Qualche considerazione su Byung-Chul Han

Prendo ancora un articolo dal Post. Questa volta si tratta di un pezzo sul filosofo Byung-Chul Han (di cui ho molto apprezzato Infocrazia), di cui si evidenziano punti di forza e di debolezza.

“Byung-Chul Han è un filosofo sessantacinquenne tedesco di origine sudcoreana, autore di oltre venti saggi di successo e da qualche anno oggetto di estese attenzioni sui social. Le sue idee, in parte basate sulle teorie di grandi autori del XIX e XX secolo, sono discusse su piattaforme come TikTok e YouTube da studenti e appassionati di media e di filosofia, ma anche da giovani professionisti, booktoker e gruppi di lettura. Scritti a cominciare dal 2010, i suoi libri sono tradotti in Italia (editi da Nottetempo e da Einaudi), in Spagna, in America Latina, negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo.
In un recente articolo in cui descrive l’importanza del passaparola tra i giovani per il successo di Han, il New Yorker lo ha definito «il nuovo filosofo preferito di Internet». E ha notato il paradosso per cui i social sono allo stesso tempo un argomento di molte riflessioni critiche di Han e una delle ragioni del suo successo, motivato almeno in parte anche dalla brevità e chiarezza dei suoi scritti e dal fatto che sia una persona piuttosto restia ad apparire in pubblico.
«Con Byung-Chul Han è stata questa accoglienza dal basso a stimolare la domanda», ha detto al New Yorker John Thompson, direttore di Polity, un editore indipendente inglese che dal 2017 ha pubblicato 14 libri di Han. E non è un modo tanto convenzionale di ricevere attenzioni e recensioni, per libri di questo genere, ha aggiunto. Secondo il quotidiano El País uno dei primi e più grandi successi di Han, il libro del 2010 La società della stanchezza, ha venduto oltre 100mila copie in America Latina, Corea del Sud, Spagna e Italia, dove nello specifico ne ha vendute 15mila.
Han, nato in Corea del Sud nel 1959, vive e lavora fin dagli anni Ottanta in Germania. Arrivò in Europa quando aveva 22 anni e qualche conoscenza in metallurgia, la materia che aveva studiato a Seul. Dopo aver frequentato l’Università di Basilea, in Svizzera, ed essersi laureato nel 1994 con una tesi sul concetto di “stato d’animo” (Stimmung) del filosofo tedesco Martin Heidegger, ha quindi insegnato filosofia alla Universität der Künste di Berlino. Le sue principali aree di interesse sono la fenomenologia, l’etica, l’estetica, la religione e le teorie dei media.
L’attualità degli argomenti trattati da Han e la sua lettura della contemporaneità – una critica degli effetti politici, psicosociali e tecnologici del neoliberismo sulle società moderne – lo hanno reso un autore molto popolare e citato anche tra persone che non hanno particolare familiarità con i libri di filosofia. I suoi sono quasi tutti saggi monografici, lunghi un centinaio di pagine e scritti in uno stile divulgativo e lapidario, in cui il discorso ruota intorno a due o tre concetti fondamentali. A ottobre, descrivendosi come una persona pigra in un’intervista con El País, Han disse che di solito scrive tre frasi al giorno.

Il suo libro più recente, La crisi della narrazione, uscito a febbraio, riprende e amplia alcune nozioni da lui trattate in libri precedenti. Parla del declino della narrazione come attività di condivisione e fonte di senso e coesione all’interno delle comunità, e del parallelo successo dello «storyselling», descritta come una pratica fine a sé stessa, basata su una trascrizione priva di profondità di ogni cosa che le persone hanno da offrire e da vendere attraverso le storie (intese come formato sui social).
Molti libri di Han, in particolare La società della trasparenza, si concentrano sulla spinta collettiva alla divulgazione volontaria indotta dalle forze del mercato neoliberista, che trasformano in norma culturale l’autopromozione e la «pornografica esibizione di sé stessi». Ogni saggio esplora aspetti diversi di questo stato di frenesia guidato dalla tecnologia del tardo capitalismo, e il disagio che tende a provocare: dal burnout da «sovrapproduzione» e «concorrenza a sé stessi», all’algofobia, un’avversione ossessiva per il dolore che nega anche ogni suo valore etico, artistico e metafisico.
Nel libro Psicopolitica Han attribuisce la stabilità del sistema neoliberale a una situazione paradossale in cui, in assenza di una lotta tra classi antagoniste in senso stretto, è la libertà – o meglio: una forma di libertà «illusoria» – a generare costrizioni. Sentendosi libero da obblighi esterni, l’individuo immagina sé stesso come un «progetto» e si sottomette a obblighi interiori che derivano dalla libertà di potere (Können) e producono più vincoli del dovere disciplinare (Sollen), fino a sfociare in una sistema di costrizioni illimitato.
Il neoliberalismo, come mutazione del capitalismo, fa del lavoratore un imprenditore. Non la rivoluzione comunista, bensì il neoliberalismo elimina la classe operaia che è sfruttata da altri. Oggi, ciascuno è un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa. Ognuno è padrone e servo in un’unica persona. Anche la lotta di classe si trasforma in una lotta interiore con se stessi.
Anche il declino della narrazione, secondo Han, è espressione di una profonda crisi della libertà. Nel libro La crisi della narrazione categorie e nozioni di filosofi e scrittori come Walter Benjamin, Jean-Paul Sartre e Marcel Proust sono applicate all’analisi delle dinamiche sociali favorite da piattaforme come Netflix, Snapchat e Instagram. «Postare, mettere like e condividere, proprio perché sono pratiche consumistiche, non fanno altro che intensificare la crisi dell’esperienza narrativa», scrive Han, proponendo una distinzione tra informazione e racconto.
L’informazione è effimera, accidentale, e procede per addizione e accumulo. Intensifica quindi l’esperienza della contingenza, che il racconto invece attenua nella misura in cui conferisce significato a ciò che è accidentale, rendendolo necessario. Il bisogno di senso e identità è peraltro, secondo Han, la ragione dell’attuale successo di modelli narrativi populisti, nazionalisti, tribali e complottistici, che si presentano come offerte di orientamento a buon mercato a fronte dello smarrimento provocato dall’informazione dilagante e ininterrotta.
Diversa dall’informazione è anche la notizia, che secondo Han ha sempre una «vibrazione narrativa» perché è portatrice di una storia e presenta una struttura spazio-temporale completamente diversa rispetto a un’informazione. Ha significato perché rimanda a qualcos’altro – viene «da lontano» – e trova nella lontananza il suo tratto distintivo, contrapposto al tratto invece tipico della modernità: «la perdita di qualunque intervallo di separazione», la condivisione e l’accumulo di informazioni «a portata di mano».
Intrecciandosi con il neoliberismo si afferma un regime dell’informazione, il quale non opera in modo repressivo ma seduttivo. Esso […] pretende da noi che comunichiamo senza sosta le nostre opinioni, i nostri bisogni e le nostre preferenze. Ci chiede di raccontare le nostre vite, di postare, condividere, mettere like. La libertà in questo caso non viene repressa ma interamente sfruttata. Si ribalta in controllo e manipolazione. Il dominio […] è altamente efficiente, dato che non ha bisogno di apparire come tale. Si nasconde nell’apparenza della libertà e della comunicazione.
La conversione costante del vissuto in informazioni e dati immediatamente accessibili, aggiunge Han, è incompatibile con la felicità perché «la felicità non è un evento puntuale», ma si estende nel passato e filtra attraverso la memoria umana, che è selettiva. «Chi vuole raccontare sé stesso o ricordarsi qualcosa, deve poter dimenticare o tralasciare molto», perché «nessun racconto è trasparente»: solo le informazioni e i dati lo sono.
Una delle principali ragioni della popolarità di Han è la facilità con cui, attraverso citazioni di importanti autori della tradizione filosofica occidentale ma anche continui riferimenti alla contemporaneità, consente di immedesimarsi nell’umanità che descrive. Han sembra parlare in particolare alle persone giovani dell’esperienza di crescere sui social media, ha scritto il New Yorker, e della mancanza di controllo che molte di loro provano nel rapporto che hanno con Internet. Nel mondo accademico le reazioni sono invece contrastanti: da un lato Han è molto apprezzato per la sua capacità analitica e di sintesi, dall’altro è criticato per alcuni suoi giudizi perentori, privi di sfumature e vagamente tecnofobici.

Nel libro Le non cose, per esempio, Han descrive la reperibilità costante come una «servitù» e lo smartphone come «un campo di lavoro mobile in cui noi c’imprigioniamo di nostra sponte», limitando la nostra esperienza del mondo e della realtà. Nell’intervista con El País disse che «il capitale usa la libertà individuale per riprodursi» e ciò rende le persone «gli organi sessuali del capitale». Ma per quanto suggestive e per molti aspetti appropriate alcune sue letture della contemporaneità tendono a rafforzare posizioni esistenti in discussioni molto polarizzate, e assecondano un certo desiderio generale di ridurre quella sulla tecnologia a una questione di tecnologia buona o cattiva.
La bidimensionalità delle sue analisi e la tendenza a occuparsi di un solo lato delle questioni sono peraltro la ragione per cui Han funziona molto proprio sui social, «all’interno della valanga di non cose», ha scritto il New Yorker. Quando descrive la pubblicazione sui social media come «autopromozione pornografica», per esempio, non aggiunge che gli spazi digitali possono anche produrre esperienze significative. E non coglie il paradosso dei social media di «promuovere forme di espressione sia di sfruttamento che di emancipazione», e di consentire «la costruzione e la proiezione di un’identità personale, con una libertà che non è mai stata possibile nella gerarchia top down dei media tradizionali».”

Gio Evan, uomo di parole

Da qualche anno ascolto i brani di Gio Evan, mi è anche capitato di utilizzarli in classe. Per questo mi sono ritrovato molto nelle parole di Cristina Moretti che ha scritto un articolo su Rocca.

“Lo scorso 12 marzo ho assistito per la prima volta ad un concerto di Gio Evan che si è esibito al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti di Spoleto con una tappa del suo tour Fragile/Inossidabile. Un’opera poliedrica, prodotta e organizzata da Baobab Music & Ethics, fatta di monologhi, poesie, canzoni e gag cui un pubblico diversificato ha applaudito coinvolto ed emozionato.
Non avevo mai partecipato ad un suo evento e ascoltato le sue parole ma poi ho capito perché piace tanto ai millennials (per la verità non solo a loro, tanti adulti – uomini e donne – erano lì a cantare ed applaudire).
All’anagrafe Giovanni Giancaspro, Gio Evan è un artista poliedrico che delle parole fa poesie, romanzi e canzoni. Dopo l’esordio letterario a 20 anni, nel 2012 avvia un progetto musicale, conquista poi la notorietà sui social, nel 2021 partecipa al Festival di Sanremo e continua a scrivere libri, poesie, gag con le quali fa sorridere il suo pubblico ai suoi concerti-spettacolo.
Il segreto di tanto successo credo sia la consapevolezza del potere che hanno le parole, la capacità di saperle scegliere ed utilizzare per esprimere le emozioni e i sentimenti dei tanti ragazzi e ragazze che lo seguono, che nelle sue opere trovano l’esatta espressione dei loro pensieri, uno specchio di quello che provano ma che da soli non sanno dire. E così, con estrema semplicità riesce a farle arrivare al cuore dei suoi fan, soprattutto millennials, che sanno le canzoni a memoria e cantano con lui, ridono delle sue battute e applaudono alle sue poesie, sincere, dirette, una freccia di cupido che li lascia innamorati.
A colpirmi particolarmente è stata la sua grande considerazione per le persone e le relazioni che tra esse si sviluppano, davvero sembra conoscere i tormenti dell’animo umano e delle potenzialità nascoste in ogni persona. Durante lo spettacolo ti prende e ti conduce in un viaggio emotivo durante il quale esplori e affondi le mani nella tua interiorità, scopri sentimenti nascosti e li porti alla luce perché possano parlarti e dirti qualcosa. Nel suo vasto repertorio ognuno predilige e si aggrappa ad una poesia, ad una frase, ad una strofa, la lascia risuonare dentro e d’improvviso si sente compreso, “visto”, “sentito” e, in definitiva, si sente meglio.
Quando ha parlato di sua nonna e di quelle che lei chiama persone medicina mi è venuto da sorridere perché anche a me è capitato di essere definita come una sorta di medicina, che placa l’animo e infonde serenità. E a quel punto è partito il mio viaggio emotivo e mi sono in parte ritrovata nel suo Persone medicina, brano in cui esprime in modo poetico l’idea che alcune persone hanno un effetto curativo su di noi, come se fossero una medicina per l’anima:

Nonna le chiamava “persone medicina”
Diceva che ci sono persone che quando le guardi guarisci
Che appena le senti calmano i battiti, aggiustano i polsi
Ti aprono le persiane del cuore
E fanno entrare la luce vera, quella del sole.

Queste “persone medicina” sono coloro che ci portano conforto, calmano le nostre ansie e ci aiutano a guarire. Sono le persone da frequentare, quelle che ci fanno sentire meglio e ci accompagnano nel nostro percorso. L’intero testo è un inno all’importanza delle relazioni umane e alla capacità di alcune persone di essere vere fonti di guarigione.
Gio Evan ha uno stile musicale che si distingue per la sua profondità emotiva e la sua fusione di elementi diversi. I testi sono molto introspettivi, ricchi di metafore e riflessioni sulla vita, l’amore, la fragilità e la forza interiore. Le sue canzoni spesso esplorano temi personali e universali. La musica che accompagna i suoi componimenti non si limita a un genere specifico. Evan mescola abilmente elementi del pop, dell’indie e della musica d’autore, passando per il folk e la musica elettronica. Questa varietà rende le sue canzoni fresche e capaci sempre di sorprendere. Non teme di sperimentare con arrangiamenti e suoni. Questa curiosità artistica si riflette nella sua musica, che può variare da ballate delicate a brani più ritmati.
Essendo anche un poeta, contamina di poesia la sua musica, le sue canzoni sono spesso come versi musicali, con immagini vivide e significati nascosti.
Spettacolo molto interessante e piacevole. Gio Evan è un artista che sfugge alle etichette e si muove liberamente tra i generi regalando al pubblico una varietà di esperienze non solo musicali ma anche interiori.
“Stai attenta a quello che mi dici, abbi cura delle parole, dosale bene, scegli quelle giuste, quelle che ti esplodono da dentro, quelle che senti fin giù alla pancia. Dimmi solo quelle che crede il tuo cuore.”(da Il libro).

Gemma n° 2521

“Oggi, come gemma, ho deciso di portare una persona molto speciale per me, mio fratello A. Per me significa molto; anche se non lo dimostro, gli voglio molto bene. Lui ha 5 anni in meno di me e quindi è difficile spiegargli molte cose, ma posso capirlo. Sono molto felice di averlo come fratello così non mi sentirò mai solo, e posso insegnargli a giocare a calcio” (W. classe prima).

Gemma n° 2520

“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare questo peluche che mi è stato donato da neonata. Si tratta di un piccolo panda regalatomi dai miei nonni pochi mesi dopo la mia nascita. Fin da subito me ne sono affezionata, era uno tra i tanti peluche che stava nel box con me però in lui ho sempre trovato qualcosa di più interessante e bello rispetto agli altri.
Forse perché ci giocavo spesso con mia nonna così da farlo diventare una parte molto importante nella vita di un neonato: infatti il nome ‘panda’ é stata la prima parola che ho pronunciato. Di preciso non so come io ci sia riuscita, non me lo ricordo ovviamente, ma secondo alcune fonti avevo sempre sotto il braccio quel piccolo panda e grazie all’aiuto di mia nonna, la quale costantemente mi ripeteva il nome di quell’oggettino, da un giorno all’altro quella parola è uscita dalla piccola boccuccia.
Si tratta di un oggetto molto importante per me non solo per il valore affettivo ma anche per il fatto che rappresenta la cura con cui i miei nonni mi hanno accolta nei miei primi mesi di vita. Sono molto grata per il dono di aver avuto dei nonni amorevoli, ho potuto sperimentare con loro la vicinanza, la tenerezza e la saggezza. Mi hanno insegnato cosa significhi essere benvenuta al mondo, fare parte di una storia familiare, una storia da custodire” (S. classe prima).

Gemma n° 2519

“Il pallone da pallavolo rappresenta lo sport che ho cominciato a praticare da settembre, il quale ha avuto una certa ricorrenza nel corso della mia vita. Con la pallavolo è sempre stato un tira e molla ma dall’inizio dell’anno scolastico ho preso la decisione di ricominciare e non smettere più una volta per tutte, combattendo così le sensazioni di inferiorità e di ansia al confronto con i miei coetanei. Ho fatto molti progressi sia psicologicamente che tecnicamente nello sport e continuerò senza più arrendermi” (A. classe quarta).

Gemma n° 2518

“Ho scelto di portare questo libro perché da piccola avevo paura della morte di mia madre, e allora mia mamma me l’ha comprato per tranquillizzarmi” (V. classe prima).

Gemma n° 2517

“Questa è la prima gemma che scrivo e ne sono orgoglioso perché vi parlerò del mio super nonno. A già un anno ho conosciuto il mio super nonno, il più forte che avevo. Quando avevo 6 anni, quando mia mamma non poteva venire a prendermi, c’era sempre lui disponibile. Dopo un po’ di anni vissuti con lui, nel 2020 ci ha lasciati in un giorno che nevicava. Appena tornato a casa dall’ultimo giorno della scuola media, dopo un po’ ho detto a mia mamma “ma il nonno?” e la mamma mi rispose “è morto” e io quel giorno mi sono detto che non lo avrei più dimenticato. Ancora oggi vado a salutare il mio super nonno e gli dico nei miei pensieri un forte grazie dal profondo del mio cuore e lo sento ancora parlare dall’alto dei cieli come se fosse vivo e vicino a me e alla nonna” (E. classe prima).

Gemma n° 2516

“Come mia prima gemma ho deciso di portare la mia cantante preferita, Mitski. Ho scelto di portare lei perché penso che le sue canzoni abbiano un significato molto profondo e in alcune di esse mi ci rivedo tantissimo. L’ho cominciata ad ascoltare qualche anno fa e tutt’ora la ascolto. Penso che sia una cantante bravissima e piena di talento, perciò mi piace” (M. classe prima).

Gemma n° 2515

“Sono sempre stata un’amante di Hello Kitty e anni fa mi è stata regalata questa sveglia.
Questo è ciò che utilizzo ogni mattina da quando vado in prima elementare e per me rappresenta il diavolo.
Tante volte da piccola ho provato a distruggerla ma ho sempre fallito. Mi ricordo di una volta in cui l’ho lanciata dalle scale e sono caduta io, invece che romperla.
La odio ma so che è l’unica cosa in grado di placare il mio sonno, nessun allarme è potente quanto il suo per me.
Il giorno in cui la romperò sarà pure il giorno in cui libererò il miei sogni da questo inferno.
Non ditemi di cambiare sveglia perché amo Hello Kitty e non lo farò” (M. classe prima).

Ve lo ricordate Boko Haram?

Sono passati 10 anni, proprio adesso. Sto scrivendo al pc e la campana del mio paese ha appena dato il rintocco dell’01:00. Le finestre sono aperte dopo questa calda e anomala giornata di aprile. Esattamente 10 anni fa, succedeva quello che racconta questo articolo de IlPost.“Nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014, dieci anni fa, alcuni miliziani del gruppo islamista e terrorista Boko Haram fecero irruzione in una scuola secondaria di Chibok, città a maggioranza cristiana nel nord-est della Nigeria, e rapirono 276 studentesse tra i 16 e i 18 anni. Alcune di loro riuscirono a scappare lanciandosi giù dai furgoni su cui erano state caricate, altre furono liberate negli anni successivi in varie operazioni dell’esercito nigeriano, in cambio di grossi riscatti. Di un centinaio di loro si sono perse le tracce.
Il rapimento delle studentesse di Chibok ebbe un’enorme risonanza anche fuori dalla Nigeria. Fu raccontato in documentari, libri e fu oggetto di molte manifestazioni. Nacque anche un movimento, chiamato Bringbackourgirls (“Ridateci le nostre ragazze”), che ancora oggi chiede di trovare e liberare le studentesse disperse.
Il rapimento di Chibok è diventato un po’ il simbolo di un problema che in Nigeria esiste ancora oggi: i rapimenti di massa continuano a essere frequenti, attuati con modalità simili a quelle di Chibok, sia da gruppi terroristici che da gruppi criminali comuni, e i vari governi non sono mai stati in grado di gestirli.
Il 14 aprile del 2014 i miliziani raggiunsero la scuola a bordo di furgoni. A Chibok, dove vivono circa 66mila persone, c’erano già stati attacchi di Boko Haram, e nelle ore precedenti al rapimento in città erano già circolate voci sull’arrivo del gruppo, per via di alcune telefonate di residenti di città vicine che avevano visto un convoglio di furgoni dirigersi verso Chibok.
Una volta raggiunta la scuola, i miliziani fecero irruzione al suo interno. Nonostante gli attacchi precedenti, la città non era dotata di un’adeguata sicurezza. Una quindicina di soldati lì presenti si scontrarono coi miliziani e cercarono di fermarli: gli scontri durarono circa un’ora, ma non arrivarono rinforzi. I miliziani di Boko Haram erano di più e più armati: uccisero alcuni soldati e iniziarono a rapire le studentesse, minacciandole di morte se non li avessero seguiti, e a caricarle sui furgoni. Poi diedero fuoco alla scuola.
Una volta terminato il rapimento, il convoglio di furgoni si diresse verso la foresta Sambisa, un’enorme area che si estende per oltre 500 chilometri quadrati e che è considerato da tempo un nascondiglio e luogo di addestramento dei miliziani di Boko Haram. L’operazione durò in tutto cinque ore. Le studentesse che riuscirono a lanciarsi giù dai furgoni e a scappare furono una cinquantina. Nei giorni successivi alcuni familiari delle altre si unirono e si addentrarono nella foresta, a bordo di moto e con armi artigianali, senza successo.
Il rapimento suscitò reazioni molto intense da parte dell’opinione pubblica nigeriana e non solo: il fatto che un gruppo di terroristi potesse agire quasi indisturbato, rapendo quasi 300 persone all’interno di una città, bruciando una scuola e scappando, divenne l’esempio della grave inadeguatezza delle istituzioni, e di come gruppi criminali e terroristici potessero sfruttarla per rafforzarsi. Nei mesi successivi, inoltre, organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International accusarono l’esercito nigeriano di essere stato a conoscenza del pericolo di quel rapimento e di non aver fatto nulla per evitarlo.
Le autorità locali promisero di impiegare tutte le risorse umane e materiali necessarie al ritrovamento e alla liberazione delle studentesse, ma ci vollero tre anni per ottenere le prime liberazioni. Con uno scambio di prigionieri organizzato dal governo nigeriano, a maggio del 2017 furono liberate 82 studentesse. Oltre allo scambio di prigionieri il governo nigeriano pagò un riscatto dell’equivalente di 3 milioni di euro: la cifra dell’importo fu rivelata con una lunga inchiesta del Wall Street Journal, di fatto il primo resoconto dettagliato di come si fosse arrivati alla liberazione di gran parte delle studentesse rapite.
Con la liberazione delle studentesse arrivarono anche i primi racconti sulla prigionia: alcune ragazze raccontarono di conversioni forzate all’Islam, di matrimoni forzati con miliziani di Boko Haram e del fatto che chi si rifiutò fu costretta a violenze e lavori forzati. Alcune studentesse morirono di parto, altre durante attacchi compiuti dall’esercito nigeriano contro Boko Haram.
Negli anni successivi furono liberate alcune altre studentesse, diventate ormai adulte, ma di molte altre non si ebbero più notizie. L’interesse dell’opinione pubblica andò scemando, e si diffusero anche teorie del complotto secondo cui il rapimento di Chibok non sarebbe in realtà mai avvenuto e sarebbe stato inventato per fini politici.
I rapimenti sono continuati anche negli anni successivi, sia da parte di gruppi terroristici che da parte di criminali comuni. Quelli compiuti nelle scuole sono stati i più frequenti: scuole e collegi si trovano molto spesso in luoghi isolati e fuori dai centri cittadini, in punti in cui la sicurezza è ancora più precaria o assente che in città. Rapire gruppi numerosi di studenti, bambini o adolescenti rende anche più facile l’ottenimento di un riscatto, per la pressione dei media nazionali e internazionali e dell’opinione pubblica nigeriana per la loro liberazione.
Secondo l’organizzazione Save the Children, dal 2014 a oggi sono stati rapiti circa 1.600 studenti e studentesse solo nel nord del paese, area in cui tendono a essere più attivi gruppi radicali islamisti come Boko Haram. Solo il mese scorso, in tre diverse operazioni, sono stati rapiti oltre 300 studenti.
I governi che si sono succeduti finora in Nigeria non solo non sono stati in grado di gestire questi problemi, ma a volte ne hanno a loro volta approfittato per arricchirsi. In passato i flussi di denaro per i riscatti sono stati anche un’occasione di guadagno per funzionari pubblici di medio livello, che nei casi in cui il governo gestiva i negoziati con i rapitori hanno iniziato a trattenere parte della somma destinata a liberare gli ostaggi.
Nel corso degli anni sono stati avviati vari progetti, come il Safe Schools Initiative, promosso dalle Nazioni Unite per rafforzare la sicurezza attorno alle scuole, e la cui realizzazione è stata ostacolata da vari problemi, tra cui la corruzione dei politici locali e la stessa instabilità politica del paese. I rapimenti di massa sono però diminuiti dal 2022, quando il governo ha approvato una legge che rende illegale pagare i riscatti e ha reso i rapimenti punibili con la pena di morte nel caso in cui le persone rapite muoiano.”

Gemma n° 2514

“Ho portato questa maschera sia per presentarla come gemma sia per utilizzarla dopo, visto che è parte del costume che indosso nello spettacolo di fine anno e questo pomeriggio ho una presentazione di questo spettacolo. Rappresenta il corso di teatro, che sebbene sia “solo un PCTO” ha avuto un grande impatto su di me come persona e ha provocato un’importante crescita in me” (F. classe quarta).

Tra intelligenza e giustizia artificiale

Margherita Ramajoli sulla rivista Il Mulino scrive un pezzo sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e mondo della giustizia dal titolo Siamo pronti per una giustizia artificiale? E’ del 25 marzo.

“Disciplinare una tecnologia inafferrabile e in costante evoluzione come l’intelligenza artificiale non è un’impresa facile. Ciò spiega perché il Regolamento sull’intelligenza artificiale (AI Act), approvato la scorsa settimana dal Parlamento europeo – manca solo il passaggio formale da parte del Consiglio –, ha avuto una gestazione lunga oltre tre anni ed entrerà in vigore gradualmente, tra la fine del 2024 e il 2026. La normativa, inevitabilmente complessa, segue un approccio fondato sul rischio e regola l’intelligenza artificiale sulla base della sua attitudine a causare danni alla società, modulando gli obblighi introdotti in base al diverso grado di pericolo di lesione per i diritti fondamentali: più alto è il rischio paventato, maggiori sono gli oneri e le responsabilità dei fornitori, distributori e operatori dei sistemi di IA.
Il Regolamento è conscio del fatto che l’applicazione dei sistemi di IA nello specifico campo della giustizia produce benefici, ma altrettanti problemi. L’AI Act parla di risultati vantaggiosi sul piano sociale che la giustizia digitale porta con sé. Più nello specifico, l’uso dell’IA nel campo della giustizia consente il raggiungimento degli obiettivi propri della giustizia standardizzata: l’efficienza, perché l’IA può essere impiegata in massa a scale e velocità di gran lunga superiori a quelle raggiungibili da qualsiasi essere umano o collegio di esseri umani nelle attività di archiviazione, indagine e analisi delle informazioni giudiziarie; l’uniformità, perché per definizione l’IA elimina spazi di creatività e fornisce risposte prevedibili.
Tuttavia, l’affidarsi a sistemi di IA nel processo decisionale presenta anche punti di debolezza e pone due problemi: il problema della scatola nera e il problema del pregiudizio dell’automazione. Si parla di scatola nera perché esiste una tensione intrinseca tra il dovere del giudice di motivare le proprie decisioni e la limitata «spiegabilità» di alcuni sistemi di IA. Il procedimento trasformativo degli input in output può risultare opaco al punto tale che gli esseri umani, compresi pure quelli che hanno ideato e progettato il sistema, non sono in grado di capire quali variabili abbiano esattamente condizionato e determinato il risultato finale. Questa opacità limita, se addirittura non impedisce, la capacità del giudice che si serve del sistema di IA di giustificare le decisioni assunte sulla scorta del sistema.
Il pregiudizio dell’automazione allude invece al fenomeno generale per cui gli esseri umani sono propensi ad attribuire una certa autorità intrinseca ai risultati suggeriti dai sistemi di IA e nella nostra quotidianità abbondano esempi di questo sottile condizionamento. Di conseguenza, l’applicazione dei sistemi IA nel campo della giustizia può soffocare l’aggiornamento valoriale, visto che i sistemi di IA imparano dal passato e tendono a riprodurre il passato. Se nel futuro un giudice facesse affidamento, sia pure inconsciamente, solo sui sistemi di IA, il cosiddetto effet moutonnier [una naturale tendenza a conformarsi alla maggioranza, ndr] spingerebbe i giudici verso un non desiderabile conformismo giudiziario, sordo alle trasformazioni sociali ed economiche.
Se queste sono le questioni poste dalla giustizia artificiale, le soluzioni offerte dal diritto risultano significative, anche se non sempre facili da applicare. I sistemi di IA destinati all’amministrazione della giustizia, tranne quelli impiegati per attività puramente strumentali (l’anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, le comunicazioni tra il personale e così via), sono reputati ad alto rischio e come tali sono sottoposti a rilevanti limiti e obblighi. Secondo il Regolamento «il processo decisionale finale deve rimanere un’attività a guida umana» e quindi l’IA può fornire sostegno ma mai sostituire il giudice. Questa riserva d’umanità, ora solennemente proclamata dal legislatore europeo, sottende la consapevolezza che l’attività giudiziaria ha una sua unicità, non è formalizzabile a priori e non è riproducibile artificiosamente. Per giudicare non sono sufficienti solo conoscenze giuridiche, perché il ragionamento giudiziario richiede una varietà di tecniche cognitive, l’apprezzamento dei fatti complessi e sempre diversi, l’impiego dell’induzione e dell’analogia, l’impegno nell’argomentazione, l’uso di ragionevolezza e proporzionalità.
Tuttavia, nel passaggio dal piano astratto proclamatorio al concreto piano applicativo riemergono alcune questioni irrisolte. Anzitutto, non è immediato individuare né quale soggetto istituzionale sia legittimato a controllare il rispetto della riserva d’umano nelle decisioni giudiziarie, né quali strumenti efficaci possano essere impiegati a tal fine. In secondo luogo, non può dirsi superato il rischio del pregiudizio dell’automazione, perché l’effetto gregge potrebbe spingere il giudice ad aderire al risultato algoritmico e a non assumersi la responsabilità di discostarsene anche quando tale risultato non risulti cucito su misura sulle specificità della lite in esame. Ancora, per quanto l’AI Act abbia introdotto specifici obblighi per i fornitori di IA e in particolare l’obbligo di procurare ai giudici e alle autorità di vigilanza le «istruzioni per l’uso», comprensive delle specifiche «per i dati di input o qualsiasi altra informazione pertinente in termini di set di dati di addestramento, convalida e prova», queste fondamentali informazioni vanno condivise solo «ove opportuno». In altri termini, il Regolamento rende non necessaria, ma discrezionale la resa di informazioni proprio di quei dati di input che determinano in modo significativo gli output con cui i giudici dovranno fare i conti. Torna così anche il problema della scatola nera, quella tensione intrinseca tra il dovere del giudice di motivare le proprie decisioni e la limitata comprensibilità e, di conseguenza, spiegabilità di alcuni sistemi di IA.
In ultima analisi, i detentori della tecnologia – sviluppatori di sistemi di IA – si ergono a veri e propri poteri privati, rispetto ai quali l’ordinamento giuridico, ma ancora prima la politica, devono ancora ingegnarsi a trovare efficaci contrappesi.
Anche se non possiamo realisticamente ritornare a un mondo senza intelligenza artificiale, sia in generale, sia in campo giudiziario, le questioni da affrontare sono ancora tante e il diritto è solo uno dei tanti strumenti per cercare di risolverle.”

Gemma n° 2513

“Come prima gemma ho voluto portare una delle persone più importanti che ho al mio fianco: mia sorella. Lei è una delle persone che riesce a capire subito se qualcosa non va e anche se con lei non riesco a parlare tanto dei miei problemi, sa quando sto male e viceversa. Anche se non ce lo dimostriamo, ci vogliamo un bene infinito e, nonostante i litigi, sarà sempre un posto sicuro in famiglia dove so di poter andare per stare bene. C’è stato un periodo in cui proprio ci odiavamo e neanche ci calcolavamo, ma abbiamo entrambe capito di quanto io sia importante per lei e lei per me. Lei è stata sempre la prima persona a cui dico le cose, e non mi ha mai fatta stare male su quello che pensavo. Siamo sempre state molto unite, sin dal giorno in cui sono nata: lei aveva 4 anni e le prime cose che aveva detto ai miei genitori quando ero nata erano “trattate bene la V.”. Abbiamo tanti ricordi insieme e tutti mi fanno capire quanto le voglia bene” (V. classe prima).

Che fai tu, luna, in ciel!

Riccardo Maccioni ha pubblicato su Avvenire un articolo sul ruolo della luna nel calendario di alcune religioni.

“Più che cantarla allo stesso modo di poeti o romanzieri, la fede la utilizza spesso come misura del tempo. Nelle religioni monoteiste la luna ha una grande rilevanza. Innanzitutto, in collegamento con il procedere quotidiano dell’esistenza umana. Un dato evidente soprattutto in queste ore in cui i musulmani festeggiano la fine del Ramadan, il nono mese del calendario islamico, tempo dedicato alla preghiera, alla meditazione e al digiuno dall’alba al tramonto. Il suo inizio cambia ogni anno poiché corrisponde al giorno successivo all’avvistamento della nuova luna crescente, una piccola falce peraltro non facile da individuare tanto che spesso ci si rifugia in complicati calcoli astronomici.
Tutto sommato più semplice stabilire il giorno della Pasqua cristiana, che è una solennità mobile, nel senso che cade sempre di domenica ma in giorni differenti perché, come stabilito dal Concilio di Nicea nel 325, va celebrata la domenica successiva alla prima luna piena di primavera. Qui a complicare la situazione arrivano i calendari, così nel 2024 chi segue quello gregoriano, cioè cattolici ed evangelici, hanno festeggiato il 31 marzo mentre le Chiese ortodosse, in ossequio al calendario giuliano, dovranno attendere il 5 maggio. Andrà meglio nel 2025 quando, per altri giochi di calendario, tutti i cristiani festeggeranno insieme il 20 aprile. E chissà che non sia l’occasione per avviare un dialogo che permetta all’eccezione di diventare regola.
Ma naturalmente anche la Pasqua ebraica, Pesach, è legata alla luna. Come noto ricorda la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto e l’esodo verso la terra promessa. Quanto alla data, si celebra il quattordicesimo giorno del mese di nissàn, in corrispondenza della luna piena. A partire da un calendario i cui mesi durano quanto un ciclo lunare.
Tuttavia questo magico satellite naturale della terra, interroga le religioni anche a prescindere dai calendari. Nella Sacra Scrittura compare 54 volte. È creatura di Dio nei Salmi 8 e 74 mentre nel 104 insieme al sole segna le ore e le stagioni: «Hai fatto la luna per segnare i tempi e il sole che sa l’ora del tramonto» (Sal 104, 19). Nella Bibbia se ne parla la prima volta In Genesi al capitolo 37 a proposito del sogno raccontato da Giuseppe, figlio di Giacobbe. «Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: “Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”. Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io, tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?”. I suoi fratelli erano invidiosi di lui, ma suo padre serbava dentro di sé queste parole». Celeberrima inoltre la visione raccontata nell’Apocalisse: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Ap 12,1-2). Quasi inutile dire che nella tradizione cattolica questa donna è Maria stessa. «Ella appare “vestita di sole”, cioè vestita di Dio – spiegò Benedetto XVI l’8 dicembre 2011, solennità dell’Immacolata Concezione -: la Vergine Maria infatti è tutta circondata dalla luce di Dio e vive in Dio. Questo simbolo della veste luminosa chiaramente esprime una condizione che riguarda tutto l’essere di Maria: Lei è la “piena di grazia”, ricolma dell’amore di Dio». La Vergine tiene sotto i suoi piedi la luna – proseguì papa Ratzinger – che è «simbolo della morte e della mortalità. Maria, infatti, è pienamente associata alla vittoria di Gesù Cristo, suo Figlio, sul peccato e sulla morte; è libera da qualsiasi ombra di morte e totalmente ricolma di vita». E alla fine, a dispetto del sogno ininterrotto della letteratura romantica, sempre secondo l’ultimo libro della Bibbia la luna scomparirà. Succederà nella Gerusalemme celeste perché «la città non ha bisogno di sole, né di luna che la illuminino, perché la gloria di Dio la illumina, e l’Agnello è la sua lampada» (Ap 21, 23).”

Maometto o Muhammad?

Un interessante articolo de Il Post sulla possibilità e opportunità di utilizzare il nome Muhammad al posto di Maometto.

Muhammad, Messaggero di Dio. Iscrizione presente sulla porta della Moschea del Profeta a Medina (fonte)

“In italiano il fondatore dell’Islam viene chiamato normalmente “Maometto” e non, con una traslitterazione dall’arabo, “Muhammad”. Per molte persone musulmane, però, questa scelta dipende da una visione denigratoria e offensiva del profeta dell’Islam: e sembrano suggerirlo anche le ricostruzioni filologiche di come, nel corso dei secoli, si sia arrivati alla versione italiana “Maometto”. Da un lato dunque c’è una lunga tradizione italiana che utilizza la forma “Maometto”, compresa da tutti e divenuta anche la voce di riferimento nei dizionari, senza che questa abbia più un valore negativo per le persone che la usano. Dall’altro c’è una forma più fedele alla lingua araba, che alcuni musulmani rivendicano rifiutando una traslitterazione che ritengono riflettere, storicamente, pregiudizi negativi nei confronti della loro religione.

Della questione si è parlato negli anni anche in Spagna e in Francia, paesi con numerose e attive comunità musulmane, dove all’italiano “Maometto” corrispondono rispettivamente “Mahoma” e “Mahomet”. Sul quotidiano Le Monde Fatima Bent, dell’associazione femminista e antirazzista Lallab, aveva denunciato un «paternalismo e una mancanza di rispetto» verso la figura sacra dell’Islam e aveva spiegato che “Mahomet” «è una forma di offesa: perché voler decidere per noi il nome del nostro profeta?».

Muhammad è considerato il fondatore della religione islamica e, per i credenti musulmani, la persona che ha concluso il ciclo della rivelazione iniziata da Adamo: è il messaggero di Allah e colui che ha rivelato il Corano, ma l’ortodossia islamica insiste sul carattere esclusivamente umano della sua persona. Secondo le fonti principali sulla sua vita, Muhammad nacque a La Mecca intorno al 570, rimase orfano quando era bambino, crebbe in condizioni modeste fino al matrimonio con una ricca vedova. A quarant’anni (intorno al 610 circa) iniziò a predicare un nuovo messaggio monoteistico che gli era stata rivelato, basato sull’esistenza di un unico Dio creatore onnipotente, sulla conduzione di una vita casta, sull’osservanza di alcuni precetti, sull’aiuto verso il prossimo soprattutto se indigente, sul giudizio universale e sulla retribuzione in bene e in male delle azioni umane.

Grazie alla sua predicazione Muhammad riuscì a formare a La Mecca una piccola comunità di fedeli che via via crebbe e si espanse. Il profeta, che dai musulmani è considerato un esempio da seguire, morì nel 632 a Medina dopo una breve malattia lasciando la sua comunità senza capo designato, ma con una cerchia dei suoi più validi seguaci che si impegnarono a continuarne l’opera.

L’esperto francese di Islam Olivier Hanne ha spiegato che il cronista persiano del X secolo al-Tabari dice che «i nomi con cui il profeta aveva l’abitudine di riferirsi a se stesso erano “Muhammad”, “Ahmad” e “Al-Aqib”». “Muhammad” designa l’uomo “degno di lode”; “Ahmad” ha un significato molto vicino al precedente e si ritrova nel Corano, sura 61, versetto 6. “Al-Aqib” vuole invece dire “l’ultimo” con riferimento, appunto, all’ultimo dei profeti. Di questi tre nomi propri, solo il primo, cioè Muhammad, è sopravvissuto nel tempo per designare il fondatore dell’Islam. Presente nelle moschee, nelle preghiere, negli ornamenti domestici e trasmesso tra credenti, il nome “Muhammad” è il più sacro per le persone musulmane.

Marco Lauri, docente a contratto di Letteratura araba, Filologia araba e Islamistica presso l’Università di Macerata e altre università, spiega che in arabo «esiste una forma standard con una pronuncia canonica che è “Muhammad”», ma aggiunge anche che «non abbiamo dei documenti che ci dicano con assoluta certezza che questa forma fosse usata nella sua pronuncia standard dal profeta e dalla sua cerchia alla Mecca al suo tempo». Anche nei paesi di lingua araba e nel mondo islamico, dunque, e fin dai tempi antichi, esiste una certa variabilità del nome del profeta che viene sistematicamente e ordinariamente adattato: «Nelle lingue dell’Africa occidentale “Muhammad” diventa “Mammadu”, ad esempio», ma altrove diventa “Mohammad”, “Mohammed” o “Mahmoud”, traslitterazioni che attestano la molteplicità dei dialetti parlati nel mondo musulmano e le variazioni delle pronunce.

Claudio Lo Jacono, autorevole storico, islamista e arabista italiano, sostiene che sia normale che in altre lingue ci siano forme adattate del nome del profeta dell’Islam, proprio poiché tale variabilità si ritrova nelle stesse lingue dei popoli musulmani. Per lo stesso motivo, anche le forme distorte delle lingue neolatine avrebbero una loro validità.

Secondo Miloud Gharrafi, professore di lingua araba all’Università di Lione, la distorsione in contesti cristiani del nome del profeta risale al Medioevo e più precisamente alle prime traduzioni latine del Corano, dove “Muhammad” è stato trascritto “Mahumet”. Questa forma è attestata ad esempio nella prima traduzione del Corano in latino, commissionata dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile all’inizio del 1100 e intitolata “Lex Mahumet pseudoprophete”, cioè “Legge di Maometto il falso profeta”. Il testo rimase, per diversi secoli, una delle principali fonti di informazione sull’Islam disponibile in Occidente.

Lauri spiega che il nome di “Muhammad” si ritrova in greco e in latino già in una varietà di forme: Mahmed, Moammed, Moammet, Machometus, Macometus, Makometus: «Una variabilità di rese che ovviamente tengono conto delle pronunce regionali e di come chi ha scritto ha percepito quella sequenza fonetica». Questa variabilità di forme latine ha poi influito sulle attestazioni in lingua volgare del nome del profeta che «iniziano nel XIII secolo e che si ritrovano in modo più abbondante in epoca rinascimentale».

Lauri dice anche che la versione “Malcometto” è presente anche in una delle versioni del Milione, il resoconto dei viaggi in Asia di Marco Polo fatti tra il 1271 e il 1295 e che Rustichello da Pisa trascrisse sotto dettatura di Marco Polo stesso mentre i due si trovavano nelle carceri di San Giorgio a Genova. “Malcometto” è un nome considerato spregiativo perché facilmente interpretabile come “mal commetto”, cioè «commetto il male». La forma “Malcometto” o varianti simili si trovano in molti altri testi «e in molti di questi testi», dice Lauri, «l’accezione dispregiativa è assolutamente evidente».

Per Lauri, dunque, anche se nell’adattamento di un nome di per sé non c’è nulla di strano o scorretto, la tesi che l’evoluzione del nome in “Maometto” risenta di una potenziale connotazione dispregiativa sembra fondata: «Intanto perché l’adattamento-storpiatura in italiano produce un’assonanza con il suffisso diminutivo, e quindi indirettamente dispregiativo».

E poi perché anche se Maometto è stato utilizzato per secoli, e non sempre con accezione dispregiativa, «quel nome nasce da una tradizione, quella cristiana medievale, che generalmente vede l’Islam come un inganno, un’eresia, una religione falsa o addirittura come una forma di idolatria, che dunque considera negativamente il profeta, come già scriveva Dante che aveva collocato “Maometto” nell’inferno in quanto “seminatore di scandalo e scisma”». In altri testi medievali il profeta dell’Islam viene presentato come un impostore e come un ingannatore e, conclude Lauri, «c’è infine la derivazione dal nome di “Maometto” di quello di una figura effettivamente demoniaca: Bafometto della tradizione medievale e rinascimentale».

Il nome “Maometto” ha insomma un’evoluzione fonetica che in parte riflette queste accezioni, «anche quando viene usato da autori che invece non avevano questa intenzione esplicita». Per Lauri, dunque, «nel momento in cui oggi, in un contesto storico diverso, si propone di usare una forma più vicina a quella araba standard, questa stessa richiesta sembra essere ragionevole».”

Gemma n° 2512

“Alla mia G.
come Meredith e Cristina siamo legate da un’intesa profonda, forgiata attraverso i momenti brutti e i trionfi che abbiamo condiviso. Ricordo le notti senza sonno, quando il peso del mondo sembrava troppo da sopportare, ma tu eri lì, con la tua presenza rassicurante, come un porto sicuro in mezzo alla tempesta.

Come Rachel e Monica, abbiamo riso insieme, pianto insieme e attraversato ogni altalena emotiva che la vita ci ha lanciato addosso. I nostri momenti di gioia sono incisi nella mia memoria come pagine di un libro, scritte con amore e complicità.

E proprio come Blair e Serena, abbiamo attraversato periodi di distanza e di riavvicinamento, ma alla fine siamo sempre tornate l’una verso l’altra, più forti e più unite di prima. Abbiamo condiviso segreti, sogni e aspirazioni, creando un legame che nessun’altra potrà mai comprendere completamente.


Le risate che quasi ci facevano soffocare e i pianti fatti mentre ci stringevamo in un abbraccio.
Ogni momento trascorso insieme è un tesoro prezioso che tengo nel mio cuore, un riflesso della bellezza e della forza della nostra amicizia, che possiamo continuare a coltivare insieme, mano nella mano, affrontando tutto ciò che il destino ha in serbo per noi, sapendo che una accanto all’altra, non c’è niente che non si possa superare.
Non sono una persona che riesce facilmente a dimostrare affetto e magari non lo dico spesso come dovrei ma grazie per essere la mia migliore amica, la mia persona e la mia compagna di avventure in questo viaggio chiamato vita” (S. classe quarta).

Gemma n° 2511

“Amore, amore, amore, amore, amore A M O R E, ma in fin dei conti cos’è l’amore?
L’amore sono le farfalle nello stomaco? La montagna russa di emozioni quando vedi la persona che ti piace? La gioia di incrociare quel determinato sguardo?
Io non so definire l’amore, l’amore è tutto e niente. Una cosa così bella, così primordiale, così perfettamente imperfetta non si può definire secondo me.
L’amore credo sia la cosa più pura che l’essere umano possa provare sulla sua pelle.
Amare qualcuno. Dedicargli il proprio tempo, le proprie attenzioni, scoprire le nostre insicurezze, lasciarsi guardare dentro.
Non tutti sono in grado di amare, perché non tutti hanno la forza di farsi guardare dentro.
Per amare ci vuole coraggio, e prima di amare qualcun altro dobbiamo amare noi stessi. Dobbiamo tentare di amare tutto di noi, anche i demoni nascosti, solo la nostra facciata di finta perfezione. Nel mondo c’è talmente tanta apparenza che anche la realtà sembra quasi distorta, ma noi dobbiamo essere bravi ad amare quella realtà ingenua.
Amarsi.
Nel periodo adolescenziale tra l’altro, io credo che sia così difficile amare se stessi, c’è chi non ci riesce nemmeno dopo una vita.
Il 2023 è stato un anno movimentato, fino a giugno per me andava abbastanza bene, ero innamorata persa di un ragazzo che ha saputo amare me per come realmente sono.
Mi ha amata con tutte le mie paranoie, le mie insicurezze, le mie ansie, i miei problemi, mi amava e basta come io amavo lui.
Amavo i suoi occhi, il sorriso, le braccia che mi facevano sentire a casa, al sicuro, protetta.
Amavo il suo carattere, molto affine al mio, amavo il modo in cui pronunciava il mio nome, amavo lo sguardo pieno di amore e denso di una tale dolcezza.
Non ho mai amato nessuno così. Non so se amerò ancora così, il che mi spaventa, perché so di aver amato con l’anima.
Purtroppo la relazione finì. Lui mi ha insegnato che oltre ad amare incondizionatamente gli altri devo amare altrettanto me stessa. Che amarsi è giusto e bisogna farlo.
Nonostante tutto il dolore che lui mi ha fatto provare alla fine della relazione, e per tutti i mesi successivi, mi ha veramente dimostrato che l’amore esiste.
Ci sono persone che ti sanno guardare nell’anima così a fondo che potrebbero navigarci dentro, e lui sapeva farlo, sapeva capirmi, gli bastava uno sguardo e io scioglievo tutte le mie difese.
Lui è stato il mio primo amore, forse il mio grande amore, non lo so; so solo che ci siamo amati.
Nella mia anima porterò sempre il ricordo di quei mesi insieme, le prime esperienze, custodirò tutto gelosamente nella memoria e nel cuore.
L’amore però non è solo questo, tutti nella loro vita hanno incontrato o incontreranno l’amore.
L’amore per me è mia zia che anche in fin di vita, mi ha sempre dato un motivo per sorridere, mi ha sempre dato forza.
L’amore è la voglia di vivere che lei aveva, tutte le lezioni che mi ha insegnato e tutti i bellissimi ricordi che ho con lei. Mia zia era una persona meravigliosa, che purtroppo se n’è andata a causa di una brutta malattia.
Io la ricordo con il sorriso, ricordo la sua risata così tanto contagiosa, ricordo le sue frasi che mi scaldavano il cuore.
Mi ricordo la sua grande sensibilità, la grande emotività che aveva, la gioia che sapeva portare in ogni singola stanza appena entrava.
L’amore è mia zia che durante una camminata mi dice di cercare di essere sempre felice nella mia vita, ed è un insegnamento che spero tutti quanti possano ricevere.
La vita bisogna godersela perché non si sa mai quando può finire, bisogna viverla a pieno sempre e comunque.
La vita non è brutta, ci sono momenti più difficili, ma bisogna saper trovare il bello in tutto.
Questo mi ha insegnato lei, vivere, anzi vivere di amore.
Mi ha insegnato che l’amore è così tanto forte che va oltre a tutto quanto, e che l’amore si può ritrovare ovunque in qualunque momento, e che amore è anche amicizia.
L’amicizia per me è una forma di amore.
Quando si è amici si è complici, con uno sguardo ci si capisce, in una amicizia si può trovare un’anima così tanto affine a noi che possiamo definirla gemella.
Nella mia vita ho avuto la fortuna di trovare dei veri amici, e li ringrazio ogni giorno di più.
Personalmente ho difficoltà a fidarmi, a mostrare la mia anima, ma quando incontro un vero amico, so che posso farlo e che lui/lei può farlo con me.
Tra i banchi di scuola ho incontrato delle persone che per me sono speciali.
E. é una delle persone a cui tengo di più, abbiamo un’amicizia particolare, ma bellissima.
In prima mi ricordo che non mi stava così simpatica, poi con il passare del tempo ho capito quanto lei fosse speciale.
Entrambe abbiamo il nostro caratterino, ma se lei non ci fosse le mie giornate sarebbero più grigie.
Parlando con lei, mi ha detto che nell’amicizia c’è amore: è lei che ne dà molto, si prende cura di me quando ne ho bisogno, mi asciuga le lacrime quando piango, e la stessa cosa faccio io per lei, difatti sono grata di avere lei come amica.
La mia gemma dunque è questa, sono le persone che porto nel cuore, che io amo, i veri amici o gli amori, persone che comunque mi hanno cambiata e anche influenzata nel corso del tempo.”
(G. classe quarta).

Gemma n° 2510

“Questa è l’ultima gemma e questo mi dispiace molto in quanto pensare che l’anno prossimo non avrò più un momento così bello, intimo e profondo mi rattrista parecchio e quindi voglio subito lasciare un messaggio a chi leggerà questa gemma: godetevi ogni anno questo momento e portate veramente qualcosa di significativo per voi perché è veramente un bel momento, non sprecatelo.
Questa gemma è iniziata molto tempo fa, l’ho iniziata a scrivere a luglio del 2023, prima del concerto di Blanco del 20 luglio, poi l’ho lasciata in sospeso per un po’, l’ho ripresa a scrivere verso fine agosto e poi l’ho conclusa pochi giorni prima di presentarla in classe.
I temi erano vari e non sapevo di cosa parlare, se della mia famiglia, se dell’amore e dell’amicizia, se del valore della vita o dei problemi di essa… alla fine ho deciso di parlare un po’ di me stesso con l’intento di lasciarvi un messaggio e ho deciso di portare 2 canzoni, con la speranza attraverso questa gemma di lasciare un messaggio almeno a qualcuno e di far riflettere.
La prima si intitola Mezz’ora di sole di Blanco e riporterò qua di seguito una parte del testo, non tutto, che poi commenterò.

“Mi sento rinato
Sono figlio del tempo
Sono in quel parco, nel 2018
Sporco di fango, mi volevo ammazzare”
Mi sento rinato nel senso che in questo percorso delle superiori mi sento cresciuto e maturato e mi reputo una persona migliore, soprattutto rispetto al 2018 che Blanco cita, anno in cui i miei genitori si sono lasciati ed è stato un periodo veramente brutto per me, in cui ho pensato veramente di volermi ammazzare in quanto ero piccolo e pensavo di essere io il problema. Alla fine però questa separazione è servita in quanto ora sia i miei genitori che io stiamo bene. Inoltre Blanco si definisce figlio del tempo, e in un certo senso anche io. C’è un aspetto positivo ossia il fatto che mi lascio trasportare dal tempo e mi vivo la vita così come va (Blanco in una sua canzone dice “Vada come vada, la vita è un’autostrada”), invece l’aspetto negativo è che il tempo scorre e non me ne rendo conto. Questo lasciar trascorrere ti porta sempre a non preoccuparti, a dire che c’è tempo, che sono giovane e ho una vita davanti (grande cazzata). La vita è molto breve e non si può sempre rimandare e lasciarsi trasportare.
“E ti porto con me
Dove il cielo si fa buio
Dove BLANCO è poi cresciuto
Dove tutto è maledetto, eh, eh
E ti porto con me
Perché ho paura da solo
Perché violenti il mio sfogo
Però ne ho troppo bisogno, oh”
Questo pezzo di canzone è dedicato alla gemma, nel senso che attraverso essa vi porto con me, nella mia parte più intima e personale “dove il cielo si fa buio e dove sono cresciuto” e inoltre la gemma “violenta il mio sfogo” anche se poi mi rendo conto che forse esporre questi problemi non serve a nulla se non a sfogarmi, serve appunto a liberarmi per quella “mezz’ora” in classe però poi una volta finito tutto devo fare i conti con me stesso e rendermi conto che questi problemi ci sono ancora.
“Dammi mezz’ora di sole
A peso morto nel mare, tra le, tra le onde
Mezz’ora di sole, chiuso in questa prigione
Da-dammi libertà, ah”
Questa canzone è una richiesta di libertà, che io al momento, nonostante sia maggiorenne e dunque certe scelte possa compierle da solo, non mi sento di avere; non mi sento libero da me stesso e dalle scelte che faccio e dunque mi sento chiuso come in una prigione.
“Ho toccato il fondale
Senza mai respirare
Strillando in labiale mentre andavo giù
Fanculo a questo dolore
La gente non lo capisce”
Questo ultimo pezzo della canzone invece è sempre collegato all’episodio che ho raccontato all’inizio, ed è vero che la gente non capisce ancora il dolore che ho provato e quanto io “abbia toccato il fondale” più volte nel corso della mia vita, ma questo è anche dovuto al fatto che sono una persona molto riservata, che non condivide molto della sua vita e mi faccio conoscere veramente solo da poche persone.
Infine trovo il video della canzone molto simbolico in quanto vedo il faro del video come una prigione, da dove lui è scappato per avere solo mezz’ora di sole, per sentirsi un momento libero, però poi ci rendiamo conto che non si può scappare dai nostri problemi e bisogna affrontarli e risolverli e dunque verso la fine del video torna verso la prigione per probabilmente chiudere i conti con se stesso e con il passato.

Poi ho deciso di portare una seconda canzone che si intitola Essere me ed è di Villabanks e Tananai.

Prima di analizzare parte del testo (non tutto)  ci tenevo solo a dire che per me questa canzone è qualcosa di veramente speciale e profondo, con un testo molto bello e maturo che fa riflettere e piangere.
“Perché stare qua mi chiedevo a cosa serve
Sicuramente a un cazzo se scordo le cose belle”
Spesso tendiamo a trascurare i momenti belli della vita, soprattutto quando abbiamo dei momenti no, ma è proprio in quei momenti che dobbiamo avere la forza, in mezzo a tutto quel nero, di tirare fuori le cose belle che ci circondano per uscirne fuori e stare meglio. Credo che i momenti no ci servano a crescere e a maturare come persone, però non si può sempre stare male e come dice Villa, non serve a nulla chiedersi a cosa serve la vita se ci dimentichiamo il vero valore di essa e le cose belle.
“Ho dato un senso alla mia vita, miro a qualcosa d’eterno
Me ne fotto d’avere un Range Rover
E spero mi capisca almeno la mia generazione
Credo lo vogliano anche loro un mondo migliore
E se lo creano con ogni singola azione
Molti sono persi
È facile farsi tentare dal male”
Questa parte di testo forse è un po’ scollegata dal resto della canzone e dal suo significato principale e anche dal tema un po’ variegato che io vorrei portare con questa gemma, però come ho detto all’inizio, mi sento di dover dare un messaggio alla mia generazione e vorrei dirvi di costruirvi da soli il vostro futuro, con le vostre mani, anche se cadrete e vi farete male, alzatevi e andate avanti mirando a qualcosa che possa durare in eterno, lo so che è difficile. Createvi il vostro mondo con ogni singola azione e non fatevi tentare da ciò che vi potrebbe allontanare dal vostro obiettivo principale. Infine mirate a qualcosa di veramente significativo e non a un semplice “Range Rover” che è qualcosa di effimero, che non vi serve, ed è solo uno strumento per apparire e per farvi vedere, ma così farete vedere quello che non siete veramente, farete vedere la vostra maschera e non il vostro “io interiore”.
“Quando ero piccolo non sapevi chi ero
Perso nel sentiero perché in fondo anch’io non lo sapevo
Non mi sono permesso di essere fragile, vulnerabile
Di essere me”
Spesso quando siamo piccoli siamo immaturi e non ci rendiamo conto di chi eravamo. Io a 14 anni ero perso nel sentiero e ora che ci ripenso mi sentivo piccolo, non capivo molte cose. Però allo stesso tempo sono stato sempre me stesso, nonostante tutto, sia per le cose giuste che per quelle sbagliate.
“Non cercarti mai dentro gli occhi che
Che non sono i tuoi, non cercarti in me
Ci vedremo poi dentro ville che
Sognavamo che avremmo avuto da grandi
E so che ce le avremo (te lo giuro)
Quelle certezze che avrebbero reso la vita più facile
Meno piena di domande (perché?)Un giorno ce ne andremo (lontano)
E lasceremo dietro solo tante pagine
Di testi che fan piangere (no)
Ringrazio il cielo (il cielo)
Che fai parte della mia esistenza
Non so stare in tua assenza
Anche se in fondo è quello il senso
Dare tutto, tutto se stesso”
Questa è la parte finale della canzone ed è anche quella più triste, più malinconica, che fa piangere.
Parte dicendo che non bisogna mai cercarsi dentro gli occhi degli altri, perché sì, nella vita non si può stare soli ed è vero, abbiamo bisogno per forza di qualcuno al nostro fianco, che sia un amico o fidanzato… ma bisogna sempre avere le spalle larghe perché nella vita ho imparato che non si sa mai… e i miei genitori ne sono stati la prova… alla fine non esiste un per sempre e quindi non bisogna mai fare affidamento sugli altri al 100%, ma bisogna anche imparare ad essere forti da soli ove dovesse andare male e ci dovessimo ritrovare a rialzarci da soli senza nessuno. Infine credo che le ultime frasi non abbiano bisogno di spiegazione… la vita non è sempre facile e a tutti farebbe comodo avere quelle certezze soprattutto sul futuro che ci renderebbero tutto più facile, però la vita è una sfida e va vissuta e ci sono momenti sì e momenti no.
Per concludere volevo ringraziare il prof. Del Mondo per avermi dato durante questi 5 anni l’opportunità di aprirmi in questa maniera così profonda con la classe e con “gli altri” che leggono.
Porterò sempre con me questo bel ricordo della gemma che mi ha fatto in un certo senso riflettere molto su vari aspetti della vita e di me stesso e posso dire di essere cresciuto anche grazie ad essa”.
(G. classe quinta).