“Ho portato il libretto del Live, ovvero un percorso annuale, durante il quale ci si ritrova tra animatori una volta al mese a Santa Maria la Longa per stare una giornata insieme, per ballare, giocare, cantare, pregare eccetera. Ci sono anche altri incontri come un sabato sera al mese, oppure 3 incontri durante l’anno che si tengono a Mestre o a Mogliano Veneto. Ho deciso di portare questo libretto perché simboleggia uno dei posti a cui tengo di più, soprattutto per le persone che vi sono dentro, sincere, buone e con le quali posso essere me stessa. È dall’anno scorso che partecipo a questi incontri ma solo quest’anno ho capito che è qualcosa senza il quale mi sento persa, per cui spero di continuare ancora per molto. Questo percorso termina in estate con i campi estivi” (S. classe seconda).
Riporto il caldo saluto che don Agostino Petriciello rivolge oggi, sulle pagine di Avvenire, a fatel Biagio Conte, scomparso a Palermo in questi giorni a causa di una malattia.
“Fratel Biagio è morto? No, questa è una menzogna. Fratel Biagio è vivo, più vivo che mai, adesso che è volato via da questo mondo. Lo incontrai, ci incontrammo. Insieme ci calammo nelle acque pure del Vangelo e della preghiera per tentare di dissetare l’arsura che ci portiamo dentro. Quel giorno, come sempre, avevo pregato: «Manda, Signore, un angelo sul mio cammino». E l’angelo, ancora una volta, arrivò. Aveva un volto pulito, incorniciato da una barba incolta che gli dava l’aspetto di un antico patriarca; un sorriso largo, sereno, leggero. E degli occhi stupendamente verdi. «Come sono belli gli angeli», pensai. E mi misi alla tua scuola. L’angelo non va ostacolato, ma ascoltato, seguito. Quante volte ero stato ad Assisi? Quante volte avevo desiderato di poter essere stato contemporaneo di Francesco? Quante volte avevo sostato e sognato davanti al suo saio, ormai quasi ridotto in polvere? Un giorno lo incontrai sul mio cammino, Francesco. Si chiamava Riccardo. Chiedeva la carità di un passaggio in auto. Incuriosito, mi fermai. Mi riportò alla fede. Poi, come un’aquila alla quale va stretto il nido, volò verso un Paese da cui tanti fratelli scappano. A servire un popolo che tanti potenti affliggono. A farsi povero per loro e con loro. Oggi lo vedo poco. La Tanzania è lontana. Rimane l’affetto, la riconoscenza, la collaborazione, la nostalgia. Il desiderio e il bisogno di essere scandalizzato ancora dalla radicalità dei coraggiosi. E arrivasti tu, Biagio. A ricordare a me, alla Chiesa, al mondo, che l’amore vero non conosce le mezze misure; che gli innamorati sanno osare, rischiare, mettersi in gioco, sfidare il destino. Sempre eccessivi, sempre presenti. Sei stato un ingordo, frate. Hai affollato quella schiera di uomini e donne che non si accontenta mai. Che guarda continuamente oltre l’orizzonte. Che non ha paura di niente, nemmeno del peccato. Che non si ferma nemmeno davanti all’evidenza. Milioni di persone muoiono di fame. Avresti voluto sfamarle tutte, ma non ti era possibile. Non ti sei arreso. Hai dato da mangiare ai poveri di Palermo. Confidando in Dio. Fidandoti della Provvidenza. Ai poveri di pane si aggiunsero i poveri di cuore, i poveri di spirito, i poveri di vita. Non ti sei scagliato con rabbia contro i rapinatori dei forni altrui, li hai cercati, li hai trovati, li hai aiutati a non perdere la speranza, la dignità, la fede. Sei stato, Biagio, un calcio negli stinchi per tanti tiepidi come me. Il Francesco di Assisi siciliano del nostro tempo. Com’è bella la nostra santa madre Chiesa, frate. Questa grande famiglia dove c’è posto per tutti, santi e peccatori e peccatori trasformati in santi. Così simili, così diversi, così normali, così strani, così originali. Sei volato via a pochi giorni di distanza da papa Benedetto. Le differenze tra te e lui, tra la tua vita e la sua, saltano agli occhi. Eppure quanto vi somigliate. Con strumenti diversi e diverse voci, insieme avete cantato la serenata a chi vi aveva rapito il cuore. Che state facendo, adesso? Quale inenarrabile Mistero stanno contemplando i vostri occhi? Biagio, Benedetto, fratelli di tutti, pregate per noi. Alla Sicilia, cui la mafia stupida e assassina, ha fatto tanto male, ha strappato tante vite, il Signore ha voluto regalare un uomo buono, semplice, spoglio, indifeso, ricco della sua sola povertà. Un uomo con le braccia larghe, lo sguardo lungo, il cuore senza confini. Non hai disprezzato niente dei doni che Dio ha dato agli uomini. Hai voluto condividerli con i poveri. In fondo – permettimi – sei stato lo scaltro del vangelo. Hai capito che la gioia non viene dal possesso e dal potere, ma dal servizio che si rende alle persone, soprattutto quelle che sanno gioire per le piccole cose. Quanto pane hai spezzato agli affamati? « Entra, benedetto dal Padre». A quanti ignudi hai offerto un mantello e un tetto perché non morissero di freddo e di vergogna? « Entra, benedetto dal Padre» Fratel Biagio, Pino Puglisi, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Doni immensi della Sicilia del nostro tempo alla Chiesa e al mondo. Prega per noi, frate. Continua ad essere l’angelo che ognuno desidera incontrare. Grazie per averci ricordato che «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». Ottienici il dono della perseveranza, perché, come te, non ci stanchiamo di fare sempre e solamente il bene.”
Chi è nel triennio ormai lo sa: tra gli stoppini prima (durante la DAD) e gli auguri poi, a Natale e a Pasqua ho preso l’abitudine di rivolgervi un pensiero scritto… Non so che periodo vi aspetti, non so quali feste vi attendano. So che c’è chi aspetta con trepidazione le vacanze natalizie perché è un momento di gioia e condivisione e chi le attende con paura perché legate a momenti dolorosi, c’è chi le attende con indifferenza perché è tutto come gli altri giorni e chi le passerà da una festa all’altra. C’è in particolare chi le vivrà con il vuoto di chi non può più avere accanto fisicamente, e costoro le e li abbraccio con forza. In mezzo a tutto questo, desidero farvi un augurio per il pranzo di Natale o di Capodanno o di un qualsiasi giorno delle vostre vite. Prendo spunto da una poesia di Franco Arminio:
Alzatevi durante la cena, ditelo che avete un dolore che non passa. Guardate negli occhi i parenti, provate a fondare davvero una famiglia una federazione di ferite. Ora che siete in compagnia ditela la vostra solitudine, sicuramente è la stessa degli altri. E dite la noia, l’insofferenza per il freddo, per il cappotto, per la digestione. Se scoppiate a piangere è ancora meglio, scandalizzateli i vostri parenti, piantate la bandiera dell’inquietudine in mezzo al salotto. Fatevi coraggio, prendete un libro di poesia leggete qualche verso, loro per domani hanno programmato il cinema. Parlate dei morti, parlate di voi e poi ascoltate, sparecchiate, togliete di mezzo il cibo, mettete a tavola la vostra vita.
Mi viene da aggiungere un piatto a questa tavola imbandita: quello della gioia, delle cose belle perché anche loro hanno bisogno di essere condivise, di essere portate alla luce, di essere consumate e digerite per diventare sostanza dei nostri giorni. Si tratta di mettere in tavola quello che conta, di mettere a fuoco l’essenziale. In una classe prima, quest’anno, è stato messo sulla cattedra il presepe della foto. Come nella foto, accade spesso anche nella vita che ci voglia un po’ per mettere a fuoco l’essenziale, la condivisione, l’io e il tu, il noi, l’amore… A tutte voi, a tutti voi, alle persone che amate e che sono una benedizione nelle vostre vite, auguro buon Natale e, viste le parole che ho scritto… buon appetito!
“Questa croce mi è stata regalata dai miei genitori quando sono stato promosso. Mi ricorda, visto che è un albero della vita, che le diverse pieghe che può prendere la vita, anche se non sempre piacevoli, portano comunque significato; questa croce mi ha portato a capire che bisognava lavorare di più e mi ha portato a migliorare drasticamente i miei voti. Questa croce simboleggia per me il piano di Dio per tutti noi e come non ci sia sempre chiaro all’inizio” (G. classe seconda).
“Come gemma ho portato una riflessione religiosa fatta due anni fa, un periodo complicato della mia vita, al di là della questione pandemica, anche per la perdita di una persona cara. Essendo io una persona cristiana mi sono fatta le tipiche domande: perché una persona innocente deve soffrire? perché il dolore se c’è Dio? dov’è quando stiamo male? Provo a rispondere. C’è il mistero dell’agire di Dio, però noi crediamo anche se non sappiamo come egli agisca. Immagino la nostra vita come una linea del tempo. Su questa linea ad un certo punto è arrivato Cristo, Dio è sceso in terra. Prima di Cristo eravamo in una situazione negativa; anche ora c’è il peccato, con la differenza che Cristo è venuto a salvarci e possiamo redimerci perché siamo nella grazia di Cristo. C’è chi crede e chi no, lui è venuto per salvare tutti. Per questo disegno la persona prima di Cristo sotto la linea. Noi abbiamo il libero arbitrio, possiamo decidere tra bene e male, possiamo credere in Dio o meno. Dio è in controllo dell’Universo, non delle singole vite, siamo noi il motore delle nostre azioni. Come esempio porto la vicenda di Giuseppe, capace di interpretare i sogni del Faraone; sicuramente mentre era imprigionato non pensava a ringraziare Dio della propria sorte, come noi nelle difficoltà vediamo la nostra fede venire meno. Dio non funziona come vogliamo noi; ha un piano generale in cui si collocano le nostre vite. Per un cristiano la speranza non viene mai meno, Dio è come un salvagente; come ha avuto un piano per Giuseppe, così ce l’ha per me. Ho una visione che mi proietta in avanti, oltre il momento difficile che sto vivendo: anche per me, come per Giuseppe, ci sarà il lieto fine”.
Mentre riflettevo su come commentare la gemma di F. (classe quarta) mi sono imbattuto in alcune parole di David Maria Turoldo: “Spero sempre nell’umanità. Nella mia umanità, nella tua umanità. Quello che non ho fatto ieri, cerco di attuarlo oggi. Spero sempre nel nuovo giorno, che è sempre un giorno mai vissuto da nessuno. E’ come se il mondo sorgesse di nuovo alla luce. Penso al bene che posso fare, il piccolo, grande aiuto che posso dare ai fratelli. Il sole rispunta, la vita risplende, aiutiamoci a sperare”.
In alcune classi, talvolta, faccio un gioco che si chiama testa, cuore e mano. Lo utilizzo per cercare di comprendere che l’intelligenza di una persona può essere molteplice e avere molti luoghi di residenza, e che ciascuno di noi può coltivare molti talenti e che alla domanda “dimmi un po’, tu cosa sei capace di fare?” ci sono tante belle risposte da poter dare e che “so ascoltare”, “so amare”, “so ricamare”, “so zappare”, “so costruire ponti”, “so insegnare”, “so leggere” ecc ecc sono risposte bellissime. Ecco, ogni volta che faccio quel gioco mi vieni in mente Pierluigi. Mi viene in mente la testa: quando ancora andavo al Liceo a inizi anni ‘90 e a bordo di una sgangherata auto, in compagnia di altri amici, raggiungevo Zugliano per ascoltare persone che arrivavano da tutto il mondo e il convegno non era ancora il convegno che è diventato poi (penso la prima volta in vita mia in cui abbia sentito ‘benvenuta e benvenuto a ciascuna e ciascuno di voi’, un doppio saluto che suonava strano allora). Mi viene in mente il cuore: quello capace di generare forza e durezza con i potenti (coloro che hanno in mano le leve), sensibilità e ascolto con il mio cuore addolorato di una grigia domenica mattina dopo messa nella tua sacrestia. Mi viene in mente la mano: quella capace di creare un luogo di accoglienza, di relazioni, di impegno. Ti sono profondamente debitore don Pierluigi e, nel dolore, ho il cuore colmo di gioia per tutte le esperienze che mi hai fatto vivere e le persone che mi hai fatto conoscere, per quanto mi hai fatto crescere, per la speranza che sempre ti ha animato e che spinge chiunque abbia incrociato il tuo cammino a continuare l’impegno per l’accoglienza, la giustizia e la pace. Mandi Pierluigi
A Natale ho mandato alle mie classi gli auguri partendo da come ci stavamo preparando in famiglia insieme a Mariasole. A Pasqua è un po’ diverso, è difficilino spiegare a una bimba di 2 anni che l’amico nato a Natale è diventato grande in 4 mesi, viene ucciso in croce e poi risorge. La Pimpa che vola da Nino il pinguino a bordo di un aquilone è obiettivamente più credibile ai suoi occhi. Quindi ciao ciao a Mariasole.
Qualcosa, però, ho desiderato scriverla lo stesso. Questa che i cristiani stanno vivendo è la settimana fulcro della loro fede, ma è anche il fulcro dell’esperienza di molte persone, anche non credenti. L’esperienza del dolore, del tradimento, della disperazione, della morte, della notte, della vicinanza, del conforto, dell’amicizia, dell’amore, della speranza, della luce. Nel vangelo di Giovanni si parla di una donna, Maria di Magdala, che, dopo la morte di Gesù, si reca al sepolcro. Il cuore è pesante, ha dovuto dire addio ad una persona amata, sente il cuore vuoto perché ha avvertito la speranza morire dentro di sé. E infatti si avvia “quando era ancora buio”. Non ci viene suggerita un’ora, non è un’indicazione temporale, ma è una condizione esistenziale. Maria è avvolta dal buio del dolore, della mancanza di riferimenti. Come quando può capitare a noi nel momento in cui ci sentiamo persi e non riusciamo ad accendere una luce per trovare la strada o quanto meno le indicazioni per rimetterci in carreggiata. Eppure lei va in una direzione, quella del sepolcro, quella del luogo in cui è stato posto Gesù, quella della morte. Arriva e trova la pietra che copre l’ingresso spostata. Torna indietro per avvisare i discepoli e con due di loro ripercorre il sentiero. I due entrano, lei no. Resta fuori, a piangere, convinta che qualcuno abbia rubato il cadavere, come ci conferma la risposta che dà ai due angeli che appaiono (soltanto a lei) mentre si china a guardare dentro il sepolcro. Mentre guarda al luogo della morte, non trova segni di speranza, traccia di luce: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Sono i momenti in cui ci succede di vedere tutto buio, in cui dolore si somma a dolore, in cui le certezze o le sicurezza che avevamo vacillano. Qui però, di Maria si dice che “Detto questo, si voltò indietro”. Lei smette di guardare verso il sepolcro, verso la morte, e si gira dall’altra parte. Il testo dice che vede Gesù, ma non lo riconosce, anzi, lo prende per il custode del giardino. Lui chiede: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Questo è un incontro che auguro a chiunque: quello con qualcuno che si ferma, ti guarda, riconosce il dolore e te ne chiede le ragioni. Qualcuno che si preoccupa davvero di te, tanto che riesce a comprendere che in realtà tu sei alla ricerca di qualcuno che dia il senso a quelle lacrime, che le deterga, che ti sollevi l’anima, ti prenda il cuore in mano e lo accarezzi. Maria esplicita il suo bisogno a colui che crede il custode: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Ridammi il fondamento della mia speranza, restituiscimi la base della mia fiducia, sembra gridare la donna, riportami ciò che mi è stato tolto. “Maria!” le dice Gesù. Lì, quando si sente chiamata per nome, lo riconosce. E il sepolcro, il luogo del buio e della morte, non ha più posto nel suo cuore perché ora la sua speranza ha un altro fondamento: la relazione con qualcuno che non se ne va, che è lì per te, ti chiama per nome, ti chiede il motivo del tormento e ti domanda che cosa tu stia realmente cercando. Il friulano David Maria Turoldo nei suoi Canti ultimi scriveva:
“No, credere a Pasqua non è giusta fede: troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera è al venerdì santo quando Tu non c’eri lassù!
Quando non una eco risponde al tu alto grido
e a stento il Nulla dà forma
alla tua assenza.”
Ecco l’incontro che auguro, per questa Pasqua a ciascuna e ciascuno di voi e ai vostri cari. Per i cristiani è l’incontro con il Risorto, per le persone credenti in altre religioni o non credenti è l’incontro con ciò e con chi dona loro speranza e luce che mai viene a mancare, anche quando pare non esserci, anche quando sembra tutto avvolto nell’oscurità.
“Ho portato la foto della fede che ha mio papà al dito mignolo: è la fede di sua nonna che lui ha ricevuto da giovane in quanto erano molto legati. Mi ricorda il bel rapporto che ho con mia nonna”. Considero Raimon Pannikar uno dei più importanti pensatori del XX secolo e affido a delle sue parole il commento alla gemma di S. (classe terza): “Fin dai tempi più antichi, il filo d’oro è il simbolo di un sapere che nasce dall’esperienza personale e che è libero dai condizionamenti istituzionali. È un filo perché rappresenta la continuità di un’esperienza sempre antica e sempre nuova ed è esile perché in ogni generazione questa consapevolezza viene mantenuta da una minoranza di individui. Questo filo è d’oro perché è immortale, rimane sempre anche nei periodi più caotici e oscuri, a volte più apparente, a volte più nascosto.”
“Come gemma ho portato questo libretto, “Guida del campo estivo”, fatto con la Parrocchia; è stato quello che mi è piaciuto di più, quello in cui mi sono trovata meglio e ho socializzato un po’ di più”.
Ne ho fatti di campi estivi, quanti ricordi, quante emozioni. La costruzione di un libretto partiva poi da molto lontano, soprattutto quando non si usavano i pc e si assemblavano con ritagli di fotocopie, colla e forbici e macchina da scrivere. Ad aprile si iniziava per i campi che si tenevano a luglio e agosto e i cui effetti duravano almeno fino a ottobre-novembre, quando si entrava nel vivo dell’attività invernale. Grazie a M. (classe seconda) per questo tuffo nel passato e per la condivisione dell’esperienza positiva.
“Volevo raccontare un aneddoto che mi è stato raccontato da mia zia. Nel 2011 è mancata la mia bisnonna materna e mia zia era con lei; è poi venuta a casa nostra per avvisare mia mamma. Ricordo che mi sono seduta vicino alla mamma e, vedendola con gli occhi lucidi, le ho chiesto se fosse triste e cosa fosse successo. Lei mi ha risposto che era mancata sua nonna, però mi ha detto che non era triste perché colpita da una cosa che le aveva raccontato sua sorella: negli attimi prima di morire la zia stava parlando con la bisnonna e si era accorta che non rispondeva più e che guardava un punto indefinito. Ha sorriso e ha chiuso gli occhi. Questa cosa mi fa sempre emozionare quando la racconto, anzi, mi fa salire un nodo alla gola perché è poetica e bellissima e, secondo me, dà alla morte un significato che nessuno riuscirebbe mai a dare. La morte spesso può essere anche liberazione: la bisnonna io non l’ho conosciuta nel pieno della sua vita, l’ho sempre vista costretta a letto a causa di una malattia. Ecco, forse più che liberazione, quella scena è la certezza che la morte non è solo paura, ma forse un abbandonarsi a una gioia, a qualcosa che vedi di più. Forse quel giorno lì lei ha sentito un grande amore, una grande gioia e ha detto “è la mia ora e io sono contenta di affidarmi a quello che viene”. Questo mi dà forza e mi aiuta a concepire la morte in maniera più serena, soprattutto in questo periodo”. Amo leggere David Maria Turoldo, trovo così tanta affinità tra i miei pensieri e le sue parole che non di rado mi sono emozionato coi suoi versi. Tuttavia, a commento della gemma di B. (classe quarta), non pubblico una sua poesia, ma un brevissimo estratto di un’intervista del 1991: “Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia”.
So che siamo nel periodo dell’Avvento, è appena iniziato. Molti cristiani, ieri, hanno acceso la prima delle quattro candele della loro corona. Eppure mi soffermo su una riflessione di più di vent’anni fa di Mario Luzi (1914-2005), scritta in occasione della Via Crucis di quell’anno per l’XI stazione, quella di Gesù inchiodato alla croce. L’ho trovata su La rivista de Il Mulino. Sono parole messe in bocca a Gesù stesso. Scrive Luzi:
“Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio Tuo la terra, ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? E terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito? La nostalgia di Te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d’amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa. Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego”.
Resto convinto che i testi delle religioni siano in grado di essere occasione di riflessione per tutti, credenti e non credenti: non farei il lavoro che faccio se non ne fossi convinto. Certo saranno riflessioni dalle molteplici sfaccettature, frutto della diversità umana. Prendo questo dubbio di Gesù e lo porto nel tempo che stiamo vivendo: eccesso o difetto di umanità? “Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?”. Qual è, mi chiedo, lo sguardo che sto gettando sul mondo? Qual è l’atteggiamento che ho? Su quale fronte mi schiero? L’interrogativo del Gesù di Luzi è retorico, perché la risposta alle domande è contenuta nella prima parte: “È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. […] ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare […] Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato”. Si tratta di un Gesù che ha fatto un’immersione completa nell’umanità, anche quella più lontana, anche quella più inaspettata, anche quella inascoltata o dimenticata, quella per la quale è così difficile provare empatia, creare uno spazio d’ascolto dentro di me. Eppure, nonostante tutto questo, conserva un dubbio, quello di essere stato autoreferenziale, quello di aver assecondato una propria volontà, una propria preferenza, un proprio desiderio: “Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa”. Come faccio a comprendere, a discernere tra il gesto egoista e il gesto puramente altruistico? Lo so che nel gesto di generosità è contenuta l’autogratificazione e so che è normale. Ma quale può essere la bussola per non perdermi e non confondere la “Tua volontà”. Troppe volte, in nome di una supposta volontà superiore, si sono compiuti danni inenarrabili! Provo ancora a cercare tra le parole di Luzi una risposta e mi colpiscono queste: “La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario”. Ieri sera a cena con noi c’era una coppia di cari amici: Mariasole passava da un braccio all’altro, li guardava negli occhi, sorrideva, sprizzava gioia da ogni particella del suo corpo. Diceva con tutta se stessa e con le parole: “che bello stare insieme”. Ecco l’umano a cui dovrei cercare di somigliare ogni giorno, ecco l’umano da cercare in questo Avvento affinché il divino possa continuare a trovare albergo nella grotta di ogni cuore…Un brano di Nick Cave rifatto dalla tredicenne Nell Smith insieme ai The Flaming Lips per meditarci su (tutto Where the Viaduct Looms è un cover album pazzesco secondo me!).
Martina Spollero ha terminato il Liceo Percoto nel 2020. Poi si è iscritta a Lettere Moderne ed è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine. Insieme a Gabriele Visintin, studente di filosofia, ha scritto un articolo per Il chiasmo, magazine online edito dalla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU), in collaborazione con l’Istituto Treccani. Lo ripropongo qui molto volentieri e aggiungo ai suggerimenti di lettura dei due autori il libro di Massimo Recalcati “Il grido di Giobbe”, sempre sullo stesso tema (libro che ho appena terminato).
Se l’esperienza del quotidiano è quella di una realtà profondamente intrisa dal male e dominata dalla sofferenza, come conciliare la constatazione del dolore con un vivo rapporto di fede? È possibile un dialogo con un Dio imperturbabile davanti alla sofferenza del frutto stesso del suo amore? La visione della fede proposta dal filosofo danese Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855), sebbene influenzata dalla rigida educazione pietista impartitagli fin dalla giovinezza, risulta un tassello fondamentale nell’analisi dell’esperienza religiosa intesa come imprescindibile componente dell’esistenza umana. Il rapporto col divino che emerge dai suoi scritti viene rappresentato quanto mai distante dai dogmatismi interpretativi consueti mediante cui è percepita la fede. Essa risulta, infatti, caratterizzata da sentimenti radicalmente negativi quali l’angoscia e l’incomunicabilità, i quali isolano l’uomo entro i confini di una prospettiva che lo allontana dai suoi stessi simili. Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard individua differenti stadi della vita dell’uomo. Il primo di essi è quello della vita estetica, nel quale l’uomo sceglie di non scegliere, e ricerca, in tutte le loro forme, il piacere e il godimento personale. La brama della passione – inevitabilmente e per sua stessa natura – non giunge al suo pieno soddisfacimento, conducendo inesorabilmente l’uomo verso la noia e l’indifferenza. La figura esplicativa di questo stadio è appunto quella dell’esteta, del seduttore, alla quale si contrappone l’uomo che incarna le caratterizzanti dello stadio etico e vive conformemente a una morale, inserito in una quotidianità e in una concretezza sociale e umana. Questo momento di vita può essere rappresentato dal marito fedele e laborioso. Come ben evidenziato da Remo Cantoni nel suo saggio introduttivo all’opera di Kierkegaard qui presa in esame, l’aut-aut denota la scelta con cui ci si sottopone al contrasto tra il bene e il male. Non accettare questa dicotomia, pertanto, non significa necessariamente propendere verso il male, bensì verso l’indifferenza etica. La possibile comunicazione che sussiste ancora tra vita etica e vita religiosa viene definitivamente meno nel saggio che il filosofo danese pubblicherà pochi mesi più tardi: Timore e tremore. Mediante l’esempio di Abramo, rivela come l’uomo religioso, immerso in una fede totalizzante, si trovi in aspro contrasto con le convinzioni etiche e morali comunemente accettate e condivise. Il patriarca dell’ebraismo viene messo nella posizione di doversi confrontare con una richiesta assurda e irrazionale: sacrificare suo figlio Isacco. Il nodo insolubile e controverso del rapporto tra l’uomo e la spiritualità scaturisce dalla constatazione che Colui che pretende l’immolazione dell’amato risulti il medesimo che quella prole gliel’ha donata, Dio stesso. La prospettiva, annichilente e disarmante, è quella dell’innocente che si interroga circa il fondamento di un tale abominio e la richiesta di privazione dell’unico frutto d’amore concessogli attraverso il grembo della moglie Sara, simbolo di quella vita che sopravvive – oltre le soglie della morte – sotto forma di eredità nei posteri. Il tragico dolore che Abramo si trova ad affrontare diventa icona dell’esperienza religiosa estesa a tutti gli uomini: essa risulta sconnessa – secondo Kierkegaard – dalla ragione, dalla morale, dalla razionalità. La fede è un salto nel buio, è un cieco abbandono a una volontà che non è conforme e coincidente a quella umana, e che per questo motivo non è comunicabile agli altri individui. Ne deriva un’esperienza di fede profondamente soggettiva e assolutizzante, una frattura che allontana l’uomo dal divino, il quale vive un rapporto assoluto con l’assoluto. “Chi si trova nel mare della disperazione trova l’assoluto”, asserisce Cantoni. L’uomo, dunque, incontra Dio proprio nella sofferenza più totale.
L’esempio letterario in cui confluiscono tutte queste considerazioni è quello del romanzo Giobbe, frutto del genio e della penna di Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939). Potremmo considerare Mendel Singer (protagonista del romanzo) come il tipico uomo morale kierkegaardiano che vive nella convinzione di incarnare una fede sincera, la quale si manifesta – nei limiti dell’illusione generata dalla sua soggettività – in un rapporto diretto con Dio, dinanzi al quale si genuflette e si abbandona completamente, togliendo a se stesso qualunque prospettiva di azione, nell’attesa che si portino a compimento i piani a lui destinati (il tutto fondato su preconcetti di matrice quasi fideistica che vedono un Dio dispensatore di beni ai giusti e di dolori a coloro che non si incamminano lungo la via della rettitudine). Il suo atteggiamento nei riguardi della fede è duplice e fortemente problematico: da un lato nega la necessità di intermediari, rivendicando la possibilità di instaurare un rapporto intimo con l’Assoluto, dall’altro non cerca mai veramente un dialogo con Dio. Nel momento in cui il concatenarsi di spiacevoli eventi imprevisti lo costringe a uscire dai binari della quotidianità e a fare esperienza di un dolore che attanaglia anche le vite degli innocenti, si avvia il turbolento processo di demistificazione dei pregiudizi sui quali si fonda il suo fragile credo, e che lo porteranno via via a prendere le distanze da una fede vissuta meccanicamente, in una sua forma sterile e semplicistica. Proprio l’esperienza diretta con il dolore lo getta nella condizione di interrogarsi sul suo sentimento religioso. Il personaggio viene portato a mettere in discussione la volontà di Dio, il suo rapporto con esso e a prendere in mano le redini di una vita sino a quel momento vissuta come passivo spettatore. Davanti alle disgrazie che lo colpiscono, il suo diviene il grido ancestrale dell’innocente che lamenta l’ingiusta punizione di cui non coglie le ragioni, che rivendica – quasi portavoce degli interrogativi di ogni uomo – il diritto alla felicità. La rabbia si tramuta in rigetto totale della fede, la quale, in quanto elemento costitutivo della sua intera esistenza, porta il personaggio in qualche misura a rinnegare sé stesso e ad abbandonarsi in un tetro nichilismo rassegnato e rancoroso. Se il Giobbe biblico accetta il male così come accoglie il bene, in quanto si percepisce come ente infinitesimale rispetto a ciò che lo sovrasta e non vacilla mai nei suoi intenti – poiché caratterizzato da un rapporto con Dio genuino sin da principio – il personaggio rothiano compie un’evoluzione inversa. Il suo è un percorso che va dall’illusione di una fede sincera che, messa in discussione dalle prove cui si vede suo malgrado sottoposto da Dio, approda al termine del romanzo a un rinnovato dialogo più consapevole e autentico – e dunque più sincero – con il Creatore. Nel racconto si osserva, pertanto, la fede come sentimento profondamente umano che, proprio in quanto tale, manifesta i tratti di quelle stesse debolezze e inquietudini caratteristiche dell’uomo.
La prospettiva religiosa fin qui delineata ribalta la concezione odierna della fede come palliativo verso la sofferenza. Non è grazie alla morte e alla paura verso di essa che l’uomo, anelando a un’eternità metafisica, si rifugia nell’eternità per definizione (Dio), che risulta però inconsistente illusione, inconsciamente creata dall’uomo stesso. Fu il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) a teorizzare che senza la morte come limite naturale non esisterebbero le religioni, così come Dio. La fede vista in questa prospettiva assumerebbe caratteri prettamente utilitaristici: l’individuo è costretto ad affidarsi a una figura ultraterrena e soprannaturale per sperare in una vita che possa superare la morte. Presentata in tal modo, l’adorazione religiosa è legata esclusivamente alla promessa di immortalità. Senza questa promessa, se dell’uomo, delle sue opere e del frutto delle sue fatiche nulla rimane, allora Dio non solo sarebbe “inutile”, ma non avrebbe senso neppure porsi la questione della sua esistenza. La fede esisterebbe fintanto che da essa si può ottenere un profitto reale e tangibile. Nel suo senso antropologico, il dolore si manifesta nell’estrema concretezza di un’esperienza in grado di produrre quella discontinuità necessaria a rompere il ritmo abituale dell’esistere e a trasfigurare sotto una rinnovata luce le esperienze caratterizzanti del quotidiano. Risulta al contempo patimento e rivelazione: il suo porre inesorabilmente l’uomo dinanzi la cocente presa di consapevolezza dei suoi limiti e della sua fragilità, lo predispone all’analisi di sé e alla messa in discussione dei paradigmi interpretativi a lui consueti. Chiuso entro i confini del suo microcosmo esistenziale, l’individuo acquisisce paradossalmente una prospettiva privilegiata per meditare sulla natura e sullo scopo della sua stessa sofferenza in quanto «prezzo dell’esistenza e sapore dell’istante che passa» (Le Breton, 2007). L’impressione è quella di un patimento tutto individuale, incomunicabile agli altri e a loro incomprensibile che alimenta il ripiegamento in una dimensione inedita dell’esistenza. Il dolore può assumere un valore solo nel preciso istante in cui ad esso viene attribuito, quando diviene cioè epifania di un disegno ultimo che va al di là dei confini di quel frammento di vita che è l’uomo. Imprescindibile punto di partenza per il maturare di una fede viva e sincera è proprio l’esperienza del più profondo e totale abbandono, di quel tetro silenzio di un Dio che apparentemente tace davanti alla sofferenza umana. La visione screditante della fede come comodo palliativo non è altro che la distorsione derivante da un’interpretazione fortemente semplicistica del sentimento religioso e implica il rischio di deresponsabilizzazione dell’uomo e dell’agire: il sacrificio umano non è la sopportazione del dolore, è l’accoglienza di un messaggio di fede capace di farsi propulsore all’azione e occasione per una riscoperta sincera della presenza di un essere Altro, esterno ma allo stesso tempo componente intrinseca di sé. Ciò che si è voluto dimostrare con quest’analisi è come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato di assolutezza divina, divenga quotidiana riscoperta del rapporto autentico con l’Assoluto attraverso l’intima esperienza del dolore. L’essenza del sentimento di fede risiede nella tensione di un’inesauribile ricerca della luce tra le pieghe in ombra dell’esistenza, nel perpetuarsi di un’insaziabile esplorazione profonda della vita interiore spinta dalla volontà di dare risposte circa il senso dello stare al mondo e di quel fine ultimo verso cui la vita dell’uomo è volta teleologicamente a tendere.
Per saperne di più: GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Roma, Paoline Editoriale Libri, 2015. KIERKEGAARD, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2016. KIERKEGAARD, Timore e tremore, Milano, Mondadori, 2016. KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio, Bologna, Il Mulino, 1997. LE BRETON, Antropologia del dolore, Roma, Meltemi editore, 2007. ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano, Adelphi edizioni, 2014.
La mia adolescenza ha avuto spesso come colonna sonora il metal, sparato al massimo del volume attraverso gli auricolari di un walkman della Sony che dovrei avere ancora in qualche cassetto dei ricordi.
Oltre alle due parti di Keeper of the seven keys dei tedeschi Helloween di Michael Kiske, uno degli album che ho ascoltato maggiormente è sicuramente Trash di Alice Cooper. Era sicuramente un altro modo di ascoltare musica: niente Spotify o Deezer o Amazon, niente streaming. L’unica possibilità di “piratare” qualcosa era l’amico che ti prestava un cd o un vinile o una cassetta e tu li masterizzavi o li riversavi restituendogli poi l’originale. Insomma, non grandissime sperimentazioni. Soprattutto, quando trovavi qualcosa che ti piaceva, chi viveva con te benediceva l’esistenza di cuffie e auricolari perché la ripetizione si faceva continua.
Ma torniamo ad Alice Cooper. Ogni anno propongo alle classi seconde un lavoro: portare una canzone sul tema del sacro, della fede, di Dio. Può essere anche di critica o di dubbio o di negazione, l’importante è che vengano toccati quei temi. Studentesse e studenti devono preparare una presentazione in cui introducono artista e canzone e spiegano il motivo della scelta. Quest’anno una studentessa ha proposto I am made of you. Penso che per comprendere il reale significato di questa canzone sia utile inquadrare brevissimamente il personaggio e dare un’occhiata ad alcune dichiarazioni di Alice Cooper, rilasciate in varie interviste.
Alice Cooper oggi ha 73 anni e il suo vero nome è Vincent Damon Furnier. Nel corso della sua lunga carriera è spesso stato protagonista di scene che hanno colpito gli spettatori dei suoi concerti: camicie insanguinate, pupazzi ghigliottinati, serpenti al collo, simboli fallici, immagini horror, mostri, seghe elettriche… Gli eccessi si sono poi spostati dal palcoscenico alla vita privata, con l’abuso di alcol e droga, al punto che la moglie lo abbandona: “Sheryl se n’era andata – era andata a Chicago e aveva detto ‘Non posso vederti così’. Ma la cocaina parlava molto più forte di lei. Alla fine, mi sono guardato allo specchio e sembrava il mio trucco, ma era il sangue che scendeva [dai miei occhi]. Forse avevo delle allucinazioni, non lo so. Ho buttato la droga nel water. L’ho chiamata e le ho detto: “È fatta, basta”. E lei dice: “Bene. Ma devi provarlo.” Uno degli accordi era che iniziassimo ad andare in chiesa. Sapevo chi era Gesù Cristo ma lo respingevo. Sapevo che dovevo arrivare ad un punto in cui avrei accettato Cristo e iniziato a vivere quella vita, o sarei morto. Ed è quello che mi ha davvero motivato. Sono arrivato al punto di dire: “Sono stanco di questa vita”. E alla fine capisci che è la scelta giusta quando il Signore ti apre gli occhi e improvvisamente ti rendi conto chi sei e chi è Lui” (fonte Metalitalia). Afferma ancora: “Amo considerarmi il vero figliol prodigo. Dio ha permesso che io facessi qualsiasi cosa per poi richiamarmi a sé. È come se mi avesse detto ‘Hai visto abbastanza, è ora di tornare a casa’. Ero un alcolista malato, autodistruttivo. Bevevo in continuazione, vomitavo sangue tutti i giorni. Poi ho ricominciato ad andare in chiesa. Le case, le macchine, le cose materiali non sono la risposta, c’è solo un grande nulla al di là di queste cose. Si dice che nel cuore c’è un buco a forma di Dio. Solo quando lo riempi sei soddisfatto ed è dove sono io adesso. Ed è per questo che io adesso sto bene” (fonte Il Manifesto). Sui primi anni della carriera dice: “Mi sono risparmiato una targa nel club dei 27 [artisti morti a 27 anni, vedi wikipedia] e di finire come gli amici con i quali negli anni ’70 a Los Angeles formavamo il nucleo originale degli Hollywood Vampires. Ci incontravamo in una sala del Rainbow Bar and Grill ed era puro spasso. C’erano John Lennon, John Belushi, Keith Moon, il più grande batterista della storia, che ogni sera veniva vestito diverso, una volta da Regina d’Inghilterra, un’altra da Hitler. Bevevo con Jim Morrison e Jimi Hendrix, tutti finiti tragicamente […] Non so fino a che punto sia stata una scelta. La verità è che non conoscevamo il limite fra libertà e autodistruzione. Passammo tutti dal guadagnare pochi dollari a sera a contratti milionari e nessuno di noi aveva un manuale di istruzione per gestire il ruolo di rockstar, la fama e i soldi. Era molto facile esagerare con alcol, droghe, donne, e in tanti si sono consumati. La generazione successiva ha imparato da loro a non morire. Steven Tyler, Mick Jagger, Rod Stewart, Iggy Pop e io abbiamo attraversato la giungla di eccessi e siamo sopravvissuti. La nostra sì, è stata una scelta […] Mi sono salvato con la fede e la spiritualità. Sono diventato discepolo di Cristo e ho cambiato stile di vita. Se c’è una cosa che Dio non ha detto è che io non potevo essere una rockstar. Mi ha creato rockstar e, visto che ci vuole eccellenti e non mediocri, lo faccio al meglio. Avere fede non significa mica stare tutto il giorno inginocchiati a pregare” (fonte Il Messaggero).
Fatto questo inquadramento, ecco che le parole della canzone non hanno bisogno di molti commenti. Riecheggiano immagini e parole dell’inizio della Bibbia, della Genesi, della creazione: “In principio ero solo un’ombra, in principio ero solo, in principio ero cieco, stavo vivendo in un mondo privo di luce. In principio c’era solo la notte. Ero distrutto, a pezzi e mi sentivo così freddo dentro. Poi ti ho chiamato dalle tenebre dove mi nascondo. Io sono creato da te… All’inizio eri una rivelazione, un fiume di salvezza e ora credo. Tutto ciò che volevo, tutto ciò che mi serviva era che qualcuno mi salvasse: stavo annegando, stavo morendo, ora sono libero. Io sono creato da te… Eccomi qui ora, adesso posso restare perché il tuo amore mi ha reso forte e per sempre tu sarai il cantante ed io sarò la canzone. Io sono creato da te…”
E questo essere la canzone di Dio si traduce anche nel suo impegno nei confronti di altri musicisti con problemi di dipendenze, un vivere la fede in modo attivo e concreto: “Studio molto la Bibbia, penso che la gente abbia un’idea sbagliata dei cristiani. Anche noi amiamo il rock. Oggi continuo a suonare dal vivo, sicuramente ho un altro sguardo su quello che ho fatto. Molte delle mie vecchie canzoni erano sicuramente eccessive, ma le mie hit, anche se erano provocatorie, sono del tutto accettabili. È facile bere birra, distruggere le camere d’albergo. Ma essere cristiano è una scelta dura. È questa la vera ribellione” (fonte Il Manifesto).
Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. Il secondo è esplicato da Marco Ventura, insegnante all’Università di Siena e Direttore del Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Lo si può trovare a questo link.
“Viviamo in un mondo popolato da tanti dèi. D’istinto rinserriamo le file, sventoliamo le bandiere; mobilitiamo e irrigidiamo le identità religiose. «Genti venute dall’Est credevano in un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male», cantava Fabrizio De André nel 1970. A noi, invece, hanno fatto male eccome. Perciò non siamo disposti a tollerare gli intolleranti, e tuttavia crediamo ancora nella convivenza pacifica tra le fedi. Possibile per noi, com’è stata possibile in altri tempi e spazi. «Rispetta il Dio altrui», allora, diviene il comandamento chiave del nostro tempo. Non pretendere che chi crede in un Dio diverso dal tuo celi la propria fede, la alteri o la abbandoni; non esigere che si astenga dal praticare il proprio culto o dal seguirne i precetti, a meno che ciò non comporti un pregiudizio per qualcuno. Accetta che il Dio altrui strattoni il tuo, lo sfidi, gli chieda conto della sua divinità, della sua verità e del bene che l’uomo trae dal venerarlo e dall’obbedirgli; accetta di parlare con chi crede in un altro Dio, di sedere alla stessa mensa, nuotare nella stessa acqua, decomporti nella stessa terra, istruirti nella stessa scuola, votare nello stesso Parlamento. Non usare lo Stato, la politica, i soldi e il sesso contro il Dio altrui. Non usare il tuo Dio per dominare lo Stato, la politica, i soldi e il sesso. In un mondo sempre più cristiano e più musulmano, devi preoccuparti anche dei piccoli dèi e dei pochi credenti, delle religioni che vengono scacciate da una foresta distrutta, delle comunità sfrattate da un dittatore; in questa società piena di dèi rigonfi, sgargianti e urlanti, abbi cura delle divinità smilze, modeste e silenziose. Davanti ai tanti che non credono, rispetta il non Dio altrui; se non credi in alcun Dio, rispetta chi ti accusa di non averci capito niente. Se non vuoi dare un nome al tuo Dio, rispetta chi si riempie la bocca dei titoli del suo; se credi che un vero Dio gridi forte il suo nome, rispetta chi sulla carta d’identità lascia in bianco la casella religione. Quando incontri adepti del Dio del mercato, dello star system e della moda, della scienza e della tecnica, rispetta la loro fede. Se credi in quel Dio, rispetta a tua volta chi crede nel Dio dei poveri, dei refrattari al palcoscenico, degli allergici all’innovazione, degli obiettori al progresso. Nel tempo dei monoteismi, rammentati delle virtù dell’Olimpo greco e del Kailash indù; nel tempo degli idoli a prezzo scontato, ricordati che non avrai altro Dio all’infuori di me.”
Su Settimana News ho recuperato un articolo di Giannino Piana (pubblicato sulla rivista Il gallo) sulla figura di Adriana Zarri, che nel mese di aprile avrebbe compiuto 100 anni.
“Il mondo interiore di Adriana Zarri, una vera mistica del nostro tempo, non è facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità (Èpiù facile che un cammello… Gribaudi, Torino 1975; Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978; Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, Assisi 1981; Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011; Quasi una preghiera, Einaudi, Torino 2012) – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua. La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno a un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti, dagli uomini agli animali al mondo vegetale, aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa (Cf. Con quella luna negli occhi, Einaudi, Torino 2014). È sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto.
Ad avvalorare questa visione vi è poi il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia l’originalità di Adriana: la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero (e profondo) coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio. La spiritualità di Adriana coinvolge dunque – come si è accennato – la realtà in tutte le sue dimensioni. Il profumo dei campi nelle diverse stagioni, il colore variegato dei fiori, il fruscio delle fronde e il verso degli animali e, soprattutto, le vicende degli uomini, quelle dei poveri in particolare, segnano l’incontro con un Dio che è dentro la storia: il Dio che si è definitivamente manifestato nella persona di Gesù di Nazaret. Ma l’aspetto che contraddistingue, in modo speciale, il suo approccio, e che la avvicina alla spiritualità francescana, è l’accento posto sull’importanza che ha avuto, nel «farsi carne» (sarx) del Figlio di Dio, la dimensione «spaziale», e non solo «temporale»; il «divenire natura», e non solo storia. Il creato, in tutta la ricchezza delle sue espressioni, assume il carattere di habitat (spazio opportuno) che, rapportandosi al kairòs (tempo opportuno), conferisce alla dimensione contemplativa un orizzonte cosmico. L’esperienza di Dio nel mondo fa della vita quotidiana, nella molteplicità delle sue espressioni, non solo la sorgente, ma anche la modalità secondo la quale vivere la relazione con il divino. Vi è dunque una profonda continuità tra vita spirituale e vita quotidiana, perché il Dio della rivelazione è – come ci ricorda la lettera ai Filippesi da Adriana spesso citata – colui che in Gesù Cristo «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» e «facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8). Dio e mondo sono dunque per Adriana in un rapporto di circolarità: da un lato, la immagine del Dio cristiano non può prescindere dalla sua relazione con il mondo di cui è entrato a far parte; dall’altro, il mondo è da questa relazione riscattato; diviene anticipazione del Regno. Questa visione della realtà, che sollecita l’impegno nel presente e l’attesa del futuro, ha per Adriana una perfetta esplicitazione nella preghiera del Padre nostro, dove alla richiesta del pane quotidiano («Dacci oggi il nostro pane quotidiano») corrisponde l’invocazione del compiersi del Regno («Venga il tuo Regno») e dell’adempimento della volontà del Padre («Sia fatta la tua volontà») (Mt 6, 9-13).
La dinamica relazionale, che è l’asse portante della spiritualità di Adriana, ha poi nel mistero trinitario le sue radici. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, che Gesù di Nazaret ha reso trasparente nella sua persona e attraverso la sua azione, è il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio nel quale la relazione coincide con la stessa natura: le persone che costituiscono il mistero divino sono in quanto si rapportano tra loro. La definizione che di Dio fornisce la prima lettera di Giovanni: «Dio è carità» (1Gv 4,8) ha qui la sua più profonda motivazione. Trinità e carità sono strettamente correlate e interdipendenti. Solo di un Dio che vive in comunione di persone è infatti possibile dire che è Amore (e non semplicemente che ha l’amore), perché l’amore implica la relazione tra persone, che si costituiscono nel reciproco donarsi. In un libro di preghiere (o di quasi preghiere) che reca significativamente il titolo Tu (Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, Torino 1973), Adriana si rivolge a Dio come a Qualcuno cui è possibile dare del tu, giungendo a livelli di intimità che ricordano le grandi esperienze mistiche – da maestro Eckhart a Giovanni della Croce e a Teresa d’Avila – alle quali spesso Adriana fa riferimento nei suoi scritti. L’incontro profondo, ma sempre inevitabilmente limitato, con il tu divino – la conoscenza di Dio è quaggiù parziale («per speculum et in aenigmate») – è la molla che spinge Adriana ad accostarsi alla morte, che ella considera una componente essenziale della vita – il contatto con la natura cui è stata abituata fin dall’infanzia facilitava la consapevolezza di questa continuità – come al passaggio da questa vita alla vita nuova, nella quale diviene finalmente possibile entrare in una relazione «faccia a faccia» con il Signore, che consente di conoscerlo come egli è («sicuti est»).
La spiritualità di Adriana non si esaurisce tuttavia nella sola adesione ai presupposti fondativi ricordati; si rende concreta in una serie di attitudini esistenziali, due delle quali meritano di essere particolarmente ricordate. La prima è l’ascolto. Le religioni del Libro sono religioni dell’ascolto: «Ascolta Israele» è l’invito che, fin dall’inizio, Dio rivolge al suo popolo. Ma l’ascolto – Adriana lo mette bene in evidenza – non si esaurisce (e non può esaurirsi) in un semplice sentire; esige un ridimensionamento dell’io per fare spazio all’accoglienza dell’altro e alla comprensione del suo messaggio. Esige la creazione di un clima di silenzio e la disponibilità a fare propria la povertà evangelica, che è insieme sobrietà nei confronti delle cose e apertura fiduciale alla grazia divina. La scoperta del mondo degli altri e dell’Altro è legata all’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità, quale frutto di una profonda trasformazione interiore, una vera metanoia. Una seconda attitudine, particolarmente cara ad Adriana, è la ricettività, che considera un habitus esistenziale in stretta sintonia con il vissuto femminile. Destinata a essere custode della vita, la donna ha sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di tale attitudine, la quale, lungi dall’identificarsi con la passività, è l’espressione (forse) più alta di attività, in quanto esige, per potersi esplicare, un processo di interiorizzazione, che consenta di riconoscere l’altro nella sua alterità, senza proiezioni mistificatorie. D’altra parte, la ricettività non è soltanto una virtù umana, per quanto grande; è anche – a questo va soprattutto ricondotta l’importanza che Adriana le attribuisce – la condizione fondamentale per vivere la relazione con il Dio cristiano, il quale viene costantemente incontro all’uomo, andando alla sua ricerca anche quando si è colpevolmente allontanato da Lui. La fede non comporta dunque un andare verso Dio, ma un disporsi a riceverlo, creando le condizioni per accoglierlo, lasciandosi fare e amare da Lui.
L’esperienza spirituale fin qui evocata ha per Adriana il suo momento più alto nella preghiera, o meglio nel pregare, il quale, lungi dal ridursi a fare o a dire preghiere, è un vero e proprio modo di essere-al-mondo. Il Dio della rivelazione biblica è il Dio dell’alleanza, che entra in comunione vitale con l’uomo, ma che, al tempo stesso, gli impone di non raffigurarlo né nominarlo, rivendicando in questo modo la sua assoluta Alterità. La preghiera è dunque ascolto, incontro e relazione, ma è anche rispetto di una distanza che non può mai essere del tutto colmata. È un vivere alla presenza di Dio, fare esperienza dell’essere abitati da Lui, ma è anche riconoscimento dell’assenza; è rifiuto di catturarlo per servirsene, evitando di assumersi fino in fondo la propria responsabilità nel mondo. La preghiera è una cosa seria che non deve essere separata dal contesto in cui si sviluppa l’esistenza e che implica la confidenza, ma che non può essere viziata da sdolcinature impudiche: il tema del pudore ricorre con frequenza nei testi spirituali di Adriana come un’istanza che deve connotare ogni espressione religiosa. L’incontro con Dio rinvia all’impegno nel mondo; l’atto cultuale non ha alcun significato se non si traduce in culto spirituale, nella capacità di coniugare incontro con Dio e fedeltà all’uomo e alla terra, immettendo nel dialogo religioso le inquietudini e le speranze umane. La preghiera di Adriana ha questo timbro; da essa scaturisce la militanza che ha contrassegnato l’intera sua esistenza, con la partecipazione diretta alle battaglie contro le diseguaglianze sociali e per la promozione dei diritti civili. L’eremo non è stato per lei un luogo separato dal mondo, ma un angolo appartato dal quale guardare con lucidità e partecipazione le vicende umane e mondane. La solitudine del monaco – Adriana preferiva definirsi così, al maschile, per l’accezione equivoca acquisita dal termine femminile – non è isolamento; è un processo di riappropriazione del mondo interiore, che restituisce all’uomo la libertà, rendendolo capace di esercitare il discernimento profetico nei confronti della realtà. Una spiritualità, quella di Adriana, la cui grande linearità e coerenza ha suscitato talora forti contestazioni da parte di ambienti ecclesiastici tradizionalisti; ma che ha, nel contempo, favorito la nascita di profonde amicizie religiose e laiche – come non ricordare dom Benedetto Calati e Rossana Rossanda? – che hanno concorso ad arricchire la sua esperienza religiosa e civile (e di cui hanno fruito quanti hanno frequentato i suoi incontri). Una spiritualità, soprattutto, nella quale la tensione alla trascendenza, lungi dal vanificare la dedizione nei confronti dell’uomo e della terra, ha fornito piuttosto lo stimolo all’esercizio di una limpida e feconda testimonianza in favore della città degli uomini.”
Meno di un mese fa, il 20 luglio, si è spenta, a 85 anni,
l’attrice Ilaria Occhini. La scorsa settimana, facendo un po’ di ordine
tra tagli e ritagli di vecchi giornali che avevo messo da parte, ho scovato
un’intervista fattale da Gabriella Mecucci per Fondazione Liberal in cui
parla del nonno Giovanni Papini, di cui proprio quest’estate mi sono
ripromesso di leggere qualcosa. Mi piace proporla qui.
“«Sospetto che Papini sia stato
immeritatamente dimenticato»: così scriveva il grande Borges nell’ormai lontano
1975. E aveva ragione da vendere se persino oggi nel cinquantenario della morte
(l’intervista è del 2006, Papini muore l’8 luglio 1956) non è stato
fatto quasi nulla per ricordarlo. I suoi libri sono scomparsi dagli scaffali
delle librerie. Eppure di questo intellettuale si può dire tutto tranne che non
abbia segnato con la sua presenza la vita culturale italiana. Intendiamoci, il
suo nome ancora circola fra gli addetti ai lavori: qualche convegno affronta la
sua robusta personalità e qualche giovane critico medita di sottrarlo alla
damnatio memoriae, ma è poco. Troppo poco. Ilaria Occhini, grande attrice e
moglie di Raffaele La Capria, è stata la sua nipotina preferita. Il nonno l’ha
amata teneramente e lei ha conservato tutto intero il calore di quel rapporto.
E lo racconta, intrecciandolo qua e là con la vita importante e difficile di
Giovanni Papini, con le sue avventure culturali e letterarie.
Perché signora Occhini suo nonno è stato dimenticato? Dimenticato? Io direi epurato. Nonostante però che non si studi più nelle scuole e nelle università, nonostante il tentativo vergognoso di farlo sparire, la sua figura è così gigantesca che l’operazione è destinata a fallire. Papini ha un ruolo troppo importante nel Novecento italiano, nella rivoluzione del Novecento per ridurlo al silenzio. Può essere amato o detestato, si può considerare o no un grande scrittore, ma non si può cancellare. È stato il fondatore di tre riviste che hanno profondamente segnato la vita intellettuale italiana: Leonardo, Lacerba e La Voce. Non si può negare che attraverso questi canali è entrata nel nostro Paese la cultura europea. Mio nonno è stato certamente un grande sprovincializzatore. C’è poco da fare, alla fine lo dovranno riscoprire. Non si può parlare di Prezzolini e Soffici saltando Papini.
Da “Il Mattino” del 15 aprile 2016
E perché allora questa damnatio memoriae? La prima ragione è Gramsci che espresse su di lui e sulla sua opera giudizi sferzanti. Non le ho mai lette ma so che quelle parole molto dure hanno pesato parecchio in un Paese come il nostro a egemonia culturale comunista. Probabilmente questa è la causa principale. Mio nonno è stato molto importante nella vita culturale italiana, una stroncatura di Papino poteva far male. Lui, dal canto suo, aveva una penna facile, era spregiudicato, non gradava in faccia a nessuno e non risparmiò nessuno. Voglio dire che fu irriverente anche verso gli accademici di prima fila. Insomma, di nemici se ne fece parecchi. Nessuno osò attaccarlo in vita, anzi la sua lunga e terribile malattia fu seguita dalla stampa con attenzione, con affetto. Subito dopo la morte però si scatenarono.
Basta questo per spiegare il tentativo di rimozione? Questo conta parecchio, ma probabilmente c’è anche dell’altro. Certamente lo ha danneggiato il suo essere catalogato come fascista. Anche se mio nonno non fu mai organico al regime. Non adulò mai – come tanti altri intellettuali – Mussolini e i gerarchi che pure conosceva. Non chiese loro alcun favore. Scrisse al duce una sola volta per chiedergli di fare una strada a Bucciano, altrimenti i contadini potevano salire solo con la mula. La lettera è molto bella ed è conservata nell’Archivio di Stato. Certo, del fascismo condivideva alcuni valori di fondo, ma fu l’ultimo a essere nominato accademico d’Italia. Quando la Repubblica di Salò gli offrì il posto di Gentile, dopo l’uccisione del filosofo, disse di no. Né fece mai parte di coloro che lodavano il nazismo. Andò a Weimar, dopo aver detto ben tre no ai tedeschi che continuavano a invitarlo, e fece un discorso tutto letterario. Non una parola di politica.
Tanti intellettuali sono stati fascisti, ma non per questo hanno subito l’epurazione? Lo so. Erano molti quelli che osannavano le gesta del duce. Che sostenevano cose da vergognarsi. Mio nonno non si comportò mai così. Il peccato che ha determinato quella che ho chiamato epurazione non è stato il filofascismo, ma il non essere diventato, a regime caduto, un fervente antifascista. Non aver imboccato – come hanno fatto in tanti – la strada dell’intellettuale organico al Pci. Se avesse fatto questa scelta avrebbe partecipato alla schiera dei redenti. Ecco, mio nonno non è un redento.
Quanto pesò la malattia nella vita e nella produzione culturale di suo nonno? Un morbo, allora non diagnosticato, lo privò prima dell’uso della mano destra, condannandolo a non poter scrivere, poi della mano sinistra, poi delle due gambe e infine della parola. Questo calvario, durato cinque anni e sopportato con spirito profondamente cristiano, non lo fece smettere mai di lavorare. Anche quando non parlava più, trovò un modo per dettare. Mia cugina Anna Paszkowski si sedeva accanto a lui e snocciolava l’alfabeto, quando arrivava alla lettera giusta, mio nonno faceva un segno col capo ed emetteva un suono gutturale. E così, faticosamente, consonante dopo vocale, veniva composta la parola. Anna col passare del tempo era diventata molto brava: le bastavano una o due sillabe per intuire quale fosse l’intera parola. Con questo metodo il nonno riuscì a scrivere La spia del mondo che è un volume di Schegge. Secondo me una delle cose più belle di Papini. In quei lunghissimi anni, tormentati dal dolore, non ha mai smesso di pensare, dettare, sperare. Non si è mai lamentato.
Lei ha parlato di spirito profondamente cristiano, che importanza ha avuto nella vita di suo nonno la conversione? Ilaria Occhini si alza e mi porta un brevissimo, folgorante scritto di Giovanni Papini. Nessuno meglio di Papini stesso ha raccontato il suo rapporto con la malattia e con Dio. Sotto il titolo Morte quotidiana, poche righe: Sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso. La morte non è che immobilità taciturna nelle tenebre. Io muoio dunque un po’ per giorno, a piccole dosi, secondo il modulo omeopatico. Ma io spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all’ultima giornata con l’anima intera.
Da questo scritto e dai suoi racconti, nonostante una malattia terribile, Giovanni Papini aveva una intensa vita intellettuale e spirituale… Sì, e anche se piò apparire incredibile, era allegro. Ricordo che insieme abbiamo fatto qualche grande risata. Era ironico e autoironico. Da buon toscano amava la battuta. Gliene venivano di buone. Dello scrittore e critico Carlo Bo disse che aveva l’ingegno più corto del nome. E la frase arrivò alle orecchie anche del destinatario che per la verità non se la prese più di tanto. Anzi, reagì bene.
Torniamo al Papini irriverente, che con le sue stroncature o magari con le sue battute si fece parecchi nemici. Persone che fin quando era in vita preferirono tacere, ma che – come lei raccontava poc’anzi – in morte si scatenarono. Cosa successe dunque dopo la sua scomparsa? Le racconto un fatto preciso. Mio nonno scriveva sul Corriere della Sera, ne era un collaboratore. Quando era ancora in vita quel quotidiano aveva raccontato la sua malattia con rispetto e affetto. Il giorno dopo la morte, fu il primo giornale che andai a leggere. Il necrologio del Corriere era un articolo pieno di critiche acide e di cattiverie. Una vera e propria stroncatura di Papini. Ci rimasi malissimo. Non potevo credere che si potesse pensare tanto male di mio nonno anche perché in passato era stato molto omaggiato. Come immaginare che avesse critici così feroci? E come accettare che si appalesassero solo dopo la sua scomparsa? Mi sembrò terribile.
Lei era la nipote prediletta di Giovanni Papini. Che rapporto aveva con suo nonno? Io sono nata in casa sua. Lui appuntò sulla sua agenda il giorno e l’ora della mia nascita e scrisse su quelle pagine della sua grande gioia. Quando ero piccola fu il mio compagno di giochi, il mio asilo. Se avevo bisogno di qualcosa, correvo da lui. Se ne combinavo qualcuna delle mie, la punizione che mio padre mi infliggeva consisteva nel non poter stare con lui. Una volta detti una rispostaccia e mi venne vietato di uscire con il nonno. Papini era solito prendere una volta alla settimana la carrozza per andare a fare una passeggiata. Spesso mi portava con sé. Il giorno che scattò la punizione saremmo dovuti andare insieme al ristorante Le Logge. Mia nonna telefonò a mia madre e le disse: «Così non mettete in castigo l’Ilaria, ma mettete in castigo Papini».
Un grande legame… Non c’è dubbio. Ricordo che si scappava insieme in campagna e ci buttavamo giù per la Ripaccia, una stradina molto scoscesa, pericolosa per una bambina ancora piccola e per un anziano signore quasi cieco e pieno di acciacchi. Eppure andavamo all’avventura e ci divertivamo un mondo. Un giorno non riuscivamo più a tornare a casa e, quando dopo parecchie ore rientrammo, la nonna ci mise in punizione a tutti e due.
Quando lei è cresciuta, questo tenero rapporto è diventato anche uno scambio intellettuale? Ne La mia Ilaria scrive che per fortuna io non lo conosco per il suo graffiare sui fogli, ma per altro. Seguiva da vicino i miei studi. Veniva a sapere che a scuola facevamo Leopardi? Subito si preoccupava di farmi trovare i libri più interessanti sull’argomento. Aveva una gigantesca biblioteca con oltre ventimila volumi ben ordinati. Ricordava a memoria la collocazione di tutti. Capitava quando lo andavo a trovare che mi portasse in quella grande stanza. Appena entrati mi dava indicazioni precise su dove era collocato un certo libro che pensava mi interessasse o di cui mi voleva parlare. Io lo prendevo, lo aprivo e trovavo alcune righe sottolineate da lui perché le leggessi. Era il suo modo di aiutarmi a conoscere. Senza pedanterie, senza atteggiamenti professorali. Così, quasi giocando.
Lei è diventata un’attrice molto brava e apprezzata, Papini come ha vissuto la sua scelta? Quando mio nonno è morto, ero ancora una ragazza, alle prime armi come attrice. Mio padre non voleva che intraprendessi questa carriera, ma mi disse che, se davvero lo desideravo, mi avrebbe lasciata libera di iscrivermi all’accademia. A una condizione, però: avrei dovuto trovare i soldi per mantenermi. Non potevo aggiudicarmi una borsa di studio, perché per concorrere bisognava essere nullatenenti. E io non lo ero. Mio nonno non condivideva la mia scelta, ma alla fine fu lui a mettermi a disposizione le 25 mila lire al mese che mi servivano per vivere e studiare a Roma. Insomma, non gli piaceva che facessi l’attrice ma non cercò di impedirmelo. Non si oppose, anzi mi aiutò.
Papini ha mai potuto vedere una sua esibizione? No. Solo una volta, quando era già molto malato, gli capitò di sentirmi recitare per radio. Ero alle prime armi e non ero un granché. Non era soddisfatto di quella mia esibizione. Lui del resto era abituato a ben altro. Aveva conosciuto Eleonora Duse e con lei aveva avuto un fitto scambio epistolare. Era poi un grande esperto di teatro mentre io avevo ancora molto da imparare. E me lo disse. Mi raccontò che un soffio, un sospiro della Duse si sentiva fino in fondo al teatro. Mi raccomandò di non strillare perché non serviva a nulla. Tutte queste osservazioni lì per lì mi dispiacquero, ma poi me le sono ricordate. Mi sono tornate alla mente tante volte e probabilmente mi hanno aiutata a crescere, a migliorare come attrice.
Suo nonno a un certo momento della sua vita si convertì. Da anarchico senza Dio si trasformò in un convinto cattolico. Vi è mai capitato di parlarne? La nostra era una famiglia cattolica, ma non parlavamo molto del nostro rapporto con la religione. Per mio nonno la conversione fu un passo importantissimo, una scelta profondamente vissuta. Qualcuno è riuscito persino a sostenere che la fede di Papini non fosse vera, che fosse un gesto di opportunismo venuto a seguito del grande successo internazionale della Storia di Cristo. Una sorta di invenzione per amplificare l’impatto già straordinario di quel libro. Niente di più falso. Mio nonno ha testimoniato con la sua vita, con il suo dolore vissuto cristianamente la propria fede. Poco prima di morire, quando quasi non riusciva più a respirare chiese che gli venisse letto Sant’Agostino. Era un grande credente. La verità è che la sua conversione fu così autentica da risultare ad alcuni insopportabile. Anche questo probabilmente fu una delle cause dell’epurazione di cui parlavo prima.
All’inizio di questa conversazione lei ha accennato al ruolo di sprovincializzatore della cultura italiana che ebbe Papini, aveva una fitta rete di rapporti italiani e internazionali? Sì. Dialogava con i più grandi intellettuali francesi e anglosassoni: da André Gide a Henry James. Nel suo archivio c’è un importante epistolario dal quale si ricava la rete dei rapporti che intratteneva. Ci sono, ad esempio, dieci cartoline postali attraverso le quali Ungaretti inviava a Papini le poesie scritte dal fronte. Si tratta dei versi poi raccolti e pubblicati in Porto sepolto.
Qual è l’opera di suo nonno che preferisce? L’uomo finito mi sembra un grande libro. Mi piace molto anche La seconda nascita, dove racconta la sua conversione.
Quale rapporto aveva suo nonno con la campagna dove viveva, con i contadini? E quale con la sua città, Firenze? Con i contadini aveva un rapporto molto stretto. Viveva con loro. La porta di casa era sempre aperta e loro la sera venivano dal nonno per giocare a briscola. Le mogli aiutavano la nonna nei lavori di casa. Tra l’ambiente fiorentino e Papini c’era una grande differenza. Lui, che pure sui fatti letterari non risparmiava critiche a nessuno, non parlava mai male degli altri dietro le spalle, che fossero amici o semplici conoscenti. Non gli ho mai sentito fare un pettegolezzo né dire una cattiveria. A Firenze invece era tutto uno sparlare l’uno contro l’altro. Un modo di fare persino imbarazzante.
Chi è stato l’uomo di lettere più legato a suo nonno? Certamente Soffici. Dal periodo del futurismo antimarinettiano sino alla fine della vita hanno sempre continuato a parlarsi, a incontrarsi. È stato lui il grande amico.
Suo nonno che rapporto ha avuto con Gentile? Che io sappia nessuno o giù di lì. Papini il rapporto vero lo ha avuto con Benedetto Croce. Il filosofo lo ha stimato e ammirato per tutta una fase, come dimostra il carteggio. Poi fra i due ci fu una brutta rottura. Perché accadde non glielo saprei dire. So solo che non si videro né sentirono mai più.
Quanto ha pesato nella sua vita l’essere la nipote di Papini? In alcune occasioni mi ha favorito. Qualche volta forse può avermi danneggiato. In realtà però io ho sempre potuto scegliere liberamente. Dietro di me c’erano un nonno e un padre importanti, ma non mi hanno mai schiacciata. Ho trovato la mia strada: sono diventata Ilaria Occhini. Il teatro mi ha dato molto. L’ho molto amato e mi sono anche molto divertita. E la televisione mi ha fatto percepire l’affetto della gente. Un tempo, tanti fra attori e registi definivamo la tv un elettrodomestico, ne parlavamo con un po’ di puzza sotto il naso. Snobismo. Adesso è cambiato tutto: c’è la ressa per recitare in una fiction, anche se spesso di artistico non hanno nulla.”
Pubblico un articolo non per studenti. E’ per addetti o appassionati. L’ha scritto Marcello Neri (professore incaricato di Teologia cattolica presso l’Università di Flensburg, Germania) e l’ho recuperato grazie a una segnalazione su Fb da Settimana News. Al centro della riflessione il rapporto tra il proemio della Veritatis Gaudium e il resto del testo.
“Il proemio di Veritatis gaudium (VG) è sicuramente ambizioso, perché non mira a una semplice riorganizzazione degli studi teologici all’interno di istituzioni legate alla Santa Sede. Ben altra è la prospettiva di queste poche pagine uscite dalla penna (o mente) di Francesco: l’orgoglio di una riattivazione dell’efficacia degli studi ecclesiastici che sia all’altezza della loro migliore tradizione, in un contesto però del tutto inedito rispetto alla storia recente della Chiesa e, quindi, mancante di referenzialità esemplari. Liberare la teologia da scorie del passato che ne impediscono il passo sciolto nel presente; rammemorarle che essa non si inventa da sé a ogni dato momento, ma che può sapientemente attingere da un’intelligenza che può essere stata magari marginalizzata, ma non si è certo affievolita; esercitare con libertà e passione una forma del sapere la cui razionalità avanza la pretesa di porre la questione della verità del Dio di Gesù senza volerla imporre come sistema dominante e sintetico di ogni umana ricerca di verità. L’ambizione dell’intento inscritto in queste poche pagine va onorata, da parte della teologia, assumendosi la responsabilità di dare forma concreta all’auspicio e al desiderio di papa Francesco. Vedremo poi come una sorta di schizofrenia del registro linguistico interno del documento rappresenti proprio l’ostacolo maggiore in vista dell’attuazione effettiva dell’idea di studi ecclesiastici e di teologia contenuta nel proemio.
Mi è stato chiesto uno sguardo su VG dalla «periferia»: non solo lontano dal centro romano delle cose e vicende ecclesiali, ma anche in una condizione di estrema marginalità del cattolicesimo e della sua teologia. Come può essere quella di insegnarla in una piccola università del profondo nord tedesco, non in una facoltà ma all’interno di un dipartimento ridotto all’essenziale (dove bisogna arrangiarsi a fare un po’ di tutto, insomma), a sua volta lontano e periferico (geograficamente) rispetto alla sede della diocesi. Da un lato, a mio avviso si tratta di condizioni ideali per guardare a VG come a qualcosa di più di un bel sogno, di un «sarebbe bello, ma…». L’estrema destrutturazione, il disincanto e il realismo cui costringe un contesto di diaspora marcata in condizione di secolarizzazione avanzata, apre praterie alla fantasia della ragione teologica (ammesso che essa ne abbia ancora un po’ in riserva, e non si sia completamente esaurita nelle estenuanti polemiche interne alla compagine ecclesiale). In questo momento, proprio leggendo il proemio di VG, essere piccoli e senza storia, essere periferici e un po’ dimenticati (da Dio, dal tempo e dall’istituzione ecclesiale), essere marginali rispetto all’impianto complessivo di una già piccola università (che non vuol dire essere irrilevanti, però), può essere un vantaggio e, quindi, compete proprio a periferie simili a questa, anche in tutt’altri contesti, farsi carico esplicito dell’impegno per una riattivazione dell’efficacia culturale degli studi ecclesiastici. D’altro lato, la periferia da cui proviene questo sguardo su VG è strana – appunto, perché rimane comunque piantata nel cuore dell’Europa sebbene sia caratterizzata da disimmetrie relazionali con il «centro» – o, almeno, con quanto prima di Bergoglio era il centro effettivo del cattolicesimo; e che con lui, a mio avviso, è stato fortemente relativizzato sebbene tutti continuino a fare come se fosse ancora tale. Tutto questo diventa evidente quando si sta davvero in una periferia, quando si abita un margine reale del cattolicesimo contemporaneo: quello che si considera il «centro», nonostante l’opera di ridislocamento in atto delle coordinate fondamentali della Chiesa cattolica, appare essere immediatamente tale solo in forma nominale. In realtà, il «centro» è solo uno dei molti margini possibili attualmente che delineano l’altrove insituabile del periferico. Questa attrazione che assorbe apparentemente su di sé l’interno è, a mio avviso, ancora la funzione virtuosa del «centro» (margine fra i margini) della Chiesa cattolica, in quanto permette ampi spazi di movimento nelle sue zone periferiche.
L’esperienza della periferia da cui si muove la mia prospettiva è come quella di chi è uscito da lungo tempo da casa e ha percorso molti sentieri non lineari (alcuni anche interrotti, come è bene che sia), e che ora – voltandosi indietro – non riesce a intravedere più o non ha alcuna memoria della porta dalla quale si è usciti. Letta a partire da questa esperienza di periferia, VG è come se si stesse ancora cercando la porta giusta da cui uscire; fino al passo decisivo che compie il proemio di Francesco di decidere che, piuttosto che continuare a tergiversare in attesa della giusta via di uscita, è molto meglio fare un bel buco nel muro (anche perché molto probabilmente quella porta non esiste affatto). Poco importa dove si faccia saltare il bastione per generare un’apertura, perché sarà sempre più fruttuoso che estenuarsi nel trovare l’uscita che non c’è. Il proemio di VG rappresenta la consapevolezza raggiunta da papa Francesco che, per quanto riguarda gli studi ecclesiastici, o si procede un po’ brutalmente in questa maniera oppure essi perderanno definitivamente il treno che potrebbe condurli nell’aperto della loro destinazione (anziché continuare a stare comodamente in pantofole nell’ambiente familiare in cui abitano oramai solo loro – e, al più, i cloni che essi auto-generano). Ma è proprio qui che la contraddizione tra proemio (ispirativo, pronto a sparigliare senza timore le carte in gioco) e il resto del documento (giuridico, preoccupato di organizzare l’esistente) si fa non solo più evidente, ma appare quasi comica. Alla fin fine, sembra di essere dentro un cartone animato di Willy il Coyote: mentre il nostro anti-eroe sfortunato ci ha messo l’anima, e ogni ingegno possibile, per aprire una breccia nel muro di cinta, il perfido Road Runner del massimalismo normativo-giuridico ha già provveduto a costruirne un altro tutt’attorno – più alto e più solido di quello così faticosamente abbattuto. L’ampliamento caparbiamente voluto dal buon Willy-Francesco è ridotto a semplice illusione ottica dall’ossessione di controllo del Road Runner vaticano di turno (in questo caso la Congregazione per l’educazione cattolica).
Qual è il testo di Veritatis gaudium?
Si pone, quindi, la questione di quale testo sia VG: il proemio o la parte normativo-canonica? O l’adesione degli studi ecclesiastici al vissuto quotidiano della fede, nel quale il «perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture» è già «messo in atto dal popolo di Dio» (VG 3), oppure l’indistinzione onnipervasiva del dettato giuridico che omologa centralmente gli studi ecclesiastici stessi? Non si tratta solo del fatto che i due testi parlano di cose diverse e inconciliabili fra di loro, ma anche che con l’attuale impianto normativo (che fa il secondo testo) degli studi ecclesiastici la figura del poliedro, così centrale nella visione ecclesiologica e culturale di Francesco, è semplicemente impossibile: per la forma canonica asserita, esso è semplicemente inconcepibile. Non solo gli studi ecclesiastici vengono considerati come una sfera indifferenziata, ma tutti i punti della superficie che la compongono sono dei cloni del centro onnipresente. Questo effetto artificiale di rispecchiamento narcisistico permette al centro di immaginarsi di poter essere efficacemente presente ovunque; ma appunto, si tratta solo di un’illusione che può essere tenuta in vita unicamente mortificando la realtà delle cose.
Dalla teologia della liberazione alla liberazione della teologia
Se e in quale misura papa Francesco sia influenzato dalla teologia della liberazione è questione che può rimanere tranquillamente aperta per quanto riguarda queste considerazioni su VG (ritengo quindi che il testo di VG sia esclusivamente il proemio). Tenendo conto di alcuni aspetti di semplice correttezza metodologica. In primo luogo, che il singolare sotto cui si sussumono tutta una serie di percorsi teologici, pastorali e personali è un raccoglitore ideal-tipico che non rende ragione alla vivacità del dibattito critico acceso da quegli stessi diversi itinerari della fede. In secondo luogo, bisognerebbe chiedersi se il termine «teologia della liberazione», così come esso viene usato nell’Occidente europeo, non sia alla fin fine una sorta di denominazione colonizzante di un pensiero non omologabile a quello del centro europeista. Fatte queste brevi premesse, mi sembra possibile affermare che VG miri esplicitamente alla liberazione della teologia da se stessa; il che vuol dire anche dall’apparato istituzionale e canonico che le sta impedendo di essere quello che Francesco si auspica che essa sia. VG non dice cosa la teologia deve essere dopo questo processo di liberazione; non lo dice perché, una volta che esso si sia effettivamente realizzato, non sarà possibile definire univocamente la teologia approdata a questo esito (se non in termini così generici e astratti da non voler dire sostanzialmente nulla). Piuttosto, VG si limita, con un gesto tipico di Francesco, a indicare un metodo procedurale che necessariamente si realizza in una multiformità di modi concreti: gli studi ecclesiastici «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo (…)» (VG 3). Se così si pratica la teologia, allora è chiaro che essa, entrando nel laboratorio della vita umana cui si destina l’evento cristiano, non sa né come ne uscirà lei, né cosa ne uscirà da questa impresa performativa della fede. Ossia, la teologia non sa mai a monte come di fatto si realizza, in un dato luogo e tempo, la realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo. E non lo sa neanche a valle, perché questa realtà è, come la sua adeguata interpretazione teologica, squisitamente performativa: ossia, si genera in atto; si dà in quanto pratica di vissuti umani contingenti.
Per una declericalizzazione degli studi ecclesiastici
Ogni possibile riattivazione degli studi ecclesiastici che voglia essere all’altezza di una destinazione che non si consuma nel proprio rispecchiamento e auto-conferma, passa attraverso la possibilità, capacità e volontà di disinnescare la simbiosi con l’itinerario di formazione al ministero ordinato, che ne ha sequestrato in toto la loro ragion d’essere. In questo momento, tale sovrapposizione non fa bene né al sapere teologico né al ministero ordinato; lasciando da parte la questione scottante del fatto che gli studi ecclesiastici sono al massimo «sopportati», ma non certo supportati, dalle istituzioni ecclesiali attuali preposte alla formazione di quello che sarà il corpo clericale della comunità cristiana (seminaristi inclusi). Nella direzione di uno scioglimento della cattiva simbiosi fra studi ecclesiastici e introduzione allo stato presbiterale della vita cristiana muove, con estrema chiarezza e lucidità, il proemio stesso di VG: «il vasto e pluriforme sistema degli studi ecclesiastici è fiorito lungo i secoli dalla sapienza del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nel dialogo e discernimento dei segni dei tempi e delle diverse espressioni culturali» (VG 1). Francesco auspica dunque una restituzione degli studi ecclesiastici al loro soggetto generatore, ossia al popolo di Dio nella sua sagacia, che nella prospettiva di Bergoglio è sicuramente una categoria non immediatamente definibile, ma plastica e storicamente determinata. La forza che istituisce questo luogo genetico degli studi ecclesiastici è quella dello Spirito Santo, attualizzazione e concretizzazione dell’evento cristiano di Dio nel distendersi della storia umana. Infine, la loro ragion d’essere è quella del discernimento dei segni dei tempi, ossia dell’attualità evangelica della storia nelle sue molte complessità, e di un’intelligenza delle esperienze culturali, cioè della pluralità e multiformità di cui deve essere capace la performatività dell’evento cristiano. Riconsegnati a questa scena originaria della loro genesi, quindi a un’attuazione non servile né funzionale, gli studi ecclesiastici nella loro riattivazione efficace faranno bene anche al momento di introduzione al ministero ordinato nella Chiesa, educato da essi a non comprendersi come corpo separato, o a sé stante, all’interno della comunità cristiana. L’ordinamento canonico che non solo garantisce, ma addirittura richiede una separazione clericale degli studi teologici risulta incompatibile non solo con questo quadro di restituzione allo spazio genetico dell’insieme degli studi ecclesiastici, ma rende di fatto impraticabile un’effettiva introduzione al criterio della «inter- e trans-disciplinarietà», da esercitare «con sapienza e creatività nella luce della rivelazione» (VG 4c), che dovrebbe organizzarne l’architettura complessiva.
Non c’è possibilità di riattivare l’efficacia storica degli studi ecclesiastici se non si lascia spazio a un «tentare» che non può controllare, né predeterminare, l’esito dell’impresa a cui si mette mano. Francesco parla esplicitamente della forma «aperta, cioè incompleta» (VG 3) del buon pensiero che scaturisce dall’intelligenza storica del vangelo di Gesù. Ancora una volta, tra il testo di VG e quello che chiamerei l’apparato canonico a lui giustapposto c’è una sostanziale contraddizione di termini – dove il secondo ha esattamente l’ossessione di non lasciare aperto alcuno spazio, né indeterminata alcuna possibilità. Senza dover scendere in questioni di merito sicuramente decisive, come quella di cosa voglia dire dal punto di vista canonistico la libertà accademica, cui a questo punto neanche gli studi ecclesiastici possono rinunciare se vogliono essere riattivati nel senso di VG, è proprio la forma mentis di base che porta all’elisione di una delle due parti del documento. Detta in altre parole: il proemio richiede in questo momento agli studi ecclesiastici uno scarto che si può realizzare solo nella forma della loro anomia, stante il quadro giuridico preposto al loro governo. Non vi è altro modo di esercitare effettivamente un pensiero incompleto, esattamente perché l’iper-tonicità del quadro giuridico-canonico mira a eliminare qualsiasi possibile incompletezza. Solo assumendo il dovere di questa anomia, gli studi ecclesiastici verranno finalmente liberati dall’ossessione di essere il tutto (del sapere) e di avere l’ultima parola da dire (sulla verità).
Il 6 febbraio 1992 si concludeva a Milano l’esperienza terrena di David Maria Turoldo, teologo, poeta, profeta friulano. La scorsa settimana, nel giorno dell’anniversario, l’Aula Magna del mio liceo ha ospitato l’Associazione culturale Padre David Maria Turoldo.
La Dirigente Gabriella Zanocco ha salutato così i presenti: “Come scuola ci sentiamo veramente e sinceramente onorati per aver potuto offrire a voi l’occasione di vivere questo incontro. Non siamo di fronte ad una conferenza tradizionale o a quelle a cui siamo tradizionalmente abituati, dove si dicono delle cose che hanno una ricaduta più o meno interessante, più o meno didattica. Il tema di questa conferenza che si incentra su un uomo particolare vuole portare tutti noi e tutti voi a una riflessione profonda, a ragionare cosa significhi l’umanità e vivere profondamente l’umanità. Sono parole che hanno un loro peso forte e io credo che oggi, in questo momento storico abbiano un peso maggiore che in altri momenti. Che cos’è l’umanità? Cosa significa? Quando andavo a scuola mi hanno insegnato che le parole accentate sono parole astratte. Umanità è una parola accentata, ma non c’è niente di più concreto, se noi guardiamo al significato di questo termine e lo rapportiamo alla storia in generale, non soltanto alla storia di oggi, ma a tutto l’arco storico dell’umanità stessa. Allora una riflessione su padre Turoldo fatta oggi, anniversario della sua morte, credo che debba essere fatta e debba essere fatta soprattutto con i ragazzi, con l’umanità del futuro, con l’umanità che viene chiamata a essere direttiva nel futuro. Dove ci portano certe scelte e quali valori devono essere per noi irrinunciabili? Grazie per le riflessioni che verranno fatte oggi ma soprattutto grazie per le riflessioni che dovremo noi tutti fare domani”.
La Direttrice del Comitato Scientifico dell’Associazione, Raffaella Beano, ha introdotto quindi la figura di padre Davide e la visione di un filmato. Ha quindi invitato a prendere la parola Ermes Ronchi, friulano, anche lui teologo dell’ordine dei Servi di Maria e amico di padre Davide.
“Sono molto emozionato di essere davanti a tanti bei volti, a tanti begli occhi perché è in questa bellezza che riposa la speranza di noi che abbiamo già navigato. Quando padre David arrivava nella mia casa natia a Racchiuso di solito era sera e arrivava sempre con degli amici, mai da solo: aveva un bisogno fisico di avere degli amici attorno. Arrivava e iniziava dal fondo del lungo cortile che porta alla casa – era già sera, i contadini vanno a letto presto, le luci spente, ma a lui non importava: quando arrivava in un posto diceva “Adesso, chi andiamo a tirar giù dal letto?” – a dire “Mariute, atu alc di mangjâ?”. Scendevano il papà e la mamma; il papà scendeva in cantina a prendere un salame perché era quello che lui desiderava e poi lui lo preparava, preparava le fette, tagliava la cipolla, il salame con l’aceto, il salam cun l’asêt, il fast-food contadino, era il nostro McDonald’s. Quando c’era urgenza, fretta, fame e voglia di stare insieme con semplicità il papà correva con i boccali del merlot dalla cantina. Ogni incontro con lui era un evento, diventava un evento di cui poi si parlava a lungo perché uscivi arricchito da ogni incontro con lui… E’ stato uno degli uomini dell’Italia di quegli anni che più è ricordato. Perché? Perché era un poeta ed un profeta, questa la sua forza: la poesia e la profezia. Apparteneva alla gente di questa nostra terra, ma aveva le finestre aperte ai grandi venti della storia. Ben radicato, amava il suo Friuli, ma aperto a tutti i movimenti. Nella sua chiesa di Fontanelle arrivava gente da tutta Europa ed era diventato il laboratorio liturgico più importante del mondo in quell’epoca del post Concilio. Non solo dall’Europa, ma da tutti i movimenti popolari, dall’America Latina, che allora gemeva sotto le dittature militari, arrivava gente perseguitata, arrivavano profughi e lui li accoglieva. La sua casa era un crogiolo di storia e di futuro. A incontrarlo ti colpiva subito, da un lato la sua forza contadina, le grandi mani, la sua imponenza e irruenza da antico guerriero vichingo (Turoldo è un nome vichingo, un nome normanno che dice e tradisce la sua origine e anche la sua fisicità), dall’altro i suoi occhi che si commuovevano, occhi infantili e chiari, contrasto tra quella voce profonda, da cattedrale o da deserto, e l’invincibile sorriso degli occhi azzurri. Figlio di questa nostra terra friulana, scriveva, “dove gli occhi di tutti diventano azzurri a forza di guardare”. Il suo nome da ragazzo era Bepo, Bepo rôs, rosso, il soprannome che gli davano i compagni per i capelli rossi, che poi con l’età sono diventati di un biondo meno inquietante. Io conservo di lui trent’anni di amicizia, trent’anni in cui è stato il mio riferimento, l’amico. Ho subito da parte sua una seduzione di lungo corso e che continua dopo tanti anni dalla morte con la brezza dell’amicizia e il vento impetuoso che scuote ancora, brezza e uragano insieme; lui era così, era dolce e combattivo. Aveva un grandissimo amore per la vita che mi colpiva sempre, era amore per l’uomo, per gli amici, per la festa, l’incantamento che provava davanti alla natura, ad un fiore sul muro, la gioia concreta del buon vino bevuto con gli amici. Ricordo le partite a scopone scientifico la domenica sera a Fontanelle, finite tutte le celebrazioni, con gli amici; erano quattro amici, sempre coppie fisse, e le risate e i pugni battuti sul tavolo per una giocata sbagliata e poi le notti a ragionare insieme di poesia e di Dio. Mi ha insegnato ad amare con la stessa intensità il cielo e la terra, questa era la sua grande caratteristica. E, come diceva la Dirigente prima, la caratteristica di Turoldo si trova nelle sue parole: “Guardate che il criterio fondamentale per decidere le vostre scelte, è questo: scegliete sempre l’umano contro il disumano”. Questo è importantissimo soprattutto oggi, in cui viene avanti il disumano ragionevole: si ammantano scelte disumane di ragionevolezza, si truccano di bene comune o di difesa del bene comune scelte disumane. Su questo è necessario per tutti noi vegliare. Che cosa lo fa essere così vivo? La poesia e la profezia, e poi questa insurrezione di libertà; ci ha contagiato di libertà, di sogni e della passione per Dio. Il mondo, per lui, si divideva non tanto fra poveri e ricchi, no, c’era qualcosa di più profondo… lui diceva “Il mondo si divide tra i sottomessi, i sotans, e i ribelli per amore”, così si chiamavano gli uomini della resistenza a Milano. Ecco, lui era, con tutto se stesso, un ribelle per amore. Aveva quella doppia beatitudine segreta, non scritta nel Vangelo, ma scritta dal dito di Dio nella vita di tanti… aveva due beatitudini: quella degli uomini liberi – beati gli uomini liberi e le donne libere, beato l’uomo e felice la donna che ha sentieri nel cuore, strade di libertà – e quella degli oppositori – beato chi sa opporsi al mare, beati coloro che hanno il coraggio dell’opposizione all’ingiustizia, all’indifferenza, allo spirito di sconfitta. Credo che questa opposizione all’ingiustizia sia estremamente importante; se vedi una situazione di ingiustizia e non ti schieri, allora tu ti metti dalla parte dell’oppressore, non ci sono alternative. Lui si opponeva per ubbidienza all’umano, e per ubbidienza alla parola di Dio. Si opponeva a tutto ciò che umilia, emargina, crocifigge, sottomette, ciò che chiude; si opponeva con la parola, con la radio, coi giornali, con i libri. In difesa dei poveri la sua voce diventava un ruggito, il ruggito di un leone. Sapendo che la caratteristica dei profeti, la garanzia della profezia è la persecuzione, lui è anche stato perseguitato. In lui c’era una sorta di spiritualità friulana, se così si può dire che consisteva in questo:
la terra: “la terra è l’immagine di mia madre” oppure “mia madre è l’immagine di questa mia terra”. “Guardavo da ragazzo il volto della Madonna addolorata e il volto di mia madre e non sapevo distinguere l’una dall’altra, si confondevano”. Tre unità fuse tra loro: la terra, la madre, la Madonna;
la gente: la sua spiritualità era quella della gente lavoratrice, povera e di cuore, gente di emigrazioni, ma anche un popolo cantore. Davide amava le villotte, quest canti popolari teneri e forti che terminano però sempre in maggiore, in speranza;
il paese: l’eredità friulana di Davide non è la città o la cittadine, ma sempre il paese, luogo di relazioni, di legami, di radici antiche. Coderno è stato l’elemento fondante della sua spiritualità friulana;
l’essenzialità: poca polvere. Quando io dovevo cominciare a predicare mio papà mi diceva “Pocjis e che si tocjin”, poche parole e concrete. E lui era così: essenziale e concreto. Tutti i profeti hanno un linguaggio franco diretto, un linguaggio che non gira attorno alle cose, che tocca anche le parole degli argomenti più difficili;
il senso di libertà: il senso di libertà e di autonomia che la nostra gente custodisce dai secoli del Patriarcato, senso di diffidenza istintiva davanti a ogni potente, davanti a ogni arroganza
Ecco, se noi potessimo cogliere ancora qualcosa di tutto questo penso che il vero conformarsi, il vero suffragio, lui scrive… “è conformare le nostre azioni ai forti esempi”. Lui è un forte esempio cui conformare le nostre azioni”.
A questo è seguita la visione di alcuni spezzoni del film “Gli ultimi” commentati da padre Ermes (sarà oggetto di un altro post…).
Un breve articolo di Giuseppe Lorizio a margine del viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti. E’ tratto da Avvenire del 5 febbraio.
“Il fatto che il Vescovo di Roma partecipi, in una terra di cultura islamica, a un importante evento di dialogo interreligioso a tutto campo, è certamente un segno da leggere, interpretare e vivere con simpatetica partecipazione. Che non siano gli islamici a recarsi ad Assisi per il dialogo interreligioso, ma il Papa ad andare “fuori” dal proprio ambiente culturale e religioso non è irrilevante, né da considerarsi in termini meramente propagandistici o alternativi rispetto ad altri momenti singolari ed eccentrici rispetto alla nostra tradizione. Il raccoglimento di papa Benedetto XVI nella moschea blu di Istanbul nel 2006 è un precedente indimenticabile. Il gesto/segno e l’evento che stiamo seguendo con attenzione e pathos hanno qualcosa da dire al mondo intero, e all’Occidente in particolare: le religioni hanno un messaggio da lanciare a questa società che rischia la perdita dell’umano e l’abisso della dispersione: c’è un unico Dio, in una dimensione di trascendenza assoluta, che ci porta a relativizzare il nostro assolutismo antropocentrico ed etnocentrico. In particolare le religioni abramitiche non possono non allearsi in questo contesto conflittuale: le stesse radici veterotestamentarie e cristiano-nestoriane della religione coranica affermano qualcosa di decisivo. La moschea dedicata alla madre di Gesù, che richiama la sura XIX del Corano è un simbolo significativo per tutti. Lo dobbiamo abitare e sperimentare per poterlo esprimere nell’oggi della nostra storia. Da soli non andiamo da nessuna parte e siamo tutti destinati al declino e alla sconfitta. E se l’Europa, terra di antica cultura cristiana, appare in difficoltà nel confronto con l’islam , questo avviene – come ha sottolineato giustamente il vescovo Camillo Ballin, vicario apostolico in Arabia – «perché l’Europa non fa figli». Non fa figli – e non solo in senso biologico, ma di fatto non genera persone strutturate – e non custodisce e trasmette le proprie radici ebraico-cristiane, in nome di un laicismo deteriore, che nulla ha a che fare con l’autentica laicità, che invece denomina l’appartenenza a un popolo. Del resto senza l’ebraismo e il cristianesimo l’islam risulterebbe del tutto incomprensibile. In rapporto poi alle esperienze religiose che fanno riferimento alla natura e propongono modelli olistici di integrazione dell’uomo con l’universo degli esseri, non possiamo solo proporci in direzione alternativa e critica, bensì siamo chiamati a recuperare ed elaborare, anche teologicamente, quella che oggi denominiamo la dimensione cosmicoantropologica della rivelazione, dove il peccato ha rotto l’armonia dell’uomo con Dio e con gli altri, e ha anche lacerato la relazione uomo-natura. Questo è un orizzonte significativo e fecondo per l’alleanza di tutte le esperienze religiose che in questi giorni si stanno incontrando negli Emirati Arabi Uniti. Il tema della creatività, che la sfida della tecnica propone e ripropone in ogni passaggio epocale, non può mettere in ombra il legame creaturale e il senso del limite, da cui ogni esperienza religiosa trae origine. Ciascuno è chiamato a guardare e andare oltre, accompagnando questo evento e quelli che seguiranno con la riflessione e l’orazione, ma soprattutto declinando la parola chiave, che lo guida e lo anima: pace”.
E’ stato uno di quei personaggi che hanno formato la mia adolescenza, la mia fede, il mio pensiero. Le sue pagine sono quelle da cui mi abbevero quando ho sete. Stamattina, mentre rileggevo alcune sue pagine per presentare la figura di David Maria Turoldo a due classi, mi sono ritrovato a essere commosso. Non c’è niente da fare, sento che riesce sempre a parlare al mio cuore. Le riporto qui.
Da “La mia vita per gli amici”
“Perché poi, ogni “Io” che si rispetti è irriducibile a qualsiasi definizione. Pertanto tu sei sempre quel soggetto che non sarà mai codificato, mai “cristallizzabile”: tanto provvisorio, parziale e inadeguato, può essere il giudizio o l’immagine degli altri, quanto inadeguato e insufficiente il giudizio che di volta in volta tu stesso proietti di te” (pagg 17-18).
“E Cristo, pienezza di umanità, archetipo di tutti gli uomini. Cristo, in ciò che è e in ciò che significa. Per cui possono essere vicini a Cristo quanti vivono, anche se inconsapevoli, ciò che egli significa, più di coloro che pretendono di sapere ciò che è: persuasi costoro di possederlo come loro esclusiva proprietà” (pag. 22).
“… il Crocifisso non mi rappresenta soltanto il mistero di una salvezza eterna; non è soltanto l’immagine di un Dio rifiutato; ma prima di tutto mi rappresenta l’idea di un uomo che il mondo non riesce ad accettare, e che perciò emargina e crocifigge” (pag. 26).