Sferlazza, per una memoria (e un’etica) collettiva

Fonte immagine: Le pietre raccontano

Il 14 e 17 luglio, nella sezione Atlante di Treccani, è apparsa un’intervista in due parti a Ottavio Sferlazza, ex procuratore della Repubblica di Palmi. Il lavoro porta la firma di Francesco Alì e lo riporto integralmente.

A ridosso dell’anniversario della strage di via D’Amelio, in cui il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina), Atlante avvia un percorso fatto di incontri con professionalità ed esperienze che, da angolazioni diverse, hanno dedicato gran parte della loro vita alla responsabile ricerca di legalità, giustizia e democrazia. Attraverso le inchieste, le analisi e i ricordi delle personalità che incontreremo vogliamo offrire un contributo alla comprensione del periodo delle stragi e del fenomeno mafioso, così da dare ai cittadini e soprattutto alle nuove generazioni, ragioni e motivazioni per sostenere la necessità e la convenienza di affrancarsi dalle mafie, che ostacolano crescita, sviluppo, libertà e democrazia in tutto il Paese.
Cominciamo questo cammino in compagnia di un magistrato sempre in prima linea, tra Sicilia e Calabria, che porta, con sé (e per gli altri), una grande dote di esperienza professionale e umana accumulata in anni di inchieste, nelle collaborazioni con i giudici che hanno scritto la storia dell’antimafia, nelle storie, anche tragiche, che ha vissuto. È animato da un grande impegno sociale all’insegna della promozione della cultura della democrazia, della Costituzione e della memoria come antidoto per contrastare qualunque forma di illegalità. Si tratta di Ottavio Sferlazza, ex procuratore della Repubblica di Palmi. In precedenza è stato presidente della corte di assise di Caltanissetta e, poi, presidente della sezione GIP-GUP (Giudice per l’Udienza Preliminare) presso lo stesso tribunale; è entrato in magistratura nel 1977. Come sostituto procuratore presso la Procura di Caltanissetta ha diretto le indagini per l’omicidio del giudice Rosario Livatino ed ha sostenuto l’accusa in giudizio contro gli esecutori materiali. Ha presieduto la corte di assise che ha giudicato mandanti ed esecutori materiali della strage di via Pipitone Federico in cui rimase ucciso il consigliere istruttore Rocco Chinnici e dell’omicidio del presidente della corte di assise di Palermo Antonino Saetta e del figlio Stefano. Ha presieduto la corte di assise di Caltanissetta nel dibattimento per la strage di Capaci fino alla astensione, a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incompatibilità alle funzioni giudicanti per il giudice che si sia occupato della stessa vicenda processuale quale componente del tribunale del riesame. Dagli anni Novanta si dedica ad incontri formativi nelle scuole. In pensione dal 2020, attualmente è presidente del comitato etico di Libera.

31 anni fa le stragi di Capaci e di via D’Amelio: il 23 maggio, gli omicidi di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e, qualche mese più tardi, il 19 luglio, quelli di Borsellino e degli agenti della scorta. Di cosa si occupava in quel periodo? Avete avuto forme di collaborazione?

Ottavio Sferlazza

Ho incontrato Falcone in occasione di incontri di studio o seminari. L’ho sentito intorno al 1982 quando svolgevo le funzioni di giudice istruttore penale presso il tribunale di Trapani per chiedergli notizie su un indiziato mafioso (ancora poco noto) di cui mi stavo occupando, attingendo al suo immenso patrimonio conoscitivo. Ricevetti utili indicazioni sulla personalità, sul suo circuito relazionale e sui legami operativi con personaggi di spicco di Cosa Nostra.
Ho conosciuto Borsellino nel 1978; frequentavo l’ufficio istruzione di Palermo quale uditore giudiziario e Paolo fu mio affidatario. Ricordo la sua straordinaria umanità, il rigore morale e l’elevato spessore professionale. Mi è stato maestro di vita oltre che di diritto. Il suo ricordo è indissolubilmente legato a quello di un altro grande magistrato, Rocco Chinnici; il primo giorno in cui iniziai il tirocinio Paolo mi accompagnò nella stanza del Consigliere Istruttore per presentarmelo come capo di quell’ufficio. Il destino mi ha riservato l’onore e l’onere di presiedere, 22 anni dopo, la prima Corte di Assise di Caltanissetta che ha giudicato mandanti ed esecutori materiali della strage in cui rimase ucciso Chinnici, leggendo il dispositivo della sentenza e redigendone integralmente la motivazione. L’ultima volta che vidi Paolo Borsellino fu alla camera ardente di fronte ai feretri delle vittime della strage di Capaci. Ci stringemmo in un forte abbraccio.  

Un attentato feroce e vigliacco che ha scosso le istituzioni, l’opinione pubblica, il mondo intero. Eravamo già a pezzi il 23 maggio quando, il 19 luglio, arrivò l’altra tragedia. Tutto questo ha inciso su di lei, sulla sua attività di magistrato e sul suo impegno sociale? Ha mai pensato che fosse tutto inutile?

Ogni anno per me e per i magistrati della mia generazione, queste giornate della memoria, troppe, costituiscono una occasione di forte coinvolgimento emotivo perché la lunghissima scia di sangue che ha accompagnato la nostra carriera ha segnato, inevitabilmente, la nostra vita professionale e personale, avendo contribuito a far maturare sempre più in noi la forte determinazione di onorare, con il quotidiano impegno in difesa della legalità e della democrazia, la memoria di quanti hanno sacrificato la loro vita per difendere questi valori. Ho sempre nutrito una fede incrollabile nel primato della legalità, della giustizia e dell’etica pubblica come presupposti indefettibili di un autentico sistema democratico di diritto. Ai giovani, con i quali ho avuto spesso l’onore di confrontarmi nelle scuole, rivolgo sempre l’augurio e l’invito a vivere da uomini liberi, con la consapevolezza che solo la legalità assicura la democrazia che si conquista e si difende giorno per giorno, anche attraverso una diffusa e costante intransigenza morale nei confronti del potere e il rifiuto dei privilegi. Credo che a Falcone, Borsellino e alle altre vittime del dovere, ci legherà sempre un debito di riconoscenza per avere contribuito con il loro sacrificio alla definitiva acquisizione alla coscienza collettiva della consapevolezza della insufficienza della sola risposta giudiziaria come rimedio risolutivo ed esclusivo del problema del fenomeno mafioso e della necessità, invece, di una crescita culturale della società civile.
La enormità stessa della violenza ha prodotto incrinature profonde nel consenso di cui la mafia ha goduto e gode tuttora. Tanto da smentire le disperate e rassegnate parole proferite in un momento di sconforto perfino da Antonino Caponnetto mentre in via D’Amelio, salendo in macchina e stringendo paternamente con le sue mani quella del giornalista che teneva il microfono diceva: «È finito tutto, è finito tutto». Di quelle parole Caponnetto ebbe quasi a scusarsi qualche tempo dopo ammettendo che «aver ceduto a questo momento di debolezza fu un errore enorme». Per questo sono profondamente convinto che il loro sacrificio non è stato vano e che il patrimonio valoriale che ci hanno lasciato ha contribuito a rafforzare la nostra democrazia e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Si ricordano nel modo giusto Falcone e Borsellino? Teme che possano essere dimenticati? Cosa bisognerebbe fare per conservarne la memoria nel modo corretto?

Il fenomeno nuovo e più rilevante che si è prodotto dopo le stragi è costituito dalla consapevolezza, ormai acquisita alla coscienza collettiva, che non è possibile contrastare efficacemente una sanguinaria e pericolosissima criminalità organizzata, come la mafia e la ’ndrangheta, senza il coinvolgimento e la mobilitazione della società civile. Da molti anni, pertanto, non riesco a sottrarmi a quello che ormai considero un vero e proprio impegno morale, una forma di ‘militanza politica’ in difesa della dimensione etica della legalità: andare nelle scuole per incontrare gli studenti, non per fare una lezione, ma per una testimonianza ed una parola di speranza nella prospettiva di contribuire alla crescita culturale e politica delle giovani generazioni. In questa prospettiva desidero sottolineare l’importanza della ‘memoria’ che non deve essere solo un momento rievocativo o commemorativo, ma un modo per riscattare storicamente e moralmente quel processo di rimozione collettiva del fenomeno mafioso, ma anche di altri fenomeni, come la shoah, che ci rende tutti colpevoli.

Cose di Cosa nostra, il libro intervista di Marcelle Padovani a Falcone, si chiude con quest’ultima frase del magistrato: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

Come è noto Giovanni Falcone era un profondo conoscitore del fenomeno mafioso e delle dinamiche, sociali ed istituzionali, che storicamente ne hanno caratterizzano lo sviluppo e le modalità operative. La consapevolezza che spesso la delegittimazione precede l’eliminazione fisica di servitori dello Stato determinati e fedeli alla Costituzione lo indusse a parlare di «menti raffinatissime» all’indomani del fallito attentato dell’Addaura di cui, non dimentichiamolo, fu accusato, o comunque sospettato, addirittura di essere l’ispiratore e l’organizzatore per accrescere la propria immagine di magistrato simbolo.

Proseguiamo il nostro confronto con l’ex procuratore, Ottavio Sferlazza, sui temi della giustizia, partendo da due fatti. Da una parte, Falcone lamentava: «Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami…  sotto il fuoco incrociato di amici e nemici, anche all’interno della magistratura». Dall’altra parte, i giudici del processo per il depistaggio sulle indagini della strage che uccise il giudice Borsellino e i cinque agenti della scorta, nelle «motivazioni della sentenza del processo a carico di tre poliziotti», scrivono, come riportato dall’Adnkronos, che: «Non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa» del giudice. «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa Nostra che si aggirano in mezzo alle forze dell’ordine». I giudici così desumono «l’appartenenza istituzionale di chi sottrasse materialmente l’agenda. Solo chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel contesto e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre». Proseguono i giudici: «un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire il movente dell’eccidio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per ‘alterare’ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage». L’Adnkronos sottolinea che: «I giudici di Caltanissetta, nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni», hanno parlato anche della «presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage». Quanto alla sparizione dell’agenda rossa, affermano che: «Non sono emersi nuovi elementi. E bacchettano alcuni testimoni che consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni rese dai protagonisti della vicenda». Infine, secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, «si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale».

Allora, che cos’è la giustizia?

Non ho mai parlato pubblicamente della vicenda processuale relativa alla scomparsa della ‘agenda rossa’ per il doveroso riserbo derivante dal fatto che me ne sono occupato come giudice delle indagini preliminari presso il tribunale di Caltanissetta. Posso solo dire che, come è noto, rigettai la richiesta di archiviazione e dopo avere ordinato nuove indagini, formulai la cosiddetta imputazione coatta nei confronti di un ufficiale dei carabinieri. In questa sede non voglio aggiungere nulla a quello che ho scritto nei provvedimenti redatti in quella fase processuale se non che, a mio avviso, il quadro probatorio acquisito giustificava ampiamente la celebrazione del dibattimento a carico dell’imputato in omaggio alla funzione dell’udienza preliminare con particolare riferimento, secondo il costante insegnamento della Corte di Cassazione, alla ipotesi in cui il quadro probatorio sia suscettibile di evoluzione, essendo inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui gli elementi di prova acquisiti a carico dell’imputato si prestino a valutazioni alternative, aperte o, comunque, tali da poter essere diversamente valutate in dibattimento anche alla luce delle future acquisizioni probatorie. Il quadro probatorio era certamente foriero di ulteriori sviluppi ed evoluzioni anche alla luce delle contraddizioni emerse non solo tra le dichiarazioni rese dai testi escussi, ma anche all’interno di alcune di esse. Sottolineo, inoltre, la gravità del fatto che si sia messa in dubbio la presenza dell’agenda nella borsa di Borsellino avuto riguardo alle incontrovertibili dichiarazioni dei familiari».   

La lezione di Falcone e Borsellino, il loro esempio, in che modo possono essere utili per i magistrati e in che modo questi ultimi possono esercitare il loro ruolo fuori dai palazzi di giustizia?

La presenza dei magistrati nelle scuole, per contribuire alla diffusione della cultura della legalità, è importante in una prospettiva di crescita della società civile. Non si tratta certo di sostituirsi ai docenti, ma di contribuire ad esercitare la memoria, a respingere tentativi di negazionismo e per favorire un autentico processo di conoscenza di certi fenomeni che deve diventare a sua volta coscienza critica per contrastare, quotidianamente e culturalmente, il fenomeno mafioso.

Sconfiggeremo mai le mafie?

Sul punto rimane una pietra miliare l’opinione di Falcone sulla evoluzione del fenomeno mafioso destinato ad avere una fine. C’è ancora molto da fare sul piano del contrasto culturale, ma sono profondamente convinto della necessità di onorare quello che considero il testamento spirituale di Borsellino: «Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo». Ritengo che la scuola sia l’unico laboratorio culturale che può concretamente incoraggiare la ricostruzione, la conservazione e la promozione di questa memoria collettiva; che possa favorire in ciascuno di noi la scelta irreversibile in favore di valori e principi in nome dei quali tanti servitori dello Stato e cittadini comuni hanno sacrificato la loro vita e, quindi, la consapevolezza di poter contribuire, ciascuno con il proprio quotidiano impegno in difesa della legalità, alla costruzione di una nuova etica collettiva e pubblica.”

In ricordo di Fratel Biagio

Riporto il caldo saluto che don Agostino Petriciello rivolge oggi, sulle pagine di Avvenire, a fatel Biagio Conte, scomparso a Palermo in questi giorni a causa di una malattia.

“Fratel Biagio è morto? No, questa è una menzogna. Fratel Biagio è vivo, più vivo che mai, adesso che è volato via da questo mondo. Lo incontrai, ci incontrammo. Insieme ci calammo nelle acque pure del Vangelo e della preghiera per tentare di dissetare l’arsura che ci portiamo dentro. Quel giorno, come sempre, avevo pregato: «Manda, Signore, un angelo sul mio cammino». E l’angelo, ancora una volta, arrivò. Aveva un volto pulito, incorniciato da una barba incolta che gli dava l’aspetto di un antico patriarca; un sorriso largo, sereno, leggero. E degli occhi stupendamente verdi. «Come sono belli gli angeli», pensai. E mi misi alla tua scuola. L’angelo non va ostacolato, ma ascoltato, seguito. Quante volte ero stato ad Assisi? Quante volte avevo desiderato di poter essere stato contemporaneo di Francesco? Quante volte avevo sostato e sognato davanti al suo saio, ormai quasi ridotto in polvere? Un giorno lo incontrai sul mio cammino, Francesco. Si chiamava Riccardo. Chiedeva la carità di un passaggio in auto. Incuriosito, mi fermai. Mi riportò alla fede. Poi, come un’aquila alla quale va stretto il nido, volò verso un Paese da cui tanti fratelli scappano. A servire un popolo che tanti potenti affliggono. A farsi povero per loro e con loro. Oggi lo vedo poco. La Tanzania è lontana. Rimane l’affetto, la riconoscenza, la collaborazione, la nostalgia. Il desiderio e il bisogno di essere scandalizzato ancora dalla radicalità dei coraggiosi.
E arrivasti tu, Biagio. A ricordare a me, alla Chiesa, al mondo, che l’amore vero non conosce le mezze misure; che gli innamorati sanno osare, rischiare, mettersi in gioco, sfidare il destino. Sempre eccessivi, sempre presenti. Sei stato un ingordo, frate. Hai affollato quella schiera di uomini e donne che non si accontenta mai. Che guarda continuamente oltre l’orizzonte. Che non ha paura di niente, nemmeno del peccato. Che non si ferma nemmeno davanti all’evidenza. Milioni di persone muoiono di fame. Avresti voluto sfamarle tutte, ma non ti era possibile. Non ti sei arreso. Hai dato da mangiare ai poveri di Palermo. Confidando in Dio. Fidandoti della Provvidenza. Ai poveri di pane si aggiunsero i poveri di cuore, i poveri di spirito, i poveri di vita. Non ti sei scagliato con rabbia contro i rapinatori dei forni altrui, li hai cercati, li hai trovati, li hai aiutati a non perdere la speranza, la dignità, la fede. Sei stato, Biagio, un calcio negli stinchi per tanti tiepidi come me.
Il Francesco di Assisi siciliano del nostro tempo. Com’è bella la nostra santa madre Chiesa, frate. Questa grande famiglia dove c’è posto per tutti, santi e peccatori e peccatori trasformati in santi. Così simili, così diversi, così normali, così strani, così originali. Sei volato via a pochi giorni di distanza da papa Benedetto. Le differenze tra te e lui, tra la tua vita e la sua, saltano agli occhi. Eppure quanto vi somigliate. Con strumenti diversi e diverse voci, insieme avete cantato la serenata a chi vi aveva rapito il cuore. Che state facendo, adesso? Quale inenarrabile Mistero stanno contemplando i vostri occhi? Biagio, Benedetto, fratelli di tutti, pregate per noi.
Alla Sicilia, cui la mafia stupida e assassina, ha fatto tanto male, ha strappato tante vite, il Signore ha voluto regalare un uomo buono, semplice, spoglio, indifeso, ricco della sua sola povertà. Un uomo con le braccia larghe, lo sguardo lungo, il cuore senza confini. Non hai disprezzato niente dei doni che Dio ha dato agli uomini. Hai voluto condividerli con i poveri. In fondo – permettimi – sei stato lo scaltro del vangelo. Hai capito che la gioia non viene dal possesso e dal potere, ma dal servizio che si rende alle persone, soprattutto quelle che sanno gioire per le piccole cose. Quanto pane hai spezzato agli affamati? « Entra, benedetto dal Padre». A quanti ignudi hai offerto un mantello e un tetto perché non morissero di freddo e di vergogna? « Entra, benedetto dal Padre» Fratel Biagio, Pino Puglisi, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Doni immensi della Sicilia del nostro tempo alla Chiesa e al mondo. Prega per noi, frate. Continua ad essere l’angelo che ognuno desidera incontrare. Grazie per averci ricordato che «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». Ottienici il dono della perseveranza, perché, come te, non ci stanchiamo di fare sempre e solamente il bene.”

La morte di Benedetto XVI

Scrivo oggi, quindi non è più una notizia. Da mesi non guardo la TV (l’antenna non funziona e l’interesse per ripararla è molto basso) e mi informo tramite podcast e versione web dei giornali. Il tempo è poco, quindi non ho letto molto. Sono rimasto colpito per i tanti titoli acchiappa clic, i clickbait, e le tante esternazioni scomposte e sguaiate. Allora ho deciso di raccogliere qui, in unico post, due articoli (non divulgativi) di Avvenire e il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco alle esequie di ieri.

L’eloquenza delle mani
di Pierangelo Sequeri
Non è il fantasma di un grande teologo che rimane sospeso sul nostro capo, quasi per prendersi la rivincita su di noi, come ha sospirato qualche incauto commentatore (magari di alto bordo ecclesiastico, ma di piccola statura ecclesiale). È la bianca figura di un grande teologo donato al ministero petrino, quella che rimane. Un ministero che il teologo Joseph Ratzinger ha personalmente onorato in favore della Chiesa per tutto il tempo della consegna ricevuta dal Signore. E che ha personalmente restituito alla Chiesa, nel tempo in cui il Signore l’ha ispirato a riconsegnarlo per il bene della Chiesa.
Misteriosa la consegna, non meno misterioso il congedo: lo Spirito di Dio sa quello che fa. Oseremo noi intrometterci, nella nostra sentenziosa estraneità, nel rapporto speciale fra il Signore e Pietro, che in ogni Papa si rinnova? Ora, «l’umile servitore della vigna del Signore» ha consegnato anche il suo spirito. E proprio di qui, giustamente, il papa Francesco, ha invitato ad aprire il cuore di tutti, nella meditazione evangelica e nella preghiera riconoscente. Come il Signore, la vita di quest’uomo di Dio fu «un continuo consegnarsi nelle mani del Padre». Non ci sono retroscena da evocare, più incisivi di questo. Non ci sono paragoni da eccitare, più pregnanti di questo.
«Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore». Questo è forse il passaggio più commovente – e commosso – dell’intensa omelia di Francesco nella Messa esequiale in piazza San Pietro.
L’immagine-chiave è quella delle mani. Francesco cita l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Messa crismale del 2006, iscrivendo nell’immagine delle mani il suo speciale legame con il Signore: «Tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue». L’eloquenza delle mani di Benedetto XVI è di dominio pubblico. Il suo modo di aprire e stringere le dita, con le braccia protese davanti a sé, così teneramente infantile, rimarrà nei nostri occhi. E chi l’ha conosciuto da vicino riconosce nella sua personale stretta di mano, che stringeva senza stringere, un delicato passaggio di benedizione e di rispetto, più che un saluto.
La benedizione della mano era il tocco leggero della dedizione del cuore. « Fecondità invisibile e inafferrabile – prosegue Francesco, citando 2Tim 1,12 – che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia». La dedizione, che mai si inorgoglisce del dono, rifiuta di requisirlo come privilegio personale e di convertirlo in prebenda clientelare. Una simile limpidezza interiore del cuore, unita al tratto di uno spirito gentile – commenta Francesco – espone alla stanchezza dell’intercessione, al logoramento dell’unzione: mette alla prova di una bontà che deve lottare con la malizia, e di una fraternità ferita dalla mancanza di dignità. La prova non fu risparmiata al Signore. Non verrà risparmiata ai suoi Discepoli. Pietro per primo. Il Signore provvede, generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e affidarsi al di là delle incomprensioni.
E lo Spirito della ricerca appassionata e della gioiosa bellezza del Vangelo, ispira ogni volta la decisione opportuna, procura ogni volta la consolazione necessaria. Dovremo congedarci il più rapidamente possibile dall’aneddotica delle immagini di scena e delle indiscrezioni di retroscena. E incominciare a leggere e a rileggere il prodigioso lascito di testi nei quali il teologo Joseph Ratzinger ha finemente cesellato, in favore della fede e della testimonianza, la sapienza nella quale egli ha saputo filtrare come illuminazione e restituire in benedizione la sua lotta con l’Angelo. La profondità e la potenza della sua passione per l’intelligenza che orienta la fede ha occupato interamente anche il ministero del pontefice Benedetto XVI.
È questa la speciale qualità della sua eredità, destinata a durare nel tempo, come il tesoro dello scriba che si fa discepolo del regno di Dio: dal quale trarre con grata ammirazione cose antiche e cose nuove (Mt 13, 52). « Deus caritas est», ha scritto papa Benedetto. « L’amore non si perde», ha concluso papa Francesco. Nostro, rimane il lieto compito di essere «profumo della gratitudine e unguento della speranza», che conferma la preziosa eredità ricevuta. E così sia, « Benedetto, fedele amico dello Sposo».

Omelia di Papa Francesco
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro – potremmo dire –, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli. Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso (Gv 20,27), e lo dice ad ognuno di noi: “Guarda le mie mani”. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso (cfr 1 Gv 4,16). [1]
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio (cfr Is 29,16) il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù (cfr Fil 2,5). Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”. [2] È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo, corpo che si offre per voi (cfr Lc 22,19). La synkatabasis totale di Dio.
Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare (cfr 1 Pt 1,6-7) e l’invito fiducioso a pascere il gregge (cfr Gv 21,17). Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità (cfr Eb 5,7-9). In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia (cfr 2 Tim 1,12). Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio (cfr Gv 21,18): «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza». [3]
E anche dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate 57), nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre (cfr Lc 1,54-55).
Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr Mt 25,6-7).
San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato. [4] È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”.
Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!
[1] Cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1.
[2] Cfr Id., Omelia nella Messa Crismale, 13 aprile 2006.
[3] Id., Omelia nella Messa di inizio del pontificato, 24 aprile 2005.
[4] Cfr ibid.

Libertà, scienza, ragione «debole»: Ratzinger al cuore del secolarismo
di Vittorio Possenti
Con la scomparsa di Benedetto XVI idee e ricordi emergono dallo scrigno della memoria, evocando il lungo dialogo (a distanza e talvolta di persona), iniziato prima del 1980, che ebbi con il cardinale Joseph Ratzinger. Sul piano teologico e sapienziale Benedetto è stato un grande Maestro di scrittura e di parola, il cui insegnamento nella comunicazione della fede non tramonterà. Oggi sento la responsabilità di condensare in breve spazio un discorso immenso concernente il lascito teologico e intellettuale del Papa emerito: quale eredità per la Chiesa che verrà!
Uno dei massimi compiti di Ratzinger fu di porre costantemente in dialogo fede e ragione perché si riconoscessero e potessero compiere almeno in parte un cammino comune. È la prospettiva dell’enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II (1998) e preparata da una commissione presieduta da Ratzinger stesso. La Fides et ratio sembra oggi, dopo qualche attenzione iniziale, un documento dimenticato. La restrizione della ragione umana entro i limiti dello scientismo e del libertismo, e gli eccessi della ragione debole hanno contribuito a metterla da parte.
In merito, ficcanti sono le diagnosi di Ratzinger a Subiaco (1° aprile 2005), in cui egli descrive acutamente la cultura illuminista: «Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha finalmente completa coscienza di sé stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi come compiuta in sé stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso altri fattori culturali». È come se tale cultura dicesse: abbiamo la ragione, la scienza e la tecnica dalla nostra e questo costituisce il massimo, né vi è bisogno di altri apporti. Ratzinger solleva poi la questione se le «moderne filosofie illuministe, complessivamente considerate, si possano ritenere l’ultima parola della ragione comune a tutti gli uomini. Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che alla fine Dio non può avere in esse alcun posto. Esse sono basate su una autolimitazione della ragione positiva, che è adeguata all’ambito tecnico, ma che, laddove viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo».
La quaestio de veritate, coniugare fede e ragione in modo che entrambe dialoghino e si innalzino, fu segno distintivo della teologia di Ratzinger, dove non ha parte la ratio a una sola dimensione che soffoca lo slancio naturale della mente verso il vero, nel cui ambito rientrava per lui, come per Paolo VI e Giovanni Paolo II, la verità sull’uomo. Il primo annunciava l’hominem integrum e l’altro racchiudeva in una nitida formula la missione della Chiesa: «La verità che dobbiamo all’uomo è soprattutto una verità sull’uomo».
Nel campo teologico-politico, in una solida vasta consapevolezza del ruolo globale della Chiesa universale, fu primario per Ratzinger-Benedetto XVI il Problema Europa cui dedicò un’attenzione partecipe e critica, ben avvertendo la crisi spirituale e la devastazione della secolarizzazione. Molti grandi discorsi di Benedetto (Parigi, Londra, Berlino, Ratisbona, etc.) toccano questi nuclei, in cui emergono i temi dei diritti e doveri umani e della libertà. I diritti sono finalizzati solo alla libertà di scelta dell’io isolato e non inserito entro la società? Esistono diritti primari che non siano diritti di libertà? Il discorso di Subiaco, ma anche quello all’Onu (2008), hanno richiamato l’indebita preminenza dei soli diritti di libertà nelle culture illuministiche: «Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta in dubbio proprio questo canone».
La concezione libertaria o libertista dei diritti ha impregnato profondamente di sé la cultura e i popoli occidentali, sino al punto che capi di Stato auspicano che il diritto all’aborto sia scritto a chiare lettere nella Carta europea. Se così dovesse accadere, il tradimento della Dichiarazione universale del 1948 sarebbe alle porte: l’occidentalismo libertario sta mettendo a serio rischio il tessuto stesso di tale Dichiarazione.
La questione da sollevare una volta di più non riguarda se occorra ampliare o restringere l’area della libertà, tema che rimane generico, ma come educare a un’idea di libertà più vera e ricca di quella che ne vede l’unica manifestazione nell’autodeterminazione e nel servizio alla libertà del singolo, che nega o comprime le relazioni sociali e il riconoscimento dell’altro. Ciò porta a lasciare da parte il compito dell’edificazione morale dell’uomo e del cittadino.
Ratzinger solleva la questione se le moderne filosofie antropocentriche e succubi del mito del progresso non abbiano perso il senso del limite umano, che in civiltà diverse da quella occidentale è invece rimasto come monito contro l’hybris. Negli antichi vi era reverentia e non superbia verso il divino, e si era consapevoli della propria finitudine. Oggi è diverso: l’ala marciante del pensiero occidentale profondamente secolaristico ha messo da parte il principio di realtà e procede guidato dalla volontà di potenza. Vuole costruire l’uomo nuovo non più con la rivoluzione politica ma con quella tecnologica. Non siamo perciò usciti dall’antropocentrismo moderno, che anzi si prolunga nella postmodernità in maniera estesa e con nuovi miti.
Chi offendiamo menzionando Dio anche in pubblico? Il secolarismo europeo accampa l’assunto che offenderemmo gli appartenenti alle altre religioni. Ratzinger osserva: «non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio». La lezione teologico-politica di Benedetto XVI sulla presenza dei cristiani nella società secolarizzata punta sulla necessità di minoranze creative o profetiche. Il suo sguardo va, oltre che ai cristiani, verso i fedeli della religione ebraica. Si esprime in un invito discreto all’ebraismo, alle sue minoranze creative, a cooperare affinché la luce divina non scompaia dalla storia universale e il mondo non entri nel buio della mancanza di senso. Su questo nucleo è importante il suo Discorso alla Sinagoga di Roma, durante la visita del 17 gennaio del 2010. «Come insegna Mosè nello Shemà e Gesù riafferma nel Vangelo, tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi… Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza». Il Papa si trovò in sintonia con il grande Rabbino di Londra Jonathan Sacks che, ponendo il problema della famiglia in dissoluzione, osservava con forza che gli europei sono troppo egoisti per avere figli, e che tale egoismo stava uccidendo l’Europa secolarizzata. La decostruzione della famiglia all’insegna del libertismo e del ricorso manipolante alle tecnologie è tuttora una piaga aperta.
Nel testamento spirituale del 29 agosto 2006, reso noto alla morte del Papa emerito, Benedetto si rivolge al popolo di Dio, esortando a rimanere saldi nella fede, a non farsi confondere da discorsi provenienti dalle scienze naturali e dalle scienze storiche che sembrano in contrasto con la fede ma che poi esse stesse abbandonano, lasciando viva la pretesa di ragionevolezza della fede. Benedetto, invitando a non perdere l’orizzonte secondo cui Cristo è la via, la verità, la vita, ricordava una bella frase di Tertulliano: «Cristo non ha detto di essere l’abitudine, bensì la verità».

Mandi Pierluigi

In alcune classi, talvolta, faccio un gioco che si chiama testa, cuore e mano. Lo utilizzo per cercare di comprendere che l’intelligenza di una persona può essere molteplice e avere molti luoghi di residenza, e che ciascuno di noi può coltivare molti talenti e che alla domanda “dimmi un po’, tu cosa sei capace di fare?” ci sono tante belle risposte da poter dare e che “so ascoltare”, “so amare”, “so ricamare”, “so zappare”, “so costruire ponti”, “so insegnare”, “so leggere” ecc ecc sono risposte bellissime. Ecco, ogni volta che faccio quel gioco mi vieni in mente Pierluigi. Mi viene in mente la testa: quando ancora andavo al Liceo a inizi anni ‘90 e a bordo di una sgangherata auto, in compagnia di altri amici, raggiungevo Zugliano per ascoltare persone che arrivavano da tutto il mondo e il convegno non era ancora il convegno che è diventato poi (penso la prima volta in vita mia in cui abbia sentito ‘benvenuta e benvenuto a ciascuna e ciascuno di voi’, un doppio saluto che suonava strano allora). Mi viene in mente il cuore: quello capace di generare forza e durezza con i potenti (coloro che hanno in mano le leve), sensibilità e ascolto con il mio cuore addolorato di una grigia domenica mattina dopo messa nella tua sacrestia. Mi viene in mente la mano: quella capace di creare un luogo di accoglienza, di relazioni, di impegno. Ti sono profondamente debitore don Pierluigi e, nel dolore, ho il cuore colmo di gioia per tutte le esperienze che mi hai fatto vivere e le persone che mi hai fatto conoscere, per quanto mi hai fatto crescere, per la speranza che sempre ti ha animato e che spinge chiunque abbia incrociato il tuo cammino a continuare l’impegno per l’accoglienza, la giustizia e la pace. Mandi Pierluigi

Dare la vita

Fonte Pangea

Lunedì 14 marzo, nella sua rubrica settimanale sul Corriere della Sera, Alessandro D’Avenia, partendo da alcuni scritti dello scrittore ucraino Vasilij Semënovič Grossman conduce una riflessione che parla sì di guerra, in particolare della II guerra mondiale (e col pensiero ovviamente all’attuale conflitto), ma soprattutto di vita e dell’importanza di generare vita.

«Lavorando al libro negli ultimi dieci anni ho pensato a te costantemente. Il mio romanzo è dedicato al mio amore per il popolo. Questa è la ragione per cui è dedicato a te. Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani».
Queste parole dello scrittore ucraino Vasilij Grossman, in cui si riferisce al suo capolavoro «Vita e destino», sono tratte da una lettera scritta alla madre nel 1961, benché fosse morta vent’anni prima. Le scrisse infatti due lettere, una a 10 e una a 20 anni dalla morte, cercando di elaborare un lutto impossibile: di lei non era rimasto nulla, neanche la tomba.
Le sue parole mi sono tornate in mente vedendo l’immagine di una madre con in braccio un bambino in fuga da Kiev o quella della madre incinta, ferita e scampata al bombardamento dell’ospedale di Mariupol in cui era ricoverata per l’imminente parto.
In sua madre Grossman vede l’umanità intera. Il suo non è un ricordo sentimentale: cronista dell’assedio di Stalingrado e delle imprese dell’Armata rossa contro Hitler, aderì con convinzione al progetto imperialistico sovietico di Stalin, lo stesso rievocato da Putin. Ma quando, nel 1944, tornò nella sua città natale, Berdicev, in Ucraina, scoprì che la madre era stata uccisa dai nazisti insieme ad altri trentamila ebrei, con la collaborazione di molti ucraini in cui covava la stessa violenza.
L’evento e poi l’orrore che vide nella Russia stalinista incrinarono la sua fede politica: aveva capito che nazismo e comunismo erano figli della stessa volontà di potenza e ciò che salva l’umanità non sono le «ideologie del bene» ma «i buoni». Lo narra in ogni pagina di Vita e destino, il capolavoro dedicato proprio alla madre che, sequestrato dalla polizia sovietica, fu preservato dall’amico fisico Andrej Sacharov nei microfilm dei suoi esperimenti di laboratorio e portato fuori dai confini sovietici: uscì in Svizzera nel 1980, in Italia nel 1984, quando l’autore era morto in disgrazia ormai da vent’anni.
Nella prima delle due lettere alla madre Grossman scrive: «Carissima Mamma, sono venuto a sapere della tua morte nell’inverno del 1944. Sono arrivato a Berdicev, sono entrato nella casa dove avevi vissuto e ho capito che eri morta. Eppure già dal settembre 1941 sentivo nel mio cuore che te ne eri andata. Mentre ero al fronte, una volta ho fatto un sogno: entravo in una stanza, che sapevo essere tua, e vedevo una poltrona vuota. Sono stato a lungo a osservare la poltrona vuota e quando mi sono svegliato sapevo che eri morta. Non conoscevo la terribile morte che avevi patito. Ne venni a conoscenza dopo aver chiesto a quelli che sapevano del massacro avvenuto il 15 settembre 1941. Ho provato a immaginare il tuo assassinio centinaia di volte e il modo in cui sei andata incontro alla tua fine. Ho provato a immaginare l’uomo che ti ha uccisa. E stata l’ultima persona che ti ha vista viva. So che hai pensato a me per tutto il tempo… Oggi ti penso proprio come se fossi viva, come quando ci siamo visti per l’ultima volta e come quando da piccolo ti ascoltavo mentre leggevi ad alta voce. E sento che il mio amore per te e questa terribile agonia sono ancora oggi uguali e rimarranno con me fino alla fine dei miei giorni».
Le due lettere sono state trovate dai biografi di Grossman (John e Carol Garrard, Le ossa di Berdicev) nel fascicolo a lui dedicato negli archivi del KGB, con la foto di corpi gettati in una fossa comune scattata dopo la fucilazione. Vita e destino è un tributo alla madre. Indimenticabile il capitolo in cui immagina che il suo alter ego narrativo, Viktor Strum, riceva l’ultima lettera proprio da sua madre, non a caso ebrea mandata nel ghetto di Berdicev come quella di Grossman e consapevole della fine ormai vicina: «Sento piangere delle donne, per strada, sento i poliziotti che imprecano; guardo queste pagine e mi sento in salvo da questo mondo tremendo e pieno di dolore. Come posso finire questa lettera? Dove troverò le forze, figlio mio? Ci sono forse parole d’uomo in grado di esprimere il mio amore per te? Ti bacio, bacio i tuoi occhi, la tua fronte, i capelli. Ricordati che l’amore di tua madre è sempre con te, nella gioia e nel dolore, e che nessuno potrà mai portartelo via. Viktor, mio caro… È l’ultima riga dell’ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre».
L’amore della madre fu per Grossman la salvezza nell’orrore e il cuore del suo capolavoro: che cosa salva l’uomo? Che cosa gli consente di avere vita e non soccombere al destino? Non trovò la risposta in nessuna filosofia, religione, morale o fede politica, ma nell’esempio materno, a lei infatti Grossman scrive così nella seconda lettera-anniversario: «Piango sulle tue lettere perché in esse vedo la tua bontà, la purezza del tuo cuore, il tuo destino terribile e amaro, la tua onestà e generosità, il tuo amore per me, la tua attenzione nei confronti del prossimo e la tua stupenda intelligenza. Non ho timore di nulla, perché il tuo amore è con me e perché il mio amore rimarrà con te per sempre». La parola «per sempre» chiude sia la lettera immaginaria della madre a lui nel romanzo sia la lettera vera di lui alla madre nell’anniversario della morte. Un per sempre reso possibile solo dall’indistruttibile amore materno, come Grossman, benché non credente, scrisse nel 1955 nel suo racconto più bello, La Madonna Sistina (consiglio di leggerlo in queste ore), in cui, guardando il famoso quadro di Raffaello della Madonna con in braccio il bambino, custodito a Dresda, ricorda le donne che ha visto proteggere i figli nell’orrore della guerra, madri che restarono madri, pronte a «ri-dare» la vita, e così scopre ciò che salva l’uomo e preserva la vita dal destino: «La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni: sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta… E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo. Che vivrà in eterno, e vincerà».
L’umano nell’uomo, per Grossman, è la Madre con il Bambino in braccio. Quando noi maschi riusciamo a guarire dall’oscuro fascino della guerra, maschera ultima del potere con cui cerchiamo un po’ di consistenza per il nostro piccolo io che cerca di esistere un po’ di più? Quando scopriamo che a dare consistenza all’io non è il potere ma l’amore, che amore è privarsi volontariamente del potere senza rinunciare per questo alla forza, una forza che serve a difendere e confortare e non a sottomettere, e questo lo possiamo imparare dalle madri che sanno «dare la vita», «mettere al mondo», «dare alla luce», ma non usano questa possibilità per affermare se stesse attraverso l’altro ma per affermare nell’altro l’unicità che hanno trovato in se stesse, come Grossman scrive in righe di Vita e destino che non dimenticherò mai: «La vita diventa felicità, libertà, valore supremo solo quando l’uomo esiste come un mondo che mai potrà ripetersi nell’infinità del tempo. Solo quando riconosce negli altri ciò che ha già colto dentro di sé l’uomo assapora la gioia della libertà e della bontà».
Dare la vita è il compito a cui siamo chiamati tutti, indipendentemente dal generare biologicamente: questo è ciò che Grossman mi ha insegnato e questo è ciò che lui aveva imparato da sua madre.

Gemma n° 1755

“Ho deciso di portare il Diario di Anna Frank perché l’ho letto in terza media e sono rimasta molto colpita dal modo in cui scriveva: aveva la mia età ed ha espresso cose molto profonde e piene di significato. L’ho letto durante la quarantena e mi ha molto aiutato quand’ero triste. L’ho portato anche per un altro motivo: alcune persone dicono che quei momenti siano da dimenticare, oppure vadano tolti dalla storia o addirittura non siano mai esistiti. Penso ciò sia molto brutto e non vorrei proprio che potesse accadere di nuovo il verificarsi di tali eventi. Ricordare questa ragazza che ha passato due anni in un rifugio senza poter uscire e soltanto guardando il cielo da uno spiraglio della sua finestra penso sia importante. Il libro mi è piaciuto molto e mi ha colpito profondamente”.

I. (classe seconda) ha illustrato così la sua gemma. Mi piace stendere qui uno dei passaggi secondo me più belli e “difficili” da mettere in pratica: “Semplicemente non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte. Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone; ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità”.

La figura di Adriana Zarri

Su Settimana News ho recuperato un articolo di Giannino Piana (pubblicato sulla rivista Il gallo) sulla figura di Adriana Zarri, che nel mese di aprile avrebbe compiuto 100 anni.

“Il mondo interiore di Adriana Zarri, una vera mistica del nostro tempo, non è facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità (È più facile che un cammello… Gribaudi, Torino 1975; Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978; Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, Assisi 1981; Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011; Quasi una preghiera, Einaudi, Torino 2012) – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua.
La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno a un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti, dagli uomini agli animali al mondo vegetale, aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa (Cf. Con quella luna negli occhi, Einaudi, Torino 2014). È sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto.

Ad avvalorare questa visione vi è poi il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia l’originalità di Adriana: la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero (e profondo) coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio.
La spiritualità di Adriana coinvolge dunque – come si è accennato – la realtà in tutte le sue dimensioni. Il profumo dei campi nelle diverse stagioni, il colore variegato dei fiori, il fruscio delle fronde e il verso degli animali e, soprattutto, le vicende degli uomini, quelle dei poveri in particolare, segnano l’incontro con un Dio che è dentro la storia: il Dio che si è definitivamente manifestato nella persona di Gesù di Nazaret. Ma l’aspetto che contraddistingue, in modo speciale, il suo approccio, e che la avvicina alla spiritualità francescana, è l’accento posto sull’importanza che ha avuto, nel «farsi carne» (sarx) del Figlio di Dio, la dimensione «spaziale», e non solo «temporale»; il «divenire natura», e non solo storia.
Il creato, in tutta la ricchezza delle sue espressioni, assume il carattere di habitat (spazio opportuno) che, rapportandosi al kairòs (tempo opportuno), conferisce alla dimensione contemplativa un orizzonte cosmico. L’esperienza di Dio nel mondo fa della vita quotidiana, nella molteplicità delle sue espressioni, non solo la sorgente, ma anche la modalità secondo la quale vivere la relazione con il divino. Vi è dunque una profonda continuità tra vita spirituale e vita quotidiana, perché il Dio della rivelazione è – come ci ricorda la lettera ai Filippesi da Adriana spesso citata – colui che in Gesù Cristo «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» e «facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8).
Dio e mondo sono dunque per Adriana in un rapporto di circolarità: da un lato, la immagine del Dio cristiano non può prescindere dalla sua relazione con il mondo di cui è entrato a far parte; dall’altro, il mondo è da questa relazione riscattato; diviene anticipazione del Regno. Questa visione della realtà, che sollecita l’impegno nel presente e l’attesa del futuro, ha per Adriana una perfetta esplicitazione nella preghiera del Padre nostro, dove alla richiesta del pane quotidiano («Dacci oggi il nostro pane quotidiano») corrisponde l’invocazione del compiersi del Regno («Venga il tuo Regno») e dell’adempimento della volontà del Padre («Sia fatta la tua volontà») (Mt 6, 9-13).

La dinamica relazionale, che è l’asse portante della spiritualità di Adriana, ha poi nel mistero trinitario le sue radici. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, che Gesù di Nazaret ha reso trasparente nella sua persona e attraverso la sua azione, è il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio nel quale la relazione coincide con la stessa natura: le persone che costituiscono il mistero divino sono in quanto si rapportano tra loro.
La definizione che di Dio fornisce la prima lettera di Giovanni: «Dio è carità» (1Gv 4,8) ha qui la sua più profonda motivazione. Trinità e carità sono strettamente correlate e interdipendenti. Solo di un Dio che vive in comunione di persone è infatti possibile dire che è Amore (e non semplicemente che ha l’amore), perché l’amore implica la relazione tra persone, che si costituiscono nel reciproco donarsi. In un libro di preghiere (o di quasi preghiere) che reca significativamente il titolo Tu (Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, Torino 1973), Adriana si rivolge a Dio come a Qualcuno cui è possibile dare del tu, giungendo a livelli di intimità che ricordano le grandi esperienze mistiche – da maestro Eckhart a Giovanni della Croce e a Teresa d’Avila – alle quali spesso Adriana fa riferimento nei suoi scritti.
L’incontro profondo, ma sempre inevitabilmente limitato, con il tu divino – la conoscenza di Dio è quaggiù parziale («per speculum et in aenigmate») – è la molla che spinge Adriana ad accostarsi alla morte, che ella considera una componente essenziale della vita – il contatto con la natura cui è stata abituata fin dall’infanzia facilitava la consapevolezza di questa continuità – come al passaggio da questa vita alla vita nuova, nella quale diviene finalmente possibile entrare in una relazione «faccia a faccia» con il Signore, che consente di conoscerlo come egli è («sicuti est»).

La spiritualità di Adriana non si esaurisce tuttavia nella sola adesione ai presupposti fondativi ricordati; si rende concreta in una serie di attitudini esistenziali, due delle quali meritano di essere particolarmente ricordate.
La prima è l’ascolto. Le religioni del Libro sono religioni dell’ascolto: «Ascolta Israele» è l’invito che, fin dall’inizio, Dio rivolge al suo popolo. Ma l’ascolto – Adriana lo mette bene in evidenza – non si esaurisce (e non può esaurirsi) in un semplice sentire; esige un ridimensionamento dell’io per fare spazio all’accoglienza dell’altro e alla comprensione del suo messaggio. Esige la creazione di un clima di silenzio e la disponibilità a fare propria la povertà evangelica, che è insieme sobrietà nei confronti delle cose e apertura fiduciale alla grazia divina. La scoperta del mondo degli altri e dell’Altro è legata all’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità, quale frutto di una profonda trasformazione interiore, una vera metanoia.
Una seconda attitudine, particolarmente cara ad Adriana, è la ricettività, che considera un habitus esistenziale in stretta sintonia con il vissuto femminile. Destinata a essere custode della vita, la donna ha sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di tale attitudine, la quale, lungi dall’identificarsi con la passività, è l’espressione (forse) più alta di attività, in quanto esige, per potersi esplicare, un processo di interiorizzazione, che consenta di riconoscere l’altro nella sua alterità, senza proiezioni mistificatorie. D’altra parte, la ricettività non è soltanto una virtù umana, per quanto grande; è anche – a questo va soprattutto ricondotta l’importanza che Adriana le attribuisce – la condizione fondamentale per vivere la relazione con il Dio cristiano, il quale viene costantemente incontro all’uomo, andando alla sua ricerca anche quando si è colpevolmente allontanato da Lui. La fede non comporta dunque un andare verso Dio, ma un disporsi a riceverlo, creando le condizioni per accoglierlo, lasciandosi fare e amare da Lui.

L’esperienza spirituale fin qui evocata ha per Adriana il suo momento più alto nella preghiera, o meglio nel pregare, il quale, lungi dal ridursi a fare o a dire preghiere, è un vero e proprio modo di essere-al-mondo. Il Dio della rivelazione biblica è il Dio dell’alleanza, che entra in comunione vitale con l’uomo, ma che, al tempo stesso, gli impone di non raffigurarlo né nominarlo, rivendicando in questo modo la sua assoluta Alterità.
La preghiera è dunque ascolto, incontro e relazione, ma è anche rispetto di una distanza che non può mai essere del tutto colmata. È un vivere alla presenza di Dio, fare esperienza dell’essere abitati da Lui, ma è anche riconoscimento dell’assenza; è rifiuto di catturarlo per servirsene, evitando di assumersi fino in fondo la propria responsabilità nel mondo.
La preghiera è una cosa seria che non deve essere separata dal contesto in cui si sviluppa l’esistenza e che implica la confidenza, ma che non può essere viziata da sdolcinature impudiche: il tema del pudore ricorre con frequenza nei testi spirituali di Adriana come un’istanza che deve connotare ogni espressione religiosa.
L’incontro con Dio rinvia all’impegno nel mondo; l’atto cultuale non ha alcun significato se non si traduce in culto spirituale, nella capacità di coniugare incontro con Dio e fedeltà all’uomo e alla terra, immettendo nel dialogo religioso le inquietudini e le speranze umane. La preghiera di Adriana ha questo timbro; da essa scaturisce la militanza che ha contrassegnato l’intera sua esistenza, con la partecipazione diretta alle battaglie contro le diseguaglianze sociali e per la promozione dei diritti civili. L’eremo non è stato per lei un luogo separato dal mondo, ma un angolo appartato dal quale guardare con lucidità e partecipazione le vicende umane e mondane. La solitudine del monaco – Adriana preferiva definirsi così, al maschile, per l’accezione equivoca acquisita dal termine femminile – non è isolamento; è un processo di riappropriazione del mondo interiore, che restituisce all’uomo la libertà, rendendolo capace di esercitare il discernimento profetico nei confronti della realtà.
Una spiritualità, quella di Adriana, la cui grande linearità e coerenza ha suscitato talora forti contestazioni da parte di ambienti ecclesiastici tradizionalisti; ma che ha, nel contempo, favorito la nascita di profonde amicizie religiose e laiche – come non ricordare dom Benedetto Calati e Rossana Rossanda? – che hanno concorso ad arricchire la sua esperienza religiosa e civile (e di cui hanno fruito quanti hanno frequentato i suoi incontri). Una spiritualità, soprattutto, nella quale la tensione alla trascendenza, lungi dal vanificare la dedizione nei confronti dell’uomo e della terra, ha fornito piuttosto lo stimolo all’esercizio di una limpida e feconda testimonianza in favore della città degli uomini.”

Francesca

È più di un mese e mezzo che non aggiorno il blog. Mi sono preso una pausa in occasione della settimana santa e del periodo pasquale, mi sono tuffato in impegni di lavoro e in relazioni amicali e famigliari, sono stato a Rimini a un convegno della Erickson sugli adolescenti, ho concluso un corso di friulano (volevo imparare a scriverlo correttamente), sono stato a Roma per una formazione di due giorni organizzata da Libera sulla violenza di genere, e tante altre cose che non sto qui a scrivere.

Ma oggi, anche se adesso la mezzanotte è passata, ci tenevo a scrivere qualcosa. Quest’anno nelle classi quarte abbiamo lavorato sul tema della Mafia e sull’importanza di fare memoria, di condividere memorie. Studentesse e studenti hanno “adottato” una vittima innocente di mafia e hanno provato a raccontarne la storia in prima persona. E poi l’hanno letta in classe. Storie di donne, di bambini, di ragazze, di poliziotti, di giornalisti, di passanti, di carabinieri, di famigliari, di testimoni… Ci siamo emozionati.

Per non far torto a nessuno, però, qui voglio pubblicare parte del lavoro di una scuola lontana dalla nostra realtà, ma molto vicina a quella dei fatti del 23 maggio 1992: il lavoro della Classe III B dell”Istituto Comprensivo “G. Marconi” di Palermo, che ho letto qui. Con la storia di una donna desidero fare memoria anche di Antonio, Giovanni, Rocco e Vito.

Francesca Morvillo. 17:58
Francesca Morvillo; abbiamo parlato di questa donna a scuola oggi. Era la moglie di Giovanni Falcone, l’hanno descritta come una donna coraggiosa, intelligente, insomma una donna che ha lasciato il segno. Ma io fino a ora non ne avevo mai sentito parlare. Sapevo che Falcone aveva una moglie, ma non sapevo chi fosse, come si chiamasse, che aspetto avesse. Finalmente la campanella suonò, e noi ritornammo a casa. Il pranzo fu silenzioso come non mai. Mia madre non mi chiese niente su com’era andata la scuola e nessuno parlava. O forse ero io che non ascoltavo. I miei pensieri erano rivolti solo a Francesca.  Finito di pranzare, decisi di fare subito il compito che ci avevano assegnato su di lei. Presi un foglio dal quaderno e cercai di buttare giù qualche idea, ma niente! Passai una mezz’ora davanti a quel foglio bianco a girarmi la penna tra le mani. Niente. La mia mente era vuota. 
-Intanto quando è nata? – mi chiesi.
-14 dicembre 1945. – mi rispose una voce. Mi girai verso la porta, credendo fosse mia madre. Non c’era nessuno. Feci spallucce e riportai lo sguardo al foglio. 
-E poi è morta nel? – mi chiesi di nuovo ad alta voce.
-23 maggio 1992. – Mi girai di nuovo verso la porta, ma non trovai nessuno. C’ero solo io.
-D’accordo deliro. È quello che succede quando vai troppo a scuola. – cercai di sdrammatizzare per poi rimettermi a scrivere. Poi riguardai il testo, leggendolo ad alta voce.
-“Francesca Morvillo, nata il 14 dicembre 1945 e morta il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci, era la moglie di Giovanni Falcone.” E adesso… credo basti. – mi dissi fra me e me, così feci per posare la penna, ma sentii la stessa voce di prima ridere.
-Lo sai che Francesca Morvillo non era solo “la moglie di Falcone”? – mi disse. Rimasi pietrificata.
-Troppo studio, sto impazzendo. – la voce rise di nuovo. Era una risata dolce, cristallina.
-Tu sai chi è Francesca Morvillo? – mi chiese. Annuii.
-La moglie di Falcone? – risposi.
-E poi? – il silenzio. La voce rise di nuovo.
-Beh, intanto era una donna, un magistrato, una moglie, una vittima della mafia ed ero io.- ero nel bel mezzo di una crisi di nervi. Mi girai di nuovo verso la porta, ma non trovai nessuno. Guardando verso il letto invece trovai una donna, una meravigliosa donna dai capelli biondi e corti, vestita con una giacca color avorio e dei pantaloni larghi dello stesso colore, seduta comodamente sul mio letto. 
-Vedo cose. Magari dormire quattro ore stanotte non è stata una buona idea… – la donna rise di nuovo. Cercai di non dare troppo peso a quella strana presenza e decisi di fare qualche ricerca fotografica su internet. Guardai un pò di foto di Francesca e poi mi venne un flash. Guardai la foto, poi la donna seduta sul mio letto, poi di nuovo la foto, poi ancora la donna. Continuai così finché non m iniziò a girare la testa.
-Sono confusa. –  la donna, dopo un istante di silenzio mi sorrise.
-E comunque la mia tesina si chiamava “Stato di diritto e misure di sicurezza”. – mi disse, come se mi avesse letto nel pensiero. 
-Si grazie. Era proprio quello che mi serviva. –  dissi, scrivendo la nuova informazione sul foglio davanti a me, le quali righe stavano iniziando a riempirsi. 
-Francesca Morvillo che lavori ha fatto? – mi chiesi in mente per non farmi sentire da quella donna.
-Sono stata Giudice del Tribunale di Agrigento, sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale per minorenni di Palermo, Consigliere di Corte d’Appello di Palermo e parte della Commissione per il concorso d’accesso alla Magistratura. – mi rispose la donna, o meglio Francesca, sorridendo.
-… Non ho capito niente ma ok, ha fatto tanti lavori. – mi stupii di me stessa per aver parlato con una figura creata dalla mia testa.
-Ma non sei – cioè non è stata anche insegnante? – lei ci pensò un attimo.
-Si, facoltà di Medicina e Chirurgia dell’ateneo palermitano. Ero insegnante di legislativa nella scuola di specializzazione in Pediatria. E ti prego dammi del “tu” non sopporto più il “lei”. – rispose. 
-In quanto a Falcone, vi sposaste nel? – non ci pensò un attimo che subito mi rispose.
-Maggio 1986, ci sposammo in privato. C’erano solo i testimoni e il sindaco. Mi ricordo ancora tutto in ogni minimo dettaglio.- le si illuminarono gli occhi mentre parlava di tutto quello che era accaduto al matrimonio. Mi raccontò anche del sindaco Orlando, che aveva celebrato le nozze. La pagina piano piano si riempiva sempre di più.
-Tu avresti voluto avere un bambino? – le chiesi. Lei abbassò lo sguardo.
-Io avrei voluto, ma sapevo che non potevamo. Eravamo troppo impegnati nel nostro lavoro. E poi Giovanni lo diceva “non voglio orfani” perché lui lo sapeva che alla fine si sarebbero liberati di lui. Anzi, di noi. – mi spiegò. Era un tasto dolente, lo capivo.
-Com’era la vita sotto scorta? – le chiesi. Si fermò un attimo per pensare.
-Orribile. L’unica parola che mi viene in mente, ma era necessario per la nostra sicurezza. Ci siamo persi tante cose della vita, la nostra non era mica una vita come quella di tutti gli altri. Non potevamo andare in luoghi pubblici, tranne il posto di lavoro. Dovevamo sempre spostarci in auto blindate e a prova di proiettile, non potevamo andare al ristorante o a fare una passeggiata sulla spiaggia di Mondello, in piazza, o semplicemente per le vie delle strade per incontrare amici. Non posso dire di avere avuto altri amici oltre la mia famiglia, ma Giovanni… lui aveva Paolo. – sembrava volesse dire altro, ma era come se le parole le rimanessero intrappolate in gola. Rimasi in silenzio per un pò, poi presi fiato.
-Francesca, perché non sei scappata? Intendo, sapevi che era molto pericoloso continuare a stare con Giovanni, ma non sei andata via. Eppure lui te lo diceva “vai via, scappa, salvati” ma tu non l’hai ascoltato e a Capaci… – mi fermai. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, il sorriso che aveva tenuto per tutta la conversazione era svanito, lasciando il posto a un flebile e malinconico sorrisetto.
-Io ero consapevole dei gravissimi pericoli a cui Giovanni andava incontro, a cui entrambi andavamo incontro, ma non l’avrei lasciato mai da solo. Ho scelto di stare con lui, di sposarlo, di aiutarlo e incoraggiarlo sempre perché lo amavo e sapevo che ne aveva bisogno. E ho deciso io che se fosse morto, sarei morta con lui. In fondo “finché morte non vi separi” giusto? – annuii. Le parole di Francesca erano molto profonde, mi sentii quasi bloccata. 
-Francesca… cosa è successo esattamente nel ritorno da Roma a Capaci. Era la A29 Palermo – Trapani giusto? E su questo sito dice che “alle ore 17:58, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada” è così che è successo? E dice anche che “la prima auto, la Croma marrone, fu investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo. La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza.” E senti questo “Francesca Morvillo, ancora viva dopo l’esplosione, viene trasportata prima all’ospedale Cervello e poi trasferita al Civico, nel reparto di neurochirurgia, dove però muore intorno alle 23 a causa delle gravi lesioni interne riportate.” Quindi è questo che è successo? – 
Quando incontrai il suo sguardo, mi resi conto di quello che avevo detto e me ne pentii. La sua espressione era seria, o per meglio dire vuota. Feci per scusarmi ma lei mi precedette.
-Si è successo proprio quello. Non mi ricordo molto del momento in cui la strada saltò in aria, i miei ricordi sono sfocati. Ricordo solo di avere avuto Giovanni accanto, poi un leggero sibilo e all’improvviso un potente tuono e un forte mal di testa. Dopo di quello non ho più sentito niente. Girava tutto, mi fischiavano le orecchie e vedevo sfocato… poi non sentii più niente. Era come fossi…morta. Ma non fu così; dopo non so neanche io quanto iniziai a sentire delle voci, c’erano persone accanto a me, ne sentivo la presenza. Parlavano di Capaci e di Giovanni. “è morto il Giudice” dicevano. Era morto. Giovanni era morto. Erano morti tutti, li avevano uccisi tutti. Ce l’avevano fatta. Ci avevano eliminati. Quella stessa notte alle 23. – il silenzio. Scrissi le ultime parole.
-E poi? Alle 23 sei… hai capito no? Francesca? –
nessuna risposta. Forse avevo detto troppo. Mi girai verso il letto. Vuoto. Non c’era nessuno, era come sparita nel nulla così com’era arrivata. Guardai l’orologio; 17:58. Sospirai, un pò delusa, ma contenta di avere almeno potuto parlare con una donna come lei. Me ne sentivo quasi orgogliosa, anche se sapevo non avrei potuto parlarne con nessuno, o mi avrebbero preso per pazza.  
-Merenda! – chiamò mia madre dalla cucina. Mi alzai posando la penna sulla scrivania e mettendo il foglio ormai pieno al sicuro in un raccoglitore.
-Grazie Francesca. – mormorai. Francesca Morvillo. Una donna con i fiocchi e i controfiocchi.

Da “La Stampa

L’eredità di Annalisa

Sono passati esattamente quindici anni da quando, in una sparatoria tra clan a Forcella, veniva uccisa per errore una ragazzina di 14 anni, Annalisa Durante. Il suo nome è stato dato ad una biblioteca in uno dei rioni di Napoli. Ne scrive su L’Espresso Anna Dichiarante.

“Quindici anni fa, a Forcella, certe cose erano impensabili. Un pianoforte lasciato a disposizione dei passanti, la biblioteca, il murales di Jorit con il ritratto di un san Gennaro che santo non è, perché quel volto è di un giovane operaio e non del patrono della città. La sintesi di Napoli: mistica, viscerale, popolare. Quindici anni fa, in questo rione nel centro storico del capoluogo campano, i proiettili della camorra uccidevano Annalisa Durante.

Era la sera del 27 marzo 2004, quando, in via Vicaria vecchia, Annalisa, 14 anni, si ritrovò in mezzo a una sparatoria tra i clan rivali dei Giuliano e dei Mazzarella. Era scesa sotto casa per chiacchierare con le amiche e fu colpita per errore. Anche se coprirsi la fuga sparando per strada, tra la gente, non può essere considerato un errore. Annalisa divenne “scudo” di Salvatore Giuliano, rampollo della dinastia criminale che a Forcella ha dominato a lungo: il boss, all’epoca diciannovenne, impugnò le armi per difendersi da un agguato tesogli dal gruppo di fuoco di Vincenzo Mazzarella e centrò lei. La ragazza morì in ospedale nei giorni successivi.
Per l’omicidio, Giuliano è stato condannato in via definitiva a 20 anni di reclusione. Vittima e assassino si conoscevano, perché in quell’intrico di vicoli tutti si conoscono. E lì, per rabbia e per amore, la famiglia di Annalisa è rimasta. Nonostante le minacce ricevute per aver esortato gli abitanti del rione a testimoniare contro i boss, suo padre Giovanni ha iniziato a darsi da fare per rendere Forcella un posto migliore. Una sfida per resistere al dolore, per dare un senso alla propria esistenza e per realizzare il desiderio della figlia di vedere un giorno Forcella «bella come gli altri quartieri».
«Questi anni sono stati una battaglia. Allora, più della metà del quartiere stava con i camorristi, ma adesso il settanta per cento sta dalla mia parte. Chi avrebbe mai pensato che grazie ad Annalisa si sarebbe riusciti a fare tanto?», dice Giovanni, indicando intorno a sé gli scaffali con i libri della biblioteca che porta il nome di sua figlia.
Nell’angolo c’è uno scatolone con gli ultimi cento donati da una scuola di Brescia. Sono molte, infatti, le classi che vengono in visita. Fuori qualcuno suona il pianoforte regalato da una storica azienda napoletana: serve per i concerti e i laboratori musicali, poi viene lasciato sotto il portico e chi passa può usarlo. Vicino al piano, c’è una casetta di legno con i libri che possono essere presi liberamente. Ovunque ci sono foto con luoghi e personaggi della tradizione napoletana. Poi, una parete con l’elenco, interminabile, delle vittime innocenti della criminalità organizzata in Campania. Giovanni trova sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui parlare; i suoi occhi inseguono continuamente nuove idee. Al suo fianco c’è Pino Perna, presidente dell’associazione fondata nel 2005 in memoria di Annalisa. Pino cerca di attuare tutti i progetti del signor Durante, perché «dirgli di no è impossibile».

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Questa biblioteca, aperta nel 2015 e ospitata in uno spazio comunale a pochi passi dal punto in cui la quattordicenne fu uccisa, è il loro orgoglio. Ci sono quasi seimila volumi di vario genere, catalogati e inseriti nel circuito del sistema bibliotecario nazionale. «Ogni libro ci è stato regalato. Hanno cominciato ad arrivarcene da tutta Italia dopo l’omicidio di Annalisa. E qui la ricordiamo nel giorno del quindicesimo anniversario dalla sua morte», spiega Perna. Giovanni racconta che a dargli l’idea della biblioteca fu un napoletano emigrato in Australia: «Lo incontrai per caso, mi lasciò un libro e mi spronò a intraprendere quest’impresa».
In realtà, il signor Durante aveva da sempre chiaro che la rinascita di Forcella, e delle altre aree soffocate dal controllo criminale, sarebbe dovuta passare dalla cultura. È quella, dice lui, che «salva le anime». Così, dopo la morte della figlia, iniziò a pungolare le istituzioni perché dessero un segnale, cominciando da uno dei posti più brutti del rione: un ex cinema di proprietà privata, ormai abbandonato e ridotto a discarica, proprio in via Vicaria vecchia. La Regione acquistò il palazzo, lo riqualificò e lo assegnò al Comune.
Piano piano, grazie al lavoro dell’associazione “Annalisa Durante” e di altre realtà locali del terzo settore, sono partite le attività culturali e ricreative per bambini e ragazzi. Poi i libri, le mille iniziative per incentivare la lettura, il giornalino scritto dai giovani del quartiere, lo studio per scoprire le origini storiche di Napoli condotto insieme a un liceo del Torinese, l’allestimento di mostre e spettacoli teatrali. Nel 2006, all’interno della scuola comunale che si trova vicino alla biblioteca e che è stata a sua volta intitolata ad Annalisa, l’associazione ha aperto una ludoteca. «Nel 2011, però, abbiamo dovuto chiuderla – dice Pino – senza finanziamenti pubblici, non potevamo più pagare gli operatori». Grazie a una raccolta solidale di fondi e ai volontari del servizio civile, nel 2016 c’è stata la riapertura. A fare da custode alla sala con i giochi, tutti regalati, è il nonno materno di Annalisa.
«All’inizio, alle nostre attività non veniva nessuno – continua Pino – la gente non si fidava o temeva di inimicarsi il clan frequentandole. Abbiamo dovuto dimostrare di essere credibili, di offrire servizi alla comunità. Perciò abbiamo puntato sui bimbi. Le mamme li lasciavano qui senza entrare, imparando che su di noi potevano contare».
Una fiducia guadagnata a fatica, cercando di attirare le persone, una a una, in un quartiere martoriato dal degrado sociale ed economico. «Adesso del centro di Napoli si parla per le scorribande delle “baby paranze”. Sono proprio questi giovani “malamente” che vado a cercare, sono loro che hanno bisogno di essere strappati alla camorra e alla miseria. La mia sfida è portarli qui. Il coraggio per entrare, qualcuno lo sta trovando», s’infervora Giovanni, mischiando italiano e dialetto. Poi guarda Pino per un cenno di conferma: sì, ora a Forcella il coraggio per denunciare le intimidazioni e le estorsioni dei clan qualcuno inizia ad averlo. Il prossimo passo è portare le iniziative all’esterno, in mezzo alla gente. Come con la sfilata di carnevale del Comune, con la ciclo-officina gratuita, con il book crossing. E la partecipazione cresce. Agli incontri in biblioteca, Giovanni sistema le sedie in cerchio, ma lascia sempre un punto vuoto per poter aggiungere una sedia. «Il problema è che le istituzioni, invece di aiutarci, si dimenticano di noi, ci stritolano con la burocrazia – lamenta – l’ho detto pure al premier Giuseppe Conte, quand’è venuto qui. E gli ho chiesto perché Forcella non può essere ogni giorno come l’hanno fatta trovare a lui, pulita, senza cataste di motorini sui marciapiedi, senza bancarelle abusive dappertutto».
L’obiettivo è sfruttare ogni moto delle coscienze e anche il boom turistico che Napoli sta vivendo. «Ci sono problemi eterni in questo rione – dice Perna – il contrabbando di sigarette come negli anni Settanta, gli edifici puntellati dal terremoto del 1980… Servono politiche integrate e continuative di sviluppo, non spot o interventi una tantum. Serve sinergia tra le organizzazioni di volontariato del territorio, soprattutto adesso che nuove idee stanno prendendo forma. E occorre portare i turisti anche qui. Finora si sono fermati a via Duomo, la strada che conduce alla cattedrale di Napoli e che segna il limite tra il centro storico, pieno di attrazioni famose nel mondo, e questo quartiere disgraziato, su cui sono fioriti pregiudizi». Per questo, Perna collabora anche con Legambiente e Slow Food: «Abbiamo poi creato “Zona Ntl – Napoli turismo e legalità”, una mappa dei siti di interesse storico-archeologico di Forcella collegata a un’app per raggiungere ovunque i potenziali turisti. Il rione è pieno di tesori, ma alcuni sono inaccessibili e trascurati, vanno recuperati. Sulla nostra cartina, inoltre, sono indicati bar e ristoranti dove trovare le eccellenze locali. Bisogna sostenere gli sforzi di chi vuole trasformare Forcella in un polo turistico di qualità».
Giovanni, intanto, pensa già ai progetti futuri. Vuole aprire una piccola sezione della biblioteca all’interno del carcere di Poggioreale. «Ci vorrebbe una stanza, magari un po’ colorata, dove i detenuti possano trovare libri selezionati per loro, letture che possano farli riflettere e indurli a cambiare», spiega. Ma il sogno del signor Durante è di incontrare papa Francesco. Pino si sta facendo in quattro per riuscire ad accontentarlo. «Sai cosa vorrei chiedergli? – dice Giovanni, stringendo il braccio dell’amico – di lanciare un appello per aiutarmi a trovare le cinque persone che hanno ricevuto gli organi di mia figlia».
Quando Annalisa morì, infatti, i suoi genitori autorizzarono la donazione, ma la legge non consente di conoscere l’identità dei destinatari del trapianto. «Il mio ultimo desiderio – conclude Giovanni – è poterli abbracciare. Nient’altro. Ma mi basterebbe anche solo un biglietto anonimo, per sapere se stanno bene. Per sapere che sono vivi e che Annalisa lo è insieme a loro».

Per amore del mio popolo non tacerò

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25 anni fa la Camorra uccise don Peppe Diana .
“Nel 1991, il giorno di Natale, don Peppe Diana aveva diffuso uno scritto, letto in tutte le chiese della zona, intitolato “Per amore del mio popolo”. Era un manifesto che annunciava, a voce alta, l’impegno contro la criminalità  organizzata, definita una forma di terrorismo che provava a diventare componente endemica della società. Parole ed impegno che gli sono costati cari. Il 19 marzo del 1994, giorno anche suo onomastico, Don Peppe Diana venne freddato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre stava per celebrare la messa. Il parroco morì  all’istante, colpito da cinque proiettili: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo” (da Rainews24).

Con queste parole lo ricorda don Luigi Ciotti:
“25 anni. Non c’è stato un giorno, in questo quarto di secolo, in cui non abbiamo sentito la presenza di don Peppe Diana attraverso l’impegno di chi, con tenacia e spesso coraggio – essendo un impegno, ahinoi, ancora troppo controcorrente – cerca non solo di “seguire” il Vangelo ma di viverlo, di tradurlo in scelte, atti e comportamenti, dentro e fuori dalla Chiesa. Ma se c’è stato un giorno in cui don Diana lo abbiamo sentito non solo presente, ma vivo, è stato il 21 marzo del 2014 nella Chiesa di San Gregorio a Roma, alla vigilia della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si svolse quell’anno a Latina. Quel giorno, a San Gregorio, Papa Francesco incontrò un migliaio di famigliari delle vittime, tra cui quelli di don Diana e don Pino Puglisi. E al momento della benedizione, appoggiai con commozione sulle spalle del Papa la stola di don Peppe. Francesco parlò ai famigliari con grande trasporto, ringraziandoli per la loro quotidiana testimonianza, per la scelta difficile di non chiudersi ma di trasformare vuoti tanto strazianti in impegno per la giustizia. E poi si rivolse a quelli che definì i “grandi assenti”, gli uomini e le donne della mafia, esortandoli “in ginocchio”, a una conversione: il potere e il denaro che accumulate è sporco di sangue, sottolineò, e non potrete portarlo nell’altra vita. Don Peppe quel giorno era vivo nelle parole e nello slancio di un Papa che incarnava la Chiesa che Peppe aveva sognato e per la quale aveva messo in gioco la sua vita, una Chiesa che non si limita appunto a predicare il Vangelo ma lo vive, facendone un concreto strumento di liberazione e di giustizia a partire da questa Terra. Ecco perché oggi, a 25 anni dal suo assassinio, è essenziale non limitarsi a ricordare: bisogna fare del ricordo un pungolo di coscienza, una memoria viva. E un grande stimolo ci viene, in questo frangente in cui la sacra parola “popolo” rischia di diventare un concetto ambiguo, strumentale, una foglia di fico alla sete di potere dei “populisti”, proprio il documento “Per amore del mio popolo non tacerò”, che don Peppe scrisse e pubblicò insieme ai sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe nel Natale del 1991, pochi mesi prima delle stragi di mafia, di quella storia di immane violenza che la mattina del 19 marzo 1994 uccise il corpo ma non lo spirito di quel giovane, scomodo prete che si apprestava a celebrare la Messa. Colpisce, di quel testo, la profezia e la profondità di sguardo. Don Peppe non si limita a denunciare il male, ma ne mette in luce il legame con un più generale vuoto di coscienza e di civiltà. C’è la descrizione puntuale della mafia camorristica, il suo evolversi già come mafia imprenditoriale, mafia non solo delle armi, ma della tangente e dell’appalto. Ci sono le responsabilità politiche, i vuoti amministrativi e istituzionali, la burocrazia, il clientelismo, il dilagare della corruzione. C’è l’invito alla Chiesa a “farsi più tagliente e meno neutrale”, più coerente con “la prima beatitudine del Vangelo che è la povertà”, in quanto “distacco dal superfluo, da ogni ambiguo compromesso e privilegio”. Ci sono insomma le indicazioni essenziali per costruire comunità in cui tutti contribuiscano alla libertà e dignità di ciascuno.
Per ricordare don Diana è allora importante meditare sulle sue parole, ma occorre anche trasformare la meditazione in azione, occorre fare del suo messaggio il nostro impegno, la nostra credibile testimonianza di vita.” (Famiglia Cristiana 17/03/2019, reperito su Libera).

Il fascino del dimenticatoio

Ho seguito con molta attenzione la mezz’ora con cui la giornalista Luana De Francisco ha presentato la situazione del Friuli Venezia Giulia. L’ha introdotta Lorenzo Frigerio: “E’ autrice, insieme a Ugo Dinello e Giampiero Rossi, del libro Mafie a nord-est, del 2015, Rizzoli. Nell’introduzione del libro si legge: “Sono tanti i segnali di una progressiva penetrazione mafiosa nel nord-est che non può più essere trascurata né brandita dalla politica soltanto come strumento nel gioco delle parti. Li abbiamo voluti riunire e raccontare nelle pagine che seguono, nell’intento di offrire a tutti, finalmente, gli strumenti e potersi fare un’opinione.”” Quindi ha preso la parola la giornalista:

“Sono qui in quanto giornalista e quindi voglio ribadire ancora una volta l’importanza del ruolo della nostra professione; non siamo certamente degli oracoli, ma intermediari che hanno la funzione di raccontare. Io mi occupo di cronaca giudiziaria, non sono un’esperta di mafia, ma mi ci sono inciampata. Ho necessità indispensabile di attingere alle carte, ai documenti, alle fonti certe. Accanto poi ci sono le storie da raccontare, quelle della gente, dei testimoni. Nel nostro territorio questo è molto poco presente: le informazioni circolano molto poco proprio perché la mafia non è un fenomeno roboante, non ci sono manifestazioni pirotecniche. Un collaboratore di giustizia, qui a Trieste, ha dichiarato che già 10, 15, 20 anni fa, quando la ‘ndrina Iona salì con tutti i suoi sodali, la parola d’ordine era quella di non farsi notare, di non dare nell’occhio, “la gente non deve sapere che ci siamo”. Da qui la difficoltà per noi giornalisti di raccontare queste cose.
In merito alla questione che i giornali ne scrivono poco o non ne scrivono affatto, vorrei dire che non è proprio così: se quel libro c’è è anche perché parte da una raccolta di articoli pubblicati, solo che poi un quotidiano vive di notizie, per cui un giorno dai la notizia, quello successivo la riprendi perché ci sono le reazioni, ma il terzo giorno è già vecchia la notizia. La forza di un libro, invece, è che resta lì, fa meditare e può far scattare la molla del senso civico. Aggiungo anche che è vero che ogni giorno raccontiamo qualcosa, e anche se non riguarda specificatamente mafiosi, camorristi e ndranghetisti, è comunque prezioso ai fini della descrizione della cornice in cui viviamo. Tutto quello che scriviamo serve a rappresentare il territorio nel quale sono germinati elementi mafiosi: saper riconoscere lo stato di salute o lo stato di crisi di un territorio è molto importante. Ad esempio, ogni anno raccontiamo di quante sono state le segnalazioni all’Ufficio Finanziario della Banca d’Italia di operazioni sospette, il numero di fallimenti, di sequestri di droga o di armi…: tutto questo contribuisce a descrivere i numeri di un territorio che si configura come terra ideale per le colonizzazioni mafiose.
Mi sono accorta tra ieri e oggi che quando si faceva riferimento a storie di 4 o 5 anni fa, c’era molto stupore, segno che queste storie non sono granché conosciute, per cui vale la pena raccontarle. Visto che si è parlato di droga, si è parlato di sud America e si è parlato della scarsa percezione che il territorio ha del problema e vista la scarsa volontà di sapere determinate cose da parte dei cittadini (perché non interessa, perché non fa notizia; spesso indigna di più una ciclabile sconnessa rispetto alla condanna per bancarotta fraudolenta di un imprenditore) ho pensato di accennare prima di tutto alla vicenda di Paolo il Friulano, così chiamato dai camorristi coi quali entrò in affari. Siamo a metà degli anni ‘90, Udine centro. Il suo vero nome era Luciano De Sario, un emigrante di ritorno, partito da bambino insieme alla famiglia palmarina per l’Argentina. In sud America aveva intessuto tutta una serie di rapporti, conoscenze e amicizie e si era sposato con Fadia, una donna venezuelana. A neanche 50 anni decide di tornare in Friuli e torna pieno di soldi; apre un’azienda a Lauzacco, paese alla periferia sud di Udine. Si occupa di import-export di grossi macchinari per il settore edile ed estrattivo, in particolare in e dalla Colombia. Era sostanzialmente diventato il punto di intermediazione tra il cartello di Cali e la camorra di Pasquale Centore (ex funzionari di banca, ex sindaco di San Nicola la Strada). Da questo momento comincia a vivere da nababbo e la gente che vive accanto a lui non si pone nessuna domanda, anzi, si apre la corsa a farsi invitare a casa sua, nell’attico di Palazzo Moretti (oggi confiscato e dato in uso ai servizi sociali del Comune di Udine). Chi ci entrò narra di tappeti in oro zecchino, pezzi di antiquariato… Le macchine erano di lusso, gli ambienti frequentati erano tra i più esclusivi. La domanda “come può un piccolo imprenditore permettersi tutto questo?” però non scattava. Succedeva che dentro quei macchinari transitavano ogni settimana 50 kg di cocaina. A stupire è il fatto che nessuno, né allora, né quando scoppiò lo scandalo, né successivamente, lo abbia mai condannato, anzi: ci si continua, tuttora, a fare vanto di averlo conosciuto, di aver avuto rapporti con “uno che ci sapeva fare”. Poi è stato processato all’interno di un’inchiesta partita dal sud Italia (va detto che anche a questo è legata la scarsa percezione del fenomeno mafioso: poche le inchieste che partivano dal territorio e rimanevano sul territorio). Viene anche da chiedersi: ma tutti questi soldi che guadagnava, dove li metteva? In banca. E’ provato che versasse somme tra 100 e 200 milioni di lire in contanti: non scattava alcun sospetto. L’inchiesta si è poi chiusa con il patteggiamento a 4 anno e 8 mesi, poi ridotti in appello per l’incensuratezza e per il comportamento processuale collaborativo.
Ricordo anche un’altra inchiesta partita da degli accertamenti della Guardia di Finanza di Udine su movimenti bancari di alcuni Istituti di Credito: sono risultati sospetti dei trasferimenti di denaro piuttosto numerosi da Vibo Valentia. L’inchiesta si è trasferita poi per competenza territoriale a Cosenza e ha perso per strada gli elementi friulani che avevano dato il via alle indagini per l’impossibilità di dimostrarne il coinvolgimento; è comunque culminata nel 2015 in un processo che decapitato i Mancuso.
Vi sono anche inchieste che partono dal Sud, come quella che portò a scoprire un affiliato degli Emmanuello (si stava indagando sulla latitanza di Emmanuello di Gela) insieme a degli imprenditori edili trasferitisi da Gela al pordenonese: qui si aggiudicavano appalti funzionali a lavare denaro e a generare compensi per mantenere la latitanza dorata di Emmanuello.
Raccontare queste cose è tremendamente difficile se non si trova un interlocutore disponibile a raccontartele. Se il giornalista ha un barlume di notizia, comunque deve farla uscire perché suo dovere è raccontare i fatti; se non c’è collaborazione, fondata sul rapporto di fiducia reciproco tra giornalista e magistratura e sul rispetto dei ruoli, ci sarà uno svantaggio per entrambe le parti.
In merito al voto di scambio, è in corso un’inchiesta della DDA di Trieste che ipotizza un accordo pre elettorale sulle elezioni amministrative di Lignano del 2012. Un amministratore uscente, di origini napoletane, avrebbe preso accordo con 400 persone del napoletano per avere il loro voto di preferenza in cambio di residenza facili; il tutto con il favore del capo dei vigili urbani di Lignano.
Un’altra inchiesta ha riguardato la ricostituzione di una ‘ndrina nel monfalconese per mano di Giuseppe Iona. Ci sono gli interessi della camorra su Monfalcone e su Fincantieri con il fenomeno dei trasfertisti napoletani.
Insomma, i fatti non mancano; solo che o non si possono raccontare o sono finiti in breve nel dimenticatoio.”

Turoldo, poeta degli ultimi

Fonte

Il 6 febbraio 1992 si concludeva a Milano l’esperienza terrena di David Maria Turoldo, teologo, poeta, profeta friulano. La scorsa settimana, nel giorno dell’anniversario, l’Aula Magna del mio liceo ha ospitato l’Associazione culturale Padre David Maria Turoldo.

La Dirigente Gabriella Zanocco ha salutato così i presenti: “Come scuola ci sentiamo veramente e sinceramente onorati per aver potuto offrire a voi l’occasione di vivere questo incontro. Non siamo di fronte ad una conferenza tradizionale o a quelle a cui siamo tradizionalmente abituati, dove si dicono delle cose che hanno una ricaduta più o meno interessante, più o meno didattica. Il tema di questa conferenza che si incentra su un uomo particolare vuole portare tutti noi e tutti voi a una riflessione profonda, a ragionare cosa significhi l’umanità e vivere profondamente l’umanità. Sono parole che hanno un loro peso forte e io credo che oggi, in questo momento storico abbiano un peso maggiore che in altri momenti. Che cos’è l’umanità? Cosa significa? Quando andavo a scuola mi hanno insegnato che le parole accentate sono parole astratte. Umanità è una parola accentata, ma non c’è niente di più concreto, se noi guardiamo al significato di questo termine e lo rapportiamo alla storia in generale, non soltanto alla storia di oggi, ma a tutto l’arco storico dell’umanità stessa. Allora una riflessione su padre Turoldo fatta oggi, anniversario della sua morte, credo che debba essere fatta e debba essere fatta soprattutto con i ragazzi, con l’umanità del futuro, con l’umanità che viene chiamata a essere direttiva nel futuro. Dove ci portano certe scelte e quali valori devono essere per noi irrinunciabili? Grazie per le riflessioni che verranno fatte oggi ma soprattutto grazie per le riflessioni che dovremo noi tutti fare domani”.

La Direttrice del Comitato Scientifico dell’Associazione, Raffaella Beano, ha introdotto quindi la figura di padre Davide e la visione di un filmato. Ha quindi invitato a prendere la parola Ermes Ronchi, friulano, anche lui teologo dell’ordine dei Servi di Maria e amico di padre Davide.

“Sono molto emozionato di essere davanti a tanti bei volti, a tanti begli occhi perché è in questa bellezza che riposa la speranza di noi che abbiamo già navigato.
Quando padre David arrivava nella mia casa natia a Racchiuso di solito era sera e arrivava sempre con degli amici, mai da solo: aveva un bisogno fisico di avere degli amici attorno. Arrivava e iniziava dal fondo del lungo cortile che porta alla casa – era già sera, i contadini vanno a letto presto, le luci spente, ma a lui non importava: quando arrivava in un posto diceva “Adesso, chi andiamo a tirar giù dal letto?” – a dire “Mariute, atu alc di mangjâ?”. Scendevano il papà e la mamma; il papà scendeva in cantina a prendere un salame perché era quello che lui desiderava e poi lui lo preparava, preparava le fette, tagliava la cipolla, il salame con l’aceto, il salam cun l’asêt, il fast-food contadino, era il nostro McDonald’s. Quando c’era urgenza, fretta, fame e voglia di stare insieme con semplicità il papà correva con i boccali del merlot dalla cantina. Ogni incontro con lui era un evento, diventava un evento di cui poi si parlava a lungo perché uscivi arricchito da ogni incontro con lui…
E’ stato uno degli uomini dell’Italia di quegli anni che più è ricordato. Perché? Perché era un poeta ed un profeta, questa la sua forza: la poesia e la profezia. Apparteneva alla gente di questa nostra terra, ma aveva le finestre aperte ai grandi venti della storia. Ben radicato, amava il suo Friuli, ma aperto a tutti i movimenti. Nella sua chiesa di Fontanelle arrivava gente da tutta Europa ed era diventato il laboratorio liturgico più importante del mondo in quell’epoca del post Concilio. Non solo dall’Europa, ma da tutti i movimenti popolari, dall’America Latina, che allora gemeva sotto le dittature militari, arrivava gente perseguitata, arrivavano profughi e lui li accoglieva. La sua casa era un crogiolo di storia e di futuro.
A incontrarlo ti colpiva subito, da un lato la sua forza contadina, le grandi mani, la sua imponenza e irruenza da antico guerriero vichingo (Turoldo è un  nome vichingo, un nome normanno che dice e tradisce la sua origine e anche la sua fisicità), dall’altro i suoi occhi che si commuovevano, occhi infantili e chiari, contrasto tra quella voce profonda, da cattedrale o da deserto, e l’invincibile sorriso degli occhi azzurri. Figlio di questa nostra terra friulana, scriveva, “dove gli occhi di tutti diventano azzurri a forza di guardare”.
Il suo nome da ragazzo era Bepo, Bepo rôs, rosso, il soprannome che gli davano i compagni per i capelli rossi, che poi con l’età sono diventati di un biondo meno inquietante. Io conservo di lui trent’anni di amicizia, trent’anni in cui è stato il mio riferimento, l’amico. Ho subito da parte sua una seduzione di lungo corso e che continua dopo tanti anni dalla morte con la brezza dell’amicizia e il vento impetuoso che scuote ancora, brezza e uragano insieme; lui era così, era dolce e combattivo. Aveva un grandissimo amore per la vita che mi colpiva sempre, era amore per l’uomo, per gli amici, per la festa, l’incantamento che provava davanti alla natura, ad un fiore sul muro, la gioia concreta del buon vino bevuto con gli amici. Ricordo le partite a scopone scientifico la domenica sera a Fontanelle, finite tutte le celebrazioni, con gli amici; erano quattro amici, sempre coppie fisse, e le risate e i pugni battuti sul tavolo per una giocata sbagliata e poi le notti a ragionare insieme di poesia e di Dio. Mi ha insegnato ad amare con la stessa intensità il cielo e la terra, questa era la sua grande caratteristica. E, come diceva la Dirigente prima, la caratteristica di Turoldo si trova nelle sue parole: “Guardate che il criterio fondamentale per decidere le vostre scelte, è questo: scegliete sempre l’umano contro il disumano”. Questo è importantissimo soprattutto oggi, in cui viene avanti il disumano ragionevole: si ammantano scelte disumane di ragionevolezza, si truccano di bene comune o di difesa del bene comune scelte disumane. Su questo è necessario per tutti noi vegliare.
Che cosa lo fa essere così vivo? La poesia e la profezia, e poi questa insurrezione di libertà; ci ha contagiato di libertà, di sogni e della passione per Dio. Il mondo, per lui, si divideva non tanto fra poveri e ricchi, no, c’era qualcosa di più profondo… lui diceva “Il mondo si divide tra i sottomessi, i sotans, e i ribelli per amore”, così si chiamavano gli uomini della resistenza a Milano. Ecco, lui era, con tutto se stesso, un ribelle per amore. Aveva quella doppia beatitudine segreta, non scritta nel Vangelo, ma scritta dal dito di Dio nella vita di tanti… aveva due beatitudini: quella degli uomini liberi – beati gli uomini liberi e le donne libere, beato l’uomo e felice la donna che ha sentieri nel cuore, strade di libertà – e quella degli oppositori – beato chi sa opporsi al mare, beati coloro che hanno il coraggio dell’opposizione all’ingiustizia, all’indifferenza, allo spirito di sconfitta. Credo che questa opposizione all’ingiustizia sia estremamente importante; se vedi una situazione di ingiustizia e non ti schieri, allora tu ti metti dalla parte dell’oppressore, non ci sono alternative. Lui si opponeva per ubbidienza all’umano, e per ubbidienza alla parola di Dio. Si opponeva a tutto ciò che umilia, emargina, crocifigge, sottomette, ciò che chiude; si opponeva con la parola, con la radio, coi giornali, con i libri. In difesa dei poveri la sua voce diventava un ruggito, il ruggito di un leone. Sapendo che la caratteristica dei profeti, la garanzia della profezia è la persecuzione, lui è anche stato perseguitato.
In lui c’era una sorta di spiritualità friulana, se così si può dire che consisteva in questo:

  1. la terra: “la terra è l’immagine di mia madre” oppure “mia madre è l’immagine di questa mia terra”. “Guardavo da ragazzo il volto della Madonna addolorata e il volto di mia madre e non sapevo distinguere l’una dall’altra, si confondevano”. Tre unità fuse tra loro: la terra, la madre, la Madonna;
  2. la gente: la sua spiritualità era quella della gente lavoratrice, povera e di cuore, gente di emigrazioni, ma anche un popolo cantore. Davide amava le villotte, quest canti popolari teneri e forti che terminano però sempre in maggiore, in speranza;
  3. il paese: l’eredità friulana di Davide non è la città o la cittadine, ma sempre il paese, luogo di relazioni, di legami, di radici antiche. Coderno è stato l’elemento fondante della sua spiritualità friulana;
  4. l’essenzialità: poca polvere. Quando io dovevo cominciare a predicare mio papà mi diceva “Pocjis e che si tocjin”, poche parole e concrete. E lui era così: essenziale e concreto. Tutti i profeti hanno un linguaggio franco diretto, un linguaggio che non gira attorno alle cose, che tocca anche le parole degli argomenti più difficili;
  5. il senso di libertà: il senso di libertà e di autonomia che la nostra gente custodisce dai secoli del Patriarcato, senso di diffidenza istintiva davanti a ogni potente, davanti a ogni arroganza

Ecco, se noi potessimo cogliere ancora qualcosa di tutto questo penso che il vero conformarsi, il vero suffragio, lui scrive… “è conformare le nostre azioni ai forti esempi”. Lui è un forte esempio cui conformare le nostre azioni”.

A questo è seguita la visione di alcuni spezzoni del film “Gli ultimi” commentati da padre Ermes (sarà oggetto di un altro post…).

Una mano che strozza in guanti bianchi

Fonte

Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe.
Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…

“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? …
I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.

  1. Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
  2. Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
  3. Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.

Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:

  1. progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
  2. profili organizzativi: presidi reticolari
  3. più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
  4. promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.

Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano.
Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose.
Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi…
Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota.
Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità.
Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.

La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”

Dare un nome e un cognome

“Che emozione! Che emozione, la mia Trieste… vedervi qui riuniti, è veramente un’emozione grandissima… parlare di mafie in maniera obiettiva, consapevole, e di essere anche io qui, personalmente. Il dolore c’è, ci accompagna quotidianamente, un dolore che non sparisce… impari solamente a conviverci, un dolore che non svanirà finché non ci verrà restituita la verità.” Così ha esordito Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina, vittima della strage di via d’Amelio in quanto membro della scorta di Paolo Borsellino. Era presente insieme alle due sorelle di Eddie, Oriana ed Edna, alla plenaria di apertura di Contromafie.

“Io devo dire grazie in particolare al mio papà spirituale, don Luigi (Ciotti, ndr). L’ho incontrato la prima volta nel 2005 o 2006 alla Giornata della Memoria delle vittime di mafia, la prima a cui ho partecipato con la mamma e la zia, e devo dire che è stato veramente liberatorio. Per la prima volta ho pianto, ho pianto davanti a tutti senza vergognarmi e devo dire che mi sono sentita a casa, anche se a chilometri e chilometri dalla vera casa… tutti gli abbracci e l’affetto che ho ricevuti. Soprattutto sono entrata a far parte della famiglia di Libera che accoglie tutti noi, famigliari delle vittime innocenti delle mafie e del dovere; in questi anni ci hanno accompagnati con umiltà, discrezione e tanto affetto, nonché con tantissima pazienza. Ringrazio tutti i ragazzi di Libera, in particolare quelli del Presidio Eddie Cosina di Trieste.

Manca un ragazzo qui, tra noi. Manca Eddie. Aveva trent’anni, ha fatto semplicemente il suo dovere. Ha detto di no due volte alla vita, prendendo il posto del suo collega, sia partendo da Trieste, sia quel giorno del 19 luglio a Palermo, quando era arrivato il suo sostituto e gli disse che avrebbe fatto lui il suo turno così che potesse riposarsi. Io vi voglio lasciare con il messaggio di portare avanti quei valori per cui i nostri ragazzi hanno perso la vita per noi, quei valori che molto spesso la società di oggi ci porta a mettere in secondo piano e a sottovalutare, ma devono essere la base del vivere civile. Quindi, innanzitutto, il senso del dovere, avere il coraggio di fare il proprio dovere e mettere al primo posto il prossimo, piuttosto che noi stessi.

Sono felice anche di essere in un luogo speciale come questo, l’Università: ho detto in più occasioni che quello che desidero, che auspico per la nostra Italia e non solo, visto che il fenomeno mafioso non è una questione meramente italiana, è una sana e buona rivoluzione culturale, che parta dal basso, dai nostri ragazzi, quindi avendo anche il coraggio di parlare nelle scuole di mafie, di legalità. Si parla certe volte anche a sproposito di questi argomenti, bisogna trovare il senso giusto delle parole. E bisogna avere anche il coraggio di dare un nome e un cognome a persone che ci fanno evocare pezzi di storia che invece noi tendiamo a dimenticare.
Quindi, con orgoglio, sono Silvia Stener, nipote di Eddie Walter Max Cosina, agente di scorta del giudice Paolo Borsellino”.

Non ho trattenuto le lacrime.

2019, un’estate sociale

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Due giorni fa sul sito della Pastorale giovanile della Diocesi di Udine è stato pubblicato l’annuncio dell’iniziativa per la prossima estate. Eccone un estratto:

Nell’anno del Sinodo sui giovani e della Giornata Mondiale della Gioventù di Panama, l’esperienza estiva proposta dalla Pastorale Giovanile diocesana non poteva non volgersi a una figura che ha messo i giovani al centro di tutta la sua vita: parliamo di San Giovanni Bosco, il sacerdote piemontese che nella seconda metà del XIX secolo ha dato vita a una vera e propria rivoluzione educativa e sociale nella Chiesa e nella comunità civile dell’epoca.

Da lunedì 29 luglio fino a domenica 4 agosto 2019, tutti i gruppi di adolescenti e giovani della nostra Arcidiocesi sono invitati a vivere questa forte esperienza di fede sui luoghi di don Bosco e di tante altre figure di santità di cui pullulava la Torino di fine ottocento: Madre Mazzarello, don Cafasso, don Murialdo, San Cottolengo, Beato Frassati, ecc. Sono i cosiddetti “Santi sociali”, ossia coloro che – dalla Chiesa – si sono volti a vari ambiti del mondo con spirito di missione e di promozione della persona. La città di Torino, inoltre, propone ancora oggi realtà dalla forte valenza educativa, una su tutte è il Sermig.

Il comunicato sottolinea alcuni aspetti:

  • la preziosità di una esperienza che raramente si ha l’occasione di vivere. Camminare sui luoghi di don Bosco e dei santi sociali, respirare il loro pensiero e calarlo nell’epoca odierna è un passo che non tutti hanno la possibilità di compiere;
  • l’esperienza estiva diocesana dà la possibilità di vivere una “settimana di Chiesa locale”: giovani di diverse Parrocchie, con cammini diversi ma con molti punti d’incontro, hanno la possibilità di conoscersi, confrontarsi, condividere i propri percorsi. La vera “collaborazione pastorale” avviene nell’ottica della condivisione fraterna e reciproca. La proposta estiva è una opportunità che viaggia anche in questa direzione;
  • questa opportunità offre specialmente ai gruppi più piccoli, dalle Parrocchie apparentemente più povere, la possibilità di conoscere un lato di Chiesa giovane spesso relegato nella sfera dei sogni o del “sarebbe bello”;
  • si tratta di esperienze forti, impegnative, profonde, che interrogano ciascun giovane nelle sue corde di sensibilità spirituale. Il giusto mix tra divertimento e catechesi, tra svago e preghiera, tra lavori di gruppo e momenti personali, aiuta a coltivare una profondità spirituale con metodi educativi adatti all’età dei partecipanti.

Per tutti questi motivi, l’Ufficio di Pastorale Giovanile offre la possibilità di accompagnare anche i micro-gruppi di adolescenti e giovani che – per ragioni varie – non avessero la disponibilità del loro catechista o animatore di riferimento.

Uff… che noia!

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“Uff… che noia!”

“Mi date qualche suggerimento per questo pomeriggio? Non so che fare!”

Sono due frasi che frequentemente mi capita di leggere sui social network dal 15 luglio fino all’inizio della scuola. Molti studenti hanno un’estate decisamente programmata e organizzata, ma altri, dopo un periodo di riposo, leggerezza e giornate basate sull’improvvisazione esternano queste sensazioni.

Pubblico allora le iniziative del Movimento di Volontariato Italiano e che vanno sotto il titolo “PROVE TECNICHE DI VOLONTARIATO”. Le riporto suddivise per categorie:

DIVERSE ABILITA’:

  • ANFaMiV (Associazione Nazionale delle Famiglie dei Minori Visivi): accompagnamento in passeggiata, affiancamento laboratori al centro diurno.
    Giorni e orari da concordare.
    Udine, via Diaz 60
    Edda Calligaris 0432.582525 calligedda@gmail.com
  • Comunità Piergiorgio Onlus (per ragazzi maggiorenni): giochi vari di società, affiancamento degli operatori nell’attività con i ragazzi.
    Dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 16.30.
    Udine, piazza Libia 1 oppure via Derna 27
    Lucia Presacco 340.6442757 lucia.presacco@piergiorgio.org
  • Comitato genitori centro residenziale Gervasutta: animazione o passeggiate con ragazzi con disabilità
    Dal lunedì al sabato
    Udine, centro residenziale Gervasutta
    Ernestina Tam, 0432 26973, 338 6236636 comitatodisabiliud@gmail.com
  • Progettoautismo FVG: affiancamento degli operatori in attività ludiche, ricreative, culturali e sportive a favore di ragazzi con disturbi dello spettro autistico
    Dal 19 giugno al 21 luglio e dal 21 agosto all’8 settembre, dal lunedì al venerdì dalle 9:30 alle 16:00
    Feletto Umberto, centro diurno sperimentale Special Needs
    Alessia Domenighini, 339 1900609 consulenze@progettoautismofvg.it
  • Comunità di Volontariato “Dinsi Une Man”: soggiorno marino, affiancamento  degli operatori nell’attività con le persone disabili
    1° turno 25 luglio – 3 agosto
    2° turno 4 agosto – 16 agosto
    3° turno 17 agosto – 29 agosto
    Bibione, sede del CIF,  zona delle colonie
    Lunedì: 18.00 – 21.00  Elena 333 8255121
    Mercoledì: 17.00 – 20.00 Chiara 339 6188171

ANIMAZIONE BAMBINI E RAGAZZI

  • Get up, Punto Luce in Rete: laboratori creativi, giochi all’aperto, letture e riflessioni guidate
    Giovedì e venerdì dalle 16.00 alle 19.00
    Udine, via del Pioppo 55
    Marzia Riondato 340.4267647 getupstandup@gmail.com

LEGALITÀ

  • Libera: campo di volontariato in un bene confiscato alle mafie e “Giornata Libera Terra” per presentare i prodotti Libera nei rifugi alpini
    I campi (nei beni confiscati di tutta Italia) in una settimana a scelta durante tutta l’estate (libera.it) e “Giornata Libera Terra” il 22 luglio nei rifugi alpini
    Francesco Cautero 348.5445896 udine@libera.it
    Emma Mattiussi 345.4217600 presidio.cosimocristina@gmail.com

MERCATO EQUO

  • Bottega del Mondo: allestimento scaffale nel negozio e riordino magazzino
    Giorni ed orari da concordare
    Udine, via Treppo 10
    Francesco Zinzone, 329.0854966 francescozinzone@libero.it
  • CeVI – Centro di Volontariato Internazionale: eventi e banchetti per la raccolta fondi
    Due ore settimanali, giorni ed orari da concordare
    Paderno – Udine, via Torino 77
    Monica Cucchiaro 338.6511749 monica.cucchiaro@gmail.com

DISAGIO SOCIALE

  • Ospiti in arrivo: Refugees Public School, affiancamento all’insegnamento dell’italiano ai rifugiati politici e attività di magazzino e/o organizzazione eventi
    Lunedì, giovedì, venerdì, 16.00 -18.00
    Udine, Arci MissKappa via Bertaldia, 38
    Silva Ganzitti 392.3203190 silvaganzitti@yahoo.it
    Cecilia Barbon 346.2403124 eco@gmail.com
  • Missionari saveriani: campo di volontariato residenziale con i minori stranieri rifugiati
    Dal 25 luglio al 4 agosto
    Siracusa
    Alberto Panichella 338.8856374
  • Caritas Udine (proposta per ragazzi dai 16 anni in poi): mensa diocesana “LA GRACIE DI DIU”, distribuzione pasti, mansioni varie in cucina
    Almeno un giorno alla settimana per tutto il periodo estivo (9.00-14.00; 18.00-21.30)
    Udine, via Ronchi 2
    Alberto Barone, 346.7500148 abarone@diocesiudine.it

Per altre informazioni
Martina Tosoratti
Casa del Volontariato
San Daniele del Friuli
Via Garibaldi, 23
Tel.: 0432 943002 Fax: 0432 943911
Mail: segreteria@movi.fvg.it