“Il paradosso, il vostro paradosso, è che vi dedicate alla ricerca della verità, ma non sopportate la vista di ciò che scoprite” (I. Yalom, Le lacrime di Nietzsche, pag. 360).
Nei miei taccuini, su cui appunto le citazioni dei libri che leggo, questa è la numero 3086. Ha molteplici campi di applicazione, ma questo pomeriggio ne ha una particolare. Ho passato un po’ di tempo, troppo poco in realtà (ma la campanella è tiranna), a raccogliere le parole e gli sfoghi di alcune alunne. Oggetto dell’arrabbiatura: l’incapacità relazionale di molti adulti, in particolare degli insegnanti, nei confronti degli studenti. Non sbagliano. Credo sia un effettivo problema, un tempo più nascosto, più sottotraccia, soprattutto perché era un tempo diverso, abitato, in particolare, da studenti diversi. Vanno fatte delle considerazioni, vanno condotte delle riflessioni che possano tradursi in atti, modi, comportamenti; ma senza il coraggio, la voglia e l’onestà di vedere la verità dentro di sé, dentro i propri atti, modi e comportamenti, non si arriva a nulla. Diventa una ricerca di verità vana e sterile, volta a trovare quel che si fa finta di cercare. Penso sia la base se vogliamo essere degli adulti, e soprattutto degli insegnanti, significativi.
“Ho portato il libretto del Live, ovvero un percorso annuale, durante il quale ci si ritrova tra animatori una volta al mese a Santa Maria la Longa per stare una giornata insieme, per ballare, giocare, cantare, pregare eccetera. Ci sono anche altri incontri come un sabato sera al mese, oppure 3 incontri durante l’anno che si tengono a Mestre o a Mogliano Veneto. Ho deciso di portare questo libretto perché simboleggia uno dei posti a cui tengo di più, soprattutto per le persone che vi sono dentro, sincere, buone e con le quali posso essere me stessa. È dall’anno scorso che partecipo a questi incontri ma solo quest’anno ho capito che è qualcosa senza il quale mi sento persa, per cui spero di continuare ancora per molto. Questo percorso termina in estate con i campi estivi” (S. classe seconda).
Come ogni anno, è arrivato il momento di portare la mia gemma e condividere coi miei compagni qualcosa a cui sono legata o che reputo importante. A differenza dell’anno scorso, quest’anno ho una gemma ben precisa che in realtà porta con sé molte persone, ricordi ed emozioni (quindi tutte le persone, discorsi e cantanti vari di cui parlerò fanno parte della gemma). Quest’anno ho deciso di portare una canzone che si chiama Thing called love di un artista americano che si chiama NF. Inizialmente non sapevo dell’esistenza di questo rapper fino a quando una certa persona, consigliandomi delle canzoni, mi ha fatto ascoltare altre sue canzoni e mi è piaciuto fin da subito. Il vero motivo per cui ho scelto la canzone è un altro: due anni fa ho conosciuto un’altra persona con cui fin da subito sono andata un sacco d’accordo perché avevamo molte cose in comune e mi trovavo a mio agio, cosa che mi è difficile con delle persone che conosco da poco. Io e questa persona abbiamo fatto il centro estivo assieme e questo vuol dire stare assieme tutto il giorno, tutti giorni per circa 3 settimane. La sera quando ognuno era a casa sua facevamo sempre chiamate che andavano avanti fino a tardi dove giocavamo assieme, ascoltavamo musica, ci raccontavamo i traumi a vicenda :)). Poi, soprattutto d’estate, arriva quel momento in cui è notte fonda e ti ritrovi a fare dei discorsi un sacco profondi e filosofici; ecco, mi ricordo perfettamente, era fine giugno ed ero in chiamata, ad un certo punto tra varie altre domande questa persona rimane in silenzio e dal nulla se ne esce con “Ma per te A. che cos’è l’amore?”. Lì per lì la domanda mi ha spiazzata anche perché venivamo entrambi da una giornata piena di bambini urlanti e irritanti, erano tipo le 3 di mattina e sinceramente non ero psicologicamente pronta per una domanda del genere, siamo passati da ‘per te cosa c’è al centro dell’universo (nell’ipotesi che sia finito)’, a ‘che tipo di film ti piacevano da piccola’ a questo. Inizialmente sono rimasta in silenzio poi all’unisono abbiamo detto “L’amore è letteralmente tutto”. Prima ci siamo messi a ridere perché è stato un coro strano, poi abbiamo discusso un po’ su questa cosa ed è venuto fuori che l’amore è un qualcosa di troppo grande per poterlo definire con una parola sola e che molte persone della nostra età danno per scontato o considerano quasi “dovuto”. L’amore è amicizia, paura, odio, passione, responsabilità, spontaneità, ma soprattutto rispetto e solidarietà. Poi io ho voluto aprire una parentesi facendo una citazione di un film che considero uno dei miei preferiti che è “Vi presento Joe Black”.
Tutto questo lunghissimo discorso per ricollegarmi con la canzone che ho scelto. Il giorno dopo questa chiamata stavo ascoltando musica in riproduzione casuale su spotify ed è lì che ho trovato questa canzone. In realtà l’ho scelta principalmente per il testo più che per la canzone di per sé. Mi ha particolarmente colpita e ho deciso di portarla come gemma perché NF dà esattamente la sua visione dell’amore e di come ci si senta ad essere innamorati di qualcuno. Non sto dicendo che sia un segno del destino o cose simili perché onestamente ci credo fino a un certo punto; mi ha semplicemente fatto molto ridere il fatto che, dopo aver tirato fuori il discorso la sera prima in chiamata, mi sia imbattuta in quella determinata canzone che all’epoca manco conoscevo. L’ho scelta perché mi è capitato di riascoltarla in quest’ultimo periodo e ciò mi ha sbloccato tutti questi ricordi. Visto che quell’estate è stata una delle più belle mai trascorse, è stato bello rivivere certi stati d’animo, ma come si sa le cose belle durano sempre troppo poco: a volte sono solo istanti, a volte possono durare anche qualche anno o, come nel mio caso, durano solo 3 mesi.” (A. classe quinta).
“Ecco la mia gemma, G.. G. è mio fratello ed è una delle persone che amo di più. Io e lui siamo cresciuti insieme come se fossimo gemelli, infatti abbiamo solamente due anni di differenza. Molti della classe conoscono G. in quanto è una persona eccentrica, energica ed estremamente espansiva. Oggi però vorrei farvi conoscere il lato più sensibile e dolce di mio fratello e lo farò raccontandovi quanto amore c’è tra di noi. Ultimamente ho compreso l’importanza di avere accanto un fratello, G. infatti mi capisce al volo, gli basta uno sguardo o un “toc toc” sul muro che divide le nostre stanze. A settembre ho messo fine ad una lunga relazione. G. ha subito capito che per me questa cosa non era stata facile e da quel momento, per un mese ha passato molte notti insieme a me raccontandomi cose divertenti o dicendomi “ma cosa ti frega, è scemo e ti trattava male”. Anche ultimamente passiamo le serate insieme, io devo studiare molto e a lui dispiace lasciarmi sola, quindi resta in camera mia ad ascoltarmi ripetere storia, scienze, francese…
Ho deciso di parlare di lui perché nonostante gli infiniti litigi a causa del caricatore o per chi abbia il diritto alla doccia per primo G. è la mia persona preferita e per lui darei qualsiasi cosa” (C. classe quinta).
“Caro papà… Sai che ogni tanto mi capita ancora di vederti. Quando chiudo gli occhi certe sere prima di dormire, ti sento ancora passare tra le mie giornate. A volte tiro fuori i tuoi vecchi vestiti, li guardo a lungo, ma anche se volessi non riuscirei a metterli. Gli armadi sono ancora pieni dei tuoi vestiti, la mamma dice che è perché non ha mai tempo di buttarli, ma io so che non è vero, in realtà è perché non vuole. Una volta l’ho vista accarezzare un tuo maglione dopo che ci aveva messo il tuo profumo sopra. A volte vorrei poterti re-incontrare, anche solo per cinque minuti. Ne avrei di cose da dirti che cinque minuti non mi basterebbero, ma se li avessi me li farei bastare. Ti direi che ci manchi e che senza di te a tavola si sorride un po’ meno. Ti direi che sto bene e che nonostante tutto me la cavo, anche se non è facile crescere senza i tuoi consigli. Ti direi che stanno tutti bene. F. sta diventando una donna e mamma è sempre più bella, ogni giorno che passa. Ti direi questo e ti direi grazie per quello che mi hai dato e per quello che mi stai ancora dando. Anche se fanno tutti finta di niente e fanno finta che non ci sei più, io lo so che sei ancora qui con me. So che in quelle giornate in cui tutto mi crolla addosso, sei tu a darmi la forza, sei tu a darmi quei pochi secondi in più e sei sempre tu a non farmi mollare la presa. Lo so che ci sei, che non mi hai lasciato e che mi proteggi. So che anche se sbaglio in tante cose, non sbaglio a guardare il cielo e dirti grazie quando torno a sorridere. Se solo potessi rivederti anche solo per cinque minuti, ti direi grazie per vivere ancora in me. E anche se quei cinque minuti non ce li da nessuno queste cose te le dico lo stesso, perché so che in un modo o nell’altro, le sentirai” (A. classe quarta).
“Questo video risale a poche settimane fa, al giorno del matrimonio di due miei cari amici; nel video il padre di una mia amica e io balliamo un twist davanti la console del dj. Dalla mia espressione penso si possa capire quanto io fossi felice e spensierata, e quanto mi stessi divertendo assieme ai miei amici (o meglio: alla mia famiglia). Peccato che le cose non stessero proprio così. Il giorno prima, infatti, dopo l’ennesima litigata, il mio ex-fidanzato e io ci siamo ritrovati a prendere la decisione di interrompere la nostra relazione. Non che non me l’aspettassi eh… in fin dei conti, tirava aria di rottura già da tempo. Nonostante ciò, ho pianto fino a vomitare, ho vissuto un momento di completa paralisi fisica a causa del dolore, e ho dovuto prendere dei calmanti per tornare almeno per un po’ in me. Reazione eccessiva? Forse, ma non lo si capisce se non si è dentro la situazione. Sta di fatto che qui arrivo al nocciolo della questione: il giorno seguente, alle nozze, ho dovuto sorridere, scherzare, ballare, come se non fosse successo nulla. L’abilità di “combattere i propri demoni da soli e in silenzio” è, però, una lama a doppio taglio, e provoca una ferita profonda. Se, da un lato, ritengo giusto saper mettere da parte le proprie preoccupazioni, perché la gente, quando ti invita al proprio matrimonio, ti vuole vedere contenta per loro, a prescindere da come stai o da quello che stai attraversando, dall’altra parte è, però, un equilibrio difficile da mantenere, perché può tramutarsi velocemente in un “tenersi tutto dentro”, come è successo a me qualche mese fa, e condurre all’apatia verso tutto e tutti. Uscire dall’apatia o dalla “valanga di sentimenti” sono state probabilmente le migliori decisioni che potessi prendere e le peggiori sfide che potessi affrontare.” (T. classe quarta)
“E’ una canzone la mia gemma e il musicista è un amico di famiglia; nel video ci sono due persone, un uomo e una donna (anche loro nostri amici) e purtroppo ieri era il primo anniversario della scomparsa di lui. Per me questa canzone ha un significato molto importante”.
Ringrazio G. (classe terza) che mi ha fatto conoscere questo brano che ho già ascoltato più volte in queste ore. Penso sia bello riportarne il testo, trascritto dallo stesso autore, Dario Snidaro, in un commento al video:
“I wake up in the morning and follow my routine Think about the years that pass while I’m still chasing my dream Can’t see no one out there happy wild and free There are just a few that try to change, not knowing how hard it is
And I’m scared of all the shadows they’re always casting over me I used to have some confidence, some faith in me
Living with the sound of music, loving life but still Feeling a damn loser when I look at myself straight Driving down the road at night and feeling uninspired Of writing a new song, the one could help me dream along
And I’m scared of all the shadows they’re always casting over me I used to have some confidence, some faith in me And I can’t even count them as they’re keep on falling down on me I used to have some confidence, some faith in me
Sometimes the road I am walking, people I’m talking Fire I’m lightning and bridges I’m crossing Keep on reminding me about… Those times getting harder, fears growing stronger Hope gets all lost, fires all burnt
And I used to have, I used to have Some confidence, but now I still have you”.
“Ho portato varie cose. Il tema centrale sono le lettere e le foto. L’estate scorsa ho conosciuto il mio ragazzo, ci siamo fidanzati ed è la cosa migliore che mi sia capitata nel 2021 e mi ha letteralmente svoltato la vita. E’ stato qualcosa di inaspettato. Tutte le cose belle accadute e tutti i ricordi belli collezionati ho deciso di renderli concreti in qualche modo, per mantenerli nel tempo. Così ho deciso di fare un album e ho pensato di scriverci delle lettere ogni volta che ci vediamo. Collegato a questo volevo citare il film Le pagine della nostra vita, il primo film che mi ha fatto commuovere. La protagonista si ammala di Alzheimer e gli unici momenti di lucidità sono quando il marito le legge la storia della loro vita che lei ha scritto quando era giovane.”
Non sono frequenti le gemme che parlano d’amore, di due persone innamorate, come questa di G. (classe quarta). Per brindare alla sua storia cito dal film da lei proposto alcune parole che descrivono l’amore, i grandi sentimenti, ma anche l’impegno e la volontà di costruire insieme qualcosa: “Non sono una persona speciale. Sono un uomo normale con pensieri normali e una vita normale. Non ci sono monumenti dedicati a me, il mio nome sarà dimenticato. In una cosa sono riuscito in maniera assolutamente eccezionale. Ho amato una donna con tutto il cuore e tutta l’anima. Per me questo è sempre stato sufficiente. […] L’amore più bello è quello che risveglia l’anima, e che ci fa desiderare di arrivare più in alto; è quello che incendia il nostro cuore e porta la pace nella nostra mente. Questo è quello che tu mi hai dato. Ed è quello che speravo di darti per sempre. Ti amo. […] Sì, noi siamo così. Noi litighiamo. Tu dici a me che sono un arrogante figlio di puttana, e io ti dico quanto sei una rompi coglioni. E, lo sei il novantanove percento del tempo. E non ho paura di offenderti. Tanto ti bastano due secondi di recupero per passare alla rottura di coglioni successiva… e allora, non sarà facile, anzi sicuramente molto difficile, e dovremmo lavorarci ogni giorno. Ma io voglio farlo, perché io voglio te”.
Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. Il secondo è esplicato da Marco Ventura, insegnante all’Università di Siena e Direttore del Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Lo si può trovare a questo link.
“Viviamo in un mondo popolato da tanti dèi. D’istinto rinserriamo le file, sventoliamo le bandiere; mobilitiamo e irrigidiamo le identità religiose. «Genti venute dall’Est credevano in un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male», cantava Fabrizio De André nel 1970. A noi, invece, hanno fatto male eccome. Perciò non siamo disposti a tollerare gli intolleranti, e tuttavia crediamo ancora nella convivenza pacifica tra le fedi. Possibile per noi, com’è stata possibile in altri tempi e spazi. «Rispetta il Dio altrui», allora, diviene il comandamento chiave del nostro tempo. Non pretendere che chi crede in un Dio diverso dal tuo celi la propria fede, la alteri o la abbandoni; non esigere che si astenga dal praticare il proprio culto o dal seguirne i precetti, a meno che ciò non comporti un pregiudizio per qualcuno. Accetta che il Dio altrui strattoni il tuo, lo sfidi, gli chieda conto della sua divinità, della sua verità e del bene che l’uomo trae dal venerarlo e dall’obbedirgli; accetta di parlare con chi crede in un altro Dio, di sedere alla stessa mensa, nuotare nella stessa acqua, decomporti nella stessa terra, istruirti nella stessa scuola, votare nello stesso Parlamento. Non usare lo Stato, la politica, i soldi e il sesso contro il Dio altrui. Non usare il tuo Dio per dominare lo Stato, la politica, i soldi e il sesso. In un mondo sempre più cristiano e più musulmano, devi preoccuparti anche dei piccoli dèi e dei pochi credenti, delle religioni che vengono scacciate da una foresta distrutta, delle comunità sfrattate da un dittatore; in questa società piena di dèi rigonfi, sgargianti e urlanti, abbi cura delle divinità smilze, modeste e silenziose. Davanti ai tanti che non credono, rispetta il non Dio altrui; se non credi in alcun Dio, rispetta chi ti accusa di non averci capito niente. Se non vuoi dare un nome al tuo Dio, rispetta chi si riempie la bocca dei titoli del suo; se credi che un vero Dio gridi forte il suo nome, rispetta chi sulla carta d’identità lascia in bianco la casella religione. Quando incontri adepti del Dio del mercato, dello star system e della moda, della scienza e della tecnica, rispetta la loro fede. Se credi in quel Dio, rispetta a tua volta chi crede nel Dio dei poveri, dei refrattari al palcoscenico, degli allergici all’innovazione, degli obiettori al progresso. Nel tempo dei monoteismi, rammentati delle virtù dell’Olimpo greco e del Kailash indù; nel tempo degli idoli a prezzo scontato, ricordati che non avrai altro Dio all’infuori di me.”
Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. Il primo è esplicato da Donatella Di Cesare, insegnante di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. Lo si può trovare a questo link.
“Nell’età del libero odio e della regressione violenta il fango non ha risparmiato né l’accoglienza né l’altro. Come se si trattasse di un buonismo caricaturale, di un precetto per anime belle, di quell’etica che ha fatto il suo tempo. Quante storie, insomma, per la cosiddetta «differenza», quella delle donne, degli ebrei, degli omosessuali, dei diversi da «noi», quante storie per gli altri, gli stranieri, gli estranei, quelli che vengono da fuori, non invitati, i malvenuti. Prima veniamo «noi», poi gli altri! E prima del noi – s’intende – vengo «io». Ecco la nuova «morale» del XXI secolo, ben centrata sull’ego, uguale a se stesso, coincidente con sé. Un ego che si chiude, anzi si blinda, erige muri, innalza frontiere, installa videocamere, nell’angoscia quotidiana che l’altro, l’ospite indesiderato, o meglio, il nemico, possa sopraggiungere d’un tratto. Questo io snervato dalla paura, barricato in se stesso, ogni tanto si rende conto che, da solo, proprio non ce la fa; piuttosto che spiare fuori, apre un po’ la porta. Lascia entrare l’altro – solo per breve tempo e solo a certe condizioni. Chissà, potrebbe magari tornargli utile. Si mostra addirittura tollerante, parla di «assimilazione», «integrazione». È l’altro che deve rendersi simile, è l’altro che deve adeguarsi. Se questo non accade, se l’altro, nella sua alterità, fa ostacolo, se per caso si ribella, rivendicando la sua differenza, prima ancora della sua libertà, allora l’io potrebbe spazientirsi e fargliela pagare. Il femminicidio – estremo gesto di una violenza diffusa e sistematica sulle donne – va considerato in questo complessivo naufragio dell’etica. «Tolleranza» è una brutta parola. È la parola pronunciata dall’io sovrano che, dall’alto del suo potere, sopporta la differenza dell’altro. Il cristiano tollera l’ebreo (fino a un certo punto), il bianco tollera il nero. Il presunto autoctono tollera lo straniero. L’io lascia all’altro un piccolo posto nella propria casa – ma potrebbe scacciarlo quando vuole. Si esaurisce qui il modello illuminato della coabitazione tollerante. Questa morale non va più. Certo, è meglio che essere intolleranti. Ma il punto è che non si può pretendere di immunizzarsi dall’altro. L’io rintanato in sé finisce per girare su se stesso in una fallimentare girandola. Accogliere l’altro significa aprirsi alla sua irriducibile alterità. Perché l’altro non è il limite contro cui urtiamo, ma al contrario, solo l’altro, non senza scuotere e inquietare, può davvero portarci oltre i nostri limiti.”
Pubblico un articolo non per studenti. E’ per addetti o appassionati. L’ha scritto Marcello Neri (professore incaricato di Teologia cattolica presso l’Università di Flensburg, Germania) e l’ho recuperato grazie a una segnalazione su Fb da Settimana News. Al centro della riflessione il rapporto tra il proemio della Veritatis Gaudium e il resto del testo.
“Il proemio di Veritatis gaudium (VG) è sicuramente ambizioso, perché non mira a una semplice riorganizzazione degli studi teologici all’interno di istituzioni legate alla Santa Sede. Ben altra è la prospettiva di queste poche pagine uscite dalla penna (o mente) di Francesco: l’orgoglio di una riattivazione dell’efficacia degli studi ecclesiastici che sia all’altezza della loro migliore tradizione, in un contesto però del tutto inedito rispetto alla storia recente della Chiesa e, quindi, mancante di referenzialità esemplari. Liberare la teologia da scorie del passato che ne impediscono il passo sciolto nel presente; rammemorarle che essa non si inventa da sé a ogni dato momento, ma che può sapientemente attingere da un’intelligenza che può essere stata magari marginalizzata, ma non si è certo affievolita; esercitare con libertà e passione una forma del sapere la cui razionalità avanza la pretesa di porre la questione della verità del Dio di Gesù senza volerla imporre come sistema dominante e sintetico di ogni umana ricerca di verità. L’ambizione dell’intento inscritto in queste poche pagine va onorata, da parte della teologia, assumendosi la responsabilità di dare forma concreta all’auspicio e al desiderio di papa Francesco. Vedremo poi come una sorta di schizofrenia del registro linguistico interno del documento rappresenti proprio l’ostacolo maggiore in vista dell’attuazione effettiva dell’idea di studi ecclesiastici e di teologia contenuta nel proemio.
Mi è stato chiesto uno sguardo su VG dalla «periferia»: non solo lontano dal centro romano delle cose e vicende ecclesiali, ma anche in una condizione di estrema marginalità del cattolicesimo e della sua teologia. Come può essere quella di insegnarla in una piccola università del profondo nord tedesco, non in una facoltà ma all’interno di un dipartimento ridotto all’essenziale (dove bisogna arrangiarsi a fare un po’ di tutto, insomma), a sua volta lontano e periferico (geograficamente) rispetto alla sede della diocesi. Da un lato, a mio avviso si tratta di condizioni ideali per guardare a VG come a qualcosa di più di un bel sogno, di un «sarebbe bello, ma…». L’estrema destrutturazione, il disincanto e il realismo cui costringe un contesto di diaspora marcata in condizione di secolarizzazione avanzata, apre praterie alla fantasia della ragione teologica (ammesso che essa ne abbia ancora un po’ in riserva, e non si sia completamente esaurita nelle estenuanti polemiche interne alla compagine ecclesiale). In questo momento, proprio leggendo il proemio di VG, essere piccoli e senza storia, essere periferici e un po’ dimenticati (da Dio, dal tempo e dall’istituzione ecclesiale), essere marginali rispetto all’impianto complessivo di una già piccola università (che non vuol dire essere irrilevanti, però), può essere un vantaggio e, quindi, compete proprio a periferie simili a questa, anche in tutt’altri contesti, farsi carico esplicito dell’impegno per una riattivazione dell’efficacia culturale degli studi ecclesiastici. D’altro lato, la periferia da cui proviene questo sguardo su VG è strana – appunto, perché rimane comunque piantata nel cuore dell’Europa sebbene sia caratterizzata da disimmetrie relazionali con il «centro» – o, almeno, con quanto prima di Bergoglio era il centro effettivo del cattolicesimo; e che con lui, a mio avviso, è stato fortemente relativizzato sebbene tutti continuino a fare come se fosse ancora tale. Tutto questo diventa evidente quando si sta davvero in una periferia, quando si abita un margine reale del cattolicesimo contemporaneo: quello che si considera il «centro», nonostante l’opera di ridislocamento in atto delle coordinate fondamentali della Chiesa cattolica, appare essere immediatamente tale solo in forma nominale. In realtà, il «centro» è solo uno dei molti margini possibili attualmente che delineano l’altrove insituabile del periferico. Questa attrazione che assorbe apparentemente su di sé l’interno è, a mio avviso, ancora la funzione virtuosa del «centro» (margine fra i margini) della Chiesa cattolica, in quanto permette ampi spazi di movimento nelle sue zone periferiche.
L’esperienza della periferia da cui si muove la mia prospettiva è come quella di chi è uscito da lungo tempo da casa e ha percorso molti sentieri non lineari (alcuni anche interrotti, come è bene che sia), e che ora – voltandosi indietro – non riesce a intravedere più o non ha alcuna memoria della porta dalla quale si è usciti. Letta a partire da questa esperienza di periferia, VG è come se si stesse ancora cercando la porta giusta da cui uscire; fino al passo decisivo che compie il proemio di Francesco di decidere che, piuttosto che continuare a tergiversare in attesa della giusta via di uscita, è molto meglio fare un bel buco nel muro (anche perché molto probabilmente quella porta non esiste affatto). Poco importa dove si faccia saltare il bastione per generare un’apertura, perché sarà sempre più fruttuoso che estenuarsi nel trovare l’uscita che non c’è. Il proemio di VG rappresenta la consapevolezza raggiunta da papa Francesco che, per quanto riguarda gli studi ecclesiastici, o si procede un po’ brutalmente in questa maniera oppure essi perderanno definitivamente il treno che potrebbe condurli nell’aperto della loro destinazione (anziché continuare a stare comodamente in pantofole nell’ambiente familiare in cui abitano oramai solo loro – e, al più, i cloni che essi auto-generano). Ma è proprio qui che la contraddizione tra proemio (ispirativo, pronto a sparigliare senza timore le carte in gioco) e il resto del documento (giuridico, preoccupato di organizzare l’esistente) si fa non solo più evidente, ma appare quasi comica. Alla fin fine, sembra di essere dentro un cartone animato di Willy il Coyote: mentre il nostro anti-eroe sfortunato ci ha messo l’anima, e ogni ingegno possibile, per aprire una breccia nel muro di cinta, il perfido Road Runner del massimalismo normativo-giuridico ha già provveduto a costruirne un altro tutt’attorno – più alto e più solido di quello così faticosamente abbattuto. L’ampliamento caparbiamente voluto dal buon Willy-Francesco è ridotto a semplice illusione ottica dall’ossessione di controllo del Road Runner vaticano di turno (in questo caso la Congregazione per l’educazione cattolica).
Qual è il testo di Veritatis gaudium?
Si pone, quindi, la questione di quale testo sia VG: il proemio o la parte normativo-canonica? O l’adesione degli studi ecclesiastici al vissuto quotidiano della fede, nel quale il «perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture» è già «messo in atto dal popolo di Dio» (VG 3), oppure l’indistinzione onnipervasiva del dettato giuridico che omologa centralmente gli studi ecclesiastici stessi? Non si tratta solo del fatto che i due testi parlano di cose diverse e inconciliabili fra di loro, ma anche che con l’attuale impianto normativo (che fa il secondo testo) degli studi ecclesiastici la figura del poliedro, così centrale nella visione ecclesiologica e culturale di Francesco, è semplicemente impossibile: per la forma canonica asserita, esso è semplicemente inconcepibile. Non solo gli studi ecclesiastici vengono considerati come una sfera indifferenziata, ma tutti i punti della superficie che la compongono sono dei cloni del centro onnipresente. Questo effetto artificiale di rispecchiamento narcisistico permette al centro di immaginarsi di poter essere efficacemente presente ovunque; ma appunto, si tratta solo di un’illusione che può essere tenuta in vita unicamente mortificando la realtà delle cose.
Dalla teologia della liberazione alla liberazione della teologia
Se e in quale misura papa Francesco sia influenzato dalla teologia della liberazione è questione che può rimanere tranquillamente aperta per quanto riguarda queste considerazioni su VG (ritengo quindi che il testo di VG sia esclusivamente il proemio). Tenendo conto di alcuni aspetti di semplice correttezza metodologica. In primo luogo, che il singolare sotto cui si sussumono tutta una serie di percorsi teologici, pastorali e personali è un raccoglitore ideal-tipico che non rende ragione alla vivacità del dibattito critico acceso da quegli stessi diversi itinerari della fede. In secondo luogo, bisognerebbe chiedersi se il termine «teologia della liberazione», così come esso viene usato nell’Occidente europeo, non sia alla fin fine una sorta di denominazione colonizzante di un pensiero non omologabile a quello del centro europeista. Fatte queste brevi premesse, mi sembra possibile affermare che VG miri esplicitamente alla liberazione della teologia da se stessa; il che vuol dire anche dall’apparato istituzionale e canonico che le sta impedendo di essere quello che Francesco si auspica che essa sia. VG non dice cosa la teologia deve essere dopo questo processo di liberazione; non lo dice perché, una volta che esso si sia effettivamente realizzato, non sarà possibile definire univocamente la teologia approdata a questo esito (se non in termini così generici e astratti da non voler dire sostanzialmente nulla). Piuttosto, VG si limita, con un gesto tipico di Francesco, a indicare un metodo procedurale che necessariamente si realizza in una multiformità di modi concreti: gli studi ecclesiastici «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo (…)» (VG 3). Se così si pratica la teologia, allora è chiaro che essa, entrando nel laboratorio della vita umana cui si destina l’evento cristiano, non sa né come ne uscirà lei, né cosa ne uscirà da questa impresa performativa della fede. Ossia, la teologia non sa mai a monte come di fatto si realizza, in un dato luogo e tempo, la realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo. E non lo sa neanche a valle, perché questa realtà è, come la sua adeguata interpretazione teologica, squisitamente performativa: ossia, si genera in atto; si dà in quanto pratica di vissuti umani contingenti.
Per una declericalizzazione degli studi ecclesiastici
Ogni possibile riattivazione degli studi ecclesiastici che voglia essere all’altezza di una destinazione che non si consuma nel proprio rispecchiamento e auto-conferma, passa attraverso la possibilità, capacità e volontà di disinnescare la simbiosi con l’itinerario di formazione al ministero ordinato, che ne ha sequestrato in toto la loro ragion d’essere. In questo momento, tale sovrapposizione non fa bene né al sapere teologico né al ministero ordinato; lasciando da parte la questione scottante del fatto che gli studi ecclesiastici sono al massimo «sopportati», ma non certo supportati, dalle istituzioni ecclesiali attuali preposte alla formazione di quello che sarà il corpo clericale della comunità cristiana (seminaristi inclusi). Nella direzione di uno scioglimento della cattiva simbiosi fra studi ecclesiastici e introduzione allo stato presbiterale della vita cristiana muove, con estrema chiarezza e lucidità, il proemio stesso di VG: «il vasto e pluriforme sistema degli studi ecclesiastici è fiorito lungo i secoli dalla sapienza del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nel dialogo e discernimento dei segni dei tempi e delle diverse espressioni culturali» (VG 1). Francesco auspica dunque una restituzione degli studi ecclesiastici al loro soggetto generatore, ossia al popolo di Dio nella sua sagacia, che nella prospettiva di Bergoglio è sicuramente una categoria non immediatamente definibile, ma plastica e storicamente determinata. La forza che istituisce questo luogo genetico degli studi ecclesiastici è quella dello Spirito Santo, attualizzazione e concretizzazione dell’evento cristiano di Dio nel distendersi della storia umana. Infine, la loro ragion d’essere è quella del discernimento dei segni dei tempi, ossia dell’attualità evangelica della storia nelle sue molte complessità, e di un’intelligenza delle esperienze culturali, cioè della pluralità e multiformità di cui deve essere capace la performatività dell’evento cristiano. Riconsegnati a questa scena originaria della loro genesi, quindi a un’attuazione non servile né funzionale, gli studi ecclesiastici nella loro riattivazione efficace faranno bene anche al momento di introduzione al ministero ordinato nella Chiesa, educato da essi a non comprendersi come corpo separato, o a sé stante, all’interno della comunità cristiana. L’ordinamento canonico che non solo garantisce, ma addirittura richiede una separazione clericale degli studi teologici risulta incompatibile non solo con questo quadro di restituzione allo spazio genetico dell’insieme degli studi ecclesiastici, ma rende di fatto impraticabile un’effettiva introduzione al criterio della «inter- e trans-disciplinarietà», da esercitare «con sapienza e creatività nella luce della rivelazione» (VG 4c), che dovrebbe organizzarne l’architettura complessiva.
Non c’è possibilità di riattivare l’efficacia storica degli studi ecclesiastici se non si lascia spazio a un «tentare» che non può controllare, né predeterminare, l’esito dell’impresa a cui si mette mano. Francesco parla esplicitamente della forma «aperta, cioè incompleta» (VG 3) del buon pensiero che scaturisce dall’intelligenza storica del vangelo di Gesù. Ancora una volta, tra il testo di VG e quello che chiamerei l’apparato canonico a lui giustapposto c’è una sostanziale contraddizione di termini – dove il secondo ha esattamente l’ossessione di non lasciare aperto alcuno spazio, né indeterminata alcuna possibilità. Senza dover scendere in questioni di merito sicuramente decisive, come quella di cosa voglia dire dal punto di vista canonistico la libertà accademica, cui a questo punto neanche gli studi ecclesiastici possono rinunciare se vogliono essere riattivati nel senso di VG, è proprio la forma mentis di base che porta all’elisione di una delle due parti del documento. Detta in altre parole: il proemio richiede in questo momento agli studi ecclesiastici uno scarto che si può realizzare solo nella forma della loro anomia, stante il quadro giuridico preposto al loro governo. Non vi è altro modo di esercitare effettivamente un pensiero incompleto, esattamente perché l’iper-tonicità del quadro giuridico-canonico mira a eliminare qualsiasi possibile incompletezza. Solo assumendo il dovere di questa anomia, gli studi ecclesiastici verranno finalmente liberati dall’ossessione di essere il tutto (del sapere) e di avere l’ultima parola da dire (sulla verità).
Un breve articolo di Giuseppe Lorizio a margine del viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti. E’ tratto da Avvenire del 5 febbraio.
“Il fatto che il Vescovo di Roma partecipi, in una terra di cultura islamica, a un importante evento di dialogo interreligioso a tutto campo, è certamente un segno da leggere, interpretare e vivere con simpatetica partecipazione. Che non siano gli islamici a recarsi ad Assisi per il dialogo interreligioso, ma il Papa ad andare “fuori” dal proprio ambiente culturale e religioso non è irrilevante, né da considerarsi in termini meramente propagandistici o alternativi rispetto ad altri momenti singolari ed eccentrici rispetto alla nostra tradizione. Il raccoglimento di papa Benedetto XVI nella moschea blu di Istanbul nel 2006 è un precedente indimenticabile. Il gesto/segno e l’evento che stiamo seguendo con attenzione e pathos hanno qualcosa da dire al mondo intero, e all’Occidente in particolare: le religioni hanno un messaggio da lanciare a questa società che rischia la perdita dell’umano e l’abisso della dispersione: c’è un unico Dio, in una dimensione di trascendenza assoluta, che ci porta a relativizzare il nostro assolutismo antropocentrico ed etnocentrico. In particolare le religioni abramitiche non possono non allearsi in questo contesto conflittuale: le stesse radici veterotestamentarie e cristiano-nestoriane della religione coranica affermano qualcosa di decisivo. La moschea dedicata alla madre di Gesù, che richiama la sura XIX del Corano è un simbolo significativo per tutti. Lo dobbiamo abitare e sperimentare per poterlo esprimere nell’oggi della nostra storia. Da soli non andiamo da nessuna parte e siamo tutti destinati al declino e alla sconfitta. E se l’Europa, terra di antica cultura cristiana, appare in difficoltà nel confronto con l’islam , questo avviene – come ha sottolineato giustamente il vescovo Camillo Ballin, vicario apostolico in Arabia – «perché l’Europa non fa figli». Non fa figli – e non solo in senso biologico, ma di fatto non genera persone strutturate – e non custodisce e trasmette le proprie radici ebraico-cristiane, in nome di un laicismo deteriore, che nulla ha a che fare con l’autentica laicità, che invece denomina l’appartenenza a un popolo. Del resto senza l’ebraismo e il cristianesimo l’islam risulterebbe del tutto incomprensibile. In rapporto poi alle esperienze religiose che fanno riferimento alla natura e propongono modelli olistici di integrazione dell’uomo con l’universo degli esseri, non possiamo solo proporci in direzione alternativa e critica, bensì siamo chiamati a recuperare ed elaborare, anche teologicamente, quella che oggi denominiamo la dimensione cosmicoantropologica della rivelazione, dove il peccato ha rotto l’armonia dell’uomo con Dio e con gli altri, e ha anche lacerato la relazione uomo-natura. Questo è un orizzonte significativo e fecondo per l’alleanza di tutte le esperienze religiose che in questi giorni si stanno incontrando negli Emirati Arabi Uniti. Il tema della creatività, che la sfida della tecnica propone e ripropone in ogni passaggio epocale, non può mettere in ombra il legame creaturale e il senso del limite, da cui ogni esperienza religiosa trae origine. Ciascuno è chiamato a guardare e andare oltre, accompagnando questo evento e quelli che seguiranno con la riflessione e l’orazione, ma soprattutto declinando la parola chiave, che lo guida e lo anima: pace”.
Difficile non imbattersi in questi giorni nella notizia del viaggio di Papa Francesco negli Emirati Arabi. Oggi sono state poste delle importanti firme.
Prendo dal sito di Avvenire di oggi, a firma di Stefania Falasca.
“Abu Dhabi 4 febbraio 2019: «In nome di Dio Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Non solo. È messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze. Nero su bianco la condanna dell’estremismo e l’uso politico delle religioni, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto e il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti». E ancora: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione». È questo l’epilogo di un incontro interreligioso decisamente coraggioso in un lacerato Medio Oriente che ha visto protagonisti nel Paese-ponte del Golfo Persico papa Francesco e il Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib. Una solenne quanto impegnativa doppia firma a un documento comune sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», che sigla un’appello congiunto senza precedenti rivolto a «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Una dichiarazione non annunciata, resa pubblica solo alla fine dal Founder’s Memorial, dedicato al padre fondatore degli Emirati arabi, dove davanti ai rappresentanti delle diverse religioni il Successore di Pietro e un leader musulmano hanno sottoscritto la lista di punti “non negoziabili” e chiesto a loro stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di invertire la rotta delle violenze e «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace».
Foto tratta da Eastwest
Un gesto forte, di parole altrettanto forti, soprattutto per la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad al-Tayyib, che già nell’incontro con il Papa all’Università di al-Azhar a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita, aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione. La dichiarazione comune che muove «da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea» condanna l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – che porta a far «morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – in «un silenzio internazionale inaccettabile». Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e chiede di «smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Perché Dio «non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati» nella loro vita e nella loro esistenza», «non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Si dichiara perciò «fermamente» che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. «Queste sciagure – è scritto – sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione». Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le atre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale». Tutto questo è affermato in nome di Dio – come è ribadito – che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. In nome dunque della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali – ma che è lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato, dalle tendenze ideologiche che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome «dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità». In nome dei poveri, dei più vulnerabili. «In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre». La scossa doveva arrivare ed è arrivata. Inshallah.”
E’ stato uno di quei personaggi che hanno formato la mia adolescenza, la mia fede, il mio pensiero. Le sue pagine sono quelle da cui mi abbevero quando ho sete. Stamattina, mentre rileggevo alcune sue pagine per presentare la figura di David Maria Turoldo a due classi, mi sono ritrovato a essere commosso. Non c’è niente da fare, sento che riesce sempre a parlare al mio cuore. Le riporto qui.
Da “La mia vita per gli amici”
“Perché poi, ogni “Io” che si rispetti è irriducibile a qualsiasi definizione. Pertanto tu sei sempre quel soggetto che non sarà mai codificato, mai “cristallizzabile”: tanto provvisorio, parziale e inadeguato, può essere il giudizio o l’immagine degli altri, quanto inadeguato e insufficiente il giudizio che di volta in volta tu stesso proietti di te” (pagg 17-18).
“E Cristo, pienezza di umanità, archetipo di tutti gli uomini. Cristo, in ciò che è e in ciò che significa. Per cui possono essere vicini a Cristo quanti vivono, anche se inconsapevoli, ciò che egli significa, più di coloro che pretendono di sapere ciò che è: persuasi costoro di possederlo come loro esclusiva proprietà” (pag. 22).
“… il Crocifisso non mi rappresenta soltanto il mistero di una salvezza eterna; non è soltanto l’immagine di un Dio rifiutato; ma prima di tutto mi rappresenta l’idea di un uomo che il mondo non riesce ad accettare, e che perciò emargina e crocifigge” (pag. 26).
Papa Francesco tiene il suo discorso al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Qui faccio un tuffo nel passato, a quando ho dato l’esame di Ecumenismo col prof. Ermanno Lizzi. L’articolo che pubblico è per appassionati di dialogo religioso (ma non è eccessivamente tecnico); è il resoconto della visita di papa Francesco al CEC (la dicitura inglese è WCC, World Council of Churches, ma nella mia memoria di studente è CEC). Le parole sono di Brunetto Salvarani, contenute nel suo articolo di ieri su Settimananews.
“Un viaggio verso l’unità, aveva detto papa Francesco salutando i giornalisti in aereo, in volo verso Ginevra, abbinando felicemente l’idea di un tragitto geografico con quella di un itinerario ecumenico in atto.
Nel parlare di ecumenismo, ci siamo ormai assuefatti a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le Chiese. Così, negli anni subito dopo il concilio prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione – in effetti diffusa in molti ambienti – che il tempo si stesse mettendo al bello; mentre nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), si è fatto luogo comune il riferimento a un autunno, o addirittura ad un inverno, ecumenico, ben distante dal clima conciliare. Peraltro, ora, è legittimo pensare che, quanto meno, stia chiudendosi l’inverno più cupo, e si vada aprendo una stagione primaverile ricca di potenziali ulteriori sviluppi.
Il pellegrinaggio ecumenico di papa Francesco, svoltosi giovedì 21 giugno nella città di Giovanni Calvino, va in effetti in tale direzione, contribuendo a porre al cuore delle identità delle Chiese la loro relazione fraterna. I 70 anni del CEC
L’occasione dell’evento erano le celebrazioni per il 70° anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC, o WCC dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di Chiese cristiane su scala mondiale (la Chiesa cattolica, è noto, vi partecipa da osservatrice), apertesi, sempre a Ginevra, nello scorso febbraio. Si tratta dell’organismo più ampio e inclusivo tra le diverse organizzazioni del movimento ecumenico moderno, fondato ad Amsterdam il 22 agosto del 1948 e formato oggi da 348 Chiese membro in 110 paesi del mondo, in rappresentanza di oltre 560 milioni di cristiani.
Esso comprende la maggior parte delle Chiese ortodosse, numerose Chiese protestanti storiche (anglicane, battiste, luterane, metodiste, riformate) e diverse Chiese indipendenti: una comunione di Chiese riunite per promuovere il dialogo e la riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane.
Si noti: i suoi membri fondatori provengono principalmente dall’Europa e dal Nord America, ma oggi la maggior parte dei membri si trova in Africa, Asia, Caraibi, America Latina, Medio Oriente e Oceania.
Per statuto, lo scopo primario del CEC è «chiamarsi gli uni gli altri all’unità visibile in un’unica fede e in un’unica comunione eucaristica». Il CEC è per i suoi membri uno spazio di riflessione, azione, preghiera e impegno comune.
La sua 10ª assemblea si è svolta a Busan, seconda città della Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre 2013, con il motto Dio della vita, guidaci alla pace e alla giustizia: si trattò di un’occasione preziosa per misurare il ruolo cruciale dell’Asia nel panorama geopolitico, in chiave sia economica sia religiosa: si pensi, ad esempio, alla notevole tenuta delle grandi tradizioni spirituali di marca asiatica ma anche all’emergere della terza Chiesa nel quadro di un cristianesimo ormai globale. Una visita non di cortesia
Ora, la scelta di papa Francesco di recarsi in Svizzera per rendere omaggio al lavoro ecumenico del CEC non è stata senza significati, tutt’altro, rappresentando un riconoscimento al contributo unico che tale organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico.
Già il 2 marzo, durante una conferenza stampa congiunta in Vaticano, alla presenza del cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, il reverendo Olav Fykse Tveit, pastore luterano e segretario generale del CEC, aveva detto che «la notizia della visita del papa è un segno di come le Chiese cristiane possano affermare la nostra chiamata e missione comune di servire insieme Dio».
E se – come si diceva – fino a pochi anni fa eravamo rassegnati all’inverno ecumenico, lo stesso Tveit, che viene dalla Norvegia, ama dire che nell’inverno non c’è nulla di sbagliato: c’è soltanto bisogno di guanti e vestiti che tengano caldo. E che con Bergoglio e le sue iniziative sta arrivando una nuova primavera (fino a riferirvisi come a «una pietra miliare storica nella ricerca dell’unità dei cristiani e della cooperazione tra le Chiese per un mondo di giustizia e di pace»).
La sua partecipazione, a Lund, alla preghiera per la celebrazione del 5° centenario della Riforma (31 ottobre – 1° novembre 2016) ha molto incoraggiato il movimento ecumenico diffuso: in quel frangente il motto delle celebrazioni, Dal conflitto alla comunione, si è fatto vita.
Certo, recandosi a Ginevra, Bergoglio ha seguito le orme di due suoi predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984). Tuttavia, non si è trattato di un appuntamento di pura cortesia, bensì del frutto dell’impegno personale del papa per raggiungere l’obiettivo dell’unità dei cristiani. Mentre i viaggi precedenti dei due papi erano stati dedicati anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di Stato, Francesco – scegliendo di non visitare alcuna delle agenzie internazionali che vi hanno sede – vi si è recato prima di tutto come capo della Chiesa cattolica, vescovo di Roma e successore di Pietro. Camminare pregare e lavorare insieme
Papa Francesco partecipa alla preghiera ecumenica al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Il motto della giornata è stato Camminare pregare e lavorare insieme, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del CEC; ma anche slogan particolarmente caro a Francesco – camminare insieme – che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che, a suo parere, è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. E che ha trovato a Ginevra un’altra tappa, per nulla secondaria: come è apparso evidente sin dal discorso papale della mattina, nella cappella nella sede del CEC, destinato a diventare una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico.
Francesco ha recitato la preghiera di pentimento e ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati.
Ed è proprio sulla scorta della situazione dei Galati descritta da Paolo, i quali «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che il papa ha preso la parola per una puntuale meditazione, indicando cosa significasse per l’apostolo camminare insieme secondo lo Spirito, rigettare la mondanità, scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono.
A suo parere, l’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale. In effetti, nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», facendo prevalere i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo». Sì, «stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».
In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane».
Camminare secondo lo Spirito – ha dunque ripetuto – significa perciò scegliere con santa ostinazione la via del vangelo, e rifiutare le scorciatoie del mondo. Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi lavorare in perdita, non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o ad orientamenti consolidati, siano essi maggiormente conservatori o progressisti». È necessario invece «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché se stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica».
La meta è l’unità, mentre la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni, oltre a danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del vangelo a ogni creatura».
E «le distanze che esistono non siano scuse – ha concluso con risolutezza Bergoglio –, perché è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!». Il diritto di sperare per tutti
Nel pomeriggio, ci si è spostati nella Visser’t Hooft Hall. Qui Tveit ha sottolineato che, per arrivare a questo giorno, molte persone in tutto il mondo hanno pregato e che, con questa visita, è palpabile la dimostrazione che è possibile superare le divisioni e le distanze, così come i profondi conflitti causati dalle diverse tradizioni e convinzioni di fede: «Il mondo in cui viviamo ha un disperato bisogno di segni che ci permettono di riconciliarci e di vivere insieme come un’unica umanità, preoccupata per la vita dell’unica terra, la nostra casa comune. Vediamo così tante cose che potrebbero dividerci, che creano conflitti, violenza e guerre. Anche la religione viene usata in modo improprio per questi scopi. I divari tra ricchi e poveri, tra popoli di gruppi e razze diverse, permangono e addirittura aumentano. Il nostro pianeta viene continuamente sfruttato e distrutto, e la dignità degli esseri umani costantemente attaccata, minando i loro diritti e le loro possibilità di sperare in un futuro migliore insieme in questo mondo. Dobbiamo essere uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso per tutti. Abbiamo tutti il diritto di sperare».
Per poi concludere che «non ci fermeremo qui. Continueremo, potremo fare molto di più insieme per coloro che hanno bisogno di noi. Visto che oggi noi condividiamo sempre di più, facciamo in modo che le prossime generazioni possano creare nuove espressioni di unità, giustizia e pace!».
È toccato alla moderatrice del CEC, la teologa anglicana, originaria del Kenya, Agnes Abuom, portare un saluto particolare all’illustre ospite: «Lei è venuto da Roma a Ginevra – ha detto – e ci auguriamo di poter proseguire la nostra strada insieme a lei come compagni di pellegrinaggio: portando conforto a chi soffre, celebrando il dono della vita di Dio e impegnandosi insieme in azioni trasformative che migliorino la vita delle persone ovunque vi sia bisogno di giustizia e di pace». Per poterlo fare davvero, è indispensabile che le Chiese del CEC e la Chiesa cattolica lavorino bene insieme a livello internazionale e locale.
Nel suo discorso la teologa ha ripercorso l’impegno delle Chiese nei vari Paesi del mondo: «Speriamo – ha concluso – che la sua visita segni davvero una nuova fase di cooperazione e di unità cristiana». Cosa possiamo fare insieme?
Ha ripreso quindi la parola il papa, nel suo secondo discorso, pure assai denso: «Il CEC è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro?».
Tracciando un bilancio dei settant’anni del CEC, Francesco ha espresso un vivo ringraziamento per l’impegno che viene profuso per l’unità, ma anche una preoccupazione derivante dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine (il riferimento implicito era al Congresso missionario di Edimburgo del 1910, considerato unanimemente l’atto d’avvio del movimento ecumenico).
Infatti, il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato: ne va della nostra identità, e l’annuncio del vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certo, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda di tempi e luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione, e non per le nostre idee, strategie o programmi.
Un «nuovo slancio evangelizzatore»: è questo, per il papa, «il tesoro che noi, fragili vasi di creta, dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi».
«Camminare pregare, lavorare insieme». Nella parte centrale del suo secondo discorso ginevrino, Francesco si è soffermato sui tre verbi contenuti nel motto della giornata.
«Camminare in entrata», ha spiegato, rilanciando temi che gli sono particolarmente cari, «per dirigerci costantemente al centro», che è Gesù, e «in uscita», cioè «verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del vangelo all’umanità sofferente».
Anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli», ecco il secondo imperativo, «perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano». «Quando diciamo Padre nostro risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli», l’esempio scelto dal papa: «La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti». «Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri?», l’esortazione in chiave ecumenica: «Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?».
Infine, «lavorare insieme», ha raccomandato Francesco. «La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti».
È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, il fatto che i deboli siano sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi: «Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione», perché «il programma del cristiano è un cuore che vede»: «Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?». In relazione all’altro
Al termine della densa giornata ginevrina, conclusasi con una festosa eucaristia celebrata per la Chiesa locale ma anche occasione per toccare con mano la perdurante divisione dei cristiani in tale ambito cruciale e i passi avanti ancora da compiere, non pochi sono apparsi i motivi di consolazione per il popolo del dialogo.
Lo si è colto bene, infatti: procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani possono apprezzare al meglio il loro patrimonio comune, e farsi più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potranno affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Un dialogo la cui prospettiva sembrerebbe risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare un linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità.
Per papa Francesco, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle Chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi.
E di una strada – come Francesco ha detto e mostrato concretamente una volta ancora a Ginevra – oggi non è più possibile prescindere.”
Pubblico un articolo comparso in due parti su Solotablet. E’ rivolto a genitori di figli immersi nella tecnologia; l’intento è quello di fornire dei consigli pratici di comportamento tra conoscenze e responsabilizzazione.
“Più dell’affetto contano le relazioni, la capacità e la disponibilità all’ascolto, la disponibilità a cambiare opinioni e se stessi e l’impegno a creare atmosfere emotive familiari utili al dialogo, alla tolleranza e allo scambio intergenerazionale.
La difficoltà a essere genitori oggi nasce prima di tutto dalla situazione di crisi economica e sociale corrente che coinvolge le famiglie e dalla frammentazione dei legami sociali che ne deriva. E’ una crisi che rende difficile soddisfare bisogni e desideri e comporta difficoltà nel momento in cui i figli non riescono a realizzare i loro sogni e progetti lavorativi e professionali.
Esiste anche la difficoltà di essere genitori in un’epoca ipertecnologica e nella quale le nuove generazioni fanno largo uso di tecnologie digitali e di strumenti tecnologici, utilizzati per informarsi e comunicare ma anche per socializzare e costruire legami e relazioni amicali e affettive. E’ questa una difficoltà che origina in molti casi dalla scarsa conoscenza che i genitori hanno dei nuovi media e delle tecnologie e dalla difficoltà a comprendere perché i loro figli ne facciano al contrario così ampio e frequente utilizzo. Ne deriva spesso una percezione di spaesamento che dà origine a timori e paure ed è fonte di confusione e di indecisione.
Tutte reazioni che non aiutano a sviluppare la corretta consapevolezza e la conseguente capacità educativa necessarie per facilitare lo sviluppo di ragazzi nativi digitali che alla tecnologia si affidano anche per la difficoltà a relazionarsi con i loro referenti adulti, genitori e insegnanti in primo luogo. Queste reazioni sono difensive e dense di conseguenze negative. Il nuovo non va rigettato o ostracizzato ma studiato, conosciuto e compreso. Dopo una adeguata operazione di acculturamento i genitori potrebbero scoprire che sopravvivere all’era tecnologica si può e lo si può fare con benefici e vantaggi condivisi con i propri figli e ragazzi nel segno della reciprocità.
Ai genitori che non sanno come e cosa fare è venuto in soccorso un libro pubblicato negli Stati Uniti dal titolo It’s Complicated: The Social Lives of Networked Teens. E’ un libro scritto da Danah Boyd, una ricercatrice che lavora presso il centro di ricerca Microsoft Research e alla Università di New.
Il libro raccoglie i risultati di una ricerca durata quasi dieci anni che è servita a disvelare gusti e preferenze ma soprattutto abitudini e comportamenti così come ad evidenziare nuovi fenomeni emergenti e poco noti. L’intero lavoro può risultare molto utile a genitori Tecnovigili alla ricerca del giusto rapporto con i loro figlioli Tecnorapidi e con l’obiettivo di capire cosa fare e come affrontare l’argomento tecnologia e nuovi media. Comprendere la novità dei media sociali
La prima cosa da fare è comprendere cosa c’è di nuovo nelle nuove vite virtuali e sociali rese possibili dai nuovi media e interrogarsi su cosa i media sociali siano in grado di aggiungere alla qualità della vita dei ragazzi. Poi è utile trasformare i propri timori e le idiosincrasie verso la tecnologia in proposizioni costruttive finalizzate a trarre vantaggio dalle nuove tecnologie e al tempo stesso impedirne gli eventuali abusi. Inutile cercare di distruggere i miti che i giovani hanno costruito intorno alle loro vite tecnologiche e sociali, meglio cercare di comprenderli retrospettivamente. Nel farlo si scoprirà che i nativi digitali sono più resilienti di quanto si possa immaginare e che l’uso che fanno della tecnologia ha un senso ed una importanza che gli adulti devono comprendere, anche se farlo può risultare un compito impegnativo e complicato.
La preoccupazione per le minacce e i potenziali abusi online è reale. Può essere combattuta tecnologicamente dotando il dispositivo del ragazzo con software (il 75% dei genitori lo vorrebbe fare) predisposti al controllo e alla segnalazione di potenziali rischi e problemi o semplicemente usando la tecnologia disponibile per mantenersi aggiornati. Ad esempio conviene usare periodicamente un motore di ricerca per verificare le novità e le informazioni disponibili online di propri figli.
La scelta migliore è però diversa. Nessuna tecnologia è in grado di proteggere completamente i ragazzi online così come nessun genitore è consapevole di tutti i rischi che i ragazzi possono incontrare online. L’unico approccio capace di dare i risultati migliori prevede l’educazione dei ragazzi all’uso dei media e la conoscenza, da parte dei genitori e degli adulti, delle tecnologie e dei media usati dai ragazzi. Favorire sane pratiche relazionali online Le vite virtuali nelle quali molti ragazzi sono immersi sono vissute all’interno di spazi sociali e relazionali come Facebook, Linkedin, YouTube, Google Plus, Twitter, Pinterest, Instagram e altri spazi online simili. La frequentazione di questi spazi è motivata principalmente dalla necessità di attivare e coltivare nel tempo nuove relazioni e di rafforzare quelle già esistenti nella vita reale. Il modo con cui la relazione è sperimentata è attraverso comunicazioni testuali o scambio di immagini, foto e altri contenuti digitali. Il fatto che i ragazzi sperimentino numerose forme di relazione non significa automaticamente che esse siano salutari, di qualità, intime come quelle reali. Fortunatamente queste relazioni non escludono quelle faccia a faccia ma possono essere a volte nocive e fonte di rischi e pericoli nelle molteplici vite online vissute dai ragazzi.
Compito dei genitori è di comprendere il significato dei media sociali usati dai loro figli e di enfatizzare le loro caratteristiche positive. Mitigandone al tempo stesso quelle potenzialmente negative come quelle trattate in questo e-book e note come bullismo e stalking digitale, sexting, e pedo-pornografia.
Un modo per aiutare i ragazzi è di aiutarli a usare linguaggi e forme di comunicazione rispettose degli interlocutori, appropriate a ogni contesto comunicazionale e a gestire in modo efficace le relazioni online che da esse sono scaturite. Le nuove tecnologie permettono di mantenere i contatti anche a grandi distanze e senza limitazioni di tempo. Conoscere come gestire la comunicazione online e la condivisione di aggiornamenti di stato, foto, messaggi può aiutare a mantenere attiva la connessione e viva la relazione. Online molte relazioni si sviluppano all’interno di reti sociali, gruppi e comunità, spesso frequentate dai giovani per superare problematiche legate all’isolamento o alla solitudine. La vita comunitaria ha le sue regole e specificità ma può tradursi in relazioni importanti e durature per la vita futura dei ragazzi. Il genitore Tecnovigile può fornire utili suggerimenti su come trasformare la vita comunitaria online in uno strumento relazionale potente e vantaggioso attraverso alcune buone pratiche come la conoscenza dei luoghi da frequentare online e i loro strumenti (non solo Facebook e Twitter ma anche Zoosk, Okcupid, Ask.com, Eharmony, Match.com, Flickr, Gtalk, Foursquare, WhatsApp, Skype, Plaxo, Meebo, Blogs, Rotowire, ecc.), la consapevolezza delle differenze (anonimità, assenza del contatto fisico, disinibizione, permanenza dei dati online, reputazione, ecc.) tra relazione online e relazione sociale nella vita reale e il coinvolgimento di familiari o amici nella pratica comunitaria e sociale online. Insegnare al ragazzo Tecnovigile il galateo della rete
Le tecnologie evolvono e con loro le regole che le governano in termini di socialità e vita relazionale online. L’etichetta e le norme del galateo online sono diverse da quelle della vita reale, cambiano più frequentemente e richiedono tempo sia per essere conosciute e apprese sia per essere opportunamente praticate. Ne derivano alcune sfide importanti strettamente collegate alle difficoltà di comunicazione intergenerazionale determinate dal prevalere della vita online nell’esperienza giovanile. Molti ragazzi apprenderanno le regole della vita relazionale online attraverso le loro pratiche sociali digitali ma possono essere affiancati dagli adulti nelle fasi dell’apprendimento.
Nella vita reale le regole comportamentali per una vita sociale vengono apprese all’interno di gruppi sociali ristretti come la classe, la famiglia, la rete di amici. In quella digitale online tutto avviene in spazi pubblici aperti e all’interno di comunità senza confini geografici. Un modo per aiutare i ragazzi a comprendere le differenze tra i due ambiti è di favorire la vita sociale online in contesti sociali reali come la casa o la scuola, in modo da poterli affiancare e aiutarli nella comunicazione, nella identificazione di potenziali amicizie e nel prendere decisioni. Per poter fornire un aiuto reale e farselo accettare dai ragazzi è necessario conoscere le specificità di ogni strumento sociale o social network utilizzato e condividere con loro le proprie esperienze e comunicazioni digitali online illustrando senza timore gli errori fatti e i problemi da essi generati.
Nell’apprendimento di un’etichetta comportamentale online è importante sapere cosa è possibile condividere, con chi conviene o è corretto farlo, il rispetto della privacy e delle regole sottese alle relazioni online (contatti, conoscenti, amici, reti sociali, gruppi e comunità o tribù). La relazione è per sua natura fragile e instabile, complessa e ingestibile attraverso cinguettii da 140 caratteri o messaggi WhatsApp. Una relazione non può essere frutto di aggiornamenti di stato e semplici messaggini o centrata completamente sul proprio sé. Non può dipendere da priorità egoistiche e dalla volontà di controllarla. Le nuove generazioni di nativi digitali sono portate a fare un uso prettamente strumentale delle tecnologie. E’ compito del genitore illustrare un uso diverso, alternativo e più efficiente della comunicazione online destinata alla relazione. Rilassarsi e non essere troppo ansiosi, fidarsi di più dei ragazzi conviene!
I tempi sono complicati e fatti apposta per aumentare ansie e preoccupazioni. Se poi ci si mette anche la tecnologia che ruba tempo e sonno ai ragazzi distraendoli dai loro impegni di studio e complicando la loro interrelazione con genitori e insegnanti, allora le ansie possono diventare pericolose. Con ragazzi incollati al loro smartphone e troppo presi ad inviare messaggini e a cinguettare, il genitore tutto deve fare tranne che ergere un muro che lo separi da relazioni continuative e utili con i suoi figli e ragazzi.
La presenza esorbitante del mezzo tecnologico nella vita familiare dei ragazzi e la sua influenza nella vita scolastica non deve essere motivo di rottura e di interruzione del dialogo nell’ambiente domestico ed anzi deve diventare oggetto di nuove conversazioni e opportunità di conoscenza reciproca, fiducia e relazione.
Dialogo, relazione e conversazioni devono avvenire in un ambiente aperto, sereno e favorevole allo scambio di esperienze e nuove conoscenze. Condizione principale perché ciò avvenga è lo sguardo sereno sulla tecnologia e la consapevolezza che non tutti gli usi che di essa fanno i ragazzi siano necessariamente negativi.
Inutile inventarsi controlli o strumenti finalizzati a bloccare le attività dei ragazzi nei loro spazi autonomi online o restringere il loro potere e libertà decisionali. Farlo significa semplicemente dare sfogo e aumentare le proprie ansie così come il desiderio di proteggere i propri figli invece di permettere loro e facilitare la loro maturazione. Il rischio è di perpetuare vecchi miti che a loro volta alimentano vecchie e nuove paure e potrebbero suggerire azioni di controllo con esiti opposti a quelli desiderati. Parlare con altri genitori e condividere esperienze, ansie e paure
La differenza è tra nativi digitali e immigrati digitali.
Tutti gli adulti sono per età, cultura e comportamenti degli immigrati digitali. Alcuni hanno maturato una migliore comprensione di altri delle nuove tecnologie ma tutti sono costretti a doverle studiare e praticare per poterle conoscere e usare in modo consapevole e profittevole. Uno sforzo che non compete i ragazzi, nati e cresciuti con la tecnologia e connessi a Internet. Il fatto di condividere la stessa esperienza suggerisce ai genitori di creare relazioni tra di loro e di frequentare spazi (smart mobs genitoriali e comunità), anche online, nei quali si parla di problemi derivanti dagli effetti della tecnologia sui giovani o delle difficoltà a relazionarsi con ragazzi dipendenti dalle tecnologie che usano.
Costruire una rete di relazioni può servire anche al ragazzo nel caso in cui avesse bisogno di rivolgersi ad un adulto per avere informazioni o indicazioni utili a gestire situazioni di disagio o pericolose createsi online. La relazione tra genitori può avvenire sfruttando le stesse tecnologie che usano i ragazzi e attraverso comunità o gruppi costruiti insieme su social network come Facebook e Linkedin o Google Plus. Queste comunità possono essere lasciate aperte in modo che anche i giovani possano visitarle alla ricerca di informazioni ma soprattutto di risposte a problemi o bisogni che stanno sperimentando nella loro vita virtuale online. La rete in questo caso funge da soluzione alternativa alla mancanza o difficoltà di dialogo che spesso caratterizza il rapporto genitori figli. Non pedinare i propri figli online e non cercare di infiltrarsi nei loro gruppi o reti sociali
Come genitori si potrebbe cercare di entrare in contatto online con gli amici e i compagni di scuola dei propri figli. Lo si può fare ma è meglio non farlo! Può capitare di diventare un riferimento per indicazioni e suggerimenti ma anche di allontanare ancora di più i propri figli, preoccupati di vedere limitata la loro libertà e autonomia esperienziale. Si correrebbe il rischio di aiutare a crescere i figli degli altri e di vedere allontanarsi i propri.
La soluzione potrebbe essere uno scambio di reciprocità con altri genitori ma la cosa è difficilmente realizzabile e densa di possibili problemi. Inutile anche cercare di avere dai figli le loro password dei siti che frequentano (ciò non impedisce di provarci e per alcune forme di rischio e per l’età dei ragazzi l’insistenza o l’imposizione non è vietata). La richiesta non verrebbe capita e rischia di mettere in crisi la fiducia o di creare problemi di tipo relazionale nel medio e lungo termine. Può comunque avvenire che sia il figlio o la figlia a condividere account sociali online e relative credenziali di accesso. Se così avvenisse sarebbe la testimonianza di un rapporto forte e fiduciario già esistente e che non teme altre verifiche online.
L’argomento è comunque controverso. Sono numerosi i genitori che potendolo fare, applicherebbero strumenti simili a quelli usati dalla NSA americana e che hanno dato origine al Datagate. Lo farebbero per prevenire eventuali minacce, abuso di droga, contatti sociali insani e altri pericoli tipici della vita adolescenziale ma in realtà questa è la giustificazione che anche l’NSA ha usato per violare la privacy di milioni di persone. Le tecnologie disponibili per un controllo stringente delle attività dei figli online ci sono e molte sono disponibili a tutti.
Ci sono programmi software che permettono di catturare i testi battuti sulla tastiera da parte dei ragazzi per controllare le loro navigazioni in rete e le cose che fanno. Oggi molti genitori preferiscono seguire i loro figli direttamente negli spazi sociali online diventando ‘follower’ delle loro pagine, a volte con falsi profili o pseudonimi. La scelta è motivata dalla voglia di sperimentare quello che sperimentano i figli ma anche dalla consapevolezza che altre forme di controllo possono incidere sulle relazioni con i figli impedendo loro di sviluppare la loro socialità liberamente e indipendentemente.
Molti giovani, coscienti della presenza dei loro genitori online stanno comunque prendendo le contromisure adeguate a salvaguardare, anche online, i loro spazi di autonomia. Altri semplicemente si muovono e comunicano tenendo conto della presenza ‘estranea’ e manipolandola se conviene.
Il vero interrogativo che il genitore si deve porre è se la prevenzione possa essere più importante della libertà del figlio. Essere consapevoli dei rischi che i ragazzi corrono in rete in termini di adescamenti possibili, di minacce e soprusi ma anche semplicemente di innamoramenti per falsi miti, ideologie e mode, tutto ciò può giustificare una qualche forma di controllo o supervisione. L’obiettivo non deve essere di impedire ai ragazzi di esprimersi liberamente ma potrebbe anche essere, in certe situazioni, la limitazione della loro libertà. Inutile leggere le cose che scrivono i ragazzi
Grazie alle nuove tecnologie tutti scriviamo di più, soprattutto i ragazzi. Scrivono messaggini SMS o WhatsApp, condividono messaggi di stato Facebook, cinguettano e si fanno trovare con brevi cenni a dove si trovano, cosa fanno e cosa vorrebbero fare, pubblicano pensieri e poesie su Tumblr e fotografie in Instagram o Flickr.
La loro produzione di contenuti è così massiccia e continua che leggerli è ‘mission impossible’ ma soprattutto tempo perso. Potrebbe anche essere molto complicato considerando i nuovi linguaggi utilizzati pieni di acronimi e faccine e di significati nascosti, poco comprensibili ad immigrati digitali e persone adulte. Invece di inseguire le loro tracce online meglio attenderli a casa e sperimentare un sano incontro/scontro fisico e umano fatto di dialogo vero e franco, di sguardi e segnali non verbali, di empatia, coinvolgimento emotivo ma anche di rispetto, autorevolezza (l’attimo fuggente) e consapevolezza. Parlare con gli insegnanti dei figli per conoscere come usano le nuove tecnologie. Il genitore non è il solo educatore e responsabile dello sviluppo dei ragazzi. Un ruolo importante è giocato dagli insegnanti che li incontrano e li seguono nei vari gradi e livelli scolastici. La tecnologia è entrata prepotentemente anche a scuola evidenziando ancor più la diversità tra nativi e immigrati digitali. Molti professori sono entrati nei social network ma pochi li usano per relazionarsi realmente con i loro studenti rispecchiando il loro profilo professionale di insegnanti ed educatori.
Così come il genitore deve evitare di pedinare il proprio figlio online, anche l’insegnante deve mantenere le debite distanze e accettare l’incontro solo nel caso in cui a chiederlo sia lo studente stesso. Meglio costruire comunità e gruppi tematici collegati ai temi della crescita o delle materie scolastiche e sfruttare i momenti di dialogo in essi sperimentabili per sviluppare il dialogo e la relazione con lo studente. Apprendere la ‘netiquette’ della rete per confrontarla con quella della vita reale
I giovani online non sono sempre consapevoli dei loro comportamenti, così come non lo sono nella vita reale. Eppure anche online è necessario avere comportamenti consoni ad una etichetta del vivere sociale con in più l’osservanza delle regole tipiche della netiquette della rete. Ad esempio in rete bisogna fare attenzione all’uso delle maiuscole associate solitamente a frasi urlate ad alta voce per farsi sentire o per esprimere arrabbiature o minacce.
I genitori che conoscono le buone maniere della vita reale e sono al corrente anche di quelle online devono trovare il modo di comunicare ai propri figli forme e modalità di comportamento non offensivo e privo di conseguenze negative per chi viola le regole condivise socialmente. Pedinare è sbagliato ma essere presenti e attenti non lo è!
Se il pedinamento non è consigliabile, l’attenzione e la presenza sono due atteggiamenti da coltivare. Serve una presenza continua per conoscere l’evoluzione della rete e delle sue componenti sociali. Serve essere a conoscenza delle nuove applicazioni e mode emergenti, è utile prestare attenzione a ciò che in rete opinionisti e studiosi dicono delle stesse in modo da saperne valutare validità o pericolosità.
L’attenzione va rivolta alle reti di contatti e di conoscenze dei propri figli. Visitare i profili aperti dei ragazzi online per capire chi frequentano e da chi siano composte le loro reti sociali può aiutare ad eliminare stati di ansia e timori ma soprattutto ad intervenire nel caso in cui si percepissero dei potenziali rischi o pericoli. Questi ultimi sono generalmente connessi a comportamenti, motivazioni e iniziative che interessano la sfera emotiva, affettiva e sessuale.”
Un articolo apparso su Confronti il 20 settembre: è a firma di Soumaya Bourougaaoui e tratta della Tunisia e della sua tradizione di dialogo interculturale e interreligioso.
“La Tunisia, nella sua storia è diventata simbolo di accoglienza: sempre aperta e tollerante, è il luogo dell’incontro dove non si impongono limiti culturali, religiosi o politici. Promuove le diversità, resta un modello di pluralismo e di incrocio di religioni e culture. Ricordiamo le parole di Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, intervenendo all’Assemblea dei rappresentanti del popolo tunisino (Arp) nel febbraio 2016: «La Tunisia è un modello di pluralismo e tolleranza».
La Tunisia è indiscutibilmente un esempio di convivenza pacifica e del dialogo interculturale ed interreligioso. Non si scorda Sidi Mehrez (951-1022), considerato il patrono di Tunisi, che è stato soprattutto convinto protettore delle minoranze religiose… Il suo nome è legato alla fondazione del quartiere ebraico della città vecchia di Tunisi ovvero Elhara, per quasi 10 secoli, Elhara è stato effettivamente il cuore pulsante della comunità ebraica di Tunisi, la cui localizzazione sarebbe stata scelta gettando un bastone dall’alto della moschea che oggi porta il suo nome (David Cohen, Le parler arabe des Juifs de Tunis, Parigi, 1964). Quindi, la minoranza ebraica di Tunisi ebbe modo di vivere all’interno della città, mentre precedentemente gli ebrei ne erano esclusi e dovevano rimanere all’esterno durante la chiusura delle porte, dovevano passare la notte nei pressi del villaggio.
Oggi l’isola di Djerba, la perla del Mediterraneo, è anche nota per la sua minoranza ebraica, che abita sull’isola da secoli. Quest’anno, ha ospitato migliaia ebrei all’antica sinagoga di Ghriba. Ogni anno, il 33° giorno dalla Pasqua ebraica e in occasione della festa di Lag Ba’omer, la Ghriba – che in arabo significa “straniero” – diventa meta di un pellegrinaggio che mobilita migliaia di credenti.
«La Tunisia resterà un Paese di apertura e coabitazione di religioni», afferma il premier tunisino Youssef Chahed, nel periodo di effettuazione di questa tradizionale ricorrenza, nel corso della giornata di domenica 14. Inoltre, in quest’occasione, è stato annunciato che Tunisi presenterà ufficialmente la richiesta all’Unesco per l’inserimento dell’isola di Djerba tra i siti patrimonio dell’umanità, esempio di convivenza di fedi diverse da millenni: musulmana, ebraica e cristiana.
Un altro esempio di vicinanza tra comunità religiose diverse (alla Goulette hanno convissuto a lungo tunisini, francesi, maltesi, italiani), la messa dell’Assunzione di Maria, che fino al 1962 prevedeva anche la processione della Madonna di Trapani fino al mare. La Goulette è diventata il polo d’attrazione dei giovani grazie alla tradizionale tolleranza.
Il filologo e mediterraneista Alfonso Campisi (professore ordinario di Filologia Romanza presso l’università la Manouba a Tunisi e presidente dell’Aislli, Associazione per lo Studio della Lingua e Letteratura Italiana, sezione Africa. Studioso della Sicilia e del Maghreb, si occupa di identità, lingua e storia dell’emigrazione siciliana in Tunisia e negli Stati Uniti) scrive: «Il quartiere de La Petite Sicilie, alla Goulette, nasce intorno alla chiesa della Madonna di Trapani, celebrata dai trapanesi il 15 agosto. Secondo gli archivi da me consultati, la Madonna usciva dalla chiesa attraversando le stradine de La Goulette accompagnata da una banda musicale. La giornata si concludeva con i fuochi d’artificio e un concerto sulla piazza principale. Dornier così descrive la processione: “La processione della Madonna di Trapani, a La Goulette, non è un semplice corteo dove si cammina in fila, cantando inni o recitando il rosario. La Vergine è portata su un carro da una dozzina di uomini che si alternano. E tutto intorno alla Vergine c’è una folla eterogenea, che vuole toccare la statua, chi con un fazzoletto, o chi con la mano. A questa folla si mescolano donne musulmane velate, ebrei praticanti, che erano venuti anch’essi a pregare la Madonna. Alcuni seguono la processione scalzi per esaudire un voto, andando da La Goulette a Tunisi. Nelle ore serali, intorno alle 20:30, saranno le prostitute accompagnate dai loro protettori a fare il rito chiamato Le rite de la Madeleine prostrandosi ai piedi della croce”» (si veda “La comunità siciliana di Tunisia: La Goulette,un esempio di tolleranza”, del prof. Alfonso Campisi).
Nella prima metà dell’800, l’emigrazione italiana nel Maghreb è prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: «Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti». Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.
«Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna. Gli emigrati già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”» (Francesco Casula, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura).
Con la scrittrice Marinette Pendola si scopre la storia dei siciliani di Tunisia. Pendola è nata a Tunisi da genitori di origine siciliana e come molti ha dovuto abbandonare la terra natale. Ricostruisce queste vicende personali della sua infanzia nel romanzo La riva lontana (Sellerio, 2000), è autrice di L’erba di vento (Arkadia Editore, 2014), ha insegnato lingua e letteratura francese nelle scuole superiori, vive a Bologna e fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui L’alimentazione degli italiani di Tunisia (2006). Per i “Quaderni del Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino” ha pubblicato Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo) (2007). Inoltre, ha creato il sito http://www.italianiditunisia.com, con questi obiettivi:
Creare un luogo di scambio e di ritrovo fra tutti gli italiani di Tunisi sparsi nel Mondo.
Mantenere viva la memoria dell’esperienza storica e del patrimonio culturale italo-Tunisino.
Diffondere la conoscenza dell’esperienza storica e culturale italiana in Tunisia.
Raccogliere materiale di vario genere sulla comunità italiana di Tunisia.
Promuovere la ricerca attraverso la premiazione di tesi di laurea e di dottorato sulla storia, costumi, e la cultura degli italiani di Tunisia.
In Tunisia, nel settore dell’educazione e della ricerca, presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e dell’Umanità di Manouba, è stato attivato il Master di ricerca in civiltà e religioni comparate. È stata una buona iniziativa e unico modo per partecipare alla costruzione di un futuro di pace e di convivenza armonica di diverse culture, ovvero, lanciare un messaggio di pace, e consolidare la coesistenza pacifica sottolineando come la tolleranza e la convivenza interreligiosa, siano un valore distintivo della società tunisina.
«Nel 2007, la Tunisia aveva 10 milioni di abitanti, di cui 20.000 cattolici, provenienti da 60 nazioni diverse. È veramente una Chiesa… cattolica! La domenica alla Messa, su 100 persone presenti, possono essere rappresentate ben 50 nazionalità diverse. Ciò porta una grande ricchezza culturale, spirituale e liturgica. Oggi la Tunisia è un Paese musulmano moderato, molto aperto; riconosce il suo passato cristiano e bizantino. La Chiesa è rispettata e tollerata. Coloro che sono in contatto con noi, ci apprezzano» (mons. Marun Lahhm, vescovo di Tunisi dal 2005, “Cristiani che vivono tra i musulmani”. L’articolo è tratto da una conferenza tenuta a Brescia presso la parrocchia di s. Francesco di Paola).
In Tunisia ebrei e musulmani e cristiani coabitano in pace da sempre, la Tunisia si conferma una terra dove la tolleranza e il rispetto non mancano. E le minoranze non hanno mai avuto problemi nel professare il loro credo. Il decano della Facoltà di Lettere, delle Arti e dell’Umanità di Manouba, professor Habib Kazdaghli, in una conferenza, tenuta il 28 marzo 2017, presso la Biblioteca “Diocésaine” di Tunisi, sulle minoranze tunisine tra ricordo e oblio, organizzata dal giornalista Hatem Bourial, dice: «La minoranza è la fonte della grandezza della maggioranza, e le minoranze fanno parte della storia di Tunisia».”
Un articolo breve che tocca diversi temi, da quello della prossima visita del papa in Egitto a quello dei recenti attentati contro la chiesa copta, dal radicalismo islamico all’islam del grande imam di al-Azhar. E’ il frutto dell’intervista di Riccardo Cristiano al professor Antoine Courban, pubblicata su Vatican Insider.
Nel suo appartamento al primo piano di una palazzina moderna nel cuore di Ashrafyyeh, il “quartiere cristiano per eccellenza” di Beirut, il professor Antoine Courban, docente all’Università Saint Joseph, storica istituzione dei gesuiti in Libano, tra icone bizantine e commentari coranici attende con ansia che Papa Francesco giunga al Cairo.
«Per capire la portata di un evento occorre collocarlo nel suo contesto. E il contesto nel quale avverrà questo viaggio è certamente segnato dal duplice attentato contro le Chiese e i fedeli copti d’Egitto. Un attentato? No, piuttosto direi un atto di guerra. Ma quale guerra? La guerra dichiarata dai radicali ai “moderati”, tutti i moderati. Ci si può chiedere come possa una guerra essere dichiarata anche all’islam moderato e avvenire con lo spargimento di sangue cristiano. La mia risposta è semplice: perché aprendo il recente convegno del Cairo sulla cittadinanza il grande imam di al-Azhar ha detto che è giunto il momento di sfidare il fanatismo e l’estremismo che usa la religione come una maschera con un vero scontro culturale, ed ha indicato come farlo. I terroristi hanno capito e trasferito il combattimento sul loro terreno, colpendo il fianco debole, la carne tenera del nemico, le chiese e i fedeli copti». Ci può spiegare? Se è chiaro l’atto di guerra, sembra proprio un atto di guerra contro i cristiani, definiti “infedeli”…
«Per rispondere devo tornare al convegno promosso da al-Azhar poco prima della strage. E per capire bene dobbiamo partire da una parola. Questa parola è “umma”. La conoscono tutti. Nella storia questa parola è stata usata per indicare la comunità dei fedeli musulmani, quindi in senso religioso. Indica una “ecclesia”, o una comunità universale religiosa. Poi è stata usata in senso etnico, l’umma araba, cioè la comunità di tutti i popoli arabi. Queste due concezioni di umma, religiosa o etnica, hanno dato forma alle due prevalenti correnti politiche: il panislamismo e il panarabismo. Nel documento conclusivo del recente convegno di al-Azhar, al quale ho partecipato come inviato come altri 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi come me, si parla però di un’altra umma, alla cui base non c’è la religione né l’etnicità, ma la geografia: l’umma della patria, cioè la comunità di chi vive un territorio. È fondamentale leggere il primo articolo della dichiarazione di al-Azhar, dove si parla di “eguali diritti di musulmani e cristiani nei loro paesi, considerandoli una umma/nazione”. Ma non è tutto. L’articolo 6 dice che l’ambizione è quella di promuovere un nuovo partenariato, “un nuovo contratto tra i cittadini di paesi arabi, musulmani, cristiani o di altra fedeltà”. Tale contratto è basato sul “reciproco riconoscimento, sulla cittadinanza e sulla libertà”. La dichiarazione sottolinea che tutto questo è “una necessità vitale” e specifica che tutti nella patria comune si è sottoposti a un dettato costituzionale. E le costituzioni, si sa, non le scrivono i teologi. È un passaggio importantissimo. Nel paragrafo finale poi si afferma che in questa Patria fondata su una Costituzione “il nostro obiettivo, vivendo sulla stessa barca e facendo parte della stessa società, [….] è garantire un migliore futuro ai nostri figli e alle nostre figlie”». Si indica qui la parità uomo-donna?
«Come vede parliamo di novità storiche, epocali: è da secoli che si cerca di plasmare il concetto di cittadinanza nelle nostre società, la comune cittadinanza senza distinzioni di sesso, di etnia, di fede. Il concetto di nazione, vocabolo che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato interpretato in termini etnici o religiosi. Ora la più importante istituzione sunnita, al-Azhar, lo plasma in termini geografici, nella patria comune, dove vivere insieme, da uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. E, par di capire, di sesso. Ecco perché l’imam di al-Azhar ha voluto parlare di sfida culturale e si capisce perché gli odiosi attentati contro le Chiese copte siano un atto di guerra dei fanatici contro tutti i moderati. Mi preme sottolineare un ultimo aspetto, molto importante per me. Questo testo redatto alla fine della conferenza di marzo e che pone la base per la conferenza sulla pace alla quale parteciperà Papa Francesco è stato letto, in aula, davanti a tutti i delegati e gli ospiti, dal grande imam in persona. Alcuni ulema conservatori di al-Azhar, parte cioè di quella che potremmo definire per capirci “la Curia” di al-Azhar, preferivano che fosse letto da uno speaker. L’intento poteva essere quello di depotenziare il testo, il suo valore vincolante. Lui però ha insistito, ha voluto leggerlo personalmente, e credo che questo abbia un enorme significato. Dunque il viaggio del Papa al Cairo arriva sulla scia di questo, in un contesto nel quale l’islam moderato dice che non ci sono più minoranze etniche o religiose, ma cittadini. E il cardinale Rahi rientrando qui dal Cairo lo ha detto benissimo: non siamo più minoranze». Lei crede che il Libano abbia svolto un ruolo in questo?
«Osservo la platea degli invitati al convegno di marzo: 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi. Credo che il Libano del vivere insieme, non del convivere tra comunità, ma del vivere insieme, del legame, della cittadinanza, abbia costituito il nucleo concettuale, il messaggio di partenza di questo incontro che proseguirà a fine mese, alla presenza di Papa Francesco».
A proposito di una lezione in prima sulle relazioni ai tempi della rete, pubblico un breve testo di Zygmunt Bauman: “La differenza tra la comunità e la rete è che si appartiene alla comunità, ma la rete appartiene a voi. È possibile aggiungere amici e eliminarli, è possibile controllare le persone con cui siamo legati. La gente si sente un po’ meglio, perché la solitudine è la grande minaccia in questi tempi di individualizzazione. Tuttavia nella rete è così facile aggiungere o eliminare gli amici che non abbiamo bisogno di abilità sociali. Queste si sviluppano quando sei per strada, o sul posto di lavoro, e incontri persone con le quali devi avere un’interazione ragionevole. Devi affrontare le difficoltà di coinvolgerli in un dialogo I social network non insegnano il dialogo, perché è così facile evitare le polemiche… Molte persone usano i social network non per unire e per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto, per bloccarli in quelle che chiamo zone di comfort, dove l’unico suono che sentono è l’eco della propria voce, dove tutto quello che vedono sono i riflessi del proprio volto. Le reti sono molto utili, danno servizi molto piacevoli, però sono una trappola.” (Intervista di Ricardo De Querol per Babelia, su El País, gennaio 2016)
“la riflessione richiede tempo” è una delle frasi che conclude questo articolo dello scrittore Giorgio Fontana, pubblicato su Il Tascabile il 17 febbraio. Il tempo, non poi lunghissimo, è anche quello che viene richiesto per interrogarsi su questioni come la verità, la ragione, le fake news, la post-verità. Penso ne valga veramente la pena.
“E tu, per gli dei, non ti vergogni di presentarti ai Greci come un sofista?”. Così Socrate a Ippocrate, mentre si dirigono a rendere visita a Protagora nell’omonimo dialogo platonico. Ippocrate vuole diventare un sofista; anche se ammette che sì, un po’ se ne vergogna. E poco dopo ammetterà anche di non sapere di preciso cosa sia questa professione di “maestro del sapere”. Socrate lo rimprovera: “si rischia molto di più nell’acquistare gli insegnamenti che non i cibi. I cibi, infatti, e le bevande, una volta acquistati dal venditore o dal commerciante, si possono portare via in altri recipienti. Prima di berli o mangiarli si può, dopo averli riposti in casa, chiedere consiglio, domandare a un esperto se va bene mangiarli o meno, in quale quantità e quando. In questo modo non si rischia molto nell’acquisto. Al contrario, non è possibile portar via le conoscenze in un altro recipiente, ma, dopo aver pagato il prezzo pattuito, acquisito e ricevuto l’insegnamento nell’animo bisogna andar via o con un danno o con un beneficio”. Ma subito aggiunge un invito fondamentale: “esaminiamo dunque queste affermazioni anche con coloro che sono più vecchi di noi. Noi, infatti, siamo ancora troppo giovani per risolvere una questione così importante”. Non dice: “Protagora è un furbastro ingannatore, fidati di me”; dice anzi: esaminiamo. E aggiunge, con un eccesso ironico di modestia, che loro due sono “ancora troppo giovani” per cavarsela da soli con una questione tanto importante. C’è dunque bisogno di indagine. C’è bisogno di un dialogo razionale — che purtroppo verrà deluso dal fumo negli occhi creato dal sofista. Il Protagora è un testo molto attuale. Platone vi fa collidere drammaticamente due figure del pensiero: Socrate, che si impegna con costanza a cercare la verità; e il sofista per cui la differenza tra vero e falso non è così importante: l’importante è trionfare sull’avversario. Ora, un elemento inquietante del discorso pubblico contemporaneo — nel gioco di argomentazioni, nella conversazione digitale e non — è proprio questo: si discute innanzitutto per affermare di avere ragione. Per vincere, per schiacciare l’avversario con cui abbiamo incrociato le armi. Il fine del dialogo non è quello di mettersi alla prova ma di corroborare una posizione — la propria — che già si sa giusta. Forse si è sempre fatto così, ma oggi il meccanismo appare ancora più palese. Forse è il modo in cui sono strutturati i social media: da tempo penso che il design di Facebook e Twitter sfavorisca i dibattiti e li esacerbi facilmente. Del resto la parola scritta non è mai stata utilizzata per la conversazione collettiva; non abbiamo la certezza che funzioni in tal senso. Di più: attraverso la conversazione, spesso desideriamo solo affermare il nostro io nel ring del giorno. Esiste una connessione profonda tra la visibile quantificazione del “successo” di un contenuto e il tentativo di aumentare il proprio potere sociale. In uno dei frammenti di Minima moralia, Adorno mette a nudo questo comportamento:
“Nulla si addice meno all’intellettuale che vorrebbe esercitare ciò che un tempo si chiamava filosofia, che dar prova, nella discussione, e perfino — oserei dire — nell’argomentazione, della volontà di aver ragione. La volontà di aver ragione, fin dalla sua forma logica più sottile, è espressione di quello spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di dissolvere”.
È il trionfo del sofismo: l’intellettuale (ma non solo) che usa la violenza linguistica o l’abilità retorica per trionfare. Schopenhauer ne aveva raccolto i mezzi in un libretto sbagliato fin dal titolo: L’arte di avere ragione, appunto. Ha ragione Guido Vitiello: è un piccolo vademecum per trollare, di cui — aggiungo — sarebbe meglio dimenticarsi in fretta. La cosa terribile è che per ottenere questo risultato vale tutto. L’intero quadro concettuale delle fake news e della post-verità è per molti versi riducibile a questo tic: se non conta la qualità dell’argomento ma l’aggressività con cui viene imposto, allora i fatti possono anche andare in secondo piano. Siamo tutti attori, e Protagora ha la meglio su Socrate. Christian Raimo ha messo in fila questi argomenti in un bel pezzo per Internazionale. Secondo Raimo c’è in atto una “perversione del piano performativo”:
“L’effetto sostituisce il significato. Per questo ha senso pronunciare una balla colossale e venire smentiti il giorno successivo: il significato di quella notizia sarà corrispondente alla differenza tra coloro che hanno ascoltato la notizia ma non la smentita. E sarà sempre un numero di persone abbastanza elevato da non premurarsi di dover essere sottoposti a un fact-checking. L’effetto s’impone come significato”.
E allora qual è la soluzione? Io credo passi attraverso un lento lavoro di correzione etica e insieme linguistica. Dovremmo evitare di preoccuparci di “avere ragione” a qualunque costo. La conversazione non dovrebbe avere come fine il sentirmi più forte di te, più applaudito dai miei follower, più potente per un minuto di fronte alle miserie della mia vita quotidiana. L’esatto opposto: cercare insieme soluzioni pertinenti, in libertà, offrendo la nostra opinione, le nostre conoscenze (e i loro chiari limiti), e infine cercando di contribuire alla discussione con qualcosa di sensato. Sembra tutto molto banale, ma chiunque abbia frequentato una qualsiasi bacheca sa che non lo è. Attenzione, non si tratta di cadere in un relativismo spicciolo per cui ogni opinione è lecita e va salvaguardata. Non sto proponendo un galateo, ma una ricomposizione degli obiettivi del discorso. Esistono fatti condivisi proprio come esistono persone che si ostinano a negarli: se sono sicuro della correttezza di una proposizione, la difendo — giustamente — a spada tratta. Allo stesso modo, non è indispensabile raggiungere una conclusione condivisa e pacificata. Un dialogo può rimanere aporetico e ognuno restare fermo nella propria opinione: nella migliore delle ipotesi, però, questa opinione sarà stata forgiata da un contrasto, da una visione diversa. Il punto, piuttosto ovvio, è che nessuno possiede l’intera verità: è bene allora cautelarsi contro l’eccesso di certezza e la retorica dell’arroganza. Più che una massima epistemica, è una massima morale. Perché pensare di dover sempre vincere — e non di imparare qualcosa da eventuali errori, o uscire dalla bolla per allargare le proprie vedute, discutere per avvicinarsi di un passo ulteriore a una verità — crea un dialogo falsato dove l’interlocutore più forte agisce soltanto come attore principale, e l’altro quale comprimario da umiliare o deridere. Torniamo al Protagora. Il sofista e Socrate discorrono; Protagora si arrabbia e cerca di trionfare con i suoi celebri lunghi discorsi; Socrate lo sollecita a parlare in maniera sintetica e chiara; Protagora si difende da par suo (“Se avessi fatto quello che tu chiedi, cioè discutere nel modo in cui voleva il mio antagonista, non sarei risultato migliore di nessuno”); e alla fine Socrate capisce che non ha più senso continuare a conversare con una persona simile. Mentre cerca di andarsene — trattenuto da Callia — si lamenta con una frase molto interessante: “Io infatti credevo che il riunirsi per parlare insieme e il parlare in pubblico fossero due cose diverse”. Il rischio infatti è proprio questo: che ogni dialogo venga prima di tutto vissuto come lo scontro su un palcoscenico, il cui fine non è il raggiungimento di una conclusione (non uso nemmeno il termine verità) ma soltanto la buona riuscita dello spettacolo — idealmente, il nostro trionfo a colpi di pollici alzati. Sui social media parliamo sempre in pubblico, almeno in potenza: la distinzione consigliata da Socrate va erodendosi, a favore di un’idea della parola performativa, fine a sé stessa. Gabriele Giannantoni, in un magnifico saggio evocato da Raimo nel suo articolo su Internazionale, denuncia proprio la visione “agonistica” del dialogo avanzata dal sofista. Il punto essenziale è che non si tratta di una questione pratica, di uno stile invece di un altro; si tratta di una scelta, nuovamente, etica:
“non concerne l’opportunità di forme procedurali, di mera tecnica dialettica, ma implica la scelta tra due atteggiamenti di fondo: l’atteggiamento, cioè, di chi vuol persuadere l’interlocutore senza lasciargli margine di intervento critico, affascinandolo e stordendolo con espedienti oratori fino a batterlo in una gara di bravura; e l’atteggiamento di chi vuole discutere per sottoporre se stesso e l’interlocutore a quel comune εηλευγκειν ed εηλευγκεσκαι e a quel comune εηξεταυζειν, in cui si attua la ricerca della verità attraverso la reciproca comprensione e il reciproco dare e ricevere ragione”.
Perché tutto questo è così difficile? Perché desiderare a tutti i costi avere ragione, anche su temi di cui non sappiamo nulla? Ci sono tante risposte possibili. Perché avere ragione è confortante, è una forma di potere, ci fa sentire meglio. Perché non vogliamo che la nostra visione del mondo sia compromessa. Perché il mondo è diventato troppo complesso e c’è un istinto diffuso a vedere nell’altro un nemico e non un interlocutore. E poi perché argomentare richiede umiltà e persino una certa fatica. Nei suoi brevi e splendidi Appunti per un’introduzione alla filosofia, Giovanni Piana illustra la fatica del ragionare associandola alla pretesa mancanza di tempo degli interlocutori di Socrate, che si limitano a proseguire la loro attività senza interrogarsi:
14. Prima della frase socratica “So di non sapere”, vi è la forma tipica del suo modo di interrogare. Socrate si aggira per le strade di Atene, come vagabondo e nullafacente, dove incontra praticanti di ogni genere di cose. Egli li interroga ostinatamente sulle questioni di principio che sono attinenti a ciò con cui essi hanno quotidianamente a che fare. A forza di argomenti e controargomenti li induce infine a dire: “Ora non riesco più a raccapezzarmi”. 15. Così Socrate incontra Eutifrone, sacerdote e indovino, che si reca a denunciare per omicidio il proprio padre. Ed allora Socrate lo accerchia con le sue domande: tu certamente sai quale sia la distinzione tra azione empia ed azione santa. Certamente lo so — risponde Eutifrone, e come può non saperlo lui che è sacerdote e indovino? Ma nel giro delle domande e delle risposte, proprio alla fine del dialogo Socrate può riproporre immutata la propria domanda iniziale. Ed Eutifrone, anziché azzardare un’ennesima risposta ritorna alle sue pratiche: “Ora ho fretta di andare in un luogo, ed è ora che io vada” (15d). Vi prego di notare: egli ha fretta. Mentre il saluto dei filosofi è, come dice benissimo Wittgenstein, “Datti tempo!” (Pensieri diversi, 1949: “I filosofi dovrebbero salutarsi dicendo: ‘Datti tempo!’”).
Abbiamo tutti fretta, e insieme abbiamo tutti bisogno di certificare la nostra presenza online, in mezzo a un mare di opinioni ed emozioni differenti, passando da un fatto tragico a una divertente scemenza. Questo difficilmente si sposa con una riflessione attenta, perché la riflessione richiede tempo: e più ancora, una disposizione comportamentale a gestire il nostro tempo nel modo giusto. Senza le scuse che possono essere accampate ad ogni momento.