Gemma n° 2226

“Quest’anno ho riflettuto parecchio su cosa avrei potuto portare come gemma, non perché non avevo delle cose da portare bensì perché le cose che avrei voluto portare erano davvero molte.
Così ho scelto un oggetto che potesse racchiudere in qualche modo tante piccole gemme che hanno contribuito a riempire quest’anno con tante emozioni ed esperienze.
Quindi ho portato una macchina fotografica analogica e anche alcune foto che ho scattato durante momenti di grande spensieratezza e felicità.
Questa analogica in particolare è la terza che utilizzo; la prima l’avevo comprata insieme alle mie amiche durante un viaggetto che avevamo fatto insieme a Trieste ad aprile, infatti è piena di foto che abbiamo scattato durante quella giornata. La seconda comprendeva principalmente foto che ho scattato durante le mie vacanze in Grecia e alcune foto scattate a Londra. Nella terza (ovvero questa), che non ho ancora terminato, ci sono altre foto di Londra, un paio di foto fatte ad alcuni concerti a cui sono andata quest’estate ma soprattutto tante foto delle mie amiche.
Ho scelto di portare la macchina fotografica non perché sia la mia più grande passione, bensì perché a me piace davvero molto scattare foto a luoghi e a persone che amo, di cui vorrei ricordarmi per sempre, infatti anche la galleria del mio telefono è davvero piena di foto.
Le mie foto non devono necessariamente avere un significato profondo, semplicemente rappresentano ciò che io considero bello.
Molte foto mi ricordano del luoghi, ricollegabili a delle avventure che ho vissuto; altre ritraggono le amiche, una delle cose che amo di più fotografare, soprattutto mentre fanno cose semplici e spontanee; secondo me le mie amiche sono davvero davvero belle, non solo esteticamente, loro hanno qualcosa che le fa splendere in tutto ciò che fanno.
Faccio tante foto durante delle belle esperienze memorabili, così che anche nei momenti di tristezza, nei quali la mia mente non riesce a spostarsi dai pensieri negativi, io possa riguardare le mie foto ed ecco che subito ritorna un grande sorriso: mi basta semplicemente guardare una foto scattata in un momento pieno di serenità per stare un po’ meglio.
C’è una frase di una delle mie canzoni preferite dei The Cure, ovvero Pictures of You, che dice “I’ve been looking so long at these pictures of you that I almost believe that they’re real; I’ve been living so long with my pictures of you that I  almost believe that the pictures are all I can feel” (ovvero “ho guardato così a lungo queste tue foto che quasi credo che siano reali; ho vissuto così a lungo con le mie foto di te che quasi credo che le immagini siano tutto ciò che posso sentire”); diciamo che per me le foto sono appunto un modo per rivivere i ricordi e farmi tornare “a quei momenti lì”, intrisi di serenità.
Inoltre scattare foto alle persone è uno dei miei modi per dimostrare affetto, è per questo che cerco, nella quotidianità, di “cogliere l’attimo” e scattare qualche foto durante dei momenti spontanei: secondo me infatti le foto più belle sono fatti negli attimi più inaspettati.
Per me fare foto è sia una “dimostrazione di amore” verso persone, cose o luoghi che sto fotografando, sia un mezzo per non dimenticarmi mai delle esperienze vissute, così da ricordarmene sempre; mi trasmettono speranza e allegria, sono un modo per ricordarmi che nonostante i momenti brutti, durante i quali magari è difficile trovare un motivo per continuare ad andare avanti, ci sono anche molti momenti pieni di felicità, che mi permettono di andare avanti nella speranza di vivere ancora tanti momenti come quelli” (S. classe terza).

Gemma n° 2193

“Ricordo quando tempo fa mia mamma mi ha chiesto: “Ma tu ogni tanto ci pensi alle nonne?”. Ci penso quasi ogni giorno. Penso alla loro storia, alla loro forza e all’amore che hanno saputo darmi. Entrambe se ne sono andate quando avevo all’incirca 10 anni a causa di una delle malattie peggiori conosciute, il cancro. Non lo si fa spesso, o almeno non lo faccio io, ma ci tenevo a ricordarle oggi e a condividere queste foto del loro bellissimo sorriso, perché voglio che vengano ricordate così com’erano sempre prima della malattia: sorridenti e gioiose. Gli ultimi ricordi che ho di loro sono un po’ offuscati, ma i loro aspetti erano sicuramente diversi da ciò che appare in queste foto. Le condizioni in cui ci hanno lasciato erano terribili da guardare per una bambina che al tempo non capiva cosa stesse succedendo e perché, ma che poteva intuire come sarebbe andata a finire. Erano magre, calve, deboli, con gli occhi privi di quella scintilla di felicità, ma sono sempre rimaste bellissime. Su questo non ci piove. Hanno saputo mostrarmi le loro debolezze e il loro amore per me nonostante il loro dolore, e vorrei tanto che loro sapessero della donna che sono diventata ora, in quanto è anche merito loro. Ancora oggi dopo tanti anni quando penso a loro mi tornano gli occhi lucidi. Purtroppo sono pochissime le foto che ho con loro, ma almeno mi aiutano a ricordarle. La cosa che più mi fa male è essere consapevole di star dimenticando il suono delle loro voci e il calore dei loro corpi. Ma ogni volta che le vedo, in foto o nei miei sogni, non posso che ricordare quanto fossero belle, come degli angeli (che poi secondo me angeli un po’ lo erano per davvero). Mi mancano come l’aria, ma so che ora non soffrono più e a me basta questo, ora stanno bene. Vorrei poter dire loro quanto amore provo nei loro confronti e quanto sono grata di averle avute al mio fianco, seppur per poco tempo” (F. classe quarta).

Gemma n° 2190

“È da qualche anno che vado dalla psicologa e una volta era venuto fuori il discorso della felicità. Lì per lì non sapevo molto bene che cosa risponderle, perché effettivamente non sapevo cosa mi rendesse davvero felice. Questa estate per caso, ho iniziato a scrivere nelle note del mio cellulare una sorta di rubrica in cui scrivevo “cose che gli sconosciuti fanno che mi rendono felice”. Diciamo che sono molte le cose che sono state scritte:

1. “La signora che incontro sempre dopo scuola quando vado a prendere il bubble tea che mi sorride sempre”. L’anno scorso finivamo scuola a mezzogiorno e quaranta e per questo motivo, finita scuola, tornavo subito a casa per pranzare e tornavo subito ad uscire per prendermi il bubble tea prima di iniziare a fare i compiti. Mi capitava tutti i giorni di incontrare questa signora; io non conosco lei come penso lei non conosca me, eppure mi sorrideva sempre. Questa cosa era in grado di cambiarmi totalmente l’umore e migliorarmi la giornata. 

2. Un’altra volta mi trovavo a Lignano perché c’era una mia amica che faceva stagione. Ero con mia mamma ferma ad aspettare questa mia amica, quando è passata una famiglia su un risciò: erano una mamma, un papà, un ragazzo che penso avesse la mia età e presumo il suo fratellino più piccolo. Ad un certo punto, dopo svariate volte che avevano fatto su e giù, i genitori si sono fermati davanti a me e mi hanno detto “sai siamo ripassati davanti a te perché sei proprio carina”. Questa cosa mi ha davvero migliorato la giornata. 

3. Mi trovavo al ristorante di mio papà e in qualche tavolo più in là, c’era una signora che penso abbia avuto 70 anni. Stava cercando di aprire una bottiglia d’acqua, non riuscendoci. Così mio papà le aveva chiesto se avesse bisogno di una mano e lei disse di sì. Subito dopo la sentii sussurrare “ogni tanto abbiamo bisogno degli uomini, TERRIBILE”. Questa frase è stata in grado di cambiarmi la giornata.

(G. classe quinta).

Gemma n° 2143

“Ho scelto di portare come gemma questa immagine scattata dalla finestra della mia camera in Irlanda. Quando sono andata a fare il soggiorno linguistico, l’estate scorsa, mi sono innamorata totalmente di questo Paese, delle sue città, della sua gente, delle sue strade, delle sue scogliere, delle sue case colorate, del cielo limpido e di tutti gli altri suoi aspetti. Ho un ricordo speciale di questa esperienza, poiché è stato il mio primo viaggio all’estero completamente da sola, dove ho potuto conoscere un sacco di persone provenienti da altri paesi e dove ho potuto sentirmi completamente indipendente e libera, esplorando ciò che mi circondava. È stata un’esperienza che mi ha fatto maturare e crescere, perché, essendo stata completamente fuori dai vincoli familiari, mi sono sentita più responsabile e, allo stesso tempo, più sicura di me stessa.
Un posto speciale nel mio cuore ce l’ha la mia famiglia ospitante che mi ha accolta in casa con un affetto ed un calore inaspettati, mi ha fatto sentire parte della comunità anche attraverso piccoli gesti, come, per esempio, le passeggiate nel parco alla sera, che sono uno dei ricordi più belli che ho di questo soggiorno e che ho deciso di condividere proprio attraverso questa foto” (C. classe terza).

Gemma n° 2142

“Come ultima gemma del mio percorso al liceo ho deciso di portare una breve scena del mio film preferito, un film che mi ha aiutata a crescere e lo continua a fare ogni volta che lo riguardo. Si chiama La Storia della Principessa Splendente, ed è un film di animazione spettacolare che non smetterò mai di consigliare.
Ho scelto una scena molto breve e a mio parere particolarmente significativa. Kaguya, la protagonista, trascorre un veloce ed intenso momento di felicità, il primo dopo tanto tempo. Questa scena mi ricorda com’è facile sorridere per le piccole cose, come in questo caso per l’arrivo della primavera. Mi ricorda di un periodo triste e difficile della mia vita e di come ora sto lentamente riscoprendo tutte le piccole cose che mi rendono felice. Mi ricorda che la felicità si può trovare ovunque.
E dopo quell’interminabile periodo della mia vita segnato dall’infelicità e dalla pesantezza, è strano riuscire a sorridere di nuovo per le cose più piccole e apparentemente insignificanti. E per quanto sia ancora difficile per me accettare una realtà diversa da quella in cui ho vissuto per tanto tempo, finalmente noto che tutto sta cambiando. Persone, luoghi, momenti e sensazioni che ho ignorato per anni, finalmente si stanno facendo spazio nella mia vita per renderla più serena” (M. classe quinta).

Gemma n° 2135

“Questo che vedete è un piccolo scatto rubato, una foto del 10 settembre che ho scattato durante il primo ballo di quei due ragazzi innamorati, e che sono anche i miei zii. Li chiamo ragazzi perché l’amore di cui si inondano l’un l’altro ho avuto solo la possibilità di immaginarlo, un po’ come nelle commedie romantiche che danno quasi la nausea o in quelle lettere dei vostri bisnonni alle loro mogli cariche di speranza e amore. Dovete sapere che mio zio detesta ballare, si definisce “un tronco d’albero rinsecchito” e sbuffa ogni volta che qualcuno prova anche solo a porgli la domanda “ti va di ballare?”. Ma quella sera non ha smesso di muoversi un secondo e dal suo sorriso deduco si stesse anche divertendo abbastanza. Tutto merito della donna che ha a fianco, anzi direi dell’amore perché si sa, quando si è davvero innamorati si fanno cose che non ci aspetteremmo pur di rendere la nostra persona contenta, anche solo per un minuto.
Effettivamente chi mi conosce sa che non sono una persona su cui la parola “amore” sta proprio bene addosso: non sono particolarmente empatica, non dimostro affetto facilmente, probabilmente quasi mai, e non credo nemmeno nell’atto del matrimonio.
Forse perché fin da bambina ho visto amori tramontare e innamorati diventare sconosciuti, o forse perché l’idea di rendermi vulnerabile a qualcuno mi terrorizza.
E allora perché questa foto?
Quella sera è scattato qualcosa in me, ho sentito un’impercettibile scossa travolgermi da un lembo all’altro del mio corpo e che mi ha portato a riflettere e rivedere degli aspetti che regolano i meccanismi della mie mente e conseguenti riflessioni.
Sono sempre stata convinta che questa generazione non è mai stata in grado di riconoscere il vero significato dell’amore e per questo ha dato vita ad un’altra versione di questo per tentare di colmare l’inevitabile vuoto creatosi, anche se non ne ha nulla a che vedere. I ragazzi si circondano di relazioni false, di breve durata, ingannevoli, dolorose e immature. È un ciclo tossico che non ha fine.
Eppure quella sera il mio occhio ha captato qualcosa di diverso, qualcosa di finalmente autentico. Ho visto una luce nei loro occhi che non avevo mai visto prima, un senso di rispetto, di sostegno, un legame profondo che mi ha colpito immensamente.
Nonostante i miei protagonisti non appartengano ovviamente alla mia generazione, mi hanno comunque fatta riflettere molto sulle mie idee poiché queste partivano sempre da una concezione relativamente pessimista delle relazioni sentimentali. Non che non ne abbia mai viste di vere prima d’ora, eppure vedendoli così innamorati e insieme proprio davanti ai miei occhi mi ha fatto nascere in me l’idea per la prima volta che forse, in fondo, è ancora possibile tutto ciò e non è solo una stupida fantasia nell’anticamera del mio cervello.
Tutto questo per invitare gli altri, ma soprattutto me stessa, a buttarci un po’ di più nelle situazioni che ci mettono potenzialmente paura o in quei legami o conoscenze che ci sembrano voler solo fare del male. Magari si scopre qualcosa di bello, qualcosa di inaspettato, qualcosa di autentico” (V. classe quinta).

Gemma n° 2132

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare un video che raggruppa alcuni dei momenti più belli che ho vissuto questo anno con le persone a cui tengo di più. Spero che questo nuovo anno che sta arrivando ne conservi tanti altri” (S. classe quarta).

Gemma n° 2086

“Ho deciso di portare questo album dei ricordi che ho iniziato a fare a maggio: è un semplice quaderno suddiviso in 12 mesi. Ogni volta che faccio un’esperienza nuova o faccio qualcosa che mi piace e ho un oggetto legato ad esse, lo attacco alla pagina del mese corrispondente. Ho scelto di farlo anche perché voglio rendermi un po’ conto delle tante cose che faccio durante l’anno e conservarne memoria” (E. classe quarta).

Gemma n° 1992

“La mia gemma è un orecchino di perla, uno solo perché l’altro l’ho perso. Non sono i primi in assoluto, ma i primi di cui ho ricordo; avrò avuto 6 o 7 anni e me li ha regalati mia nonna. Li tenevo sempre, un po’ come faceva lei; in più io porto il suo nome. Quindi, questa cosa ci univa tantissimo e io l’ho sempre ammirata per il suo carattere, il suo modo di fare, anche se talvolta era un po’ dura. Un giorno alle elementari, giocando a ricreazione, mi sono accorta di averne perso uno e sono andata in panico, ho persino fatto chiamare mia mamma. Non ero tanto impaurita di far arrabbiare la nonna, ma ero molto dispiaciuta di averlo perso; allora le abbiamo telefonato e mi ha tranquillizata tanto. Ora, anche se l’orecchino è unico, lo indosso qualche volta perché è un regalo di nonna, anche se lei non c’è più: un modo per ricordarmi di lei”.

Commento la gemma di G. (classe seconda) con un breve testo di Alessandro D’Avenia da Cose che nessuno sa: “Nessuna perla è uguale all’altra. Nessuna perla è mai perfettamente simmetrica. E nelle cose di questo mondo meglio tenersi lontani dalla perfezione: la luna quando è piena comincia a calare, la frutta quando è matura cade, il cuore quando è felice già teme di perdere quella gioia, l’amore quando raggiunge l’estasi è già passato. Solo le mancanze assicurano la bellezza, solo l’imperfezione aspira all’eternità.”

Gemma n° 1987

“Quest’anno è stato molto più difficile trovare una gemma non perché non ne avessi ma perché mi sembra quasi che tutto lo sia: dopo due anni di privazioni mi pare di avere tutto e anche oltre. Alla fine ho deciso di portare un pezzo di un libro letto recentemente e che riassume il mio stato d’animo. Parla di un uomo che ad un certo punto della sua vita si guarda allo specchio e si rende conto di non essere lui la persona che vede e decide di partire e fare un viaggio intorno al mondo, un viaggio senza ritorno in cui ricerca la sua natura. Ecco il passo di Come una notte a Bali di Gianluca Gotto:
Trascorri anni a immaginare il momento in cui la tua vita cambierà. Quel momento, però, non arriva. La vita va avanti come sempre, senza sorprese, senza novità, senza grandi emozioni. 
Ma poi, proprio quando ormai credi che nulla possa cambiare, ecco che succede qualcosa di totalmente inaspettato. È il destino? È colpa di Dio? O forse è l’Universo? O è semplicemente il caso?
Dopo anni di calma piatta, ora il mare è in tempesta. Puoi tornare in fretta al porto sicuro che conosci alla perfezione. Oppure farti trasportare lontano dalle nuove correnti.
Così facendo, potresti trovare qualcosa che non riuscivi nemmeno a immaginare nei tuoi sogni più sfrenati.
Potresti scoprire di non aver mai capito niente su di te e di non aver mai amato davvero.
Potresti riacquistare un sorriso che neanche sapevi di avere: quello vero, che nasce dal cuore.
E un giorno potresti ritrovarti sulla cima di un promontorio a Bali.
Di fronte all’immensità dell’oceano.
Felice come non eri mai stato nella tua vita.
Ho scelto questo passo in particolare perché quest’anno avrò la possibilità di fare un viaggio a New York, il primo fuori dall’Italia. E’ anche un sogno che ho fin da piccola quello di andare a New York. Ecco quindi che dopo due anni di chiusure e isolamenti vari mi sembra di tornare a vivere e ciò mi ridà la speranza”.

Le parole citate da C. (classe quarta) mi hanno portato alla mente un passo di Novecento di Alessandro Baricco che ho sempre amato e che mi hanno fatto pensare a quel giorno in cima al promontorio a Bali.
“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.”

Gemma n° 1971

“Io ho portato questa macchina fotografica. Innanzitutto la fotografia è sempre stata una mia passione e poi questa macchina, benchè non l’abbia ricevuta molto tempo fa, è diventata presto importante perché spesso la porto con me quando vado in giro con amiche o famiglia. Ogni volta che c’è un momento bello lo immortalo.

La fotografia è un modo di sentire, di toccare, di amare. Ciò che hai catturato nella pellicola è catturato per sempre… Ti ricorda piccole cose, molto tempo dopo averle dimenticate. Questa frase è del fotografo americano Aaron Siskind: lui si concentrava sui piccoli dettagli delle cose che immortalava, ma penso possa commentare bene la gemma di A. (classe prima).

Gemma n° 1939

“Ho portato questi due quadernetti. Il primo è più importante: alle medie avevo una professoressa molto brava che ci faceva scrivere i nostri pensieri. Dopo che questa prof se n’è andata, alcuni compagni hanno smesso di scrivere, mentre io ho continuato a tenerli come dei diari di viaggio. Nel primo sono racchiusi pensieri e disegni da cui ho preso spunto per scrivere dei testi; in altri due ho messo degli spunti da cui poi ho tratto la storia scritta per il compleanno di mia madre e dei pensieri durante il lockdown, uno dei momenti per me più bui ma anche di grande crescita”.

L’ho utilizzata in classe e l’ho sicuramente già ripubblicata sul blog, ma non posso fare a meno di citare nuovamente una delle più belle sequenze de L’attimo fuggente per commentare la gemma di G. (classe prima).

Ne pubblico anche il testo della parte finale:
“Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi leggiamo e scriviamo poesie, perché siamo membri della razza umana. E la razza umana è piena di passione.
Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita!
Citando Walt Whitman: “O me, o vita domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli, città gremite di stolti, che v’è di nuovo in tutto questo, o me, o vita? Risposta: che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità. Che il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un verso.” …Quale sarà il tuo verso?”.

Gemma n° 1876

Premessa: cerco sempre di rendere le gemme anonime, mettendo solo le iniziali dei nomi o cambiandoli proprio. Questa volta C. (classe quinta) mi ha chiesto espressamente di lasciarli.
“Ogni tanto mi piace immergermi per ore negli album di fotografie di quando ero bambina e quando lo faccio ritrovo un po’ la leggerezza infantile che con gli anni è andata pian piano scemando.
Oggi è di questo che voglio parlarvi, della mia infanzia, che per me è sinonimo di gioia vera, spensieratezza, libertà. Se penso alla mia infanzia la associo ai colori, se provo a ricordare la me bambina nella mia testa scorrono una serie di immagini luminose e calde.
Ricordo con grande piacere la mia infanzia. Ricordo l’estate dai nonni materni con Simone, il mio primo amico, che non vedevo l’ora di incontrare a giugno dopo esserci salutati a settembre dell’anno prima. Ricordo Forni di Sopra con i nonni paterni, i libri che la nonna mi faceva trovare sul comodino appena arrivavo, le sciate in inverno con il nonno e mio fratello e le partite di basket al campetto quando faceva caldo. Ricordo Marta, Pietro e Giovanni, i miei amici della montagna che vedevo ogni agosto. Ricordo il latte caldo con il nesquik e il miele la mattina. Ricordo i bagni al mare con papà che “ci faceva fare i tuffi”. Ricordo mia cugina Aurora, quando ci divertivamo a giocare alle parrucchiere, stiliste, giornaliste, cuoche o qualsiasi cosa ci venisse in mente. Ricordo l’emozione del Natale, i biscotti sotto l’albero la vigilia e i regali il giorno dopo. Ricordo i lavoretti a scuola per la festa della mamma o del papà, i disegni con i pennarelli ad Halloween. Ricordo il piacere di incontrare i miei compagni a catechismo. Ricordo Pasqua e Natale con la famiglia, il capodanno in montagna con gli amici di mio fratello, Giacomo e Luca. Ricordo la fiaccolata il 31 dicembre, fatta dagli sciatori che scendevano dalla montagna, io li guardavo ammirata dalla finestra della casa dei nonni, mi sembravano delle lucciole. Ricordo lo stesso giorno i fuochi d’artificio che inauguravano l’anno nuovo, come mi emozionavano quei colori nel cielo. Ricordo il pane con burro e marmellata che mi preparava la mamma alle 16 quando tornavo a casa da scuola. Ricordo le feste in maschera ad Halloween a casa di Arturo, con i miei compagni di classe. Ricordo la buonissima torta salata con le olive che faceva la mamma. Ricordo il mio pigiama preferito, quello con i disegni che si illuminavano al buio, il cinema con i miei zii, i pigiama party dalla mia amica Maddy, la scuola di musica, le lezioni di solfeggio e pianoforte. Ricordo le dormite in macchina durante i viaggi troppo lunghi, con la radio accesa di sottofondo. Ricordo le canzoni che ascoltava sempre papà in quelle occasioni: “You remind me” di Nickelback, “Gli ostacoli del cuore” di Elisa e Ligabue, “Un senso” di Vasco e molte altre. Ricordo “Meraviglioso”, la versione dei Negramaro, cantata a squarciagola con mia mamma. Ricordo “Come musica” di Jovanotti. Ricordo le vacanze italiane in estate, la Toscana, l’Umbria, l’Alto Adige.
Ricordo di esser stata felice, una felicità che solo i bambini sanno provare, quella felicità che solo loro sanno trasmettere.
Ricordo anche quando da piccola non vedevo l’ora di compiere 11 anni, pensavo che sarei diventata grande a quell’età, non so bene perché, ma ai 18 anni non ci pensavo, non esistevano ancora nel mio magico mondo dell’infanzia.
Presto ne farò 19 e se mi guardo indietro, se guardo quegli album di foto, non riesco ancora a capacitarmi di quanto sia passato velocemente tutto questo tempo, non riesco a immaginarmi che quella bambina spensierata sia esistita ormai tanti anni fa. Penso, però, che quella bambina sarebbe contenta della ragazza che è diventata. Penso che se fossimo una di fronte all’altra, lei mi guarderebbe con gli occhi curiosi, la bocca semiaperta in un sorriso ammirato e poi mi abbraccerebbe. Io la stringerei fortissimo e le direi di non avere mai paura, di non pensare mai di essere sbagliata, di affrontare tutto a testa alta. Le direi di amarsi sempre, senza limiti, perché se lo merita, perché lei è bellissima così”.

Mi sono commosso durante la lettura di C. e mi sono commosso anche poco fa rileggendo le sue ultime parole. Perché sono le parole che un genitore porta nel cuore ed è pronto a dire a sua figlia nei momenti di difficoltà, con la speranza che non serva e che se dovesse servire possa essere sufficiente… A ottobre 2019 stavamo preparando la cameretta di Mariasole. Ho scritto questo: “Oggi l’ho ridipinto per la terza volta. Sarà il muro che accoglierà la tua testa, il muro su cui appoggerai la tua manina prima e i tuoi pugni poi, su cui proietterai i primi sogni e le recondite paure. Avevamo pensato al lilla, ma ci era venuto scuro e con una mano di bianco abbiamo cancellato tutto: coi muri si può fare! C’è qualcosa che non ci piace, non ci convince e… via… si dà una mano di colore, come una lavagna ripulita dal cancellino. Abbiamo pensato di fare qualcosa di più chiaro, con un po’ di rosa in più, ma papà ha sbagliato il codice della tinta. Cosa fare? Tornare a cambiare colore per avere quello pensato e desiderato o provare a stendere questo colore arrivato per caso? Abbiamo provato a stenderlo e abbiamo scoperto che ha dentro il colore dell’oro, del sole, del mattino e del grano e abbiamo pensato che un muro fatto di queste cose non è un muro che ci fa paura, ma è un muro capace di trasformarsi in ponte, un muro capace di aprirti la fantasia, di darti luce nei momenti bui, di farti intuire la strada che vorrai percorrere, di essere orizzonte senza essere limite, di essere vertigine prima di farti aprire le ali per i bellissimi soli della vita”.
Non so quali saranno, a 19 anni, i ricordi d’infanzia di Mariasole, spero ricchi, felici e caldi come quelli di C. e che non abbia mai paura, che non pensi mai di essere sbagliata, che affronti tutto a testa alta, che si ami sempre, senza limiti, perché se lo merita, perché lei sarà bellissima così. Come C.

Gemma n° 1812

Ha mostrato una foto G. (classe quarta) per iniziare a parlare della sua gemma: “E’ una rosa del 14 febbraio 2021, giorno di San Valentino e del terzo meseversario col mio attuale ragazzo. E’ la prima rosa che mi ha regalato; non so perché ci sia così affezionata, però quando l’ho tenuta in camera un mese mia mamma ha deciso di metterla in questo contenitore di vetro con delle piccole rose che profumano sotto. La tengo sul comodino e quando mi sento un po’ giù mi metto a guardarla, sia perché mi ricorda una bella giornata sia perché al mio ragazzo sono molto affezionata anche come persona non solo perché è il mio ragazzo. Non vorrei mai perderlo né da un punto di vista amoroso né come amico: lo voglio presente nella mia vita. Poi, dopo varie sollecitazioni, me ne ha regalate anche altre ma a questa resto particolarmente affezionata e spero rimanga integra il più a lungo possibile”.

Da ragazzo ho fatto l’animatore in Parrocchia e mi è capitato spesso di utilizzare dei racconti di Bruno Ferrero. Il primo suo libro che ho acquistato si intitola L’importante è la rosa e contiene questo racconto/aneddoto:
“Il poeta tedesco Rilke abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata.
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo. Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta.
Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta: «Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?».
«Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani», rispose il poeta.
Il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene. Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno.
Per una intera settimana nessuno la vide più. Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre.
«Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?», chiese la giovane francese.
«Della rosa», rispose il poeta.”

La pagina del libricino si chiude poi con le parole di Antoine de Saint-Exupéry: «Esiste un solo problema, uno solo sulla terra. Come ridare all’umanità un significato spirituale, suscitare un’inquietudine dello spirito. E’ necessario che l’umanità venga irrorata dall’alto e scenda su di lei qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Vedete, non si può continuare a vivere occupandosi soltanto di frigoriferi, politica, bilanci e parole crociate. Non è possibile andare avanti così».

Gemma n° 1781

“Ho portato una foto di Piazza del Popolo a Roma: ci sono stata in vacanza con mia madre quest’estate. E’ una foto simbolo di diverse cose: l’amore per i viaggi (finalmente ho ripreso a muovermi dopo il Covid), l’amore per l’Italia (perché anche se siamo in un linguistico e studiamo altre lingue, è giusto ricordarsi che l’Italia è un bellissimo paese, anche se a volte gestito male: penso sia bene viaggiare prima in Italia e poi uscire) e il bene che voglio a mia mamma (sono stata molto felice di condividere delle giornate intere con lei, anche se abbiamo pure litigato un po’).”

Questa la gemma di A. (classe quarta). Da qualche parte, non ricordo dove, avevo letto una frase del tipo “Ogni viaggio lo vivi tre volte: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi”. Grazie quindi ad A. che ci ha fatto vivere la terza volta del suo viaggio!

Gemma n° 1750

Fonte immagine: Vox zerocinquantuno

Era iniziata così, il 21 settembre del 2014: “Ho chiesto ai miei studenti di pensare a qualcosa (una canzone, una scena di un film, una pagina di un libro, un quadro, una foto, un oggetto…) per loro significativo e che desiderano far conoscere ai compagni come fosse una gemma preziosa.” Il 1° ottobre ho pubblicato sul blog la prima gemma. Si trattava di una scena del film Mr. Nobody proposta da una allieva di seconda. Dopo i primi due anni, per mancanza di tempo, ho smesso di riportarle sul blog: l’ultima, la numero 503 consisteva nella lettera al basket da parte di Kobe Bryant, proposto da una ragazza di terza. Abbiamo continuato le gemme in classe ma negli ultimi due anni, tra dad e quarantene, tra classi a metà e frequenze a settimane alterne, tra giorni pari e giorni dispari, l’attività è spesso proceduta a singhiozzo.

Desidero allora rilanciare la proposta, cercando di dare alle gemme l’importanza e lo spazio che si meritano. Le faremo anche nelle classi prime e tenterò di riprenderle sul blog: non mi va di ripartire con la gemma 504, come se in mezzo non ci fosse nulla… C’è una ricchezza enorme lì dentro: è capitato sovente di commuovermi, lì dentro. Allora ho fatto una stima di circa 250 gemme all’anno e quindi ripartiremo dalla gemma 1751. Ma come ho fatto il 21 settembre di 7 anni fa, propongo io una prima gemma, la 1750, con la quale voglio semplicemente dire cosa siano per me le gemme. Lo faccio attraverso un pezzettino del prologo del libro Ogni storia è una storia d’amore di Alessandro D’Avenia:
“Col suo amato, a fine giornata, quando la luce allenta la sua morsa sul mondo e sulla carne, faceva sempre un gioco: raccontarsi a vicenda la cosa più bella di quel quotidiano trascorrere, perché era l’unico modo di salvarla per sempre, non di sconfiggere il tempo ma di scommettergli contro. La luce rifratta dalle foglie bagnate d’autunno, l’incanto di un racconto d’amore e di morte, il bagliore di un fuoco in una casa strappata a una notte di ghiaccio, il rumore costante di un torrente che canta proprio quando incontra un ostacolo… Quella cosa bella non salvava solo se stessa, ma tutta la giornata, come ne fosse il centro, il punto di leva e di espansione, la benedizione. Era l’istante affrancato dal tempo, pur essendo nel tempo generato.
Da quella donna ho compreso che salvo è tutto ciò che si sottrae alla seduzione della polvere: ciò che senza rinunciare al tempo viene dal tempo liberato e se ne fa misura, e dello spazio che gli è concesso fa la sua dimora.”.

Buona ricerca della vostra gemma, non vedo l’ora di darle tempo e spazio.

8. Non deturpare la bellezza

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. L’ottavo è esplicato da Eike Dieter Schmidt, storico dell’arte tedesco, direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Lo si può trovare a questo link.

“Difendere la bellezza: un compito facile e chiaro nel periodo di Kant e Canova, quando l’umanità era convinta dell’unità ideale di Bello e di Bene. A livello teorico, questa armonica convergenza si disintegra poco dopo, già con la «scoperta» ottocentesca – intesa come liberatorio sovvertimento dell’ordine – dei Fiori del Male. A seguire, gli esempi si moltiplicano, e basta additarne un paio: da parte dei nazisti, la stigmatizzazione come «degenerata» di tutta l’arte non devota ai canoni tradizionali; e le celebrazioni grottesche, neroniane degli attentati dell’11 settembre quali spettacoli di suprema bellezza da parte di Karlheinz Stockhausen e Damien Hirst.
Allora ci si deve porre la questione preliminare di quale sia la bellezza da difendere, e come si possa evitarne la deturpazione. Certo è che al giorno d’oggi la teoria estetica e la prassi della critica e storia dell’arte evitano accuratamente di affrontare la categoria del Bello. Tuttavia, questo progressivo spegnimento dei richiami estetici nel campo dell’arte è stato controbilanciato da una fioritura nell’altro campo in cui essi sono tradizionalmente radicati, ovvero la matematica. Specialmente dopo l’applicazione della geometria frattale sviluppata da Benoît Mandelbrot nel 1979 sull’insieme di Gaston Julia, la bellezza matematica, fatto puramente teorico e intellettuale, si è amalgamata con quella estetica, percepibile con i sensi.
A questo possiamo aggrapparci, perché il concetto matematico di Bellezza, già applicato in altri campi del pensiero astratto attraverso la logica, ci fornisce uno strumento potentissimo per capire meglio e agire di conseguenza.
La rivoluzione digitale degli ultimi decenni, un fiume in piena, ci ha travolti tutti portando Turpitudine insieme alla Bellezza 4.0, la volgarità social insieme all’informazione capillare, il falso e il brutale confusi con il vero. È questo il punto: cosa c’è di buono, di utile, o anche di «diversamente bello» in un’edilizia sfrenata e mercantile – pensiamo alle monotone fungaie di brutti grattacieli costruiti davanti a splendide spiagge.
Ma la turpitudine di certi fenomeni consiste anche nel fatto che danneggiano e distruggono sistemi complessi e stringenti, che appiattiscono e abbassano trovate geniali dell’uomo e della Natura; che sono mutili, illogici, falsi. Ecco il dovere morale che nasce dalla falsità del brutto. Con la rivoluzione digitale in pieno corso, il comandamento di non deturpare la bellezza non può limitarsi soltanto alla realtà concreta, on site, ma deve allargarsi anche a quella virtuale, on line.”

Il silenzio umile dell’ascolto

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Paola Zampieri intervista il teologo Duilio Albarello (Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale) sulla ricerca spirituale e i giovani. “In un tempo in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui, la chiesa deve saper tacere e ascoltare, incontrare e testimoniare la bellezza del credere”. Questa la fonte.
Prof. Albarello, quali sono le forme inedite di ricerca spirituale, in particolare, che caratterizzano il mondo giovanile in un’epoca in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle norme morali o dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui?
«Nel nostro tempo quel “paganesimo di ritorno”, o meglio quel secolarismo culturale che attorno alla metà del Novecento si affacciava soltanto sulla scena, si è pienamente realizzato e per la verità ha anche cominciato a mostrare i segni del suo logoramento. Uno di questi segni più evidenti, specie a livello giovanile, è la ricomparsa del “sacro” prevalentemente nella forma del soggettivismo spirituale, ossia del cosiddetto bricolage religioso. Tale fenomeno tuttavia, assai prima di essere stigmatizzato, richiederebbe di essere attentamente decifrato. Esso infatti a mio parere è l’espressione ambivalente di quello che alcuni hanno cominciato a chiamare “l’incredibile bisogno di credere” (Julia Kristeva) che si registra nella nostra epoca».
La “fede”, oggi, cos’è?
«In un momento in cui l’unica certezza rimasta sembra essere quella che non vi siano più certezze, il problema maggiore diventa rintracciare le risorse disponibili per attivare una fiducia che si mostri effettivamente fondata, pur senza degenerare per forza in una sorta di “credenza fai da te”. Sotto questo profilo, la “fede” si propone oggi come la questione antropologica per eccellenza, sia sul piano individuale, sia sul piano collettivo: una fede che consenta di continuare o ricominciare a dare credito alla vita, prima ancora che a Dio. Sono sempre di più le persone che avvertono questa esigenza, specie tra le giovani generazioni, ma spesso purtroppo la loro domanda non trova accoglienza nel “recinto” ecclesiale, poiché non disponiamo di strumenti capaci di interpretarla e di accompagnarla».
In questo contesto, come si pone la spiritualità cristiana? Come risponde al bisogno di senso dei giovani?
«A mio avviso, il bisogno di senso si sovrappone proprio a quel bisogno di credere, di cui parlavo prima. A questo riguardo, penso che per intercettare la sensibilità e il coinvolgimento dei giovani – ma non solo – sia indispensabile coltivare la dimensione estetica della fede, o in parole più semplici la “bellezza del credere”. Intendo dire: l’incontro con Cristo che cambia la qualità della vita non può avvenire in un ambiente asettico e in un clima anestetizzante. Purtroppo la sensazione che si prova in molti casi nei percorsi formativi o nelle celebrazioni liturgiche non spinge affatto chi partecipa ad esclamare: “È bello per noi stare qui!”. Eppure una testimonianza ecclesiale, che non accenda i sensi con la luce dello Spirito e non indirizzi gli affetti a percepire il fascino di stringere alleanza con il Signore, è destinata fin dall’inizio a mancare il suo compito».
Occorre spingere sulle leve emotive?
«Sia chiaro, non sto incoraggiando a spingere sul pedale dell’emotivismo per attivare discutibili strategie pastorali di seduzione, che finiscono per confondere la testimonianza del Vangelo con la pubblicizzazione di un prodotto. Intendo solo evidenziare che senza sperimentare la bellezza del credere nel Dio di Gesù sarebbe del tutto impossibile riconoscere la verità della sua Parola e lasciarsi trasformare dalla bontà della sua Presenza».
È l’esempio che muove e trascina.
«La spiritualità cristiana nasce e si costituisce ovunque vi siano un uomo e una donna che attestano quanto sia “bello” – dunque promettente e insieme impegnativo – edificare la propria vita nella compagnia del Signore. Tra il resto, per limitarci a una esemplificazione significativa, l’obbiettivo di una cura pastorale per la ricerca vocazionale dei giovani dovrebbe essere appunto questo: suscitare in essi il desiderio di “avere una storia” con il Signore, di incrociare la propria via con quella percorsa da Gesù, riconoscendo che è davvero la via verso la vita buona».
Quale contributo può portare la teologia per cambiare lo sguardo della chiesa sui giovani?
«A mio avviso si tratta di mettere finalmente in piena luce la portata pratica della “svolta antropologica” maturata nel pensiero teologico del Novecento. Infatti questa “svolta” si basa sulla consapevolezza che sarebbe impossibile dire il Dio di Gesù Cristo senza coinvolgere l’essere umano, la sua esistenza concreta a livello personale e sociale. Anzi, la verità dell’Evangelo individua il terreno di prova decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe compromesso il carattere affidabile di quella stessa verità».
Qual è la sfida che interpella la chiesa?
«In questa prospettiva, la chiesa è sfidata a lasciar cadere le incrostazioni dottrinali e morali che spesso ancora la paralizzano, per tornare a condividere con le nuove generazioni il suo unico ‘tesoro’: l’umanità eccedente di Gesù Cristo, come forma e forza, che sono necessarie all’“incredibile bisogno di credere”, diffuso nelle nostre società dell’incertezza, per essere autenticamente degno dell’uomo».
Il primo passo da fare?
«Un primo passo, indispensabile, per raccogliere tale sfida da parte della comunità ecclesiale sarebbe quello di tacere, per mettersi davvero in ascolto in particolare delle esperienze concrete dei giovani, con le loro attese e le loro disillusioni, con le loro risposte e i loro dubbi. Solo passando attraverso questo silenzio umile dell’ascolto, sarà possibile per la testimonianza ecclesiale incontrare i giovani in carne ed ossa, in modo da offrire loro quel “giusto senso” dell’esistenza, che ha la sua origine in Dio e che Gesù Cristo intende donare a tutti».

Allargare lo sguardo

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“Il mondo ci sa svelare i suoi segreti in forme del tutto inattese.
Per la maggior parte delle persone le giornate iniziano e finiscono senza che accada granché, ma tutti gli elementi devono essere collegati in qualche modo se alla fine ne scaturisce una figura armoniosa, come la tela di un ragno che luccica al sole del mattino.
Al suo interno vi sono insetti rinsecchiti e tante altre cose che a una prima occhiata possono risultare sgradevoli. Ma prese insieme, tutte quante, accolte in uno sguardo grande, immenso, diventano un unico corpo meraviglioso e irripetibile”
(Banana Yoshimoto, Andromeda heights, pp 16-17)
Ecco quel che devo cercare di fare: allargare lo sguardo.

Dal basso

fiore

Abbassarsi, mettere il cuore vicino alla terra, per cogliere la bellezza…

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