Qualche considerazione su Byung-Chul Han

Prendo ancora un articolo dal Post. Questa volta si tratta di un pezzo sul filosofo Byung-Chul Han (di cui ho molto apprezzato Infocrazia), di cui si evidenziano punti di forza e di debolezza.

“Byung-Chul Han è un filosofo sessantacinquenne tedesco di origine sudcoreana, autore di oltre venti saggi di successo e da qualche anno oggetto di estese attenzioni sui social. Le sue idee, in parte basate sulle teorie di grandi autori del XIX e XX secolo, sono discusse su piattaforme come TikTok e YouTube da studenti e appassionati di media e di filosofia, ma anche da giovani professionisti, booktoker e gruppi di lettura. Scritti a cominciare dal 2010, i suoi libri sono tradotti in Italia (editi da Nottetempo e da Einaudi), in Spagna, in America Latina, negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo.
In un recente articolo in cui descrive l’importanza del passaparola tra i giovani per il successo di Han, il New Yorker lo ha definito «il nuovo filosofo preferito di Internet». E ha notato il paradosso per cui i social sono allo stesso tempo un argomento di molte riflessioni critiche di Han e una delle ragioni del suo successo, motivato almeno in parte anche dalla brevità e chiarezza dei suoi scritti e dal fatto che sia una persona piuttosto restia ad apparire in pubblico.
«Con Byung-Chul Han è stata questa accoglienza dal basso a stimolare la domanda», ha detto al New Yorker John Thompson, direttore di Polity, un editore indipendente inglese che dal 2017 ha pubblicato 14 libri di Han. E non è un modo tanto convenzionale di ricevere attenzioni e recensioni, per libri di questo genere, ha aggiunto. Secondo il quotidiano El País uno dei primi e più grandi successi di Han, il libro del 2010 La società della stanchezza, ha venduto oltre 100mila copie in America Latina, Corea del Sud, Spagna e Italia, dove nello specifico ne ha vendute 15mila.
Han, nato in Corea del Sud nel 1959, vive e lavora fin dagli anni Ottanta in Germania. Arrivò in Europa quando aveva 22 anni e qualche conoscenza in metallurgia, la materia che aveva studiato a Seul. Dopo aver frequentato l’Università di Basilea, in Svizzera, ed essersi laureato nel 1994 con una tesi sul concetto di “stato d’animo” (Stimmung) del filosofo tedesco Martin Heidegger, ha quindi insegnato filosofia alla Universität der Künste di Berlino. Le sue principali aree di interesse sono la fenomenologia, l’etica, l’estetica, la religione e le teorie dei media.
L’attualità degli argomenti trattati da Han e la sua lettura della contemporaneità – una critica degli effetti politici, psicosociali e tecnologici del neoliberismo sulle società moderne – lo hanno reso un autore molto popolare e citato anche tra persone che non hanno particolare familiarità con i libri di filosofia. I suoi sono quasi tutti saggi monografici, lunghi un centinaio di pagine e scritti in uno stile divulgativo e lapidario, in cui il discorso ruota intorno a due o tre concetti fondamentali. A ottobre, descrivendosi come una persona pigra in un’intervista con El País, Han disse che di solito scrive tre frasi al giorno.

Il suo libro più recente, La crisi della narrazione, uscito a febbraio, riprende e amplia alcune nozioni da lui trattate in libri precedenti. Parla del declino della narrazione come attività di condivisione e fonte di senso e coesione all’interno delle comunità, e del parallelo successo dello «storyselling», descritta come una pratica fine a sé stessa, basata su una trascrizione priva di profondità di ogni cosa che le persone hanno da offrire e da vendere attraverso le storie (intese come formato sui social).
Molti libri di Han, in particolare La società della trasparenza, si concentrano sulla spinta collettiva alla divulgazione volontaria indotta dalle forze del mercato neoliberista, che trasformano in norma culturale l’autopromozione e la «pornografica esibizione di sé stessi». Ogni saggio esplora aspetti diversi di questo stato di frenesia guidato dalla tecnologia del tardo capitalismo, e il disagio che tende a provocare: dal burnout da «sovrapproduzione» e «concorrenza a sé stessi», all’algofobia, un’avversione ossessiva per il dolore che nega anche ogni suo valore etico, artistico e metafisico.
Nel libro Psicopolitica Han attribuisce la stabilità del sistema neoliberale a una situazione paradossale in cui, in assenza di una lotta tra classi antagoniste in senso stretto, è la libertà – o meglio: una forma di libertà «illusoria» – a generare costrizioni. Sentendosi libero da obblighi esterni, l’individuo immagina sé stesso come un «progetto» e si sottomette a obblighi interiori che derivano dalla libertà di potere (Können) e producono più vincoli del dovere disciplinare (Sollen), fino a sfociare in una sistema di costrizioni illimitato.
Il neoliberalismo, come mutazione del capitalismo, fa del lavoratore un imprenditore. Non la rivoluzione comunista, bensì il neoliberalismo elimina la classe operaia che è sfruttata da altri. Oggi, ciascuno è un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa. Ognuno è padrone e servo in un’unica persona. Anche la lotta di classe si trasforma in una lotta interiore con se stessi.
Anche il declino della narrazione, secondo Han, è espressione di una profonda crisi della libertà. Nel libro La crisi della narrazione categorie e nozioni di filosofi e scrittori come Walter Benjamin, Jean-Paul Sartre e Marcel Proust sono applicate all’analisi delle dinamiche sociali favorite da piattaforme come Netflix, Snapchat e Instagram. «Postare, mettere like e condividere, proprio perché sono pratiche consumistiche, non fanno altro che intensificare la crisi dell’esperienza narrativa», scrive Han, proponendo una distinzione tra informazione e racconto.
L’informazione è effimera, accidentale, e procede per addizione e accumulo. Intensifica quindi l’esperienza della contingenza, che il racconto invece attenua nella misura in cui conferisce significato a ciò che è accidentale, rendendolo necessario. Il bisogno di senso e identità è peraltro, secondo Han, la ragione dell’attuale successo di modelli narrativi populisti, nazionalisti, tribali e complottistici, che si presentano come offerte di orientamento a buon mercato a fronte dello smarrimento provocato dall’informazione dilagante e ininterrotta.
Diversa dall’informazione è anche la notizia, che secondo Han ha sempre una «vibrazione narrativa» perché è portatrice di una storia e presenta una struttura spazio-temporale completamente diversa rispetto a un’informazione. Ha significato perché rimanda a qualcos’altro – viene «da lontano» – e trova nella lontananza il suo tratto distintivo, contrapposto al tratto invece tipico della modernità: «la perdita di qualunque intervallo di separazione», la condivisione e l’accumulo di informazioni «a portata di mano».
Intrecciandosi con il neoliberismo si afferma un regime dell’informazione, il quale non opera in modo repressivo ma seduttivo. Esso […] pretende da noi che comunichiamo senza sosta le nostre opinioni, i nostri bisogni e le nostre preferenze. Ci chiede di raccontare le nostre vite, di postare, condividere, mettere like. La libertà in questo caso non viene repressa ma interamente sfruttata. Si ribalta in controllo e manipolazione. Il dominio […] è altamente efficiente, dato che non ha bisogno di apparire come tale. Si nasconde nell’apparenza della libertà e della comunicazione.
La conversione costante del vissuto in informazioni e dati immediatamente accessibili, aggiunge Han, è incompatibile con la felicità perché «la felicità non è un evento puntuale», ma si estende nel passato e filtra attraverso la memoria umana, che è selettiva. «Chi vuole raccontare sé stesso o ricordarsi qualcosa, deve poter dimenticare o tralasciare molto», perché «nessun racconto è trasparente»: solo le informazioni e i dati lo sono.
Una delle principali ragioni della popolarità di Han è la facilità con cui, attraverso citazioni di importanti autori della tradizione filosofica occidentale ma anche continui riferimenti alla contemporaneità, consente di immedesimarsi nell’umanità che descrive. Han sembra parlare in particolare alle persone giovani dell’esperienza di crescere sui social media, ha scritto il New Yorker, e della mancanza di controllo che molte di loro provano nel rapporto che hanno con Internet. Nel mondo accademico le reazioni sono invece contrastanti: da un lato Han è molto apprezzato per la sua capacità analitica e di sintesi, dall’altro è criticato per alcuni suoi giudizi perentori, privi di sfumature e vagamente tecnofobici.

Nel libro Le non cose, per esempio, Han descrive la reperibilità costante come una «servitù» e lo smartphone come «un campo di lavoro mobile in cui noi c’imprigioniamo di nostra sponte», limitando la nostra esperienza del mondo e della realtà. Nell’intervista con El País disse che «il capitale usa la libertà individuale per riprodursi» e ciò rende le persone «gli organi sessuali del capitale». Ma per quanto suggestive e per molti aspetti appropriate alcune sue letture della contemporaneità tendono a rafforzare posizioni esistenti in discussioni molto polarizzate, e assecondano un certo desiderio generale di ridurre quella sulla tecnologia a una questione di tecnologia buona o cattiva.
La bidimensionalità delle sue analisi e la tendenza a occuparsi di un solo lato delle questioni sono peraltro la ragione per cui Han funziona molto proprio sui social, «all’interno della valanga di non cose», ha scritto il New Yorker. Quando descrive la pubblicazione sui social media come «autopromozione pornografica», per esempio, non aggiunge che gli spazi digitali possono anche produrre esperienze significative. E non coglie il paradosso dei social media di «promuovere forme di espressione sia di sfruttamento che di emancipazione», e di consentire «la costruzione e la proiezione di un’identità personale, con una libertà che non è mai stata possibile nella gerarchia top down dei media tradizionali».”

Ve lo ricordate Boko Haram?

Sono passati 10 anni, proprio adesso. Sto scrivendo al pc e la campana del mio paese ha appena dato il rintocco dell’01:00. Le finestre sono aperte dopo questa calda e anomala giornata di aprile. Esattamente 10 anni fa, succedeva quello che racconta questo articolo de IlPost.“Nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014, dieci anni fa, alcuni miliziani del gruppo islamista e terrorista Boko Haram fecero irruzione in una scuola secondaria di Chibok, città a maggioranza cristiana nel nord-est della Nigeria, e rapirono 276 studentesse tra i 16 e i 18 anni. Alcune di loro riuscirono a scappare lanciandosi giù dai furgoni su cui erano state caricate, altre furono liberate negli anni successivi in varie operazioni dell’esercito nigeriano, in cambio di grossi riscatti. Di un centinaio di loro si sono perse le tracce.
Il rapimento delle studentesse di Chibok ebbe un’enorme risonanza anche fuori dalla Nigeria. Fu raccontato in documentari, libri e fu oggetto di molte manifestazioni. Nacque anche un movimento, chiamato Bringbackourgirls (“Ridateci le nostre ragazze”), che ancora oggi chiede di trovare e liberare le studentesse disperse.
Il rapimento di Chibok è diventato un po’ il simbolo di un problema che in Nigeria esiste ancora oggi: i rapimenti di massa continuano a essere frequenti, attuati con modalità simili a quelle di Chibok, sia da gruppi terroristici che da gruppi criminali comuni, e i vari governi non sono mai stati in grado di gestirli.
Il 14 aprile del 2014 i miliziani raggiunsero la scuola a bordo di furgoni. A Chibok, dove vivono circa 66mila persone, c’erano già stati attacchi di Boko Haram, e nelle ore precedenti al rapimento in città erano già circolate voci sull’arrivo del gruppo, per via di alcune telefonate di residenti di città vicine che avevano visto un convoglio di furgoni dirigersi verso Chibok.
Una volta raggiunta la scuola, i miliziani fecero irruzione al suo interno. Nonostante gli attacchi precedenti, la città non era dotata di un’adeguata sicurezza. Una quindicina di soldati lì presenti si scontrarono coi miliziani e cercarono di fermarli: gli scontri durarono circa un’ora, ma non arrivarono rinforzi. I miliziani di Boko Haram erano di più e più armati: uccisero alcuni soldati e iniziarono a rapire le studentesse, minacciandole di morte se non li avessero seguiti, e a caricarle sui furgoni. Poi diedero fuoco alla scuola.
Una volta terminato il rapimento, il convoglio di furgoni si diresse verso la foresta Sambisa, un’enorme area che si estende per oltre 500 chilometri quadrati e che è considerato da tempo un nascondiglio e luogo di addestramento dei miliziani di Boko Haram. L’operazione durò in tutto cinque ore. Le studentesse che riuscirono a lanciarsi giù dai furgoni e a scappare furono una cinquantina. Nei giorni successivi alcuni familiari delle altre si unirono e si addentrarono nella foresta, a bordo di moto e con armi artigianali, senza successo.
Il rapimento suscitò reazioni molto intense da parte dell’opinione pubblica nigeriana e non solo: il fatto che un gruppo di terroristi potesse agire quasi indisturbato, rapendo quasi 300 persone all’interno di una città, bruciando una scuola e scappando, divenne l’esempio della grave inadeguatezza delle istituzioni, e di come gruppi criminali e terroristici potessero sfruttarla per rafforzarsi. Nei mesi successivi, inoltre, organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International accusarono l’esercito nigeriano di essere stato a conoscenza del pericolo di quel rapimento e di non aver fatto nulla per evitarlo.
Le autorità locali promisero di impiegare tutte le risorse umane e materiali necessarie al ritrovamento e alla liberazione delle studentesse, ma ci vollero tre anni per ottenere le prime liberazioni. Con uno scambio di prigionieri organizzato dal governo nigeriano, a maggio del 2017 furono liberate 82 studentesse. Oltre allo scambio di prigionieri il governo nigeriano pagò un riscatto dell’equivalente di 3 milioni di euro: la cifra dell’importo fu rivelata con una lunga inchiesta del Wall Street Journal, di fatto il primo resoconto dettagliato di come si fosse arrivati alla liberazione di gran parte delle studentesse rapite.
Con la liberazione delle studentesse arrivarono anche i primi racconti sulla prigionia: alcune ragazze raccontarono di conversioni forzate all’Islam, di matrimoni forzati con miliziani di Boko Haram e del fatto che chi si rifiutò fu costretta a violenze e lavori forzati. Alcune studentesse morirono di parto, altre durante attacchi compiuti dall’esercito nigeriano contro Boko Haram.
Negli anni successivi furono liberate alcune altre studentesse, diventate ormai adulte, ma di molte altre non si ebbero più notizie. L’interesse dell’opinione pubblica andò scemando, e si diffusero anche teorie del complotto secondo cui il rapimento di Chibok non sarebbe in realtà mai avvenuto e sarebbe stato inventato per fini politici.
I rapimenti sono continuati anche negli anni successivi, sia da parte di gruppi terroristici che da parte di criminali comuni. Quelli compiuti nelle scuole sono stati i più frequenti: scuole e collegi si trovano molto spesso in luoghi isolati e fuori dai centri cittadini, in punti in cui la sicurezza è ancora più precaria o assente che in città. Rapire gruppi numerosi di studenti, bambini o adolescenti rende anche più facile l’ottenimento di un riscatto, per la pressione dei media nazionali e internazionali e dell’opinione pubblica nigeriana per la loro liberazione.
Secondo l’organizzazione Save the Children, dal 2014 a oggi sono stati rapiti circa 1.600 studenti e studentesse solo nel nord del paese, area in cui tendono a essere più attivi gruppi radicali islamisti come Boko Haram. Solo il mese scorso, in tre diverse operazioni, sono stati rapiti oltre 300 studenti.
I governi che si sono succeduti finora in Nigeria non solo non sono stati in grado di gestire questi problemi, ma a volte ne hanno a loro volta approfittato per arricchirsi. In passato i flussi di denaro per i riscatti sono stati anche un’occasione di guadagno per funzionari pubblici di medio livello, che nei casi in cui il governo gestiva i negoziati con i rapitori hanno iniziato a trattenere parte della somma destinata a liberare gli ostaggi.
Nel corso degli anni sono stati avviati vari progetti, come il Safe Schools Initiative, promosso dalle Nazioni Unite per rafforzare la sicurezza attorno alle scuole, e la cui realizzazione è stata ostacolata da vari problemi, tra cui la corruzione dei politici locali e la stessa instabilità politica del paese. I rapimenti di massa sono però diminuiti dal 2022, quando il governo ha approvato una legge che rende illegale pagare i riscatti e ha reso i rapimenti punibili con la pena di morte nel caso in cui le persone rapite muoiano.”

Tra intelligenza e giustizia artificiale

Margherita Ramajoli sulla rivista Il Mulino scrive un pezzo sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e mondo della giustizia dal titolo Siamo pronti per una giustizia artificiale? E’ del 25 marzo.

“Disciplinare una tecnologia inafferrabile e in costante evoluzione come l’intelligenza artificiale non è un’impresa facile. Ciò spiega perché il Regolamento sull’intelligenza artificiale (AI Act), approvato la scorsa settimana dal Parlamento europeo – manca solo il passaggio formale da parte del Consiglio –, ha avuto una gestazione lunga oltre tre anni ed entrerà in vigore gradualmente, tra la fine del 2024 e il 2026. La normativa, inevitabilmente complessa, segue un approccio fondato sul rischio e regola l’intelligenza artificiale sulla base della sua attitudine a causare danni alla società, modulando gli obblighi introdotti in base al diverso grado di pericolo di lesione per i diritti fondamentali: più alto è il rischio paventato, maggiori sono gli oneri e le responsabilità dei fornitori, distributori e operatori dei sistemi di IA.
Il Regolamento è conscio del fatto che l’applicazione dei sistemi di IA nello specifico campo della giustizia produce benefici, ma altrettanti problemi. L’AI Act parla di risultati vantaggiosi sul piano sociale che la giustizia digitale porta con sé. Più nello specifico, l’uso dell’IA nel campo della giustizia consente il raggiungimento degli obiettivi propri della giustizia standardizzata: l’efficienza, perché l’IA può essere impiegata in massa a scale e velocità di gran lunga superiori a quelle raggiungibili da qualsiasi essere umano o collegio di esseri umani nelle attività di archiviazione, indagine e analisi delle informazioni giudiziarie; l’uniformità, perché per definizione l’IA elimina spazi di creatività e fornisce risposte prevedibili.
Tuttavia, l’affidarsi a sistemi di IA nel processo decisionale presenta anche punti di debolezza e pone due problemi: il problema della scatola nera e il problema del pregiudizio dell’automazione. Si parla di scatola nera perché esiste una tensione intrinseca tra il dovere del giudice di motivare le proprie decisioni e la limitata «spiegabilità» di alcuni sistemi di IA. Il procedimento trasformativo degli input in output può risultare opaco al punto tale che gli esseri umani, compresi pure quelli che hanno ideato e progettato il sistema, non sono in grado di capire quali variabili abbiano esattamente condizionato e determinato il risultato finale. Questa opacità limita, se addirittura non impedisce, la capacità del giudice che si serve del sistema di IA di giustificare le decisioni assunte sulla scorta del sistema.
Il pregiudizio dell’automazione allude invece al fenomeno generale per cui gli esseri umani sono propensi ad attribuire una certa autorità intrinseca ai risultati suggeriti dai sistemi di IA e nella nostra quotidianità abbondano esempi di questo sottile condizionamento. Di conseguenza, l’applicazione dei sistemi IA nel campo della giustizia può soffocare l’aggiornamento valoriale, visto che i sistemi di IA imparano dal passato e tendono a riprodurre il passato. Se nel futuro un giudice facesse affidamento, sia pure inconsciamente, solo sui sistemi di IA, il cosiddetto effet moutonnier [una naturale tendenza a conformarsi alla maggioranza, ndr] spingerebbe i giudici verso un non desiderabile conformismo giudiziario, sordo alle trasformazioni sociali ed economiche.
Se queste sono le questioni poste dalla giustizia artificiale, le soluzioni offerte dal diritto risultano significative, anche se non sempre facili da applicare. I sistemi di IA destinati all’amministrazione della giustizia, tranne quelli impiegati per attività puramente strumentali (l’anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, le comunicazioni tra il personale e così via), sono reputati ad alto rischio e come tali sono sottoposti a rilevanti limiti e obblighi. Secondo il Regolamento «il processo decisionale finale deve rimanere un’attività a guida umana» e quindi l’IA può fornire sostegno ma mai sostituire il giudice. Questa riserva d’umanità, ora solennemente proclamata dal legislatore europeo, sottende la consapevolezza che l’attività giudiziaria ha una sua unicità, non è formalizzabile a priori e non è riproducibile artificiosamente. Per giudicare non sono sufficienti solo conoscenze giuridiche, perché il ragionamento giudiziario richiede una varietà di tecniche cognitive, l’apprezzamento dei fatti complessi e sempre diversi, l’impiego dell’induzione e dell’analogia, l’impegno nell’argomentazione, l’uso di ragionevolezza e proporzionalità.
Tuttavia, nel passaggio dal piano astratto proclamatorio al concreto piano applicativo riemergono alcune questioni irrisolte. Anzitutto, non è immediato individuare né quale soggetto istituzionale sia legittimato a controllare il rispetto della riserva d’umano nelle decisioni giudiziarie, né quali strumenti efficaci possano essere impiegati a tal fine. In secondo luogo, non può dirsi superato il rischio del pregiudizio dell’automazione, perché l’effetto gregge potrebbe spingere il giudice ad aderire al risultato algoritmico e a non assumersi la responsabilità di discostarsene anche quando tale risultato non risulti cucito su misura sulle specificità della lite in esame. Ancora, per quanto l’AI Act abbia introdotto specifici obblighi per i fornitori di IA e in particolare l’obbligo di procurare ai giudici e alle autorità di vigilanza le «istruzioni per l’uso», comprensive delle specifiche «per i dati di input o qualsiasi altra informazione pertinente in termini di set di dati di addestramento, convalida e prova», queste fondamentali informazioni vanno condivise solo «ove opportuno». In altri termini, il Regolamento rende non necessaria, ma discrezionale la resa di informazioni proprio di quei dati di input che determinano in modo significativo gli output con cui i giudici dovranno fare i conti. Torna così anche il problema della scatola nera, quella tensione intrinseca tra il dovere del giudice di motivare le proprie decisioni e la limitata comprensibilità e, di conseguenza, spiegabilità di alcuni sistemi di IA.
In ultima analisi, i detentori della tecnologia – sviluppatori di sistemi di IA – si ergono a veri e propri poteri privati, rispetto ai quali l’ordinamento giuridico, ma ancora prima la politica, devono ancora ingegnarsi a trovare efficaci contrappesi.
Anche se non possiamo realisticamente ritornare a un mondo senza intelligenza artificiale, sia in generale, sia in campo giudiziario, le questioni da affrontare sono ancora tante e il diritto è solo uno dei tanti strumenti per cercare di risolverle.”

Gemma n° 2461

“La gemma odierna si discosta un po’ dal filo conduttore di quelle degli anni scorsi.
Quest’anno ho voluto portare come gemma il mio primo veicolo a motore, la Vespa. Vederla arrivare a casa è stata una gioia immensa e lo sarà anche quando potrò sfrecciare con lei per le vie del paese e del Friuli” (D. classe terza).

Gemma n° 2444

“Come gemma per quest’anno ho scelto di portare la canzone di Billie Eilish What was I made for uscita quest’estate all’interno del soundtrack ufficiale del film “Barbie”. Penso che questa canzone esprima esattamente cosa vuol dire essere donne, o meglio, per quanto mi riguarda, ragazze. Quello che trovo di bello in questa canzone è la delicatezza della melodia, accostata a dei versi forti e molto significativi. Personalmente la prima volta che l’ho sentita durante il film, sono rimasta senza parole da quanto era bella; di solito prima di emozionarmi per una canzone uno o più ascolti sono d’obbligo, con questa canzone invece è stata questione di pochi secondi. Ritrovare me stessa in questi lyrics per me è stato immediato. Una delle frasi che ho subito riconosciuto come mia è stata “when did it end, all the enjoyment”. Questo verso mi ricorda il distacco dall’essere bambine al diventare (non completamente) adulte. Ciò che prima era normale, come mangiare un piatto di pasta in più o essere rumorosa quando parli in pubblico, viene visto come fuori dal normale, come qualcosa di sbagliato. La leggerezza dell’essere bambine scompare, tutto il tempo che prima passavi a divertirti adesso lo spendi preoccupandoti di come uscirai vestita il giorno dopo o di quanto mangerai per evitare di sembrare ingorda o strana agli occhi degli altri. La leggerezza piano piano va via, per fare spazio alle paure e all’angoscia di non essere perfette (la stessa che si trova durante il film in Barbie). Concludo dicendo che tutti, maschi o femmine che siano, dovrebbero ascoltare almeno una volta nella vita questa canzone, aprendo il proprio cuore e lasciando che le proprie emozioni scorrano e si  esprimano per ciò che sono” (I. classe terza).

Gemma n° 2418

“Questo trofeo l’ho vinto all’età di 11 anni circa, è il primo trofeo come miglior marcatore in un torneo. Mi ricorda i tempi in cui giocavo a calcio per divertirmi ed ero molto spensierato rispetto ad ora dove comunque c’è molta tensione e bisogna metterci molto impegno” (T. classe terza).

Gemma n° 2409

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare un recap dell’estate 2023. Questa è stata l’estate di molte prime volte che sul momento ho avuto timore di percorrere ma poi sono stata felice di aver vissuto.
Durante questi mesi mi sono sentita libera, spensierata e soprattutto felice e ringrazio di cuore le persone che hanno reso quest’estate L’estate” (L. classe quarta)

Gemma n° 2407

“Chi sei? Non lo so. Forse un amico, anzi un fedele amico viaggiatore, che però ritorna sempre al punto di partenza. Voli, voli in alto, plani, meglio di un aeroplano, sul balcone, di mattina. Attendi il mio arrivo con la pazienza di un vecchietto, sprofondando il collo tra le tue piume calde e morbide, tattili a dire il vero. Per farti notare, attraversi la soglia di pietra con passi lenti e decisi come un ragazzo, che passeggia fischiettando con le mani dietro la schiena. Ti vedo e tremo di gioia, pk non sei un gabbiano qualunque, e chissà, forse non sei nemmeno un gabbiano, forse ti travesti e ti trasformi e viaggi in dimensioni agli umani sconosciute, ma sono sempre le tue lunghe ali a farmi volare. E così attraverso i tanti tuoi mondi che solchi dall’alto come in un disegno di Moebius” (E. classe quarta)

Gemma n° 2405

“Anche quest’anno, come tutti gli altri, ero indecisa su che gemma portare, quindi ho scelto le due più significative.
La prima è un video che ho realizzato circa un mese fa e che riassume alcuni dei momenti più belli del mio 2023. Ho cercato di inserire tutte le persone che hanno migliorato le mie giornate anche se purtroppo ho perso molte foto e molte ne sono rimaste escluse.
Come seconda gemma ho deciso di portare questa foto che non vuole rappresentare le medaglie in sé ma lo sport che c’è dietro di esse. Pratico ginnastica ritmica da quando avevo sette anni, quindi da ormai 10 anni. È sempre stato il mio posto sicuro, la mia seconda casa, un luogo in cui ho sempre avuto l’opportunità di esprimermi e di sentirmi libera. Tanto sudore e tanta fatica, ma alla fine anche tante soddisfazioni. Questo è quello che questo sport mi ha trasmesso, dei valori importantissimi che fanno bagaglio per la vita di tutti i giorni. Con tanto impegno e determinazione si può arrivare ad un traguardo, ma solo con le persone giuste al proprio fianco la fatica non peserà. A pensare che questo è l’ultimo che pratico ginnastica mi piange il cuore. Purtroppo gestire studio, sport e ulteriori corsi è diventato veramente impossibile e quindi mi trovo costretta a rinunciare a qualcosa. Le cose che mi mancheranno di più saranno sicuramente le chiacchierate durante l’allenamento, l’ansia nel momento prima di entrare in pedana, la settimana dei campionati nazionali, ma soprattutto la gioia e la fierezza che si prova dopo aver concluso un esercizio. Ricorderò questi anni come i più belli della mia vita, non dimenticherò mai i bellissimi momenti che ho vissuto e sarò sempre grata per le emozioni che questo sport mi ha regalato”.
(S. classe quarta).

Gemma n° 2235

“Questo anello è la prova materiale, tangibile, visibile e reale dell’inizio e del corso della storia del mio primo amore e attualmente amore della mia vita.
Mi è stato regalato 5 anni fa da lui, nemmeno a quella tenera età vivevamo di una spensierata e ingenua serenità, forse l’ho destinato a me per la mia natura caotica.
Lo indosso ogni giorno, a volte sul pollice destro altre su quello sinistro, rimane lì statico, metaforicamente inciso nella mia pelle. Incollato a me come l’infinito e intenso sentimento che provo e condivido con questa persona. Mi è vicino al corpo come nell’anima l’emozione che persiste anche dopo 7 anni di conoscenza, persino dopo la fine concreta della nostra relazione ma non del legame che percepiamo attraverso i filamenti che ci guidano uno verso l’altro.
Le persone, però, non sono simili ai materiali, agli anelli, non le puoi portare con te, non ti posso trasportare in tutte le strade che percorro, non puoi accompagnarmi in tutte le mie metamorfosi.
La malinconia mi pervade nel ragionare che stiamo cambiando, stiamo crescendo e sbocciando. I nostri petali cadono delicatamente sul terreno che ha fatto da base e ascoltatore per il nostro amore, per le parole dolci che sfilavamo fuori dalle labbra l’uno dell’altro con il fine di coltivare le nostre sensazioni e insegnarci a rimanere, a sostenerci. Il nostro giardino sta appassendo e stanno fiorendo colori differenti rispetto a quelli abitudinari, quelli che abbiamo sentito confortevoli nel nostro struggimento a lungo.
Non so ancora oggi comprendere se ci è stato rubato del tempo o se abbiamo finito di scrivere capitoli di noi, forse non so accettare il mio presente manchevole della tua presenza.
Però, si è instaurata un po’ di titubanza nel mio flusso di pensieri, non so spiegare se questa nostra crescita è davvero intrinseca di angoscia, se viaggio all’esterno di chi siamo noi mi commuovo di gioia nell’osservare la nostra evoluzione di amanti e individui.
Come ti avevo detto, ho un rullino tutto nostro custodito nei cassetti della mia mente.
Scrivo di ciò perché questo oggetto contiene all’interno di sé tutte queste informazioni sensibili, un’infinità di dati sentimentali e ricordi brutti come belli.
Questo anello racchiude soprattutto te, che sei una foresta di me, sei lo stupore della vita e la creatura in cui riconosco la mia libertà, l’Amore con la a maiuscola, la bellezza del mondo filtrata dal mio cuore e dai miei occhi.
Ti catturo tra un battito e l’altro come tengo il tuo amore al pollice, tuttavia mi viene spontaneo chiedermi se ho finito di contare le tue espressioni, perciò proprio perché ti amo ho deciso di lasciarti camminare in un senso esistenziale diverso dal mio, di permetterti di esplorare un tragitto completamente tuo.
Magari ci incontreremo, di nuovo, ad un bivio.”
(L. classe quarta).

Gemma n° 2109

“Quest’anno ho deciso di portare come gemma questa foto in quanto lo sport che pratico, il pattinaggio, a partire da quest’anno ha assunto un significato diverso e ancora più importante perché dopo più di 10 anni che lo pratico, in pista non sono più dall’altro lato come allieva ma come co-insegnante.
Durante le lezioni, c’è una bambina che si chiama S., è una bambina molto volenterosa e molto tenace, è sempre pronta ad imparare senza avere paura di sbagliare e di non riuscire a fare gli esercizi proposti durante lo svolgimento del corso. 
Mi ricorda me quando ero più piccola, che ero sempre pronta a voler fare gli esercizi che gli insegnanti proponevano durante l’ora ed è soddisfacente sapere che ad oggi ci siano ancora bambini e bambine che abbiano così tanta voglia di imparare e di mettersi in gioco.
Oltre a riconoscere la responsabilità che ho nei confronti degli allievi più piccoli mi rende orgogliosa e felice poter insegnare tutto ciò che ho appreso negli anni (con grande sforzo e duro lavoro) trasmettendo le stesse emozioni che provo ogni volta che mi metto i pattini e metto piede in pista dedicandomi completamente a quello che faccio, sentendomi libera e spensierata come se in quegli istanti fossi in un mondo parallelo e un’altra me stessa” (V. classe quarta).

Gemma n° 2104

“Questa è la gemma che ho deciso di portare quest’anno, anche perché riguarda l’estate appena passata e quindi non avrei potuto fare altrimenti. Tante cose l’avrebbero potuta rappresentare, ma questi, che in realtà oggettivamente sono dei semplici occhiali, li lego a uno dei momenti più importanti che hanno positivamente segnato il periodo estivo: la mia prima vacanza da sola, o meglio, senza adulti e persone che mi potessero vietare di andare avanti mangiando pasta in bianco e pomodori tutti i giorni. Invece ho vissuto questa esperienza con delle persone a cui voglio un mondo di bene: E.e B. Non dimenticherò mai come abbiamo passato una settimana a Lignano a fingere di essere responsabili, ma perdendo la pazienza facilmente e litigando in tempi record per poi scherzarci su, con B. che si era trasformata in una malata di pulito e noi altre che cucinavamo piatti spesso insipidi. Questa esperienza ha segnato la mia vita e sarà per sempre un ricordo indelebile, che riporterò alla luce ogni qual volta guarderò questi occhiali” (E. classe terza).

Gemma n° 2103

“La mia gemma è un video che ho realizzato a fine estate e che riprende i migliori momenti trascorsi con i miei amici.
L’estate passata è stata un periodo piuttosto forte e significativo, perché ho avuto l’occasione di conoscere una nuova versione di me stessa. Ho trascorso un’estate intensa, la prima da maggiorenne, mi sono avvicinata al mondo del lavoro e ho imparato a convivere con situazioni complesse. È stata un’estate di miglioramenti personali, perché ho trascorso momenti in cui mi sono sentita finalmente me stessa e mi sono svincolata dal mondo circostante. È stata un’estate in cui, per la prima volta, ho capito cosa significa vivere e percepire la libertà. Nel video c’è infatti un piccolo filmato di me e i miei amici che saltiamo e balliamo in mezzo al mare di notte durante le prove di Jovanotti. Quella sera mi sono sentita per la prima volta viva. Mi sono sentita viva perché mi sono sconnessa dal mondo circostante e mi sono goduta l’attimo, senza pensare ai giudizi altrui e alla paura di apparire diversamente da come voglio. Mi sono sentita viva perché ho urlato fuori tutto il peso che mi grava dentro, che non riesco ad esternare e che non ho coraggio di mostrare. Mi sono sentita viva perché non mi sono sforzata di nascondere i miei punti deboli e i miei difetti.
Sono questi i momenti che hanno reso la mia estate speciale. Ciò che mi auguro è quindi di continuare a sentirmi così viva, così libera, così me stessa. Mi auguro di imparare ad accettare ciò che, fino ad ora, non ho avuto il coraggio di accettare. Mi auguro di essere più estroversa, meno paurosa. Mi auguro di smetterla di chiedermi se sono abbastanza intelligente, abbastanza bella o abbastanza magra. Mi auguro di capire che la perfezione non può essere raggiunta e che va bene così. Mi auguro di trovare la mia chiave per la felicità” (L. classe quinta).

Gemma n° 2087

“Questa foto l’ho scattata nella notte di Ferragosto. Ho scelto questa gemma perché era finalmente uno dei periodi in cui finalmente mi sentivo rilassata. Chi mi conosce sa che sono un po’ una overthinker, quindi ho molto spesso tante preoccupazioni e non riesco a divertirmi veramente. Ad esempio qui non ci volevo neanche andare, non so bene perché, poi fortunatamente ci sono andata e ho conosciuto nuove persone e nel complesso è stata una bella esperienza” (S. classe quarta).

Gemma n° 2076

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare questi due bracciali. Io mi affeziono facilmente a regali ricevuti da persone importanti per me e questi li ho ricevuti dalle mie migliori amiche. Con loro posso essere me stessa senza paura di essere giudicata e mi hanno aiutata in un periodo non proprio bello della mia vita” (E. classe seconda).

Gemma n° 2073

“Quando rifletto su una parola che mi possa rappresentare penso alla creatività.
Io sin da piccola sono stata una ragazza che non sta mai ferma o con le mani in mano, che preferisce spendere il suo tempo ad esprimersi … come?
Ho diversi modi per farlo, ma i due che preferisco di più sono ballare e disegnare.
Ho iniziato a ballare danza classica e moderna a 3 anni e non ho mai smesso. Anche sotto la doccia o davanti allo specchio mi piace ascoltare musica senza badare a chi mi sta vicino.
Quando ballo posso definirmi me.
Quando ballo non m’interessa cosa possa accadere in quel momento, io continuerò ad essere me stessa. Di certo non ho paura di sbagliare, perché anche se sbagliassi saprei che quell’errore farebbe parte di me.
Ora mi ritrovo in una situazione in cui non posso utilizzare le punte, ma nonostante questo la mia passione per la danza non è svanita.
Ballare trasmette pensieri e idee senza parole. La creatività di questa disciplina sta nel credere in tutti questi pensieri e idee attraverso il cuore e l’anima.
Questo, di sicuro, è valido per qualsiasi passione che ognuno ha.

Anche il disegno è una passione che porto con me da bambina e non mi sono mai stancata a prendere la penna per sprigionare le mie emozioni. Un aspetto che mi piace di questa attività  è di poter prendere qualsiasi cosa astratta e renderla concreta.
Ogni volta che finisco un disegno sono soddisfatta e felice, perché nella fase d’opera mi diverto a scoprire nuove tecniche e colori (proprio come una bambina).
Credo che la creatività sia il modo migliore per esprimermi, spero di non perderla per strada” (G, classe prima).

Gemma n° 2057

“Come l’anno scorso, anche per quest’anno è stato difficile trovare un qualcosa da presentare in questa gemma, perché fondamentalmente ci sono tante cose a cui sono legata.
Alla fine ho deciso di parlare di questa foto.
Questa immagine può sembrare a molti una, diciamo, “semplice” foto tra padre e figlia, ma c’è ben altro dietro.
Sono sempre stata fortunata, non posso negarlo, ad avere un padre così.
Oltre a essere padre e figlia, mi piace dire che siamo anche amici (anche se a lui non piace sentire questa cosa).
Mi piace definirlo come “amico”, proprio perché, oltre che padre, credo che sia una delle poche persone a cui racconto tutto e di cui mi fido ciecamente, quello a cui racconto quello che mi succede, una delle poche persone che mi ha vista attraversare i momenti peggiori e che mi ha sempre aiutata a risollevarmi.
È la persona a cui devo più di tutte, e so che lui per me ci sarà sempre, come io per lui.
Mi ha lasciato libera di imparare a vivere, di sbattere la testa tornando poi da lui in lacrime dicendomi “cosa ti avevo detto io?”, ma nonostante ciò non mi ha mai abbandonata, anzi è sempre stato la spalla su cui piangere e anche addormentarmi, mentre guardiamo la televisione sul divano.
Crescendo, ho acquistato abbastanza consapevolezza da capire tutti i sacrifici che ha fatto per vedermi felice, dal momento che continuare a crescere una figlia di 9 anni da solo non è facile.
Devo essere sincera, non mi ha fatto mai mancare nulla, e di questo gliene sarò infinitamente grata, perché con il passare degli anni, guardandomi intorno, capisco che non tutti i miei coetanei hanno potuto contare su una figura di padre presente.
Ovviamente, non tutto è sempre rose e fiori, come giusto che sia, ma rimarrà sempre la persona che mi ama di più al mondo, come solo un genitore sa fare.
Non sono mai stata una ragazza di grandi parole, e forse tutto questo che vi ho raccontato lui non lo sa, ma vorrei che un giorno sapesse che non avrei potuto desiderare di meglio per me” (E. classe quarta).

Gemma n° 1995

“Ho portato una foto di Lignano della scorsa estate: da quando ero piccola ci vado ogni estate, quindi è sinonimo di niente preoccupazioni, compiti, studio. Insomma, un posto felice”.

A differenza di G. (classe prima), ho scoperto Lignano da grande, perché le mie estati d’infanzia sono legate a Grado e poi alla montagna. Ma le sensazioni sono le stesse, precise e identiche.

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

Gemma n° 1896

“Ho portato una foto: ci siamo io, mia sorella e mio nonno. Siamo a casa del nonno, su questa collina da cui si può vedere tutto il Friuli. In questo posto mi sento libera, mi siedo e non penso a nulla. Ci sono anche due generazioni a confronto: quando ci sediamo con il nonno e lui inizia a raccontare la sua storia, la sua vita, lo ascoltiamo sempre volentieri e ci permette di dare anche alle nostre esperienze altri significati”.

Quelle di A. (classe terza) sono parole e immagini che sanno proprio di Friuli per chi, come me, in questa terra ci è nato e ci è cresciuto, per chi questa terra la ama profondamente. Prendo le parole friulane di Celso Macor da una pubblicazione curata dal collega Gabriele Zanello:
Svualâ senza slaifs
tun zîl diliberât da rimis
e da pauris
cun pinsîrs a slàs, come ch’a’ vegnin
e si fermin culì come zïuladis di anima
tal sburît dal timp.
Volare senza freni / in un cielo liberato da rime / e da paure / con pensieri in disordine, / così come vengono / e si fermano qui come grida di anima / nel precipitare del tempo.
(da Svualâ senza slaifs, 2018, Società filologica friulana)