo. Per ora basta che tu sappia che sia i musulmani sia i cristiani adorano Dio.
– e chi è Dio, papà?
Restai sorpreso. Riflettevo, mentre prendevo tempo.
– cosa ti ha detto la maestra?
– ci ha letto una sura del Corano e ci ha insegnato le preghiere. Però chi è Dio non lo so.
Ci pensai su ancora, nascondendo un sorriso.
– è il creatore di tutte le cose.
– di tutte?
– di tutte.
– e che vuol dire creatore?
– vuol dire che è lui che ha fatto ogni cosa.
– e come ha fatto?
– con la sua grande potenza…
– e dove vive?
– ovunque nel mondo.
– e prima del mondo?
– lassù.
– in cielo?
– sì.
– lo voglio vedere.
– non si può.
– nemmeno in tv?
– nemmeno.
– nessuno lo può vedere?
– nessuno.
– e tu come lo sai che è lassù?
– lo so.
– chi te l’ha detto?
– i profeti.
– i profeti?
– sì, come Muhammad.
– e lui come ha fatto a saperlo?
– aveva una forza speciale.
– una forza speciale negli occhi?
– sì.
– e perché?
– è Dio che lo ha creato così.
– perché?
Mi dominai e risposi:
– egli è libero di fare ciò che vuole.
– e quando lo ha visto com’era?
– grande, forte, potente…
– come te, allora.
Trattenni una risata:
– nessuno gli è simile.
– e perché vive lassù?
– la terra non basta a contenerlo, ma egli vede ogni cosa.
Si distrasse per poco, poi riprese:
– ma Nadia dice che ha vissuto sulla terra.
– è perché vede ogni luogo, così è come se vivesse dappertutto.
– Nadia ha detto che lo hanno ucciso.
– no, amore mio, hanno creduto di averlo ucciso, ma egli è vivo e non muore mai.
– e il nonno, è vivo anche lui?
– no, il nonno non c’è più.
– lo hanno ucciso?
– no. E’ morto da solo.
– e come è morto?
– si è ammalato ed è morto.
– allora la mia sorellina che è malata morirà anche lei?
Mi adombrai e prevenni la reazione della mamma affrettandomi a dire:
– ma no, guarirà!
– e allora il nonno perché è morto?
– il nonno si è ammalato da grande.
– anche tu ti sei ammalato da grande. Perché non sei morto?
Questa volta la mamma la rimproverò ed ella restò smarrita a guardare ora l’uno ora l’altra.
– moriamo quando lo vuole Iddio.
– e perché Dio vuole che moriamo?
– egli è libero di fare ciò che vuole.
– la morte è bella?
– oh no, tesoro.
– e perché dio vuole una cosa brutta?
– e´ bella quando è lui a volerla.
– ma tu hai detto che è brutta.
– mi sono sbagliato, amore.
– perché la mamma si è arrabbiata quando ho detto che tu muori?
– perché ancora Dio non lo ha voluto.
– e perché lo vuole, papà?
– è lui che ci fa nascere e fa che ce ne andiamo.
– e perché?
– vuole che facciamo delle cose belle prima di andarcene.
– e perché non restiamo?
– non ci sarebbe spazio per la gente se tutti restassero.
– così lasciamo tutte le cose belle.
– andiamo dove ci sono cose migliori.
– dove?
– lassù.
– da Dio?
– sì.
– e lo vedremo?
– sì.
– e sarà bello?
– certo.
– allora dobbiamo andare.
– ma non abbiamo ancora fatto tante belle cose…
– il nonno le ha fatte?
– sì.
– che cosa ha fatto?
– ha costruito una casa e ha coltivato un giardino.
– e cosa aveva fatto Totò, il mio cuginetto?
Mi rattristai per un istante, poi volsi uno sguardo commosso alla mamma e risposi:
– anche lui ha costruito una piccola casa prima di andarsene.
– il figlio dei vicini invece mi picchia e non fa niente di bello.
– è proprio un ragazzaccio.
– allora non morirà.
– solo quando Dio lo vorrà.
– anche se non farà nessuna bella cosa?
– tutti si muore. Chi fa cose buone va dal Signore e chi le fa cattive va all’inferno.
Lei sospirò e tacque.
Avvertii quanto la cosa fosse stata impegnativa, ma non sapevo dire se avessi risposto bene o male. La fila dei perché aveva risvegliato domande celate dentro me. La piccola non lasciò passare molto tempo prima di sbottare:
– voglio stare sempre con Nadia.
Guardai verso di lei con aria interrogativa.
– anche nell’ora di religione!
Scoppiai a ridere. Anche la mamma rideva. Soggiunsi sbadigliando:
– non me lo immaginavo che si potesse parlare di cose simili a questo modo.
Intervenne la mamma con aria consolatrice:
– la bimba crescerà e un giorno potrai spiegarle tutte le cose che sai a riguardo.
Mi girai allora alterato verso di lei per capire fino a che punto avesse parlato sul serio o se piuttosto mi prendesse in giro. Ma già aveva ripreso il suo lavoro di cucito.”
(da “Il bambino nell’Islam”, in Aa.Vv. Il bambino nelle religioni, Editrice Ancora, Milano 1992)
Tra fede, finanza e moschee
Dal sito di Nigrizia prendo questo forte e discusso articolo di Mostafa El Ayoubi pubblicato sul numero di gennaio.
“Finanza e fede. È il binomio sul quale si basa gran parte della politica estera del Qatar, specie quella che riguarda l’Europa. Sul versante finanziario dispone di ingenti investimenti in diversi settori: bancario, immobiliare, del calcio ecc. In Europa il mondo politico e quello economico-finanziario lo considerano un grande partner da corteggiare. Quanto alla variabile fede, il Qatar ha un’alleanza strutturale con i Fratelli musulmani (Fm) molto ramificati in Europa. Il piccolo emirato, che sogna un pan-islamismo sotto il suo controllo, considera i Fm uno strumento per estendere il suo potere sulla sfera religiosa. Persa di recente la sua influenza sul mondo arabo a favore del gigante saudita, il Qatar sta concentrando la sua crociata finanziaria e religiosa altrove. In Africa i “missionari” del Qatar sono al lavoro: dal Niger al Senegal, attraverso la rete di moschee, sono in sensibile espansione attraverso ingenti “donazioni” che fanno gola ad organizzazioni islamiche e governanti locali. Ma è verso il vecchio continente che la strategia espansionistica del Qatar sembra più orientata. Lo scopo è di estendere la sua egemonia sull’islam in Europa. Attraverso il finanziamento per la costruzione delle moschee, il Qatar sta spiazzando i tradizionali paesi dai quali proviene l’immigrazione islamica in Europa: Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Pakistan, Turchia ecc. E investe logicamente nei luoghi di culto sotto controllo dei Fm. In Francia svariati milioni di euro sono stati investiti nella realizzazione di nuove moschee, attraverso la Qatar Charity. Questa ong “caritativa” ha contribuito economicamente alla costruzione di diverse moschee: quelle di Nantes e Mulhouse, e quella di Marsiglia (ancora da realizzare). In Irlanda, il Consiglio municipale ha autorizzato la costruzione di una moschea – finanziata in parte dal Qatar – nella periferia di Dublino, città dove risiede l’European Council for fatwa and Research di cui al-Qaradawi (ideologo dei Fm) è il massimo esponente. Gli sceicchi del Qatar corteggiano i musulmani anche in Germania: a Monaco è prevista, con il loro contributo, la realizzazione di una moschea su 6000 mq con tanto di minareto, biblioteca, palestra, ristoranti, sala congressi e altro. In Italia, dal dicembre 2012 all’ottobre 2013, sono state inaugurate tre grandi moschee con ingenti contributi della Qatar Charity: la prima a Catania, la seconda a Ravenna e l’ultima a Colle di Val d’Elsa (Siena).
In passato non sono mancate aspre polemiche sulle moschee in Europa, sul ruolo dei finanziamenti stranieri e sul controllo finanziario e ideologico che i donatori esercitano sui musulmani. Oggi invece su questi finanziamenti si mantiene un profilo basso: i politici non ne fanno più un oggetto di propaganda e i media ne parlano poco, perché il Qatar è un paese amico con il quale si fanno molti affari. Il problema però è che l’ingerenza del Qatar (e altre petro-monarchie) negli affari della “diaspora” islamica in Europa nuoce alla sua integrazione e all’evoluzione di un islam europeo. Con il suo denaro il Qatar, oltre a comprare la coscienza di tanti musulmani in Europa, dispone anche del consenso di realtà politiche e culturali che si considerano attente alle questioni della libertà religiosa e dei diritti umani. Eppure si sa bene che attraverso le sue “donazioni” il Qatar – con l’ausilio dei Fm – diffonde la sua visione arcaica e approssimativa della religione islamica, che considera il dialogo interreligioso come uno strumento di proselitismo e di conversione. Nel “filantropo” Qatar, milioni di immigrati sono trattati come degli schiavi. Ad oggi sono morti decine di immigrati utilizzati nella costruzione degli impianti per i mondiali del 2022. E il razzismo nei confronti dei lavoratori immigrati dovrebbe far riflettere molto i musulmani in Europa – in gran parte di origine immigrata – sull’insidiosa carità dei principi qatarioti. È meglio una sala di preghiera piccola e dignitosa di una sontuosa moschea costruita con il contributo di uomini (ricchi) che ancora oggi schiavizzano i loro simili!”
Lo straniero e le religioni
António Guterres, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), un anno fa, aveva chiesto ai capi religiosi presenti a un dialogo su “Fede e protezione”, un “Codice di condotta per capi religiosi”. Questa settimana, a pochi chilometri da qui, a Vienna si sta riunendo l’assemblea di Religions for Peace, all’interno della quale è stato reso noto un documento alla cui stesura, tra gli altri hanno collaborato il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, Islamic Relief Worldwide, la Federazione mondiale luterana e l’Unione mondiale evangelica, il Centro di studi hindu di Oxford e il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima parte del documento, che allego in pdf, riporta gli impegni dei capi religiosi, mentre la seconda mostra l’importanza, nelle diverse religioni, dell’accoglienza dello straniero.
La notizia l’ho tratta da un aticolo di Roberta Leone su Vatican Insider.
Greco-ortodossi di Turchia
Scrive Giuseppe Mancini su Limes a proposito dei greco-ortodossi presenti in Turchia:
“Sono molti gli insoddisfatti per il contenuto del “pacchetto di democratizzazione”, presentato il 30 settembre scorso dal premier turco Recep Tayyip Erdoğan: la delusione maggiore è stata quella dei greco-ortodossi (rum in turco, romei in italiano), gli ultimi rimasti – secondo le stime, da 2 mila a 4 mila – della fiorente e influente comunità d’epoca ottomana. Ancora una volta è mancato ciò che invocano da decenni: la riapertura del seminario teologico sull’isola di Heybelianda/Halki, proprio di fronte a Istanbul, chiuso nel 1971 per motivi di laicismo e ostilità; al suo interno tutto è pronto, le aule e i vecchi banchi in legno sono rimasti quelli di allora: solo gli studenti, futuri sacerdoti e patriarchi, sono assenti. La sua riapertura è stata promessa più volte dal governo turco, che però si aspetta mosse analoghe da parte del vicino greco nei confronti delle proprie minoranze turcofone e musulmane. I rum, che sono cittadini turchi a tutti gli effetti, a seguito del conflitto greco-turco e del trattato di Losanna del 1923 si sono trovati a vivere in condizioni di inferiorità formale e sostanziale: minoranza poco tollerata, soggetta a vessazioni di ogni tipo e indotta all’emigrazione (come poi avvenuto nel corso di diverse ondate), i rum si sentono tutt’oggi come stranieri in casa propria. Il momento più basso di questo odioso processo è stato toccato nel 1955 con il pogrom del 6 e 7 settembre, nel corso del quale furono distrutti negozi, profanate chiese, assalite e umiliate le persone. L’esodo cominciò allora, inarrestabile. Non è un caso, tantomeno un vezzo letterario, se Méropi Anastassiadou e Paul Dumont, autori di Les Grecs d’Istanbul (Cerf, 2011), hanno titolato l’introduzione del loro saggio “Il rifiuto dell’estinzione” in quanto tributo verso i tenaci superstiti. Si tratta per la maggior parte di cristiani ellenofoni, benché ad Antiochia esistano anche dei gruppi turcofoni e arabofoni: il turco rimane comunque la lingua franca, parlata da tutti. L’istruzione infatti – anche nelle scuole private, gestite autonomamente – è bilingue.
Negli ultimi anni la loro condizione “sta cambiando drasticamente”, racconta Laki Vingas, rappresentante delle fondazioni non-musulmane e uno degli artefici della rinascita della comunità. Le riforme varate dal Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) stanno infatti restituendo ai diversi gruppi etnici e religiosi che compongono il mosaico nazionale turco diritti, dignità e visibilità; dall’agosto del 2011, anche parte dei beni immobili – orfanotrofi, scuole, chiese, ospedali, terreni, persino cimiteri – confiscati dall’establishment kemalista a rum, armeni, siro-ortodossi ed ebrei. Ne è un esempio la scuola elementare greco-ortodossa di Galata, trasformata in centro culturale, che ospita la Biennale del design, la Biennale di arte contemporanea e concerti di musica classica. Il risveglio culturale è uno degli aspetti che più colpisce: il ritorno del coloratissimo e rumorosissimo carnevale nelle vie di Tatavla, la formazione a opera di Stelyo Berber del gruppo di musica tradizionale Café Aman (con composizioni in fasıl e rebetiko), la nascita nel 2012 della Istos, casa editrice che pubblica in greco i suoi scritti, mentre il quotidiano Apoyevmatini – il cui primo numero risale al 1925 – non ha mai cessato di pubblicare. Secondo Vingas “La Turchia sta tornando a essere polifonica” e i rum di Istanbul stanno contribuendo fattivamente al ripristino dei meccanismi pluralisti di origine ottomana, sacrificati sull’altare del nazionalismo esclusivista. “I turchi stanno riscoprendo il loro passato e la loro storia”: per lunghi secoli fatta di condivisione, rispetto e armonia. Il passo successivo, sostenuto a gran voce da tutte le minoranze di Ankara, è presto detto: la riforma della cittadinanza, su base individuale e non più etnica, da inserire nella carta costituzionale attualmente in fase di revisione.
Il cardine della comunità greco-ortodossa è il patriarca ecumenico Bartolomeo, originario dell’isola di Imbros (situata all’imbocco dei Dardanelli) e in carica da 20 anni; tra l’altro, anche lui ex allievo del seminario di Heybeliada. È il punto di riferimento per tutti i rum, dai più anziani fino alle nuove generazioni; ha trasformato il patriarcato del Fener in tappa obbligata per i leader politici stranieri di passaggio in città; visita incessantemente le piccole parrocchie e celebra messe in chiese ormai chiuse da decenni: come avviene ogni 15 agosto dal 2010 nel monastero di Sümela, sito nei pressi di Trabzon.
Il fenomeno più inatteso è la recente inversione delle dinamiche demografiche. Tutto merito della crisi: perché al patriarcato e alle varie fondazioni caritatevoli arrivano richieste sempre più numerose da parte di rum emigrati in Grecia che vogliono tornare in Turchia per trovare un lavoro e recuperare le proprietà immobiliari; o anche di greci – soprattutto giovani e intraprendenti – che sempre per motivi economici desiderano stabilirsi sul Bosforo. Gli adolescenti greco-ortodossi di Istanbul, fino a non molto tempo fa destinati a espatriare dopo gli studi superiori, sono ben felici di poter rimanere in Turchia.”
Cambia la popolazione, cambia la religione
Uno sguardo sulla Cina e sulla situazione delle religioni. Articolo di Fabrizio Mastrofini preso da Vatican Insider.
“Nel vasto «pianeta cinese» è in corso una profonda trasformazione che investe la religione. Il punto di partenza è dato dall’esodo dalle campagne verso le città, un fenomeno che ha dimensioni bibliche. Secondo le statistiche ufficiali gli abitanti nelle città hanno superato quelli delle campagne: 690,79 milioni contro 656,56 alla fine del 2011. Gli effetti sul piano religioso sono rilevanti. A dedicare servizi a questi aspetti e a documentare i problemi ci sono due agenzie stampa specializzate sull’Asia: Ucanews con sede a Honk Kong ed Eglise d’Asie della Società delle Missioni Estere di Parigi, con sede nella capitale francese. I dati raccolti, le testimonianze, le analisi, convergono nel sottolineare che la trasformazione demografica ha cominciato ad avere effetti sul piano religioso. Ucanews ha preso ad esempio la storia di Bosco Wang, migrante cattolico, dalla campagna a Guangdong e poi da qui in una cittadina a sud di Shangai. Il primo gravissimo problema che ha affrontato è stato linguistico: trovarsi con sacerdoti in grado di esprimersi solo in cantonese e non in mandarino. «Ho visto – ha raccontato – numerose persone che durante la messa recitavano il rosario senza seguire la celebrazione. Poi ho capito che non erano in grado di comprendere il sacerdote». E casi simili sono in grande aumento. Eglise d’Asie in un recente servizio sul problema nota come l’esodo dalle campagne stia ristrutturando sia la Cina sia il cattolicesimo. Come accade nel villaggio di Erquanjing, nel nord-ovest della provincia di Hebei, diocesi di Xiwanzi. Qualche anno fa contava oltre duemila abitanti, praticamente tutti cattolici; oggi sono ridotti ad un centinaio. E secondo le statistiche dell’Istituto di antropologia dell’Università di Pechino ogni giorno spariscono tra 80 e 100 villaggi a causa dell’esodo massiccio verso le città. Un parroco – don Joseph Yang, nel distretto di Yang – ha dichiarato che ogni settimana si trova davanti a volti nuovi nelle sue messe, con la conseguente grande difficoltà di dare risposte pastorali efficaci.
Ma anche le altre religioni e confessioni cristiane affrontano sfide difficili. Ad esempio il mondo buddista, in grande crescita e nonostante sia favorito dal governo perché viene visto come una religione tradizionale dell’Asia, a differenza del cristianesimo che viene percepito come una religione occidentale, dunque importata. Il professor Ji Zhe, sociologo e specialista in storia delle religioni cinesi, dirige un progetto di ricerca internazionale sull’evoluzione del buddismo in Cina. Attualmente – ha dichiarato a Eglise d’Asie – delle cinque religioni ufficialmente riconosciute (buddismo, taoismo, cattolicesimo, protestantesimo, islam), i buddisti costituiscono il più numeroso gruppo di credenti e praticanti». In particolare parliamo del buddismo Mahayana Han, con 100 milioni di fedeli, mentre sono 7,6 milioni i buddisti tibetani e 1,5 milioni i buddisti Theravada. Secondo lo studioso il buddismo è sostenuto dal governo per motivi politici e per interessi economici. Per questi ultimi il caso esemplare è quello del tempio Shaolin nella provincia di Henan, molto famoso per la grande tradizione nelle arti marziali. È un luogo di turismo che raccoglie decine di migliaia di visitatori ogni anno ma i proventi del biglietto di ingresso vanno al 70% al governo locale. E la comunità monastica è sottoposta ad uno stringente controllo amministrativo su come spende quel 30% di introiti che ha a disposizione. Inutili le vibranti proteste che ogni anno vengono sollevate dai monaci. Quanto ai motivi politici l’analisi del professor Ji Zhe è precisa. «La religione che si sviluppa di più in Cina è il protestantesimo, soprattutto evangelico, che è più attivo e rivendicativo, non esita a invocare la libertà religiosa ed il rispetto dei diritti dell’uomo, anche grazie ai legami con l’estero e grazie all’organizzazione specifica, difficile da controllare per lo stesso governo. Cattolicesimo ed islam sono ugualmente problematici per il governo centrale, sia sul piano diplomatico, sia sul piano etnico. Ed allora si cerca di favorire l’espansione del buddismo Mahayana Han – gli Han sono l’etnia maggioritaria alla quale appartiene il 92% della popolazione cinese – per tentare di contenere l’espansione di altre religioni».”
Sfide plurali
Prof, ma che attinenza ha l’argomento della globalizzazione con l’ora di religione? Un articolo pepato di Stefania Friggeri dà alcune risposte (il pezzo è del 23 gennaio 2012: ciò spiega il riferimento a Ratzinger come papa).
“La crisi di dimensioni planetarie che viviamo ci costringe a fare i conti col fenomeno della
globalizzazione i cui aspetti tuttavia non investono solo il campo economico. Infatti, essendosi spezzato il legame che ieri teneva insieme, entro lo Stato nazionale, territorio popolo e religione (una fusione che si esprimeva sia attraverso la tradizione, le credenze e i riti, sia attraverso le istituzioni) anche le religioni hanno mutato volto. L’evoluzione si manifesta non solo a livello delle comunità religiose organizzate, ma soprattutto a livello della fede praticata dai singoli poiché il fenomeno dell’individualizzazione, che ormai caratterizza le istituzioni dell’Occidente (diritti civili, politici, sociali) ha modificato anche il sentire dei credenti e la loro domanda di sacro. Di fronte alla loro ricerca, con sempre maggiore indipendenza, di una “narrazione” religiosa che meglio si adatti alla biografia personale, Ratzinger muove ripetute condanne contro il relativismo, figlio di quell’individualismo che ha trasformato lo spirito e l’ossatura della società, e dunque della Chiesa. Dove oggi un gran numero di fedeli rivendica la libertà soggettiva di seguire, o no, le parole del Papa come norma divina, sentendosi libero di ritagliarsi uno spazio personale nella vita quotidiana (vedi contraccezione, coppie di fatto e simili). E giudica che l’autentica missione della Chiesa sia quella di rispondere all’insopprimibile bisogno di trascendenza, anziché farsi dottore e guida su tutto, compreso il cibo, gli abiti, la vita sessuale, familiare e politica. Quando il fedele diventa cittadino del mondo, dove le risposte alla domanda di spiritualità degli esseri umani sono molteplici e diverse, la prossimità porta al confronto, in un orizzonte che qualcuno ha paragonato ad un libero mercato: in un’età di meticciato nascono forme nuove di religiosità, frutto di quell’individualismo che consegna al proprio Sé l’autorità di distinguere fra il Bene e il Male e mette in primo piano l’impegno di arricchire l’anima. Ormai lo sguardo degli abitanti del mondo si è fatto cosmopolita, insieme locale e globale o, come si dice, “glocale”, e la scomparsa dei confini territoriali si è accompagnata ad una omogenea scomparsa dei confini fra le religioni. Globalizzazione vuol dire conoscere non una sola voce ma la plurivocità di un mondo liquido e poroso, dai confini sfumati e impermeabili, in un rimescolamento generale che può generare non solo incertezza ma anche paura; e quando l’identità entra in crisi, per non ritrovarsi senza volto e senza radici, molti si aggrappano alla memoria, alla terra, alle tradizioni. Se però l’Io si rafforza attraverso il non-Io ritorna la xenofobia, una malattia che strumentalizza la religione dei padri per giustificare la negazione dell’Altro e la pretesa di alzare confini. Ma costruire la propria identità sulla dicotomia Noi-Loro nell’età della globalizzazione è anacronistico poiché la prospettiva nazionale è stata sostituita da quella cosmopolita e dunque anche in campo religioso il legame terra, etnia, religione sfuma. Questo legame negli Stati-nazione europei, grazie al patto trono-altare, si esprimeva in passato nel concetto di religione di Stato e di “religio licita” (concessione del diritto di culto alle minoranze religiose, in cambio ovviamente di tasse). Questa forma di compromesso fra il lecito e l’illecito, instabile perché non salvava né dalle persecuzioni né dalle espulsioni periodiche, è stata storicamente superata dalla proclamazione dei diritti dell’uomo, bollati da Leone XIII come ispirati a “libertà sfrenata”. Oggi però le Chiese cristiane ne rivendicano la paternità quale naturale sviluppo del loro messaggio, anche se la confessione cattolica, mossa dalla categoria mentale della “purezza”, rimane la più chiusa alla promozione dei diritti. Infatti l’alto magistero, sentendosi investito della missione di preservare un’identità “pura” (un ideale che, se portato alle estreme conseguenze, arma la mano dei terroristi) rimane rigido su alcune posizioni di principio, ad esempio sul tema della contraccezione (anche di fronte alla tragedia dell’Aids) o su quello del sacerdozio femminile, un istituto che aiuterebbe a contrastare quella mortificante visione della donna che vive tuttora nell’immaginario collettivo, frutto di secoli di cultura patriarcale e misogina. Ma la Chiesa Valdese in Italia è guidata da una “pastora” e il sacerdozio femminile è presente in altre chiese cristiane, fra gli ebrei ed alcuni movimenti religiosi (o sette?) nate da sincretismo favorito dalla globalizzazione. Può la Chiesa cattolica rimanere chiusa entro i suoi confini senza aprirsi alla contaminazione, alla “rivoluzione” di un secolo cosmopolita?”
Turchia: quale direzione?
Prendo la notizia dall’Huffington Post, un pezzo di Francesco Cerri.
“Cade nella Turchia targata Recep Tayyip Erdogan uno degli ultimi grandi simboli dello stato laico di Mustafa Kemal Ataturk: il divieto di indossare il velo islamico negli uffici pubblici.
Il premier di Ankara ha annunciato oggi la revoca del divieto del “turban” per funzionarie,
postine, insegnanti nel quadro del pacchetto di riforme di “democratizzazione” varato dal governo per cercare di tenere in carreggiata il fragile processo di pace avviato da dicembre con i ribelli curdi del Pkk. Con il divieto del velo cade anche per i funzionari il bando della barba, altro simbolo dell’Islam vietato dallo stato laico kemalista turco.
L’opposizione da tempo accusa il “sultano” di Ankara di volere “reislamizzare” la repubblica turca fondata da Mustafa Kemal Ataturk nel 1923 sulle rovine dell’impero ottomano.
Ataturk aveva imposto al paese, prevalentemente musulmano, una svolta occidentale, e tentato di allontanare lo stato dalla religione. Negli ultimi anni il partito islamico Akp di Erdogan, al potere dal 2002, ha progressivamente cancellato i vari divieti del “turban” introdotti dallo stato kemalista, nelle università, nelle scuole durante i corsi di religione, nelle cerimonie ufficiali, nei tribunali fra gli avvocati donne. Ora, ha spiegato oggi Erdogan, le sole a non poter portare il velo saranno le donne magistrato, le poliziotte e le donne soldato, perchè per loro è prevista una specifica uniforme.
La revoca del divieto del velo è cosi diventata la misura più forte del pacchetto preannunciato da tempo dal governo per rafforzare la democrazia nel Paese. Gli altri provvedimenti sembrano però non rispondere alle aspettative delle varie minoranze, in particolare dei curdi (20% della popolazione).
Erdogan ha annunciato che si potrà studiare in lingue diverse dal turco, perciò anche in curdo, nelle scuole private. Sarà inoltre abrogato il divieto di impiegare nei documenti pubblici le lettere Q, X e W, usate dai curdi, ma escluse dall’alfabeto turco, saranno ripristinati i nomi curdi di località del Kurdistan “turchizzate”. I partiti potranno inoltre fare campagna in curdo, otterranno rimborsi elettorali a partire del 3%, la soglia del 10% per il parlamento potrebbe essere abbassata.
Timide le aperture verso le altre minoranze. Gli aleviti (per sapere chi sono, consiglio questo articolo, ndr) attendevano un riconoscimento dei loro luoghi di culto – le cemevi – che non c’è stato. Ai siriaci è stata promessa la restituzione delle terre del monastero di Mor Gabriel confiscate dallo stato. Ai Rom una fondazione.
I curdi si sono detti insoddisfatti. “Questo pacchetto non risponde alle esigenze democratiche della Turchia, e alle attese dei curdi”, ha chiarito subito la copresidente del partito legale curdo Bdp, Gulten Kisanak. Il Pkk ha sospeso ai primi di settembre il ritiro dei suoi armati previsto dagli accordi di pace con Ankara, accusando Erdogan di non stare ai patti e di non varare le riforme promesse. Chiede maggiore autonomia per il Kurdistan turco, il curdo nella scuola pubblica, una modifica delle leggi anti-terrorismo, la liberazione delle migliaia di attivisti, sindacalisti, universitari e giornalisti arrestati.
Erdogan ha invece definito “storiche” le riforme varate oggi.
Per il giornale Cumhuriyet, è l’inizio della campagna elettorale del premier, che in giugno spera di essere eletto nuovo capo dello stato.”
Pensiero d’Oriente in Italia
Avete un quarto d’ora di tempo? Un tempo calmo, rilassato, non rubato a mille impegni, di quelli che si portano dietro pure il senso di colpa del furto. Bene, chi vuole può dedicare quel tempo alla lettura di questa intervista di Sabrina Conti a Tamotsu Nakajima, Presidente Nazionale del Soka Gakkai (Società per la realizzazione del Valore). Va detto che in rete si trovano anche molti articoli contrastanti su questa corrente. Metto il link del Cesnur e quello a un articolo de L’Espresso di luglio, invitando a leggere i numerosi, variegati e vivaci commenti…
Il buddismo ha origini antichissime, ma la vostra comunità è stata fondata negli anni ’30 in Giappone da Tsunesaburo Makiguchi
Prima di tutto bisogna considerare la storia del buddismo che vediamo ora e quella che era in origine. Questo non è facile. Difficile fare chiarezza in questo. Spesso il risultato è frutto di un ragionamento, non della effettiva realtà derivata da fatti realmente accaduti e che hanno portato ad un mutamento. La laicità, che altro non vuol dire se non che non ci sono Preti o Bonzi, è frutto di varie fasi della storia. Ecco perché è inutile analizzare un solo aspetto. Ecco il Soka Gakkai nasce sicuramente nel 1930, prima della fine della seconda guerra mondiale.
Portare l’Oriente in Occidente, voi avete fatto questo; ma la cultura Orientale è ricca di introspezione di momenti di ricerca all’interno di sé.
Ed il buddismo è semplicissimo: causa ed effetto; quale è stata la causa dell’attuale situazione? Che cosa è stato fatto perché ci accadesse ciò? Ogni cosa dipende da questo: sia passato, presente o futuro. Anche noi siamo laici, prima avevamo i preti. Ma ad un certo punto, essere preti è diventato come un lavoro. Il buddismo è uguale per tutti: solo con la pratica si riesce realizzare quello che professa il buddismo. Anche i preti praticavano, come tutti. Ma se questo diventa lavoro non c’è più illuminazione. Tanti preti pensano: noi siamo superiori, ed i credenti pensano noi siamo inferiori. Molti non spiegano, danno dei dogmi, senza raccontare le origini.
Forse, volendo dare una colpa, alla perdita delle origini, la si può ricercare nel consumismo, nell’allontanamento dalla natura, nella perdita di coscienza verso ciò che ci circonda e che è all’origine della Vita. Voi come vivete questo rapporto col Creato?
Nel buddismo l’essere vivente e l’ambiente che lo contiene non sono due realtà separate” altrimenti non si comprende questo principio fondamentale del buddismo. Bisogna migliorare l’ambiente, per migliorare le persone stesse. Le persone sono nate dalla natura. Sono un elemento della natura, e non esseri superiori che hanno il diritto di dominarla. Questa convinzione deriva dall’uso dell’intelligenza errato, da tutto quello che l’uomo ha creato e che lo fa credere superiore. L’intento del buddismo è vivere in armonia con le persone, tra le persone, e con l’ambiente. Bisogna vivere ogni giorno singolarmente e gioire della vita. E’ appunto questo il punto critico a cui mi riferivo prima. La nostra società è quella del nulla, delle apparenze: questo viene trasmesso sin dalla prima infanzia. Sembra difficile vivere cercando al proprio interno l’energia positiva e propositiva.
Che buddismo seguite?
La nostra è la scuola buddista fondata da Nichiren Daishonin. Molte cose sono rimaste ai nostri giorni esattamente come aveva insegnato lui: l’oggetto di culto, la recitazione della Legge mistica “Nam-myoho-renge-kyo”, e l’atteggiamento fondamentale di lottare contemporaneamente per felicità degli altri e per la propria. Poi il risultato dipende dalla sincerità, dalle azioni e dal comportamento di ogni praticante. In origine si pregava solo per sé, ognuno si impegnava a realizzare la propria illuminazione. Ma nel buddismo la pratica – come dicevo prima – significa pratica per sé e per gli altri. È fondamentale sviluppare il desiderio di star bene tutti insieme e non solo se stessi. È questo il cambiamento dalle origini, di cui parlavamo prima. Ed è per questa ragione che si passa attraverso l’oggetto di culto e delle parole. La nostra pratica buddista è molto semplice: la mattina e la sera io recito due capitoli del Sutra del Loto e Nam-myoho-renge-kyo. In questo modo, attraverso questa causa, nasce l’effetto, con la comunità di pensiero, l’energia si muove. In realtà, nessuno mi regala niente, sono io che poi devo realizzare tutto attraverso i miei sforzi. Se io ho la capacità riesco, se non ho capacità non riesco. Ognuno ha la capacità, ognuno è potenzialmente un Budda: natura ed apparenza sono tutto in uno.
Chi si avvicina a voi crede già in questo?
Noi seguiamo l’insegnamento e l’esempio dei nostri Maestri (Tsunesaburo Makiguchi, Josei Toda e Daisaku Ikeda), ma loro non sono i nostri guru, non li adoriamo. Sono un esempio. Il Maestro è uno che pratica il Buddismo e che indica la strada.
A parte l’esempio che può dare nella vita di tutti i giorni, passerà dei messaggi che lui trova dentro di sé e li trova perché ha fatto un percorso?
Senz’altro. Proprio così, il maestro sta facendo un percorso nella sua vita per diventare profondamente buddista. Non è facile praticare realmente il buddismo, e realizzare, mano a mano che si va avanti. Ognuno ha il suo modo di praticare. L’esempio è fondamentale: si guarda l’altro non con invidia ma come esempio, se lui è arrivato posso farlo anche io. La vita è da utilizzare, ci vogliono speranza e gioia, non disperazione. Quello che ognuno passa ora è stato vissuto prima da un altro, le difficoltà vanno superate e le persone incoraggiate. Cerchiamo di comportarci bene, la legge c’è. Che uno sappia o no la legge c’è.
Vi avvicinano più giovani o persone adulte che hanno già un loro vissuto e, con quale realtà è più facile approcciarsi?
Cambia a seconda dei periodi. Quando c’era il movimento dei giovani, in tanti cercavano qualche cosa in più. Una via da seguire.
E sono rimasti o si sono adeguati agli schemi precostituiti dalla Società?
Tante persone cercano un ideale da realizzare tutta la vita. Se non riescono a mantenere quell’ideale a metà strada si adagiano. E prendono strade più comode. La comodità, forse è illusione.
Apparenza?
Sì.
Si nasce, cresce e muore e basta così? In pochi pensano che la vita abbia uno scopo, un percorso di ricerca.
La gente ha paura di quello che non vede tangibilmente, questo è un biscotto ma se io non lo vedo … tanti anche vedendo il biscotto non lo mangiano.
Essere un Maestro, come Lei, cosa significa?
Io sono sempre un apprendista, ho i difetti come gli altri, ogni giorno devo imparare. Io non capisco mai abbastanza il buddismo. Ad esempio questi sono gli scritti di Nichiren Daishonin, il fondatore della nostra scuola buddista. Lui esprime delle teorie ben precise sul buddismo: sono lettere mandate ai credenti, e noi abbiamo tradotto dal giapponese all’inglese e dall’inglese all’italiano. perciò il passaggio della traduzione un po’ cambia. Sono 172 pezzi in cui incoraggiava i credenti. Il buddismo non è negli scritti, il buddismo è come vive la persona, come ha vissuto. Il Sutra è composto di parole, è un insegnamento. È importante come si utilizza il Sutra nella vita stessa. Noi viviamo la vita ogni attimo. La situazione cambia sempre nessuna cosa è ferma, io stesso cambio ogni attimo. Un attimo prima sono riuscito a fare una cosa, l’attimo dopo non si sa. Siamo noi che influenziamo attimo dopo attimo. Il nostro lavoro è aiutare la persona quando è in difficoltà. Il buddismo pensa a come poter essere utile a quella persona.
Accade che i buddisti scelgano un altro credo?
Quello che ho potuto vedere, succede che sperimentano qualche altra cosa e poi tornano a praticare il buddismo di Nichiren Daishonin.
Vivendo nella società ci saranno problematiche comuni al resto della società, ad esempio il divorzio. Sembrerebbe impossibile che accada questo evento in una coppia buddista che dovrebbe vivere nell’armonia.
Tutto è lasciato libero. Se si rivolgono a me esponendo le difficoltà rispondo, aiuto, ma se non lo fanno, non posso fare nulla. Comunque sia il momento che stiamo vivendo ora è nulla in confronto al passato, ai miliardi di persone che sono vissute prima di noi. Noi abbiamo un legame perché siamo qui in questo momento. Come italiani abbiamo pure un legame tra storia e vita attuale. Quello che noi sentiamo crea un legame, noi creiamo movimenti per la pace per la cultura. Tutto bello, ma noi dobbiamo ragionare su come agire nella vita quotidiana: coi vicini, il lavoro, i quartieri … Non sempre “contro qualcuno” ma “con qualcuno”. Chi arriva nella nostra comunità, sente il meccanismo dell’essere vicini e in più, sente l’importanza del legame, di aiutarsi l’uno con l’altro.
L’Italia è un paese difficile per il buddismo?
Fortunatamente è molto difficile, ma hanno delle necessità gli italiani, delle necessità differenti dagli altri Paesi, ed hanno molto cuore, sono umani.
Come vi siete posti con la strage dei monaci in Birmania, un martirio di pacifici e silenziosi uomini uccisi con una violenza tanto grande?
Ogni singola persona, in ogni singolo istante, vive sia una parte molto buona ma, al contempo, molto cattiva: bene e male sono due facce della stessa medaglia. Per noi buddisti questo punto di vista non è difficile da comprendere. Si parla di diritti umani. Ogni singola persona ha diritto.
E quindi come si spiega la diversità nel mondo?
Noi professiamo pace ed educazione. Attualmente c’è solo egoismo o egocentrismo. Non ci si preoccupa di nulla … domani mi candido, domani tolgo l’Imu … di fronte ad un guadagno immediato personale … non importa il peggioramento. Il buddismo parte sempre dalla comunità.
La vostra comunità è in crescita?
Si ma bisogna migliorare la qualità e la pratica. Se tu vuoi cambiare una società confusa non è sufficiente la quantità ma il come. Ognuno deve guardare se stesso.
Voi aiutate nel sociale?
Noi facciamo solo attività religiosa in Italia, all’estero si fanno anche altre cose. Nello specifico in Italia cerchiamo di combattere contro le armi nucleari. Abbiamo una università in California che non è una università “religiosa”. Il presidente Ikeda è stato insignito dall’ONU di un riconoscimento per la pace. Nei primi anni settanta ha riaperto il dialogo con Cina. La Soka Gakkai è anche intervenuta in aiuto alla popolazione della Cambogia.
Come vi ponete con le altre religioni, quali sono i punti di confronto?
Io non so, per cui prima devo sapere. Almeno cerco di ascoltare tutto quello che dice l’altra persona senza pregiudizi.
Con i cattolici che rapporto avete?
Cerchiamo di dialogare ma c’è qualche difficoltà.
Attuate dei progetti insieme?
Con la comunità di Sant’Egidio, abbiamo raccolto le firme per la moratoria sulla pena di morte.
Voi non vi occupate di politica?
No qui no, in Giappone sì: diciamo ai giovani di seguirla. La politica va intesa come interesse per le cose del Paese. Le singole persone devono interessarsi di tutto. La democrazia è una bella cosa, ma chiede impegno.
I giovani si possono aiutare?
I giovani d’oggi sono bravissimi. Io ho insegnato a scuola – 50 anni fa. Ogni anno gli studenti sono diversi. Dai 16 ai 22, 23 anni sono veramente in gamba. Hanno qualche cosa in più sono saggi anche se con poca esperienza. Ecco credo che tutte le credenze debbano aiutare i giovani.
E la donna?
La donna ha una sensibilità diversa nell’Occidente; cultura che forse nell’oriente è più sviluppata anche fra gli uomini. Qui si sono mantenute la storia e la tradizione. Nel buddismo non c’è differenza. È una domanda frequente questa che lei mi fa. Gli uomini seguono la famiglia: nonno padre nipote… le donne seguono la prosperità. Le donne hanno più forza. La loro vita è attaccata al quotidiano, educano i figli. L’educazione famigliare è fondamentale. Non intendo l’essere mammoni. Le donne hanno forza ovunque. Anche nella Soka Gakkai, sono le donne che portano avanti l’attività buddista, tranquille e costanti, gli uomini a volte la portano avanti solo per mettersi in mostra ma, per fortuna, il 60% dell’istituto è composto da donne.
Qual è il problema più grande oggi?
Egocentrismo, ognuno pensa per sé, per i suoi parenti ed amici. L’egoismo. L’ignoranza nel senso di non sforzarsi per conoscere di più. Sforzo considerato inutile. Chi domina la società vuole mantenere ignorante il popolo. Così dura di più … da sempre è così.
Questa migrazione dei popoli, questo mischiarsi può essere una chiave di salvezza per l’umanità?
Un aiuto sì, conoscersi di più scambiando le culture. Anche la tecnologia se usata bene è senz’altro positiva. Ma in molti casi non viene sfruttata correttamente, e l’essere umano rischia di diventarne solo schiavo. L’umanità deve prendere coscienza e ragionare. Le persone devono riappropriarsi dell’intelligenza.
La doppia chiave
Oggi è la volta di un fabbro vissuto ai tempi delle crociate. Oltre che di armi si occupava di cinture di castità per le mogli dei cavalieri che partivano in battaglia; il furbastro, però, si teneva una chiave di riserva e approfittava dell’assenza degli uomini durante le scorribande per minare la fedeltà delle coppie. Morale finale: “tra guerra e religione c’ha ragione il sesso”. Viene alla mente lo slogan hippy “Fate l’amore non fate la guerra”. Desidero però interpretare questo personaggio come fosse una metafora. Mentre gli strenui difensori delle religioni si scontrano e si ammazzano per far valere le proprie ragioni (già qui sarebbe da fermarsi a riflettere, ho usato il termine “ragioni” appositamente…), c’è chi si occupa del piacere e della felicità di chi resta fuori dalla battaglia. Mentre c’è chi si occupa a parole di difese e accuse su chi ha ragione o torto, c’è chi vive l’amore professato. Scrive Anthony de Mello: “ Un innamorato corteggiò invano una ragazza per molti mesi, soffrendo le pene atroci del rifiuto. Alla fine la sua amata cedette. “Vieni nel tal posto, alla tale ora”, gli disse. Nel tempo e nel luogo stabiliti l’innamorato si trovò finalmente seduto accanto all’amata. Allora s’infilò una mano in tasca e ne trasse un pacco di lettere d’amore che le aveva scritto durante i mesi passati. Erano lettere appassionate, che esprimevano la pena che provava e il suo ardente desiderio di sperimentare le delizie dell’amore e dell’unione. Egli iniziò a leggerle all’amata. Le ore passavano e lui continuava a leggere. Alla fine la donna disse: “Che razza di sciocco sei? Queste lettere parlano tutte di me e del desiderio che hai di me. Be, eccomi seduta accanto a te. E tu continui a leggere le tue stupide lettere”. “Eccomi seduto accanto a te”, disse Dio al suo devoto, e tu continui a riflettere su di me nella tua testa, a parlare di me con la tua lingua e a leggere di me nei tuoi libri. Quand’è che tacerai e mi assaporerai?”.
Ricapitolando a caso tra i miei antenati,
ce n’è uno che è vissuto al tempo dei crociati.
Fabbricava poi vendeva cinture di castità
era il garante tecnico della fedeltà.
E quando i cavalieri andavano a imbarcarsi in nave,
non sapevano che lui aveva la doppia chiave.
Mi ha insegnato che i costumi cambiano spesso
e che tra guerra e religione c’ha ragione il sesso.
Quell’uno sei tu
Solita passeggiata per i campi in compagnia di Mou. Ascolto un podacast di Uomini e profeti di Radiotre con Moni Ovadia che cita i “Racconti dei chassidim” di Martin Buber.
Rabbi Mosche Löb diceva: «Non esiste qualità o forza nell’uomo che sia stata creata inutilmente. E anche tutte le qualità, anche quelle basse e malvagie, possono essere sollevate al servizio di Dio. Così, per esempio, l’orgoglio: quando viene innalzato, si trasforma in nobile coraggio nelle vie di Dio. Ma a che scopo sarà stato creato l’ateismo? Anch’esso ha il suo innalzamento: nell’atto di pietà. Poiché quando uno viene da te e ti chiede aiuto, allora tu non devi raccomandargli di avere fiducia e rivolgere la sua pena a Dio. Ma devi agire come se Dio non ci fosse, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo: e quell’uno sei tu».
Musica dell’anima
Stamattina su fb una collega ha messo il link al video dell’ultima apparizione del Coro e Orchestra sinfonica nazionale greci dell’Ert, la televisione nazionale che ha chiuso le trasmissioni qualche giorno fa. Le immagini sono molto commoventi e mi hanno toccato nel profondo, anche perché proprio ieri, durante una delle mie passeggiate campestri in compagnia di Mou, ascoltavo un vecchio podcast di “Uomini e profeti”. Era ospite Moni Ovadia che commentava così l’esecuzione del Kol Nidre, il canto che apre la liturgia del Kippur ebraico:
“Io penso che il canto redima la parola dalla monotonia, dalla banalità, anche dall’arroganza. La parola è canto prima di essere significato; la sua prima istanza è il canto. Questo accomuna tutte le fedi. La capacità del canto, della musica, di toccare l’anima trascende anche le coordinate della religione; è un elemento che tocca l’essere umano nelle sua profondità e gli permette di trascendere il dato puramente materico al quale è legato con quasi una sorta di immediatezza. Ci sono dei canti e delle musiche che toccano tutti gli uomini, le coordinate spazio-temporali cadono, cade tutto questo. Portano all’intimità più intima, dove non ci sono le pietrificazioni, i pregiudizi, le idee precostituite. Dice Abraham JoshuaHeschel che il cantore deve perforare l’armatura dell’indifferenza. Non è la dimensione del bel canto, della bella voce: qualcuno, non ricordo chi, ha detto che si può cantare senza voce, senza anima no.”
Nei volti di musicisti e cantori greci ho visto tanta anima, un’anima che non si può lasciare senza il cibo che la alimenti e che alimenti l’anima di ciascuno. La mia collega, musicista, ha così commentato il video: “Mettere a tacere la Musica penso sia una delle azioni più avvilenti e svilenti per una nazione… e purtroppo anche la nostra sta vivendo la stessa tristissima realtà”. Vivo la musica da ascoltatore e mi emoziona tantissimo. Questo post vuole essere una carezza per chi la musica la crea e la vive sulla propria pelle.
2+2
Stamattina, in quinta, parlavamo dei fondamentalismi religiosi, dei rischi che comportano le religioni quando si fanno ideologie e le idee quando si fanno assolutismi. E abbiamo letto una breve citazione presa da 1984 di George Orwell provando a immaginare un fondamentalismo religioso al posto del termine Partito:
“Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna. Il senso comune costituiva l’eresia delle eresie. Ma la cosa terribile non era tanto il fatto che vi avrebbero uccisi se l’aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione loro. In fin dei conti come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo? … Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente”.
Tauran e il buddhismo
La sera dell’annuncio dell’elezione del nuovo papa, sul balcone centrale di piazza San Pietro è apparso per l’“Habemus papam” il cardinale francese Jean Louis Tauran. Il web ha immediatamente cominciato a ironizzare in modo anche feroce su di lui, sul suo intercalare incerto e sulle sue movenze particolari (dovuti al morbo di Parkinson). Il cardinale è il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso; rivolgendosi al mondo buddista in occasione dell’annuale festa di Vesakh ha affermato: «Il nostro autentico dialogo fraterno esige che noi buddisti e cristiani facciamo crescere ciò che abbiamo in comune, e specialmente il profondo rispetto per la vita che condividiamo». «L’amorevole gentilezza verso tutti gli esseri è la pietra angolare dell’etica buddista e l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono invece il centro dell’insegnamento morale di Gesù». Penso, ha continuato il porporato che «sia urgente creare, sia per i buddisti che per i cristiani, sulla base dell’autentico patrimonio delle nostre tradizioni religiose, un clima di pace per amare, difendere e promuovere la vita umana».
L’articolo da cui ho preso le parole è di Luca Rolandi e appare su Vatican Insider.
Fessure di dialogo
Stamattina si è tenuta, in piazza San Pietro l’udienza generale del papa. Subito dopo Bergoglio ha incontrato l’ambasciatore saudita in Italia Salh Mohammad Al Ghamdi, che ha consegnato al papa un messaggio del re Abdullah. Il giornalista Giacomo Galeazzi su Vatican Insider fa il punto della situazione sull’Arabia Saudita per quanto riguarda le libertà religiose e i diritti delle donne.
“Il Regno wahhabita continua ad essere indicato da tutti gli osservatori internazionali
come un «Paese di particolare preoccupazione» per la persistenza di violazioni gravi della libertà religiosa, nei fatti e nelle disposizioni legislative. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le dichiarazioni in cui responsabili sauditi hanno affermato la possibilità per i lavoratori non musulmani di celebrare il proprio culto in privato. Tuttavia, la nozione di “privato” rimane vaga. Il governo ha affermato che, finché le riunioni dei non musulmani avessero riguardato piccoli gruppi riuniti in case private, nessun organo della sicurezza sarebbe intervenuto. Questa posizione, sebbene ufficiale, viene comunque violata, dato che continuano a verificarsi casi in cui la polizia religiosa fa irruzione in abitazioni private in cui si svolgono simili riunioni di preghiera. Altro motivo di preoccupazione per i cristiani (come per tutti i non musulmani residenti nel Regno) è l’eccessivo lasso di tempo (settimane) necessario per l’espatrio delle salme di lavoratori stranieri deceduti. L’Arabia Saudita non autorizza la sepoltura nei propri territori di non musulmani e su tale questione ha richiamato l’attenzione una delegazione americana in visita nel Paese. Il rapporto Acs documenta diversi casi di arresto di fedeli cristiani; in alcuni casi, la notizia non sarebbe stata diffusa, per garantire il buon esito delle trattative per il loro rilascio che venivano stabilite tra governo saudita e il Paese di provenienza degli arrestati. Nel gennaio 2012, re Abdullah ha sollevato dall’incarico il capo della polizia religiosa Abdul-Aziz Humayen, sostituendolo con Abdul-Latif bin Abdul-Aziz Al Sheikh, appartenente alla famiglia degli Al Sheikh che guida l’establishment wahhabita. Non sono state fornite indicazioni sulle ragioni del cambio, anche se è utile segnalare che, nel 2009, il predecessore di Al Sheikh era stato scelto per riformare la polizia religiosa. Aveva assunto consulenti, incontrato gruppi per i diritti umani ed esperti d’immagine per migliorare la reputazione della polizia dopo episodi che avevano indignato l’opinione pubblica saudita. Gli agenti della polizia religiosa vegliano sull’applicazione delle leggi che regolano la sfera civile, religiosa e sessuale nel Paese. Tra i loro compiti c’è quello di verificare che i negozi siano chiusi durante la preghiera, fermare le coppie non sposate e le donne non coperte dalla testa ai piedi assicurandosi anche che esse non guidino automobili. Vita dura anche per gli sciiti e gli ismaeliti, così come per i blogger portatori di idee pseudo-rivoluzionarie.
Passo positivo l’istituzione per iniziativa del sovrano, in collaborazione con Austria e Spagna, di un Centro internazionale per il dialogo inter-religioso e inter-culturale. In Arabia Saudita per i cristiani non è possibile alcun culto pubblico. La situazione è particolarmente pesante soprattutto per l’altra metà del cielo. Muri divisori nei negozi per separare donne e uomini: è l’ultima forma di segregazione imposta nel regno saudita per “proteggere” commesse e clienti dagli sguardi maschili. La misura verrà applicata nei negozi in cui sono impiegati commessi di sesso diverso. Le barriere dovranno essere alte almeno 1,60 metri. Le donne possono lavorare solo in luoghi di sole donne oppure nella vendita di biancheria intima e cosmetici. Questi ultimi due settori di lavoro sono stati approvati nel giugno 2011, quando il governo impose che i commessi (in gran parte uomini di origine asiatica) fossero sostituiti con donne saudite. Un provvedimento che aprì 44mila nuove posizioni di lavoro per donne saudite (il tasso di inoccupazione femminile è del 36%, solo il 7% della popolazione occupata nel privato è composta da donne). Fu una decisione sollecitata dalle stesse saudite che si dicevano a disagio nell’acquistare biancheria intima e cosmetici dagli uomini. Ma l’arrivo di tante donne nei luoghi di lavoro misti – ad esempio i centri commerciali – aveva sollevato problemi diversi, non ultimi molti casi di molestie. La misura adottata per eliminare il problema è, come spesso è capitato nel Paese, drastica e orientata alla segregazione: i muri. Il cammino di emancipazione delle donne saudite è ancora allo stato embrionale. All’inizio dell’anno alle donne è stato permesso di partecipare al Consiglio consultiva della Shura, e 30 donne ne sono entrate a far parte – anche se per partecipare devono usare ingressi separati. Note ormai le campagne per il diritto di guida (soprattutto grazie alla popolare campagna di disobbedienza civile di Manal al Sharif divenuta popolare sui social network come #womentodrive), mentre il Regno del Golfo è uno dei pochi paesi al mondo che nega il suffragio universale. Le donne devono avere il permesso degli uomini per lavorare, viaggiare o aprire un conto corrente bancario.”
Nella pratica
Un articolo dello scorso 23 gennaio: me l’ero perso. E’ di Riccardo Bruno, l’ho preso dal Corriere.
“Il giovane parroco attende la fine dei versi del Corano. Poi si sfila le scarpe, sale sul tappeto accanto alla bara e inizia la sua preghiera. «Papà mi ha insegnato che esiste un solo Dio, che siamo tutti fratelli». È l’ultimo saluto del figlio ad Adel, arrivato dall’Egitto 34 anni fa. Alla periferia d’Italia, appena prima del confine svizzero, in un cortile tra due file di garage, si celebra un funerale insolito: il figlio Nur, che ha abbracciato la fede cattolica fino a farsi prete, tiene l’orazione funebre per il padre, musulmano osservante e fiero delle sue origini.
Mentre una trentina di arabi invocano «Allah Akbar», Allah è grande, attorno le famiglie
del posto si mescolano alla comunità islamica, e tra loro una decina di sacerdoti cattolici e due suore giunte da tutta la diocesi. «Vale più una giornata come questa che mille convegni sull’integrazione» osserva don Renato Sacco, di Pax Christi, animatore in provincia del dialogo tra le religioni. È stato lui a suggerire di tenere la cerimonia funebre all’aperto, perché il piccolo appartamento che ospita il centro culturale islamico avrebbe contenuto a malapena una decina di persone. Adel Nassar, il padre di don Nur, quando seppe che suo figlio avrebbe indossato l’abito talare non la prese bene. Ma subito dopo lo incoraggiò e lo aiutò. E sicuramente oggi sarebbe contento di vedere come è stato il suo addio alla vita. «Era il suo sogno vedere tutti uniti, musulmani e cattolici. Finalmente quel desiderio si è realizzato» osserva Ali Bouchbika, uno dei primi a credere nella comunità islamica in Val D’Ossola. Adesso sono più di 1.500, soprattutto marocchini, come lui, ma anche tunisini ed egiziani. Un po’ di diffidenza, qualche tensione, alcune battute di politici difficili da digerire, ma in fondo una convivenza pacifica, meglio che altrove.
Il futuro don Nur è cresciuto in questi cortili, sentendo i racconti del padre e dei parenti immigrati, e correndo nell’oratorio che frequentava la madre Ines, infermiera e impegnata nell’associazionismo cattolico. Una famiglia dalla fede profonda, anche se coniugata in due modi diversi. Sempre nel rispetto reciproco. Il frutto di tutto questo è lì, in quella immagine di un giovane prete che a stento trattiene le lacrime per il dolore del padre morto e che prima di tutto si preoccupa di ringraziare «il fratello Said e il fratello Mohammed, che ieri lo hanno lavato e profumato».
Il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, manda un messaggio che la comunità islamica apprezza: «La singolare esperienza del padre di don Nur, l’aver voluto bene alla moglie, di diversa religione, non solo gli ha permesso grande attenzione alla coscienza e al cammino degli altri, ma ha ricevuto altresì ammirazione per la rettitudine della sua fede e l’impegno nella sua comunità». Alle quattro della sera, la bara di mogano viene calata dentro la fossa, nel campo del cimitero che è stato da poco riservato ai non cattolici. Adel Nassir è il primo ad essere sepolto lì. Gli addetti del cimitero avanzano con il piccolo trattore per coprire di terra il feretro. Ma gli uomini della comunità islamica li fermano e afferrano le pale, preferiscono fare da soli. Quelli de posto li guardano, sorpresi. Ma presto, anche loro si uniscono.”
Globalizzazione e religioni
Un’intervista a Marta Margotti, autrice di “Religioni e secolarizzazioni. Ebraismo, cristianesimo e islam nel mondo globale”: l’ho presa da Vatican Insider.
Professoressa Margotti nel suo libro emerge il concetto di globalizzazione della religione. Come interpretare oggi questa realtà?
Non ci sono dubbi su questo aspetto: le religioni sono coinvolte potentemente nei processi di globalizzazione che stanno trasformando il mondo attuale. Anzi, a ben guardare, i fenomeni religiosi sono tra i fattori che alimentano costantemente i processi di integrazione planetaria degli stili di vita e delle identità individuali, ma favoriscono pure i contatti tra le culture, i mutamenti della vita politica e la definizione degli assetti economici. L’interdipendenza tra fenomeni che si svolgono in luoghi diversi, anche molto distanti tra loro, non è però un fatto recente. La globalizzazione dei fenomeni religiosi ha origini antiche: negli ultimi due secoli (e con maggiore intensità negli ultimi cinquant’anni) ha registrato un’ampiezza tale da toccare società e spazi geografici che in precedenza erano stati soltanto sfiorati dai processi di integrazione del mondo.
Quali sono le cause di questa “globalizzazione delle fedi”?
Le migrazioni di milioni di uomini e donne e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa sono tra i principali veicoli di trasmissione da una parte all’altra del globo di visioni del mondo diverse da quelle tradizionalmente presenti in un certo territorio. E questi fatti hanno avuto, tra le altre, due notevoli ricadute. Da una parte, si è assistito al radicamento di molte tradizioni religiose in luoghi diversi rispetto a quelli in cui sono storicamente sorte (basti pensare ai missionari cristiani nell’Estremo Oriente, alle comunità ebraiche nelle Americhe o alla nascita di comunità indù in Europa), con conseguenze notevoli nelle società di arrivo. Dall’altra parte, la globalizzazione ha prodotto forme variegate di “meticciato delle fedi”, con scambi di riti, di simboli e di credenze che hanno trasformato le singole tradizioni religiose, in maniera spesso rilevante.
Secolarizzazione e secolarismo: cosa rappresentano questi fenomeni nella società contemporanea?
L’allontanamento dalle tradizioni religiose ha assunto in epoca contemporanea una dimensione sconosciuta nei secoli precedenti, coinvolgendo strati consistenti delle società: il distacco dal sacro, proprio perché solitamente percepito come rottura degli equilibri ereditati dal passato, ha accompagnato negli ultimi due secoli la modernizzazione delle strutture sociali e delle mentalità collettive. Almeno dagli anni Settanta del Novecento, sono state però fortemente criticate le teorie di sociologi e filosofi che ritenevano l’“eclissi del sacro” l’esito inevitabile cui sarebbero approdate le società moderne: queste tesi erano spesso basate sull’osservazione delle società industriali europee e ipotizzavano implicitamente la diffusione su scala planetaria del modello occidentale di sviluppo. Non a caso, dopo la fine della guerra fredda, quella che è stata definita la “rivincita di Dio” sembra caratterizzare le più rilevanti dinamiche sociali e politiche a livello planetario. In realtà, le religioni non erano mai sparite di scena, ma dall’ultimo scorcio del Novecento hanno assunto un nuovo ruolo nello spazio pubblico, all’interno dei singoli Stati come a livello internazionale, tanto che è possibile definire l’epoca presente come un tempo “post-secolarizzato”. L’incertezza lasciata dalla caduta delle ideologie politiche, la precarietà provocata dalla globalizzazione economica e l’insicurezza prodotta dai progressi scientifici che sembrano slegati da qualsiasi limite etico hanno provocato quello che soltanto un’osservazione superficiale potrebbe giudicare un “ritorno al sacro”. La situazione è molto più complessa: non si è di fronte a un ritorno al passato e non si assiste tanto al riemergere di società “sacrali” o “teocratiche”. I nostri anni sono immersi nell’apparente paradosso della presenza, nello stesso momento e negli stessi luoghi, di fenomeni religiosi e di fenomeni di secolarizzazione che non si annullano, ma sono anzi così strettamente collegati tra loro da rendere difficile capire dove finisca l’influsso degli uni e inizino gli effetti degli altri.
I grandi monoteismi hanno spesso avuto rapporti contrastati con i valori della laicità. Quali sono le ragioni?
La laicità e la democrazia sono stati considerati, in passato e ancora oggi, punti problematici del confronto tra religioni e modernità. Storicamente, i principi democratici si sono spesso affermati scontrandosi con il pensiero religioso, mentre le istituzioni laiche si sono formate da movimenti di opposizione o, comunque, di emancipazione dalle istituzioni religiose. Questa considerazione generale non consente però di affermare un’inconciliabilità insanabile tra religioni – e religioni monoteistiche in particolare – e principi della laicità. La secolarizzazione rappresenta la fuoriuscita dall’universo religioso da parte dei singoli e delle istituzioni, ma provoca pure un processo di trasformazione religiosa, in quanto nel corso del tempo le fedi non sono mai rimaste uguali a se stesse: il loro cambiamento è stato provocato anche dalla diffusione a livello sociale di visioni secolari della realtà.
Come sono cambiate le religioni di fronte all’affermazione degli Stati laici?
La laicizzazione degli Stati è stata solitamente subita dalle istituzioni religiose che spesso hanno reagito con veemenza per contrastare l’autonomia rivendicata dalle autorità civili. In alcuni casi, dopo lunghi conflitti, le religioni hanno trovato un equilibrio, anche se instabile, con i poteri statali (per esempio, nei paesi occidentali). In altri contesti, è il caso di alcuni paesi di tradizione islamica, il contatto con la modernità politica ha provocato decise reazioni di rigetto dei principi della laicità. Quello che è comunemente definito “islamismo” è una reazione che è sia un’affermazione di un’identità culturale e politica che si richiama miticamente a un passato immutabile, sia una dichiarazione di rifiuto dell’Occidente e dei suoi valori. Vi è da chiedersi, però, quanto queste reazioni siano state generate dai risultati catastrofici del contatto che queste società hanno avuto con l’Occidente coloniale, come pure il frutto delle politiche impopolari e antidemocratiche condotte dalle élite locali laiche, socialiste e nazionaliste.
Le religioni possono contribuire allo sviluppo delle società democratiche?
Attualmente nessun gruppo sociale riesce a ricoprire ruoli totalizzanti, soprattutto nelle società democratiche. Le istituzioni religiose, quando si trovano ad agire in una situazione di pluralismo culturale, sono costrette a definire il proprio campo di azione, selezionando e migliorando la qualità del proprio intervento, ad esempio in campo sociale o dell’assistenza, ma anche nella ritualità e nella propria riflessione teologica. I gruppi religiosi sono portati, in conseguenza a questo, a ridefinire i propri ruoli e a reinventarsi una propria collocazione nella realtà, pur continuando ad affermare con forza i propri legami con il passato e la propria fedeltà alla tradizione. La secolarizzazione sembra aver spinto ai margini l’incidenza della fede nella vita collettiva, ma il pluralismo che caratterizza molte società contemporanee ha dato ai gruppi religiosi la possibilità di svolgere un ruolo centrale nella vita sociale, come pure nel campo politico. La capacità di esprimere valori comuni, di raccogliere consenso in strati diversi della popolazione e di diventare gruppi di pressione influenti anche sulle scelte di governi che pur rivendicano la propria laicità può rendere le istituzioni religiose soggetti centrali della vita democratica e, anzi, permettere una sua espansione. Oggi più che nel passato.
Cercavo taumaturghi erranti
Un articolo di quelli che raccontano di umanità altre, così distanti dalla nostra quotidianità. E’ di Monika Bulaj, l’originale è qui.
Ho incontrato la donna kamikaze un giorno di sole e di polvere, in un piccolo santuario,
oltre una piccola porta di legno, in una strada che non saprei ritrovare nel labirinto della vecchia Kabul. Mi si è avvicinata tra una folla di donne, accanto al sarcofago di un santo, una tomba di marmo coperta di tessuti con scritture dorate. Da quel momento non ho avuto pace, lei mi segue ancora nel pensiero. Non so se sia viva o morta. Le sfuggo e la cerco, mi spaventa e mi attrae. La ritrovo negli sguardi di tante donne in Afghanistan. Immagino la sua ombra magra, allucinata, sgomitare nelle strade intasate, infilarsi tra i carretti e il filo spinato, saltare sugli autobus in partenza infilandosi tra le porte appena socchiuse. È successo dopo mesi di viaggio dal confine dell’Iran a quello cinese sulle nevi del Pamir, un viaggio compiuto da sola, affidandomi al buon senso della gente del posto ed evitando con cura i luoghi pattugliati dai militari. Cercavo luoghi sacri, taumaturghi erranti, nomadi e storie di donne, e in quella porticina che dà sulla strada della vecchia Kabul vedo entrare donne, fagotti plissettati che vanno sotto il nome di burqa. La soglia è piccola, devo chinarmi, l’ambiente è soffocante ma si riempie di altri corpi ancora. Dentro è penombra ma fuori il sole è allo zenith, i muezzin chiamano alla preghiera di mezzogiorno. L’ora in cui Kabul respira di sollievo. L’incubo quotidiano è finito. Qui i kamikaze si fanno esplodere al mattino. Lo fanno per arrivare in paradiso all’ora di pranzo, in tempo per banchettare col Profeta. Sono vestita all’afgana, ho una veste lunga e nera, col velo che copre i capelli ma lascia libero l’ovale della faccia. Sotto ho il mio taccuino e la mia Leica. Non oso toccarli. Le donne mormorano preghiere, scoprono i volti bruciati dal sole d’alta quota, si tolgono il burqa, mostrano bellezza e sofferenza, si cercano, si toccano, liberano tra loro una complicità sensuale. Poi, dopo qualche minuto, una bambina col velo bianco, la divisa della scuola, mi nota, tocca il mio viso e si mette a piangere. «Perché piangi?» le chiedo in lingua dari. «Perché sei straniera e porti il velo, come noi». È allora che la diga si rompe, la voce corre, sono una cristiana che ama l’Islam, e tra le altre donne si innesca una reazione a catena fuori misura. Il mio corpo è già reliquia, vi strisciano contro, lo baciano, vi depongono caramelle e banconote per santificare qualcosa di loro e poi infilarsela nelle tasche o nei reggiseni. Cercano barakà, la benedizione, perché sono un’ospite e mi sono fidata. Piangono, asciugano le lacrime, si soffiano il naso nei burqa, mi infilano le dita inanellate nei capelli, mi sfiorano la guancia col dorso delle mani. Una di loro esige da me la grazia speciale di avere figli. Come in un sogno. Sono in ostaggio, ma non mi oppongo, mi affido. Sono in imbarazzo, ma sorrido. Tutto quello che ho cercato in mesi di lavoro mi piomba addosso all’improvviso. Dal ruolo di testimone invisibile a quello, non voluto, di protagonista al centro di un culto. “Volevi gli uomini di Dio? Guaritori erranti? Donne in estasi?” chiedo a me stessa quasi ad alta voce. “Eccoti accontentata…”. Credendo che io stia pregando le donne alzano le mani al cielo. Tra le tante che mi stanno addosso ce n’è una che non sorride né piange. Il suo velo è buttato senza cura sopra i capelli maltinti di hennè. Un corpo magro, le sopracciglia accentuate da un segno maldestro di kajal. Cerco di sottrarmi al suo contatto fisico. Ma lei mi stringe verso il muro, come per isolarmi dalle altre e si sbottona il vestito per mostrarmi qualcosa. Mi aspetto una ferita, e invece vedo il suo corpo magro impacchettato in una maglia di cilindri verticali legati da fili elettrici. Non capisco, forse non voglio capire. Penso alle armi di un agente segreto, all’autodifesa di una donna più emancipata. Ma le cose che ha intorno alla pancia non sono pistole, è dinamite. Sembra un’insegnante delle elementari invecchiata troppo presto. Quanti anni avrà: trenta? Cinquanta? Da dove viene? Dove sta andando? Perché mostra proprio a me la sua macchina di morte? Fingo di non aver capito. Le chiedo: «Dove sono i tuoi figli?». Il modo con cui volta la testa mi gela. Vuol dire che non ne ha più. Forse sono morti. Smetto di chiedere. Le domande si fermano sulle labbra. Ho paura, guardo altrove. Dico a mia volta:«Man se farzand daram », ho tre figli maschi. È la frase che meglio mi protegge in questo Paese. Il mio mantra, il mio lasciapassare, il mio elmetto in kevlar, la mia personale guardia del corpo. La donna che fa figli maschi qui è una donna vera, rispettata. Nella valle di Khost, durante un matrimonio, mi hanno quasi festeggiata per questo. Ora la pelle della donna è sudata, pallida, gli occhi sono folli, stanchi, freddi, asciutti. Sento il suo gomito ossuto, i muscoli duri delle cosce. La guerra ha portato a questo. La morte è un affare fiorente in Afghanistan. La carne umana è in vendita, diventa arma che si fa esplodere. Stragi a opera di kamikaze. Rapimenti di bambini e di adulti sospettati di avere risparmi. Omicidi su richiesta. «Duemila dollari – mi hanno detto amici afgani – sono la tariffa per uccidere qualcuno, e tutti sanno come trovare un sicario». Anche i kamikaze fanno lo stesso, per comprare la casa alla famiglia o saldare un debito. Economia di guerra, non martirio. Sento ogni fibra del mio corpo e ho la certezza incosciente che non accadrà nulla. Eppure temo che le parole possano svegliare qualcosa, far tremare la corda di un nervo, spezzare il filo della sua follia. Così cerco di esprimere uno sguardo indifferente per sorvolare la sua faccia piatta piena di rughe, le mezzelune nere delle unghie, la cintura sfatta della borsetta, l’odore del sapone e l’acido del suo respiro. Intorno le altre donne non si sono accorte di nulla. Continuano a ignorare il santo per guardare me, affascinate, piangendo. Esco a fatica. Lei mi segue, mi aderisce come un’ombra. Fuori, una barriera di burqa in nylon con macchie di respiro all’altezza delle labbra. Anche queste mi stringono. «Guardatela- dice una di loro – una issawì che ama l’Islam! Una haredzì che ama l’Afghanistan!». Issawi vuol dire “seguace di Issa”, il Cristo. Haredzi significa straniero. Ecco, io sono questo per loro. Infedele e straniera, eppure ho una faccia, odore, occhi, voce. Sono occidentale, eppure non sono chiusa in un blindato, non sto dietro il mirino di un mitra. Mi allontano senza salutare, come per dire “non c’ entro”, “non c’ero”. Non dico nemmeno “Khoda Hafez”, che Dio si ricordi di te, l’arrivederci degli afgani. Ma lei mi segue. Cammino lentamente per comunicare una tranquillità che non ho, lo faccio con passi lunghi, per seminarla. Ne esce una camminata abnorme. Scherzo con venditori ambulanti, mi infilo nella folla senza voltarmi e senza fretta apparente, per non far vedere che la mia è una fuga. Passo davanti agli ultimi Sikh della città che, con dadi e conchiglie, predicono il futuro alle musulmane al riparo di grandi ombrelli. Stavolta mi giro, lei non c’è. E Kabul ridiventa reale, con la sua puzza di fogna, le grida dei bambini di strada che danno manate sui blindati che passano come sul culo degli asini, il ronzio degli elicotteri d’assalto che volano così bassi che il soffio delle loro eliche spaventa i pappagalli verdi sugli eucalipti. Kabul, con i carillon dei gelatai ambulanti che strillano Per Elisa e Jingle Bells, vittoria sui divieti talebani contro la musica. Cerco di mimetizzarmi nel passo disinvolto delle donne afgane, un linguaggio mimetico del corpo che ho imparato ad assumere in fretta, anche per la mia incolumità. Ma stavolta la paura si è insinuata in me senza che me ne rendessi conto, è già diventata riflesso fisiologico. Bagnerò il mio letto quella notte, e da allora non riuscirò a dormire che a brevi intervalli. Ora riconosco i luoghi. Torno d’ istinto nel quartiere dei musicisti, dove ho il mio dentista privato. Un santuario con chiodi magici piantati sullo stipite della porta, ogni chiodo guarisce un dente. Poi trovo un barbiere con una foresta di capelli abramitica che mi invita a bere un tè e mi svela allegramente di avere interpretato Osama Bin Laden in un film. L’Afghanistanè così, dalla tragedia alla farsa nel giro di un’ora. Non so più dove ho fatto quel terribile incontro. Il mio sentimento per quella donna è un grumo fatto di pietà, condanna e paura. So che se la denunciassi non mi crederebbero, oppure partirebbe una rappresaglia di sangue. Sparisce l’ultimo raggio porpora sulle cime immacolate dell’Hindukush. Le luci tenui nelle case d’argilla si accendono sui colli che ora paiono il presepe di Betlemme. Un asino porta in salita una donna incinta con un’ombra accanto. Pare quella di Giuseppe, il falegname. E intanto la donna imbottita d’esplosivo, da qualche parte, si toglie la “cintura del martirio”, come la chiamano gli estremisti dell’Islam, e srotola per terra la trapunta colorata nella sua casa senza figli. Ma non dorme.
Tra diritto e religioni
A fine gennaio è uscito il libro “La libertà religiosa in Italia. Un percorso incompiuto” di Alessandro Ferrari. Oggi ho trovato su Vatican Insider questa intervista di Luca Rolandi. Argomento? Diritto, libertà religiosa, laicità dello stato, pluralismo religioso.
“Nel racconto del suo saggio si evince come le problematiche del passato riemergano intatte nella società plurale.
Sì, ciò che rende affascinante la storia del diritto di libertà religiosa e, in particolare, il confronto con la storia della libertà religiosa in Italia è proprio questo costante incontro, nel tempo presente, tra passato e futuro, tra i paradigmi che hanno forgiato i caratteri più distintivi di un modello e le forze che, nel corso del tempo, si sono aggiunte, sedimentate sulle vecchie costruzioni giuridiche costringendole a rispondere a nuove domande, a fronteggiare nuove rivendicazioni e portandole, così, a trasformarsi. Nata per rispondere alle esigenze di giustizia di individui e gruppi minoritari ma normalmente appartenenti alla storia ed alla tradizione del Paese (ebrei e valdesi in particolare), il diritto di libertà religiosa si pone oggi anche in Italia come garante di un “pluralismo culturale e confessionale” che la globalizzazione ha reso quantomai variegato. Accanto alla “classica” presenza cattolica convivono, infatti, esperienze religiose ormai definitivamente trapiantate in Europa (si pensi all’islam, al buddhismo, all’hinduismo), gruppi religiosi “europei” trasmigrati dai loro contesti originari (gli ortodossi), galassie cristiane in continua ridefinizione (gli evangelici), non più “nuovi” movimenti religiosi e movimenti non confessionali ma atei ed agnostici anch’essi portatori di un’identità ancorata al diritto di libertà religiosa e di coscienza. In un quadro così complesso il diritto di libertà religiosa si pone, dunque, come strumento di libertà per i singoli e gruppi, come cartina tornasole di una democrazia costituzionale matura ed efficiente capace di assicurare a tutti – e, dunque, anche alle religioni ed ai “gruppi filosofici” secondo le rispettive specificità- la piena partecipazione alla vita pubblica, alla costruzione della “casa comune”.
Il libro di storia e di diritto. Per quale pubblico?
Per chi voglia approfondire un cammino ricco e affascinante, fatto di grandi traguardi, di ingegnosi e coraggiosi accomodamenti ma anche di battute d’arresto e salite affannose. La storia offre il contesto all’esperienza giuridica, alla decisione politica e determina l’angolo prospettico da cui guardare alla libertà religiosa. Quest’ultima, infatti, vive da sempre un movimento, per così dire, pendolare, ora esprimendo con più decisione una vocazione “personalistica”, di protezione pluralistica delle coscienze religiose individuali e collettive ora risentendo maggiormente, invece, di una impostazione più “statocentrica” e, dunque, funzionale alle esigenze – e alle paure – delle maggioranze rivelando, così, un volto preoccupato e spesso ripiegato. E’ proprio quest’ultimo volto che è emerso con più evidenza nell’ultimo decennio, segnato da un confronto con l’islam che tanto ha influito nel ridefinire il volto del diritto della libertà religiosa europea ed italiana e nel rimettere in discussione il cammino di concretizzazione del diritto di libertà religiosa così come delineato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra.
Lei parla di paradigma cattolico, che cosa intende con questo concetto ‘L’Italia, è una Nazione-Stato più che uno Stato-Nazione’?
La coesione civile è stata affidata più alla condivisione di una cultura – e di una religione – comuni che al ruolo espressamente attribuito alle istituzioni politiche, ai circuiti classici della decisione politica. Si tratta di una realtà che ogni giorno risalta con evidenza. L’essere Nazione-Stato ha i suoi pregi (uno stato tendenzialmente “modesto” e non monopolista del dibattito sociale e delle identità civiche) ma anche i suoi limiti, in particolare quando le sfide del pluralismo esigono proprio dalla politica risposte chiare in ordine alla protezione ed alla concretizzazione dei diritti posti alla base del patto costituzionale. Il modello italiano di libertà religiosa, inoltre, si è costruito in relazione alla Chiesa cattolica e, dunque, confrontandosi con una presenza istituzionale del tutto peculiare. Ora, questo modello, di cui nel libro cerco di illustrare i caratteri di confessionalità, bilateralità e tendenza all’accomodamento gerarchico, deve armonizzarsi con un principio di laicità che, pur nato proprio dall’incontro tra Costituzione e cattolicesimo, viene declinato come principio giuridico quale garanzia di un pluralismo ad ampio spettro. Pluralismo la cui piena e necessaria metabolizzazione richiede coraggio non solo da parte delle pubbliche autorità ma anche della stessa Chiesa cattolica.
Le sfide del futuro. Pluralismo religioso e culturale. Quale libertà religiosa per il XXI secolo per dare compimento ad un percorso interrotto?
Il cammino si riprenderà riattribuendo al diritto di libertà religiosa la centralità che gli è stata assegnata dalla Costituzione e dalla Corte costituzionale nel momento in cui ha individuato proprio nella laicità un principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Si tratta, innanzitutto, di riappropriarsi del significato “autentico” di una laicità costituzionale troppo spesso condizionata dai due “opposti estremi” della laicità “anticlericale” e della cosiddetta sana laicità. Rimettere al centro il diritto di libertà religiosa equivale, in realtà, in un’epoca così drammaticamente condizionata da gravi problematiche economiche, ricordarsi della centralità della persona, con le sue profonde esigenze identitarie che nell’età dei “diritti sostanziali” interpellano con urgenza tutta la società. Si tratta, dunque, di una libertà “costosa”, come tutti i diritti, ma il cui prezzo rappresenta una garanzia basilare di pace e convivenza civile. Continuare a dimenticarlo (quando il parlamento italiano si deciderà a dotare il nostro Paese di una legislazione organica in materia superando quel che resta della normativa sui “culti ammessi” del 1929-1930?) ha, in realtà, costi ancora più alti.
La gioia di buddhisti e induisti
Prendo dal Corriere della Sera un interessante articolo di Fabrizio Caccia: offre molti spunti di riflessione e discussione. Argomento? Dal 1 febbraio entrano in vigore le intese dello stato italiano con l’Unione Buddhista e con l’Unione Induista.
“C’è fermento tra i cinesi buddisti di Roma: la Grande Pagoda di via dell’Omo –
seminascosta tra i magazzini di scarpe e vestiti, vicino al Raccordo Anulare – finalmente è pronta, il 31 marzo verrà inaugurata, ma grazie all’intesa tra lo Stato Italiano e l’Unione Buddista, che entrerà in vigore tra due giorni, il tempio sarà riconosciuto da subito «luogo di culto». E non sarà il solo. Venerdì primo febbraio, data storica. «Celebreremo la vittoria della laicità dello Stato, il trionfo della democrazia», annuncia soddisfatto l’avvocato Franco Di Maria, presidente dell’Unione Induista Italiana, che già pensa in grande: «Capito il significato? Potrà nascere una tv induista in Italia, potremo costruire templi, aprire scuole e università teologiche – dice l’avvocato Di Maria, un goriziano che si convertì all’induismo 30 anni fa – Quest’intesa rappresenta un vero aiuto all’integrazione». Per buddisti e induisti d’Italia – tra i primi Sabina Guzzanti e Roberto Baggio, tra i secondi il chitarrista Paolo Tofani – in effetti, rappresenta un gran giorno. Dopo un lungo iter più volte interrotto, l’11 dicembre scorso il Parlamento ha approvato in via definitiva le intese con Ubi e Uii. Mai, finora, il Parlamento italiano aveva approvato accordi con confessioni non cristiane, con l’eccezione, nel 1989, delle Comunità ebraiche e, nel luglio scorso, con i Mormoni. Una scelta compiuta, dunque, nel rispetto del principio sancito dall’articolo 8 della Costituzione, quello che garantisce la libertà di tutte le religioni, purché i loro statuti non entrino in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano.
L’intesa che entra in vigore il primo febbraio comporterà il riconoscimento per i ministri di culto, i luoghi e le festività religiose. E non solo: il diritto a scegliere procedure particolari per la sepoltura e ad avere aree riservate nei cimiteri. Ma soprattutto la possibilità di accedere all’8 per mille del gettito fiscale come le altre religioni riconosciute, la cattolica, la valdese, l’ebraica. «Il nostro obiettivo, però, non sarà affatto quello di riempirci le tasche con l’8 per mille e la suddivisione dei resti, che comunque ci verranno elargiti solo a partire dal 2016 – chiarisce Maria Angela Falà, vicepresidente dell’Unione Buddista Italiana – Quello che ci interessa realmente è che i nostri monaci, in quanto riconosciuti ministri di culto, potranno finalmente assistere spiritualmente i fedeli negli ospedali, nelle case di riposo o in carcere. E le salme dei nostri cari potranno ricevere, ove possibile, il trattamento previsto dalla nostra religione. Sono diritti importantissimi, che per la prima volta ci vediamo assegnati».
Novità in vista, dunque, per tanta gente. Perché le comunità buddista e induista sono una realtà in crescita nel nostro Paese e non solo per effetto dei flussi migratori. I praticanti buddisti italiani sono 80 mila, a questi se ne aggiungono altri 20 mila più saltuari, oltre ai circa 30 mila «nativi» provenienti dall’Asia. E gli induisti in Italia sono più di 135 mila: oltre 119 mila immigrati (dati Caritas) ai quali vanno aggiunti circa 15 mila italiani convertiti. «Cosa cambierà? La nostra festa Vesak, per esempio, l’ultimo weekend di maggio, riconosciuta festa religiosa dalle Nazioni Unite fin dal 2000, ora avrà lo stesso valore anche qui», dice la vicepresidente dell’Unione Buddhista, Maria Angela Falà. «E così pure la nostra Festa della Luce, che arriva con la Luna Nuova di autunno, tra ottobre e novembre, varrà finalmente come festività sul calendario. Perciò, gli operai e gli impiegati di religione induista non dovranno più chiedere il permesso ai loro capi per partecipare», ribadisce il presidente dell’Uii, Di Maria.
C’è grande eccitazione, adesso, nei vari centri buddisti sparsi per la penisola: le comunità sono in festa ad Arcidosso (dove sorge «Merigar», il piccolo Tibet ai piedi dell’Amiata, sede ogni anno di affollati raduni) come a Pomaia, nel pisano, il centro che fa capo al Dalai Lama, dove medita abitualmente il presidente dell’Ubi, Raffaello Longo. E insieme ci si prepara degnamente al Losar, l’inizio del nuovo anno, l’11 febbraio prossimo. Ma attesa e felicità sono sentimenti riscontrabili in queste ore anche ad Altare, nel savonese, dove sorge il primo tempio induista costruito in Italia, nonché uno dei più grandi d’Europa, dedicato alla «Divina Madre Sri Lalita Tripura Sundari» dal monaco Svami Yogananda Giri, al secolo Paolo Valle, uno dei firmatari del patto storico di Montecitorio. «E buona strada a tutti», come dicono loro.”




