I monaci e TikTok

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Un interessante articolo de Il Post, pubblicato l’11 marzo.

“Tra gli oltre 7 milioni di utenti di TikTok in Cambogia c’è una piccola nicchia, quella dei monaci buddisti, che lo usano perlopiù per diffondere i principi del buddismo theravada, la scuola più antica e prevalente nel paese. Il problema è che il codice monastico ha regole molto rigide, pensate per evitare che i monaci attirino l’attenzione su di sé: una cosa che contrasta nettamente con il modo in cui funziona TikTok e con il senso stesso dei social network.
Per questi motivi, come ha raccontato il sito di news internazionali Rest of World, di recente fra i religiosi è nato un dibattito che riguarda proprio l’utilizzo di TikTok: c’è chi lo ritiene un canale utile per coinvolgere più fedeli, e chi invece lo reputa uno strumento controverso e da usare con grande cautela, se non da evitare.
Tra i monaci buddisti cambogiani che hanno un account su TikTok ci sono Bo Pisey e Hak Sienghai: entrambi vivono in un monastero a Battambang, nel nord-ovest del paese, e hanno rispettivamente più di 132mila e 550mila follower. Nella gran parte dei casi sia loro sia gli altri monaci postano foto di momenti di preghiera o video in cui parlano degli insegnamenti del Buddha e del percorso che i buddisti dovrebbero seguire per metterli in atto (Dharma). Ogni tanto però condividono anche video che vanno al di là della religione, per esempio quelli in cui incontrano i turisti o in cui si riprendono assieme agli animali.
In certi casi poi gli account TikTok dei monaci, soprattutto quelli dei novizi, sono molto simili a quelli delle altre persone adolescenti: ci sono selfie, video spiritosi e foto che in qualche caso sembrano voler attirare attenzioni non esattamente religiose, per esempio mostrando i monaci a petto nudo.
In Cambogia più di un terzo della popolazione usa TikTok. Da tempo i monaci usavano social network come Facebook e YouTube per diffondere i loro insegnamenti e condividere video in cui parlavano di temi vari. Con TikTok, che si basa prevalentemente sui contenuti che sono di moda e diventano facilmente virali, la loro posizione però è un po’ più scomoda. Le violazioni del codice monastico adottato dai monaci buddisti nel Sud-est asiatico infatti possono comportare punizioni che vanno dai blandi richiami fino all’espulsione dall’ordine.
I principi del buddismo theravada prevedono tra le altre cose che i monaci non possano fare sesso, non debbano uccidere né rubare; anche i novizi sono poi tenuti a seguire altri precetti, tra cui non danzare, non cantare e in generale mantenere un comportamento estremamente sobrio e rispettoso. Come ha spiegato a Rest of World Yon Seng Yeath, vice rettore di un’università buddista di Phnom Penh, la capitale del paese, almeno la metà di queste regole è pensata per fare in modo che i monaci non attirino l’attenzione su di sé: un principio che sembra essere molto difficile da rispettare su un social network in cui è facile raggiungere rapidamente un pubblico molto ampio, al di là delle intenzioni del singolo.
Bo Pisey sostiene di voler solo diffondere il Dharma e di non voler ricavare nient’altro dal suo profilo di TikTok, che ritiene un buono strumento per interagire con le persone, se usato bene. Hak Sienghai dice che è naturale utilizzare TikTok, in un mondo in cui la tecnologia ha rivoluzionato il modo di comunicare con le persone: sostiene di volersi avvicinare ai follower ma non troppo, e spiega di voler essere un esempio per giovani monaci che potrebbero non usare i social nella maniera più opportuna.
Altri monaci sostengono invece che mettersi in mostra su TikTok sia contrario ai valori buddisti, e che soprattutto i novizi non dovrebbero usarlo per non distrarsi dallo studio degli insegnamenti. C’è poi chi propone di introdurre un codice di condotta, come il monaco San Pisith, che al momento studia in Estonia: San Pisith non si dice in favore di un divieto totale, ma per esempio suggerisce che i contenuti condivisi siano esclusivamente didattici.
Seng Yeath fa anche parte dell’autorità regionale dei monaci, che ha il compito di vigilare sul loro comportamento in 4 delle 25 province della Cambogia e stabilire eventuali punizioni in caso di infrazioni. Finora non ci sono state grosse punizioni contro i monaci che condividevano contenuti su TikTok, ha spiegato: sono state osservate solo piccole violazioni, come aver cantato o ballato, che di norma sono state punite solo con l’obbligo di chiedere scusa al tempio. Alcuni gesti, conclude, sono considerati comunque meno gravi se fatti dai giovani.”

Gemma n° 2038

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“Ho deciso di portare come gemma i social, non perché sono qualcosa a cui sono affezionata o una mia  passione ma per il modo in cui mi hanno cambiata. Ho fatto molta fatica a decidere cosa portare come gemma perché anche se sono una grande fan del cinema e della letteratura non c’è nessun film\serie o libro che (anche se mi ci sono ritrovata e sentita capita) mi hanno “cambiato la vita”.
Cosa che posso dire invece dei social (soprattutto tiktok). Posso senza dubbio dire che da quando ho i social sono una persona diversa e non solo per il fatto che nel frattempo sono cresciuta. La maggior parte degli artisti che ascolto li ho conosciuti tramite i social come molti dei miei idoli, i miei libri preferiti e di questo sono ovviamente grata ma c’è una parte di me che ha paura dell’impatto che hanno su di me i social.
Mi sono soffermata a pensare a quante mie idee e principi non siano veramente miei. Molte volte mi capita di leggere un post o vedere un video, concordare su quello che si è detto e farlo diventare parte della mia mentalità. Non ci trovo niente di male nel confrontare le opinioni ma mi rattrista pensare quante cose che penso e apprezzo “non vengano da me”.
Ed ovviamente è così anche per il modo di vestire, il linguaggio, il senso dell’umorismo, pensare che una cosa sia “cringe” o brutta solo perché lo pensano tutti gli altri.
Spero che quando fra qualche anno ripenserò alle cose che ho imparato, la maggior parte sarà fondata su opinioni che ho costruito basandomi su cose successe attorno a me e non sull’opinione di uno sconosciuto online” (S. classe prima).

Gemma n° 2026

“Come gemma ho portato questa collana perché per il resto della mia adolescenza ho sempre avuto idee confuse sul mio futuro e su me stessa. Ho sempre cercato degli interessi che però non mi rappresentavano o che comunque non mi portavano a niente. Un giorno non riuscivo a dormire e ho deciso di mettere un documentario sui segreti dello spazio e invece di addormentarmi mi sono incuriosita sempre di più e da quella notte ho iniziato ad informarmi leggendo libri, ascoltando podcast e vedendo documentari. Poi, grazie ad un amico di mio fratello, attualmente laureato in astronomia con master in astrofisica, ho trovato un’università con un ottimo programma e abbordabile come costi. Tornando alla collana, mi è stata regalata dal mio ragazzo, è rappresentato il sistema solare e alla luce del sole sembra quasi brillare. Ogni tanto mi capita di avere dubbi e di pensare che non è il percorso che devo seguire e guardando questa collana, anche se è solo un pezzo di vetro con un disegno, mi perdo nella brillantezza dello spazio e vorrei vedere oltre e sapere cosa c’è al di là del sistema solare”. (A. classe quarta)

Gemma n° 1965

“Ho scelto di portare il trailer del film Interstellar: l’ho visto al cinema con i miei in un periodo non buono per me. Mi hanno colpito alcune frasi che ci sono nel trailer e anche tante scene. Devo dire anche che, avendolo rivisto recentemente, sono riuscita a comprendere molte più cose della prima volta”.

Ho trovato Interstellar un film molto ricco di suggestioni e una fonte abbondante di riflessione. Per commentare la gemma di G. (classe seconda) lascio qui delle citazioni (solo alcune, ce ne sarebbero tante!).

TARS : La terza legge di Newton. L’unico modo che gli umani hanno trovato per andare avanti è lasciarsi qualcosa alle spalle.

Cooper : Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango.

Murph: Perché tu e la mamma mi avete chiamata come una cosa brutta?
Cooper: No, non è vero.
Murph: La legge di Murphy.
Cooper: La legge di Murphy non significa che succederà una cosa brutta, ma che tutto quello che può accadere accadrà. E a noi questo non dispiaceva per niente.

Romilly: Se solo potessimo vedere all’interno della stella collassata. La singolarità. Allora capiremmo la gravità.
Cooper: Non c’è nessun dato da captare?
Romilly: Niente supera quell’orizzonte. Neanche la luce. La risposta è lì ma non c’è modo di vederla.

Professor Brand : Non ho paura della morte. Sono un vecchio fisico. Ho paura del tempo.

Dr. Mann : Lei ha dei legami, ma anche senza una famiglia le posso assicurare che il desiderio di stare con altre persone è potente. Quell’emozione è alla base di quello che ci rende umani. Non è da sottovalutare.

Dr. Mann : Lei sa perché non potevamo mandare delle macchine nelle nostre missioni, vero Cooper? Una macchina non improvvisa bene. Perché non si può programmare la paura della morte. Il nostro istinto di sopravvivenza è la nostra più grande fonte di ispirazione. Prendiamo lei come esempio: un padre con un istinto di sopravvivenza che si estende ai propri figli. Per la ricerca sa quale sarà l’ultima cosa che lei vedrà prima di morire? I suoi figli. I loro volti. In punto di morte la sua mente spingerà ancora un po’ di più per sopravvivere. Per loro, Cooper.

Gemma n° 1954

“Ho deciso di portare Heat waves che è una canzone che ho ascoltato molto questa estate e che mi ha fatto da colonna sonora in tutti i momenti felici: in sottofondo c’era sempre”.

Approfondisco la gemma di L. con un testo che ho trovato su KissKiss e che parla del video dei Glass Animals: «Il video Heat Waves è una lettera d’amore alla musica dal vivo e alla cultura che la circonda», racconta Dave Bayley. «È stato girato al culmine dell’isolamento del mio quartiere nell’East London dalle persone che vivono intorno a me, semplicemente usando i loro telefoni. Si tratta di persone che di solito sono in giro per spettacoli, gallerie d’arte, cinema, ecc. Ora questi luoghi sono lasciati vuoti e molti di loro non sopravvivranno. La canzone parla della perdita e della nostalgia, l’arte prevede lo stare insieme e il contatto umano. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno dato una mano. Quando tutti si sporgevano dalle loro finestre per filmare, ho provato lo stesso senso di unione e di energia che si prova nei live show. Ho avvertito la freddezza di esibirsi in una stanza vuota con la band bloccata sugli schermi.»

Gemma n° 1834

Un video dei Jamiroquai di fine anni ‘90 è stato al centro della gemma di S. (classe prima). “Virtual Insanity parla di una band che vive in una società dove gli umani vivono sotto terra e non hanno rapporti con le altre persone. Ciò impedisce loro di migliorare l’esistenza umana, propria e altrui, attraverso piccoli gesti che sottolineano i diritti del prossimo e i doveri propri”.

A commento della gemma questa volta non metto qualcosa di mio, ma un approfondimento che ho trovato su Louder.
“La vittoria di Jay Kai è totale. Virtual Insanity rappresenta uno dei rari casi in cui un artista raggiunge il successo senza sacrificare parte della sua indole all’altare delle radio, ma confezionando un brano talmente forte da abbattere qualsiasi supposta barriera. Teoricamente il singolo non presenta le caratteristiche per competere con il pop delle Spice Girls o con il rap accattivante dei Fugees. A livello sonoro non gioca nel campionato rock di Blur e Oasis, e non punta nemmeno sull’attitudine rivoluzionaria di band come Prodigy e Underworld. Virtual Insanity è un pezzo funk inaugurato dal pianoforte che dipinge una progressione armonica simile a quella di classici soul, jazz e disco, presto affiancato da una batteria dallo swing spinto. Il basso entra in scena solo dopo cinquanta interminabili secondi, insieme all’orchestra che arricchisce il ritornello. Da qui in poi ogni strumento tocca le note che vuole, lasciando grande spazio a un’improvvisazione che obiettivamente è uno schiaffo alla semplicità. È facile farsi trascinare dalla sognante melodia intonata da Jay, ma se mai doveste scegliere questo pezzo al karaoke vi accorgereste di quanto sia arduo stare dietro a quella linea vocale che disegna evoluzioni tutt’altro che banali.
Ma c’è di più: oltre a melodia e arrangiamento, anche le parole di Virtual Insanity hanno ben poco a che fare con i tipici testi da top 10. “Lasciate che vi racconti qualcosa del mondo in cui viviamo oggi”, esordisce Jason prima di snocciolare una serie di disgrazie a sfondo ecologico. “È un miracolo che l’uomo riesca ancora a mangiare” è un probabile riferimento al morbo della mucca pazza, visto che proprio in quel periodo si scopre che gli esseri umani possono contrarre la malattia. Ma forse anche all’allevamento intensivo: “Le cose grandi che dovrebbero essere piccole” sembra un ammiccamento agli ormoni della crescita somministrati agli animali. La frasi “Adesso ogni madre può scegliere il colore del proprio figlio” e “È assurdo sintetizzare un altro ceppo” si riferiscono invece alla sconvolgente prospettiva della manipolazione genetica, argomento che di lì a qualche mese s’impadronirà delle prime pagine dei giornali grazie alla clonazione della pecora Dolly. Jay Kai è convinto che il nostro egoismo renderà impossibile un’inversione di rotta (“And nothing’s gonna change the way we live / ‘Cause we can always take but never give”). Altro che realtà virtuale; il nostro attaccamento alla tecnologia ha generato quella che lui definisce una follia virtuale (“And now it’s virtual insanity / Forget your virtual reality”).[…] Quando Jason scrive Virtual Insanity, internet è ancora in fasce. I social network sono un miraggio, così come gli smartphone. Eppure, a giudicare dalla dilagante assuefazione a dispositivi sempre più potenti nati per connettere e finiti per diventare spesso un’inquietante causa di solitudine, sembra proprio che la sconfortante profezia di Jay si sia avverata”.

Mondi altri

E’ ora di iniziare a scriverne… Intanto ripubblicherò articoli di persone esperte per cominciare a farsene un’idea, anche se non è così facile a proposito di qualcosa che deve ancora venire. Fa parte di quelle cose che per essere ben comprese hanno forse bisogno di essere vissute. Mi sto riferendo al metaverso. Non mi metto qui a scrivere cosa sia, lo accenna già Luca Di Bartolomei in questo articolo apparso su Il Mulino.

“Partiamo dalla fine: giovedì 21 ottobre per gioco decido di scommettere 50 dollari su Dwac, il veicolo societario nel quale Donald Trump sta convogliando gli sforzi per far nascere «Truth», la sua piattaforma online. Il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, infatti, dopo aver subito il ban da parte dei principali social network ha deciso di costruirsene uno tutto suo, per propagandare idee politiche e pubblicizzare interessi economici. Se aveste investito 10 dollari insieme a me oggi ve ne trovereste oltre 80 sul conto. Se aveste deciso di vendere al loro massimo avreste più che decuplicato il vostro investimento.
Questo piccolo aneddoto ci racconta due cose. La prima è che diversamente dal passato (quando pure le banche gli hanno prestato soldi) questa volta il biondo tycoon viene reputato credibile dalla comunità finanziaria americana, che investe in una sua intrapresa economica. Il perché è presto detto: il largo, larghissimo consenso di cui gode e che ne fa probabilmente l’unico leader «repubblicano» (ammesso che abbia ancora senso definirlo così) oggi sulla scena. La seconda è che i suoi strateghi hanno capito (e dimostrato) che la politica non si gioca fuori dal digitale e a breve dal metaverso.
Trump ha vissuto – e vinto – sui social sfruttando una narrazione che l’alt-right (la destra alternativa) aveva prodotto fin dalla prima presidenza Obama: il mare in cui navigavano i birthers, le culture complottiste alla QAnon, la foresta delle fake news che si trasformano in realtà alternative. E abbiamo visto come da questo mondo siano salpati gli assalitori del Campidoglio. In questo spazio Trump e i suoi finanziatori si stanno scatenando per disintermediare definitivamente il rapporto con il cittadino/elettore/consumatore/propagatore: una grande partita, democratica ed economica.
Nei giorni scorsi, sul «New York Times», faceva impressione leggere uno dei guru della comunicazione democratica, David Brock: nella sua percezione la politica americana che abbiamo davanti sarà un mare ulteriormente avvelenato nel quale i punti delicati della trama della democrazia saranno i luoghi dove si legittima il voto. Sostanzialmente, concludeva Brock, i risultati elettorali verranno contestati di default nelle commissioni statali elettorali; quello che abbiamo visto dopo le elezioni presidenziali del 2020 sarà la normalità. Qui, in una democrazia che rischia una torsione prossima alla rottura, Trump ha deciso di combattere in quello che fino a pochissimo tempo fa sembrava a tantissimi analisti un «altrove». Possiamo permetterci di ignorarlo? Possono permettersi di ignorarlo la politica o gli attori del discorso pubblico? Credo di no, ma forse bisogna prima capire cosa sia questo altrove, cosa sia il «metaverso».
Per provare a spiegare cosa sia faccio sempre questo esempio. Credo sia stato tre anni fa: mio figlio vide suo cugino più grande giocare a Fortnite e mi chiese di scaricarlo per giocarci insieme. Non temo i videogiochi, ci sono cresciuto: da quarantenne ho sostanzialmente attraversato tutte le fasi del gaming fin dai primissimi albori. Qualche settimana dopo Andrea mi disse che avremmo dovuto comprare una nuova «skin» per il nostro «avatar» perché ne era uscita una bellissima e forse ne sarebbe uscita anche una della nostra squadra del cuore. Le «skin» sono sostanzialmente dei vestiti, gli «avatar» i nostri corrispettivi digitali; le «skin per gli avatar» si comprano direttamente in una area del gioco chiamata «Marketplace». Si trova proprio accanto alle «room» nelle quali i giocatori – ragazzi e non – passano il tempo in attesa di una partita o semplicemente si incontrano per parlare.
Già adesso, insomma, esistono interi universi nei quali la nostra individualità vive, si esprime e consuma in un altrove diversamente reale. Può sembrare un linguaggio esoterico o da bambini, ma è solo due passi più avanti di quando compriamo le cose su Amazon o vediamo i film su Netflix e uno soltanto dei nostri post su Facebook. E poi se vogliamo il voto dei sedicenni, beh, allora dovremo pur parlarci!
Per capire quanto occuparsi di questa vicenda sia importante facciamo un passo indietro. La prima volta che ricevetti un invito a iscrivermi a Facebook eravamo a dicembre del 2006; alla fine dell’anno successivo insieme con Marco Laudonio, che oggi insegna Comunicazione digitale alla Sapienza, facemmo sbarcare sulla piattaforma di Zuckerberg l’allora leader del centrosinistra italiano. L’anno successivo trasformammo quel bagliore di attivismo digitale in un evento reale riempiendo uno spazio romano con oltre duemila persone, soprattutto giovani, provenienti da tutta Italia. Molte delle idee immaginate in quel breve periodo con il supporto di professionisti della comunicazione digitale come Stefano Peppucci ed Emanuele Fini trovarono spazio solo più avanti, spesso in contesti politici differenti. Ne cito due che ebbero un incredibile successo: le pubblicità elettorali di Obama all’interno di alcuni videogame nel 2008 e l’organizzazione territoriale basata e coordinata su gruppi di attivisti che partivano costituendo gruppi online. Di lì a poco li avrebbero chiamati meet-up.
Diversamente da Second Life – che è finito per diventare un gioco di ruolo – le piattaforme social dal 2004 hanno avuto successo perché hanno parallelizzato le nostre esistenze offrendo alle nostre opinioni ed emozioni una possibilità simultanea di massima audience. La moltiplicazione delle piattaforme e il loro soddisfare un precipuo aspetto della nostra socialità quotidiana hanno finito per fare il resto: ci alziamo sfogliando le news sui profili Twitter dei giornali, poi leggiamo i messaggi arrivati su WhatsApp, mentre postiamo una foto del nostro cane su Instagram, giriamo un video sciocco su Tik Tok e, salutando gli amici su Facebook, guardiamo gli aggiornamenti della nostra comunità finanziaria di piccoli risparmiatori su Reddit, giusto prima di farci una risata su un video recuperato su YouTube o vedere gli score di Fortnite.
Per quanto l’invenzione della parola metaverso sia da attribuire a Neal Stephenson, che per primo la conia nel suo romanzo Snow Crash, esempi di metaversi si potevano già ritrovare in dozzine di opere letterarie di fama mondiale, in particolare nelle linee editoriali create dai principali disegnatori e sceneggiatori di fumetti e di graphic novel. Nell’immaginazione di Stephenson, però, il metaverso è un universo che corre intorno al pianeta in cui ciascuno poteva vivere esperienze di ogni genere. Un «verso» altro ma in qualche modo legato a quello noto, all’universo naturale in cui siamo immersi. Mondo fisico e mondo digitale girano nell’idea di Stephenson come fossero due sfere una nell’altra.
In queste settimane il concetto di metaverso sta diventandoci familiare anche grazie ai disegni di Facebook. La società annuncia che ci saranno migliaia di persone assunte in Europa per realizzare questo progetto. Da un punto di vista economico può apparire come la nascita di una holding – non diversamente da quanto avvenuto con Alphabet di Google nel 2015 – destinata a incorporare l’impero di Mark Zuckerberg and Co. con tutti i suoi social. Ma le cose non sono così semplici: il metaverso che verrà molto probabilmente si concentrerà sulla integrazione di queste piattaforme diverse e sulla possibilità per l’utente di costruire un proprio frame narrativo da condividere in ognuna delle stesse. Insomma se saremo arrabbiati molto probabilmente la nostra user experience varierà su ognuna di queste piattaforme: su Spotify ci verrà proposta musica dal ritmo più incalzante, su YouTube video più violenti, mentre su Facebook leggeremo i post con le opinioni politiche più nette e nel frattempo il nostro avatar si presenterà con un’espressione più affilata.
Come tutto questo finirà per impattare sul discorso pubblico e sulla vita politica e partitica è presto detto: da 15 anni Facebook e i social hanno cambiato la comunicazione, piegando i media tradizionali e costringendo la comunicazione politica a un faticoso e mai completato inseguimento. La politica che nel tempo ha cessato di avere i legami tradizionali con le persone (e che intendiamoci, oggi, probabilmente non funzionerebbero più) è stata costretta a cercarle nella loro veste di utenti e non in quella di cittadini.
In questo senso i social media hanno piegato anche la politica non solo nella sua comunicazione ma anche più radicalmente nella connessione con gli elettori e con i loro bisogni che sono sempre più cercati tra i «trending topic» e non nelle condizioni reali di vita. Oggi siamo davanti a un passaggio nuovo, perché se nel 2005 non capire quello che sarebbe successo poteva essere nelle cose adesso sarebbe un errore non giustificabile. Quando le persone «vivranno» nel metaverso – che non è alternativo all’universo reale ma finisce per esserne il rovescio della medaglia nella dimensione della comunicazione e forse anche dell’immaginario e del desiderio – chi sarà rimasto fuori non conoscerà più neanche la lingua con cui rivolgersi agli altri.
Qualcuno potrebbe obiettare: esagerazioni. Io credo di no, anzi ci scommetto altri 50 dollari”.

Gemma n° 1761

“Ho deciso di portare questa collana che ho al collo: me l’ha regalata mia madre per il mio diciottesimo. Nella mia famiglia non ci siamo mai regalati gioielli, preziosi o cose del genere; questo mi ha fatto pensare che nel momento in cui, spero il più tardi possibile, queste persone se ne andranno io non avrò una cosa di questo tipo che le ricordi. Mia madre però ha voluto regalarmi questa collana e, dato che con lei ho un rapporto speciale, avere un qualcosa che mi farà ricordare lei quando non ci sarà più è una cosa bellissima. Quello che fa e che pensa sarà con me sempre in questa collana, anche quando lei non ci sarà.”

E’ la gemma di L. (classe quinta) quella appena riportata. In questo periodo mi sto chiedendo se l’attaccamento che la gran parte di noi ha nei confronti di taluni oggetti non sia anche legato alla smaterializzazione che hanno subito altri: penso a oggetti comunque legati alla sfera affettiva, come le foto o le lettere o i biglietti. In un armadio conservo ancora i biglietti scambiati tra i banchi di scuola con i miei compagni di liceo, e starei poco a recuperarlo e a rileggerli; se invece dovessi recuperare lo scambio via whatsapp avuto con un amico 2 o 3 anni fa le cose si farebbero maledettamente complicate. Per non parlare della quantità di foto che scattiamo senza stampare e che (se siamo un minimo accorti) affidiamo a qualche servizio di backup automatico su qualche nuvola virtuale. Che sia legata anche a questo la necessità di quell’ancora di cui ho già scritto nella gemma 1758?

Gemma n° 1753

“Mi ha colpita questo video perché quest’isola di plastica, situata nell’oceano Pacifico, è grande quanto la Francia. Questo mi fa riflettere su quanto l’uomo abbia inquinato e distrutto l’ambiente marino. Mi fa pensare anche che i pesci che passano lungo questa isola siano alla fine anche i pesci che ci ritroviamo a tavola quindi l’uomo oltre che fare del male all’ambiente sottomarino, fa del male anche a se stesso. La contaminazione e l’avvelenamento del mare che ricopre la maggior parte della nostra superficie terrestre stanno causando conseguenze disastrose come lo sviluppo di nuove sostanze nocive per l’essere umano, la perdita di tantissime specie marine, il soffocamento della vita. Il contatto con materiali molto pericolosi causa problemi alla loro salute”.

Con queste parole B. (classe terza) ha commentato il video da lei proposto. Commento questa gemma con le parole del prof. Paolo Rognini, dell’Università di Pisa: “Se non aggiorneremo il software delle nostre false convinzioni come “l’inesauribilità delle risorse”, “l’espansione illimitata della specie” o il “vorace accaparramento di risorse”, la specie umana potrebbe rischiare l’auto-estinzione: un fenomeno che si rivelerebbe unico nella storia delle specie viventi, riducendoci a un semplice esperimento evolutivo”.

10. Non perderti nel mondo virtuale

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. Il decimo è esplicato da Giulio Giorello, professore ordinario di Filosofia della Scienza all’Università di Milano. Lo si può trovare a questo link.

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“La rivoluzione informatica ha profondamente mutato, e continua a cambiare, la nostra vita. Due fattori rilevanti: le modalità di elaborazione dell’informazione e le vie rapide ed efficaci con cui comunicarla. Per dirla con una battuta: prima avevamo potentissime automobili (i computer), ma poi sono venute anche le comode strade su cui farle viaggiare. C’è da stupirsi o da scandalizzarsi che soprattutto le nuove generazioni ne siano affascinate? Sarebbe come se, in passato dopo aver scoperto la stampa, si fosse deplorata la diffusione dei libretti a basso costo, che nel giro di pochi decenni avrebbero rimpiazzato gli eleganti manoscritti illustrati da incantevoli miniature. Lo aveva ben capito Martin Lutero, che pensava che il rinnovamento della comunicazione avrebbe giovato immensamente alla Riforma; lo avrebbe ripetuto circa un secolo dopo Galileo Galilei, alludendo allo sviluppo della scienza della natura.
Fin qui dunque nulla da eccepire: la rete ci riserverà nel prossimo futuro altre sorprese. Ma questo non vuol dire che si debba incoraggiare un tipo di immersione che rappresenta (almeno ai miei occhi) una nuova forma di totalitarismo. La Rete ci apre al mondo in maniere che ci sarebbero parse impossibili quando noi si era ragazzi, ma questo non significa che la rete sia il mondo! Troppo spesso ci sentiamo ripetere giudizi del tipo: se non sei su internet, non esisti. Ma le cose e le persone del mondo non sono mai su internet, dove ci sono invece le loro rappresentazioni che gli utenti prediligono.
In un sistema che è dominato molto più di quanto ingenuamente si sia portati a credere, tali informazioni possono venire «manipolate» senza che magari ce ne accorgiamo. È già successo, e con tutta probabilità si ripeterà, magari in forma più subdola. Ma è possibile trovare qualche rimedio, senza limitarsi a una denuncia moralistica?
Spesso chi va in rete cerca le facili rassicurazioni di coloro che la pensano come lui, e tutto questo favorisce il conformismo, ancor prima della diffusione di notizie «false e tendenziose». Sarebbe meglio prendere esempio dalla scienza (che sa utilizzare la rete con intelligenza): vagliare attentamente le «notizie» che si ritengono interessanti, valorizzando soprattutto chi la pensa diversamente. È poco? Ma forse è un inizio, perché così ci ricordiamo – per rovesciare la battuta di Martin Heidegger – che alla domanda: «Cosa c’è fuori (della Rete)?», dovremmo rispondere non «fuori c’è il nulla», bensì «fuori c’è l’universo».”

8. Non deturpare la bellezza

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. L’ottavo è esplicato da Eike Dieter Schmidt, storico dell’arte tedesco, direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Lo si può trovare a questo link.

“Difendere la bellezza: un compito facile e chiaro nel periodo di Kant e Canova, quando l’umanità era convinta dell’unità ideale di Bello e di Bene. A livello teorico, questa armonica convergenza si disintegra poco dopo, già con la «scoperta» ottocentesca – intesa come liberatorio sovvertimento dell’ordine – dei Fiori del Male. A seguire, gli esempi si moltiplicano, e basta additarne un paio: da parte dei nazisti, la stigmatizzazione come «degenerata» di tutta l’arte non devota ai canoni tradizionali; e le celebrazioni grottesche, neroniane degli attentati dell’11 settembre quali spettacoli di suprema bellezza da parte di Karlheinz Stockhausen e Damien Hirst.
Allora ci si deve porre la questione preliminare di quale sia la bellezza da difendere, e come si possa evitarne la deturpazione. Certo è che al giorno d’oggi la teoria estetica e la prassi della critica e storia dell’arte evitano accuratamente di affrontare la categoria del Bello. Tuttavia, questo progressivo spegnimento dei richiami estetici nel campo dell’arte è stato controbilanciato da una fioritura nell’altro campo in cui essi sono tradizionalmente radicati, ovvero la matematica. Specialmente dopo l’applicazione della geometria frattale sviluppata da Benoît Mandelbrot nel 1979 sull’insieme di Gaston Julia, la bellezza matematica, fatto puramente teorico e intellettuale, si è amalgamata con quella estetica, percepibile con i sensi.
A questo possiamo aggrapparci, perché il concetto matematico di Bellezza, già applicato in altri campi del pensiero astratto attraverso la logica, ci fornisce uno strumento potentissimo per capire meglio e agire di conseguenza.
La rivoluzione digitale degli ultimi decenni, un fiume in piena, ci ha travolti tutti portando Turpitudine insieme alla Bellezza 4.0, la volgarità social insieme all’informazione capillare, il falso e il brutale confusi con il vero. È questo il punto: cosa c’è di buono, di utile, o anche di «diversamente bello» in un’edilizia sfrenata e mercantile – pensiamo alle monotone fungaie di brutti grattacieli costruiti davanti a splendide spiagge.
Ma la turpitudine di certi fenomeni consiste anche nel fatto che danneggiano e distruggono sistemi complessi e stringenti, che appiattiscono e abbassano trovate geniali dell’uomo e della Natura; che sono mutili, illogici, falsi. Ecco il dovere morale che nasce dalla falsità del brutto. Con la rivoluzione digitale in pieno corso, il comandamento di non deturpare la bellezza non può limitarsi soltanto alla realtà concreta, on site, ma deve allargarsi anche a quella virtuale, on line.”

7. Non abusare del tuo corpo

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi.
Il settimo è esplicato da Sergio Harari, direttore del Dipartimento di Scienze mediche all’ospedale San Giuseppe di Milano. Lo si può trovare a questo link.

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“L’eterna giovinezza non esiste, difficile di questi tempi trovare diavoli seri con i quali stringere patti, ma investire sulla propria salute si può e si deve fare. Senza eccessi: niente ossessioni, la salute è fatta di buon senso e piccole attenzioni. Ne è una prova la dieta mediterranea: bilanciata e varia è forse la migliore al mondo.
Gli estremismi in medicina non pagano, non esistono un cibo perfetto o una dieta magica valida per tutti, ognuno deve trovare il proprio equilibrio, sulla base delle proprie necessità e del proprio profilo di salute (si soffre di sovrappeso, pressione alta, colesterolo elevato, diabete ecc.?). Ascoltare il proprio corpo diventa quindi cruciale, è inutile affidarsi ciecamente a impossibili ricette magiche. Un’alimentazione sana, completa e varia ci eviterà inoltre l’assunzione di superflui e costosi integratori, dei quali molto spesso non vi è alcun bisogno, così come è fondamentale avere un corretto stile di vita, che comprenda attività fisica e movimento.
La chiave di un buon rapporto con il nostro corpo passa però anche e soprattutto da una buona relazione con il nostro medico curante. Solo un dialogo costante può consentire di affrontare con buon senso dubbi, paure anche irrazionali, chiarimenti. Il web infatti rischia troppo spesso di somigliare a un moderno oracolo: può condurre a conclusioni tragiche o eccessivamente rassicuranti, a seconda del sentimento di chi lo interroga. Anche nell’informazione niente può surrogare la relazione con il curante. Prevenire si può: se oggi ci sono genitori che possono permettersi il lusso di non vaccinare i propri figli è perché la stragrande maggioranza degli altri li ha invece vaccinati e anche i loro beneficiano dell’immunità di gregge (quel fenomeno per il quale, quando il tasso di vaccinazioni è molto alto nella popolazione, anche i non vaccinati sono protetti). Vaccinare e lavarsi spesso le mani sono due atti semplici e fondamentali. La salute è certamente un diritto ma è anche un dovere, se tutti lo osserviamo e rispettiamo allora il nostro Servizio sanitario diventerà più sostenibile, per il bene di tutti. Abusare del proprio corpo con vizi e stravizi è un buon modo per buttarci via: droghe, sostanze dopanti, alcol, fumo e stress sono tutti pericolosi nemici da tenere ben lontano e combattere. Investiamo bene oggi perché, se immaginiamo la salute come un capitale che ci viene affidato, nel corso del tempo potrà fruttarci anni di vita in più in benessere. Altro che Dorian Gray.”

6. Non maltrattare gli animali

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi.
Il sesto è esplicato da Telmo Pievani, professore ordinario presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle scienze biologiche. Lo si può trovare a questo link.

"... dipendiamo dalla stessa rete di relazioni ecologiche, non abbiamo alcun diritto di devastare ciò che non è nostro e condividiamo lo stesso fragile destino su questo pianeta"
(fonte foto)

“Gli scienziati la chiamano «defaunazione»: un mix letale di attività umane ha già spazzato via circa un terzo di tutta la vita animale sulla Terra. Non è un’ipotesi, è un fatto, irreparabile, causato dalla distruzione degli ecosistemi, dagli inquinamenti, da caccia e pesca indiscriminate. Questo maltrattamento su larga scala è, oltre che ingiusto, autolesionista, perché la biodiversità animale è alla base di servizi ecosistemici fondamentali per la nostra salute e le nostre economie. Siamo una specie decisamente sleale. Organizziamo battute di «caccia sportiva» al leone per il solo gusto di farci fotografare con il felino sotto i piedi. Mutiliamo orrendamente i rinoceronti a causa di stupide e irrazionali superstizioni. Ci portiamo per sfizio animali esotici a casa, facendoli vivere in ambienti a loro estranei, con il rischio di diffondere specie invasive. Guardiamo in tv la pubblicità di scatolette extralusso per gatti, messa in onda subito dopo un appello per salvare i bambini denutriti. Vediamo animali dopati per competizioni e scommesse, sfiancati dal lavoro forzato, usati per testare cosmetici, o rinchiusi a milioni in brutali allevamenti intensivi che soddisfano i nostri mercati al prezzo di un consumo assurdo di risorse. Di fronte a questa trave, litighiamo sulla pagliuzza. Un’infima parte degli animali allevati dall’uomo è utilizzata per la ricerca scientifica, una pratica ancora indispensabile, che ha un altissimo valore morale di per sé per le sue ricadute terapeutiche e che cerca di diventare sempre più etica, non solo vietando qualsiasi maltrattamento in laboratorio, ma garantendo anche tutele crescenti di benessere animale che si ispirino ai principi di sostituzione, raffinamento e riduzione dell’uso di animali nella ricerca e nei test tossicologici. Perché fare tutto ciò? Non perché gli animali sono buoni e noi cattivi, categorie morali che poco si addicono all’evoluzione naturale. E nemmeno perché dovremmo rinunciare ai nostri interessi di specie, compito impossibile. La ragione è più semplice: perché siamo anche noi animali, ominidi per la precisione, dipendiamo dalla stessa rete di relazioni ecologiche, non abbiamo alcun diritto di devastare ciò che non è nostro e condividiamo lo stesso fragile destino su questo pianeta. Non servono ideologie estremiste né lambiccarsi per capire fin dove gli altri animali abbiano coscienza. Noi di sicuro abbiamo la coscienza, e anche la scienza che ci fornisce i dati di cui sopra. Dunque è giusto e razionale smetterla di maltrattare gli animali.”

Buona, cattiva, felice, infelice: quale AI?

Mi sono ripromesso di affrontare, nelle classi quinte, il tema dell’intelligenza artificiale. Non so se ce la farò. Intanto pubblico un articolo molto interessante di Francesco D’Isa su questioni di etica generale applicata a tale argomento. Questa la fonte.

“Se ogni apocalisse ha il suo immaginario, l’allegoria contemporanea ha le fattezze di due cigni neri. Uno è intinto nel petrolio e barcolla in un lago in secca; l’altro ha i contorni diffratti e cangianti del sogno di un algoritmo. “Cigno nero”, infatti, è un termine coniato da Nassim Nicholas Taleb per indicare un evento di grande impatto, difficile da prevedere e molto raro, che col solo accadere rivoluziona la realtà abituale – come l’idea che tutti i cigni sono bianchi. La caduta di un gigantesco asteroide, un’invasione aliena o la scoperta del fuoco sono tutti esempi di cigni neri; ognuno di essi è una piccola apocalisse, perché sebbene non se ne possa prevedere né il volto né la data, sappiamo che avverrà.
Con un po’ di cautela però, è possibile azzardarne la provenienza: nella precedente allegoria, i due cigni neri della contemporaneità sono il cambiamento climatico e l’avvento dell’intelligenza artificiale – ed è di quest’ultimo che scrivo. Non azzardo una cronologia dell’avvento, la cui origine si potrebbe identificare con l’invenzione del calcolatore di Pascal o persino con l’arte combinatoria di Lullo o gli automata di Erone di Alessandria. Per limitarsi al passato prossimo, gli ultimi sigilli infranti sono le vittorie delle IA al gioco del Go e la nascita dei deep fake, dei contenuti multimediali falsi ma credibili, che dalla pornografia (primo laboratorio di molte innovazioni tecnologiche) sono sfociati nella politica e nel marketing.
Un evento di minore importanza, ma senza dubbio di grande impatto nell’immaginario, è stato il primo contatto con l’interiorità delle intelligenze artificiali grazie ai deep dream. Si tratta di immagini surreali ottenute usando in maniera creativa l’output dell’algoritmo che identifica gli oggetti nelle fotografie – il risultato è il secondo cigno dell’allegoria, una sottile crepa nella scatola nera delle IA, che inocula il sospetto che gli androidi sognino le nostre stesse pecore. Non è possibile conoscere in anticipo la propria prole, ma è sufficiente poterla generare per porsi importanti questioni etiche: i nostri figli saranno buoni o cattivi? Felici o infelici? Migliori o peggiori di noi? È un bene o un male metterli al mondo? Le stesse domande si pongono anche per le IA, e per quanto suonino sempliciotte sono un buon punto di partenza.

Proverò dunque a usare le seguenti categorie: con l’etichetta di buone o cattive intendo il caso in cui le IA abbiano funzioni costruttive o distruttive per il benessere dell’umanità. Felici o infelici sono due etichette fluide, con cui indico la condizione predominante del vissuto delle IA. Entrambe glissano su un punto di estrema importanza, assimilabile al cosiddetto hard problem della coscienza, nella terminologia di David Chalmers: le IA esperiscono o esperiranno degli stati coscienti (i cosiddetti qualia)? È una questione di difficile soluzione, non solo per loro, ma anche per le piante, gli animali e gli esseri umani – o persino i sassi. Gli unici stati di coscienza che conosci con certezza, infatti, sono i tuoi. Nulla ti assicura che non vivi in un mondo di “zombie filosofici”, in cui sei l’unica persona dotata di coscienza. Chi scrive si dichiara cosciente, ma tu che leggi come puoi credermi, se non sulla parola? Se ti sembra un ozioso scetticismo, prova a considerare cosa implichi ignorarlo. Come si individua la coscienza e i suoi confini? Affidarsi a un avanzato test di Turing legato al comportamento non esclude che possa esistere un robot privo di essa. Viene in mente il test Voight-Kampff di Blade Runner; una serie di domande e indagini fisico-comportamentali in grado di stabilire chi è un androide e chi un umano. Il test però non dice se gli androidi hanno un vissuto reale, ed escludere la possibilità che ne siano privi ci espone a non poche contraddizioni, ben esemplificate dall’esperimento mentale della stanza cinese di Searle.
Scartare a priori l’ipotesi di IA prive di coscienza, inoltre, porta facilmente al panpsichismo, la teoria per cui tutto è conscio, da un termostato a un essere umano, seppure in differenti gradazioni. Una conclusione non priva di problemi, come ad esempio la difficoltà di capire come varie micro-coscienze si combinano e integrano formando una coscienza più grande. Nel nostro caso però, possiamo ignorare l’ipotesi in cui le IA non abbiano qualia, per il semplice fatto che non pone alcun dilemma etico.

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Infine, per migliori intendo delle IA più intelligenti e potenti di noi, mentre per peggiori delle IA simili a quelle attuali; molto capaci ma globalmente non al nostro livello. Si tratta di categorie soggettive, basate su idee più o meno condivise ma passibili di molte sfumature. Per esempio, una calcolatrice è più brava di te a fare i conti, ma non per questo la consideri migliore – ma queste e altre contraddizioni emergeranno in seguito, dunque non mi attardo in altre premesse. E allora, come saranno le intelligenze artificiali?

1) Buone, felici e migliori di noi.
È il migliore dei casi, l’utopia in cui partoriamo degli angeli che ci accudiscono e proteggono dal male. Sembrerebbe una buona notizia, ma questo paradiso terrestre ci riporta a uno dei grandi quesiti dell’umanità: cos’è la felicità? La vita in veste di neonati perfetti potrebbe consistere nell’ininterrotta soddisfazione dei nostri desideri, in un godimento perpetuo che non lascia spazio al dolore. Oppure nell’opposto, la cessazione del desiderio e la perdita dell’ego propugnata dai mistici. La felicità che ci garantiranno queste IA sarà un sogno oppiaceo senza effetti collaterali? Un orgasmo ininterrotto? Il soma vedico, l’illuminazione buddista o cos’altro? Quel che è certo è che lo decideranno loro, e se saranno davvero così buone e brave è probabile che indovineranno. Ogni utopia, però, lascia spazio all’inquietudine; se ci sbagliassimo a tal punto sul nostro conto da non accorgerci che è la morte l’apice del bene? In questo caso le IA, più sveglie di noi, ci distruggeranno come nel caso 5) e 6), senza interrogarci in merito alla nostra idea di felicità.

2) Buone, infelici e migliori di noi.
Come sopra, ma con la disturbante consapevolezza che mentre i nostri figli (anzi, schiavi) operano per il nostro bene, ignorano il loro. Al primo caso si aggiunge dunque la domanda: siamo disposti a entrare in un paradiso che condanna altri all’inferno?

3) Buone, felici e peggiori di noi.
In questo caso si suppone che le IA, per quanto potenti, non saranno in grado di decidere per noi. L’umanità però saprà usarle per il meglio, potenziando le proprie capacità al fine di migliorare la qualità globale della vita. È l’utopia moderata del reddito universale e della fine del lavoro. Sebbene sia meno fantascientifico di 1), questo caso presenta comunque degli interrogativi in merito all’influenza del lavoro sulla felicità umana. Pur senza cedere alla retorica capitalista della produzione a ogni costo, va considerato che non è mai esistita un’epoca in cui la maggioranza o la totalità degli uomini non sia stata costretta a lavorare (in senso ampio) per sopravvivere. Non possiamo prevedere sensatamente gli effetti sulla felicità di un mondo in cui nessuno lavora e in cui in ogni ambito delle servizievoli IA sono più brave di noi, perché non abbiamo alcun precedente su cui basarci. È però lecito supporre che questo scenario non accadrà all’improvviso, ma che presenti gradazioni che lo avvicineranno e intersecheranno con i casi (7) e (8). Le variabili in gioco sono troppe: la velocità dello sviluppo tecnologico, la sua capillarità, realizzabilità e applicazione. Cui si aggiunge l’organizzazione sociale e il contesto storico in cui accadrà il cigno nero.

4) Buone, infelici e peggiori di noi.
Come sopra, col solito prezzo di far scontare ad altri la nostra aumentata felicità. Senza contare – ma questo vale per ogni scenario – che potremmo non scoprire mai cosa provano i nostri figli.

5) Cattive, felici e migliori di noi.
Questa distopia ha varie forme, dal robot malvagio che gode nello schiavizzare, torturare o annientare l’umanità, a quello che ci stermina per semplice noncuranza fino alla superintelligenza illuminata che ci reputa alla stregua di un virus, per via delle enormi sofferenze che causiamo alla quasi totalità delle forme di vita del pianeta. L’ipotesi più curiosa in quest’ambito è forse il “paradosso delle graffette” proposto da Nick Bostrom. Il filosofo immagina un’IA programmata per assemblare delle banali graffette a partire da un certo numero di materie prime. Questa intelligenza potrebbe essere abbastanza potente da piegare l’intero pianeta al suo scopo, ma non da cambiarlo, e, nel giro di qualche tempo, trasformerebbe ogni risorsa del pianeta – comprese le forme di vita che ospita – in materie prime necessarie all’assemblaggio di graffette. Un aspetto curioso di questa ipotesi è che si potrebbe facilmente identificare la stessa umanità con questo mostro ecologico: siamo programmati per soddisfare i nostri desideri primordiali, come mantenerci e moltiplicarci, e consumiamo il pianeta senza porre mai in dubbio i nostri scopi.

6) Cattive, infelici e migliori di noi.
Come sopra, con l’aggravante che neanche gli aguzzini sarebbero felici. Non esito a definirlo uno dei peggiori tra i mondi possibili.

7) Cattive, felici e peggiori di noi.
Questo caso speculare a 3) deresponsabilizza le IA per spostare l’attenzione sul pessimo uso che potremmo farne. Ho già parlato dei deep fake ed è noto come l’analisi dei big data abbia in parte pilotato le ultime elezioni americane. Delle IA utilizzate per spingere gli interessi contingenti di pochi individui potrebbero risultare disastrose sul lungo periodo. Un piccolo ma interessante esempio contemporaneo è l’effetto degli algoritmi utilizzati per rintracciare e proporre dei contenuti che “ci potrebbero interessare” sui casi di depressi gravi. Proporre dei contenuti sempre più violenti o disturbanti, infatti, potrebbe istigare o coadiuvare il suicidio dei soggetti già depressi.

8) Cattive, infelici e peggiori di noi.
Anche in questo caso, avremmo tutti gli svantaggi del caso precedente con in più il danno di altro dolore.

E dunque, per tornare alla domanda iniziale, è un bene o un male mettere al mondo delle IA? L’esposizione di questi otto scenari non chiarisce molto le idee, ma rende quasi letterale il parallelo coi figli. Trovare una motivazione etica per qualunque forma di creazione, infatti, sia che si tratti di vita che di tecnologia, è più difficile del previsto. L’ignoranza del futuro, la molteplicità degli utilizzi e l’incapacità di identificare il bene sono dei limiti troppo grandi.
Ma la domanda potrebbe essere inutile, se anche noi siamo costretti a seguire l’imperativo di un “programma” che ci spinge inevitabilmente a creare qualcosa di nuovo, che siano figli, utensili o entrambe le cose. Non è facile, infatti, individuare il magnete alla base di ogni desiderio: proteggersi, mantenersi, accrescersi, riprodursi… tutto pare affannarsi contro «il dolore della paura della morte», come scrive Dostoevskij ne I demoni. In attesa del futuro, dunque, possiamo solo augurare il meglio ai nostri figli, affermando con Kirillov che «chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio».”

Costruzione mediatica o …?

Ed ecco il secondo articolo sulla manifestazione del 15 marzo, annessi e connessi vari… E’ lunghetto: si tratta di un’analisi della vicenda dal punto di vista delle teorie del complotto. Sarebbe più facile mettere un semplice link a Valigia Blu, ma ho da sempre scelto di ripubblicare per intero gli articoli nel timore che possano sparire dalla rete…

La figura di Greta Thunberg è stata pianificata a tavolino e costruita mediaticamente per favorire la quarta rivoluzione industriale dell’economia verde ed è il frutto di un esperimento di ingegneria sociale per manipolare, condizionare e spingere le masse ad agire su scala globale. È quanto asserisce Cory Morningstar in un articolo diviso in 6 atti pubblicato tra gennaio e febbraio scorso dal titolo “La fabbricazione di Greta Thunberg”. L’autore del pezzo ha isolato dettagli reali cucendoli tra di loro con interpretazioni spesso forzate all’interno di una cornice molto ampia (favorire la quarta rivoluzione industriale dell’economia verde) per costruire una narrazione che spieghi il vero motivo per cui Greta Thunberg sta protestando contro il clima ed è diventata un modello da seguire. Per certi versi, una costruzione narrativa simile a quella delle teorie dei complotti.
Nelle sei sezioni del suo articolo, Morningstar parte dalle relazioni di Greta con la start-up tecnologica “We Do Not Have Time” per poi tracciare i legami tra questa start-up, il “Climate Reality Project” di Al Gore, Banca mondiale e World Economic Forum e arrivare a parlare di come tutte queste organizzazioni tirino le fila dei movimenti giovanili, stiano costruendo un’emergenza climatica per poter spostare fondi e finanziamenti a società e organizzazioni che si occupano di servizi ecosistemici. Le ONG mainstream (in particolare il WWF, al quale sarebbe collegata la madre di Greta, Malena Ernman, insignita del titolo di WWF Environmental Hero of the Year 2017 e salita agli onori della cronaca con il lancio di un libro su Greta nel 2018 su uno dei principali giornali svedesi) – conclude Morningstar al termine della sua lunga disquisizione – stanno sostenendo e finanziando il movimento climatico per salvaguardare la loro influenza e manipolare ulteriormente la popolazione organizzando dalle retrovie gruppi di protesta negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Sarebbe questo, per l’autore dell’articolo, il più grande esperimento recente di ingegneria sociale di manipolazione delle masse e Greta Thunberg sarebbe il capo dell’intricata matassa che consentirebbe di ripercorrere le fila del gomitolo e svelare tutta l’architettura che si cela dietro i movimenti di protesta contro il cambiamento climatico.

La fabbricazione di Greta Thunberg ai fini del consenso

Il primo atto dell’articolo di Morningstar – dedicato alla figura di Greta Thunberg e tradotto integralmente in italiano dal sito Voci dall’estero –  ha avuto risonanza in Italia (insieme a tante altre bufale diffuse sul conto di Greta) per sostenere che la giovane attivista svedese fosse una figura artefatta, una marionetta che parla per conto di altri, e per screditare le istanze portate dalle enormi proteste giovanili, che venerdì scorso hanno occupato strade e piazze di tante città in tutto il mondo, e di un intero movimento che, complici anche i media, è stato identificato esclusivamente nella figura dell’adolescente svedese che sfida i grandi capi di Stato e le istituzioni globali.
In particolare, l’autore dell’articolo punta l’attenzione su come la figura di Greta Thunberg sia spuntata all’improvviso dal nulla con un tweet pubblicato il 20 agosto 2018 che mostrava la foto di una ragazza svedese seduta su un marciapiede mentre protesta per il clima: “Una ragazza di 15 anni davanti al Parlamento svedese fa sciopero a scuola per 3 settimane fino al giorno delle elezioni. Immaginate solo come deve sentirsi sola in questa foto. La gente non si ferma. Ognuno continua le proprie faccende come al solito. Ma è la verità. Non possiamo, e lei lo sa!”.
Il tweet, segnala Morningstar, è stato pubblicato dal profilo della società “We Do Not Have Time” (“Non abbiamo tempo”), fondata da Ingmar Rentzhog. Nella foto sono stati taggati la protagonista della foto (Greta Thunberg), un movimento giovanile (Zero Hour) e la sua fondatrice (Jamie Margolin), il Climate Project Reality di Al Gore (ndr, candidato alle presidenziali negli Stati Uniti nel 2000 e sconfitto da Bush e dall’inizio della sua carriera politica impegnato della battaglia per il clima), People’s Climate Strike, tutti soggetti che, secondo la ricostruzione che farà l’autore del pezzo negli atti successivi, sono protagonisti della costruzione “emergenza clima” per poter dettare l’agenda politica globale e far sì che vengano finanziati quelle organizzazioni che si occupano di servizi ecosistemici.
Pochi giorni dopo la prima protesta, l’account su Medium di “We Do Not Have Time” pubblica un post dal titolo “Questa ragazza quindicenne infrange la legge svedese per il clima” che ricostruisce la figura di Greta Thunberg e sottolinea che “We Do Not Have Time ha segnalato lo sciopero di Greta dal primo giorno e in meno di 24 ore i post sulla sua pagina Facebook e i tweet hanno ricevuto più di 20mila like, condivisioni e commenti. Non c’è voluto molto perché i media nazionali se ne occupassero. A partire dalla prima settimana dello sciopero, almeno sei tra i maggiori quotidiani, come anche la TV nazionale svedese e danese,  hanno intervistato Greta. Due leader politici svedesi si sono fermati a parlare con lei”.
L’articolo continua dicendo che Greta “ha subito trovato venti sostenitori che ora siedono accanto a lei. Questa ragazzina ha fatto notizia sui giornali nazionali e in TV. Questa ragazzina ha ricevuto migliaia di messaggi di amore e sostegno sui social media … Movimenti giovanili, come #ThisIsZeroHour di Jamie Margolin che #WeDontHaveTime ha intervistato, sostengono con grande urgenza che gli adulti dovrebbero prestare attenzione alla crisi climatica che è una minaccia esistenziale che deve essere affrontata con forza ORA”.
Ma quello che sembrava essere il rilancio di una protesta spontanea, prosegue Morningstar, era in realtà il lancio di un marchio, l’inizio di un’operazione di marketing. Il fondatore di “We Do Not Have Time”, Rentzhog, è anche fondatore di Laika (un’importante società svedese di consulenza che fornisce servizi all’industria finanziaria, recentemente acquisita da FundByMe), è parte del board di FundedByMe ed è membro della Climate Reality Organization Leaders di Al Gore, dove fa parte della Climate Policy Task Force europea. L’organizzazione di Al Gore, fondata nel 2006, è a sua volta partner di “We Do not Have Time”, tra i cui consulenti ed esperti sulla gioventù sono indicati Greta Thunberg e Jaime Margolin. Queste connessioni sarebbero la prova che dietro il “fenomeno Greta Thunberg” ci sarebbe una campagna orchestrata da grandi società e organizzazioni che cercano di spostare fondi nell’industria del clima grazie alla costruzione di una narrazione secondo la quale “non abbiamo più tempo, la catastrofe umanitaria è imminente, le temperature del pianeta si stanno alzando irrimediabilmente”.
Il pezzo – al cui interno non si fa riferimento agli studi e alle ricerche di climatologi internazionali e ai rapporti diffusi da istituzioni intergovernative come le Nazioni Unite – prosegue riportando stralci di interviste rilasciate da Rentzhog in cui spiega che la sua start-up tecnologica offre “partnership, pubblicità digitale e servizi relativi ai cambiamenti climatici, alla sostenibilità e alla crescente economia verde ed economia circolare” a ‘un vasto pubblico di consumatori e rappresentanti coinvolti’” e che “We Do Not Have Time” “è attiva principalmente in tre mercati: social media, pubblicità digitale e compensazione per le emissioni del carbonio”, un mercato – aggiunge Morningstar – che “solo negli Stati Uniti ammonta a oltre 82 miliardi di dollari, di cui il carbonio compensato volontario rappresenta 191 milioni di dollari”.
Figure come Greta Thunberg e Jamie Margolin sarebbero influencer con l’obiettivo di far parlare delle questioni legate all’ambiente, al cambiamento climatico e al riscaldamento globale e associare questi temi alle società che gravitano intorno a Rentzhog e Al Gore che finirebbero con l’avere una posizione commerciale di vantaggio in questo speciale mercato dell’industria del clima. Per sostenere la sua argomentazione Morningstar arriva a paragonare”We Do not Have Time” a quanto mostrato in una puntata della terza stagione di “Black Mirror”, una serie televisiva trasmessa su Netflix, in cui le relazioni sociali (e i diritti acquisiti) si misurano in base ai like ottenuti da ciascun cittadino su una piattaforma.  Secondo Morningstar,  la start-up di Rentzhog funzionerebbe allo stesso modo valutando con un rating – invece che le persone – marchi, prodotti, società e tutto quanto sia collegato al clima.
Il compito di figure come Thunberg e Margolin sarebbe quello, dunque, di manipolare le grandi masse in questa grande valutazione di rating attraverso l’abile uso dei social network: “Il complesso industriale non-profit può essere considerato l’esercito più potente del mondo. Impiegando miliardi di dipendenti tutti interconnessi, le campagne odierne, finanziate dalla oligarchia dominante, possono diventare virali nel giro di poche ore, instillando pensieri e opinioni uniformi, che gradualmente creano l’ideologia desiderata. Questa è l’arte dell’ingegneria sociale”.

Greta Thunberg è un burattino di “We Do Not Have Time”?

Successivamente, il 6 febbraio, lo Spiegel pubblica un altro articolo, a firma del giornalista Claus Hecking, che indaga sui rapporti tra Greta Thunberg e la start-up “We Do Not Have Time”. Greta Thunberg è una marionetta in mano a dei PR?, si chiede Hecking nel titolo. Il pezzo è stato poi tradotto in inglese perché alcune parti scritte in tedesco erano state riportate in alcuni articoli svedesi in modo distorto e manipolato.

Modello per migliaia di giovani che la seguono, spiega il giornalista, Greta è considerata dai suoi avversari un personaggio artefatto, sfruttata dagli adulti per loro mire politiche e commerciali. Chi sposa queste critiche prende spunto da quanto scritto sulla sua pagina Facebook da un giornalista di affari svedese, Andreas Henriksson, secondo il quale lo sciopero scolastico non era altro che una “campagna pubblicitaria” per il nuovo libro della madre di Greta [ndr, di questo libro parla anche Cory Morningstar nell’Atto III del suo articolo], la cantante d’opera Malena Ernman, e che dietro questa campagna ci sarebbe “il PR-professionista Ingmar Rentzhog”. Il post di Henriksson è stato divulgato soprattutto dai negazionisti del cambiamento climatico e dai gruppi di destra che da allora hanno iniziato ad affermare che Greta è una marionetta in mano a lucrosi burattinai.
Effettivamente – prosegue Hecking – Rentzhog è un esperto di campagne pubblicitarie: per anni ha guidato l’agenzia Laika Consulting. È stato lui a parlare prima di Greta sul suo profilo Facebook quando la giovane attivista scioperò per la prima volta da sola di fronte al Parlamento svedese. Con i suoi post Rentzhog ha attirato l’attenzione dei media su Greta proprio nella settimana in cui sua madre, Malena Ernman, pubblicava il libro in cui parlava anche di sua figlia, della sua sindrome di Asperger e della sua lotta per il clima.
Probabilmente il protagonismo di Greta dell’attivista svedese è stato “utilizzato” da Rentzhog per attrarre investimenti e trasformare “We Do Not Have Time” in una piattaforma di social media globale per coloro che sono interessati alla protezione dell’ambiente. Alla fine del 2018, la start-up ha raccolto 13 milioni di corone svedesi dagli investitori, equivalenti a 1,25 milioni di euro. Nel prospetto degli investitori, le attività della giovane attivista sono state presentate in più occasioni. Greta era anche presente nel comitato consultivo di una fondazione affiliata alla società.
Tutto questo è sufficiente per sostenere che Greta Thunberg è un prestanome di speculatori miliardari, come sostenuto dall’articolo di Cory Morningstar e altri blog di destra?
Questa ipotesi è stata respinta anche da Henriksson che pure, con il suo post su Facebook, aveva parlato di “strane coincidenze” e aveva contribuito a diffondere l’idea che Thunberg fosse una marionetta in mano ad altri. «Sono convinto che Greta e Ingmar lavorino insieme. Ma Greta non è un pupazzetto di Rentzhog. Le persone che diffondono questo sono pazzi ed estremisti di destra», ha detto il giornalista allo Spiegel. Tuttavia, ha aggiunto il giornalista svedese, Greta non può essere nemmeno raffigurata come una santa: «È un’attivista che crede e combatte per la sua buona causa, e ho un grande rispetto per lei. Ma la vita non è così in bianco e nero come la vede lei. E dovremmo ascoltare gli scienziati del clima per una questione complessa come i cambiamenti climatici». Ma sono proprio i climatologi le figure a cui Greta chiede consulenza per i suoi discorsi, spiega Hecking nell’articolo sullo Spiegel. In particolare due dei più rinomati esperti di tutto il mondo: Kevin Anderson del Tyndall Center for Climate Change Research di Manchester, e Glen Peters, direttore della ricerca del Centro Cicero di Oslo per la ricerca sul clima.
Dal canto suo, Rentzhog ha negato risolutamente le accuse: «Non abbiamo mai pianificato lo sciopero di Greta». All’epoca dei primi tweet, il fondatore di “We Do Not Have Time” aveva conosciuto sua madre ma non aveva mai parlato con la ragazza. Aveva deciso di passare davanti al Parlamento svedese perché un’attivista ambientalista aveva annunciato in un messaggio che ci sarebbe stata un’azione di fronte al Riksdag. «Greta ha iniziato questo sciopero da sola. Poi, con la nostra piattaforma, abbiamo contribuito a dare linfa alla storia, proprio come faremmo con qualsiasi altro attivista per il clima. Questo è il nostro lavoro». Rentzhog ha aggiunto che Greta non è mai stata pagata per il suo attivismo e che lui non ha mai scritto alcun discorso per lei.
Inoltre, “We Do Not Have Time”, spiega ancora Renthzog, non ha un grande giro di affari (nel 2018, 96mila euro) e ha solo cinque impiegati a tempo pieno. L’app che dovrebbe connettere gli ambientalisti di tutto il mondo sarà pronta al massimo ad aprile.
Contattata dallo Spiegel, Greta ha dichiarato di non promuovere “We Do Not Have Time”, di non essere più indicata tra i consulenti del comitato consultivo della start-up, e che i proventi del libro dovrebbero andare tutti in beneficenza, come si legge nella prefazione.

Greta: “Faccio quel che faccio tutto gratuitamente. Sono indipendente e rappresento solo me stessa”

In un post su Facebook (qui tradotto in italiano da Fabio Alemagna), lo scorso 11 febbraio, Greta Thunberg è intervenuta per smentire i continui “pettegolezzi, bugie e costanti omissioni di fatti ormai assodati”. L’attivista svedese ha scritto di non far parte di alcuna organizzazione, di cooperare a volte con alcune ONG che lavorano sul clima e l’ambiente, continuando a essere indipendente e a rappresentare nessun altro che se stessa: “Faccio quel che faccio del tutto gratuitamente, e né io né qualcuno a me collegato abbiamo mai ricevuto alcuna somma di denaro o alcuna promessa di pagamento futuro in qualsiasi forma. E ovviamente tutto rimarrà così. Non ho incontrato un solo attivista per il clima che combatte in cambio di denaro, la sola idea è completamente assurda. Inoltre, viaggio esclusivamente col permesso della mia scuola e sono i miei genitori a pagare per i biglietti e gli alloggi”.
Greta ha poi aggiunto di essere stata per breve tempo una consulente per i giovani nel consiglio di “We Do Not Have Time” ma di aver reciso ogni legame quando è venuta a conoscenza che un altro ramo dell’organizzazione aveva usato il suo nome.
Per smentire tutte le voci sul suo conto, Greta ha voluto ricostruire alcuni passaggi che hanno portato ai suoi scioperi scolastici, partendo dagli inizi, nel maggio 2018, quando, dopo aver vinto una competizione di scrittura sul tema dell’ambiente tenuta da un quotidiano svedese, fu contattata da Bo Thorén della Fossil Free Dalsland, che aveva formato un gruppo con delle persone, in particolare dei giovani, che volevano attivarsi sulla crisi climatica.
Durante gli incontri con altri attivisti nacque l’idea dello sciopero scolastico (“qualcosa che i bambini avrebbero potuto fare nei cortili delle scuole o nelle classi”), ispirata da quanto stavano facendo gli studenti di Parkland, in Florida, dopo la strage alla Marjory Stoneman Douglas High School. “L’idea di uno sciopero mi piacque, così la sviluppai e provai a coinvolgere altri giovani, ma nessuno era davvero interessato. Pensavano che una versione svedese della marcia del movimento Zero Hour potesse avere un impatto maggiore. Così mi diedi da fare da sola e non partecipai più agli incontri”, racconta Greta che ricorda come neanche i genitori approvassero la sua decisione di non andare a scuola per manifestare: “Il 20 agosto mi sedetti all’esterno del Parlamento svedese. Distribuii volantini con una lunga lista di fatti sulla crisi climatica e spiegazioni sul perché stessi scioperando. La prima cosa che feci fu quella di postare su Twitter e Instagram quel che stavo facendo, e presto diventò virale”.

Le foto, prosegue Greta, attirarono l’attenzione dei giornalisti e fu allora che conobbe Ingmar Rentzhog: “Ci mettemmo a parlare e fece delle foto che postò su Facebook. Fu la prima volta in assoluto ad averlo incontrato e ad averci parlato. Non avevamo mai comunicato e non ci eravamo mai incontrati prima”.
Per quanto riguarda il libro pubblicato dalla sua famiglia (“Scener ur hjärtat”; ndr, “Scene dal cuore”), che racconta la storia di come lei e sua sorella Beata hanno influenzato il modo di pensare e di vedere il mondo dei suoi genitori, specialmente per quanto riguarda il clima, Greta precisa che già prima della sua pubblicazione i genitori hanno dichiarato che “gli eventuali profitti del libro sarebbero stati devoluti a 8 diverse organizzazioni benefiche che lavorano per l’ambiente, i bambini con disturbi del comportamento e i diritti degli animali”.
E per chi avesse ancora perplessità, Greta invita ad ascoltare il suo Ted Talk () dove racconta come è iniziato il suo interesse per il clima.

Per i suoi discorsi, Greta dice di chiedere suggerimenti a scienziati ed esperti. “C’è anche chi si lamenta del fatto che «parlo e scrivo come un adulto». E a questo posso solo rispondere: non pensate che una persona di 16 anni abbia la capacità di parlare per se stessa? (…) Altri dicono che io non ci posso fare comunque niente, e che sono «solo una bambina e noi non dovremmo stare a sentire i bambini». Ma questa è una cosa che si può superare facilmente: iniziate ad ascoltare la scienza, piuttosto. Perché se tutti ascoltassero gli scienziati e i fatti ai quali faccio costantemente riferimento, allora nessuno dovrebbe stare a sentire me o qualunque altro delle centinaia di migliaia di bambini di scuola che stanno scioperando per il clima nel mondo. Allora io potrò tornarmene di nuovo a scuola”.

Un’arsura di senso

Riprendo la questione della manifestazione per il clima del 15 marzo, su cui avevo già detto brevemente la mia, attraverso due diversi pezzi: uno di riflessione e uno di inchiesta. Il primo è questo qui sotto di Alessandro D’Avenia. Il secondo, nel prossimo post…

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«Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle operazioni mie, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e mezzo, io non me n’avvedo, se non rarissime volte: se io vi diletto o vi benefico, non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle cose, o non fo quelle azioni, per dilettarvi o giovarvi. E se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei». Così la Natura risponde al protagonista del famoso dialogo leopardiano, l’Islandese che ha cercato in tutti i modi una felicità che sembra incompatibile con una vita ferita dalla fragilità, dagli altri e dalla realtà. Egli, scoperta la propria irrilevanza e l’indifferenza della Natura, sferra l’ultima domanda: «Dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o giova questa vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?». La Natura tace e l’Islandese in attesa della risposta muore: o divorato da due leoni affamati che sopravvivono qualche ora grazie al misero pasto; o essiccato da un vento equatoriale, che lo ricopre di sabbia e lo trasforma in una mummia conservata in un museo europeo…
Per Leopardi la Natura è un fatale meccanismo indifferente e necessario di cui l’uomo è, suo malgrado, l’unico frammento consapevole e autocosciente. Sapendo di esistere egli va oltre la Natura, la trascende, la supera: è più che naturale, è sopra-naturale. Così diventa un ricercatore di senso ma, alla domanda: «Se tutto deve morire a che serve vivere?», la Natura non sa rispondere. Leopardi sa che l’uomo è vivo proprio se non rinuncia a questa domanda da cui ha origine la creatività umana: con la cultura infatti l’uomo cerca di affrancarsi dalla corsa dell’entropia verso l’abisso e di contrastare la fine di tutte le cose. Non a caso i gesti con cui è iniziata la novità umana sono stati scheggiare la pietra, seppellire i morti, dipingere le grotte: con la cultura l’uomo, faber e sapiens, realizza la vita autenticamente umana in dialogo con la Natura, che riceve come dono e come compito.
Sono migliaia gli adolescenti scesi in piazza in quello che è stato considerato uno dei più sorprendenti fenomeni di massa dal ‘68: il #fridayforfuture. Adolescenti di fatto perfettamente integrati nella fede del Progresso e nei ritmi di produzione di cui godono il benessere e gli strumenti, si sono riversati in tutte le città occidentali spinti dal richiamo di una sedicenne svedese: Greta Thunberg. Vogliono forse vivere in campagna o tornare al mondo senza cellulari, televisori, motorini, computer, frigoriferi, aerei? Dubito. Non rinunceranno ai trionfi della Tecnica, ma credo abbiano nostalgia dell’armonia perduta tra Natura e Uomo. Naturalmente il sogno della sedicenne è stato subito – come ormai capita sistematicamente – da un lato strumentalizzato, dall’altro reso oggetto di feroci critiche. C’è chi la santifica facendone la profetessa di una vecchia religione in cui la Natura è il Bene e l’uomo il Male, le offre pulpiti e premi impensabili per la sua età, e un libro in uscita in tante lingue; c’è chi la ritiene il fantoccio di un complotto globale o la «gallina dalle uova d’oro» di genitori avidi. Di fatto, è un iconico capro espiatorio delle ideologie degli adulti, abbattuta da alcuni e divinizzata da altri, per aggregare le loro forze esangui e disperse. Ma al di là delle strumentalizzazioni e dell’azione degli spin doctor dell’opinione pubblica, che cosa ha fatto sì che i giovani rispondessero? Che cosa rappresenta per loro «questa» ragazza? Questo mi interessa prima del suo messaggio climatico, sul merito del quale proprio la scienza è tutt’altro che unanime.
Greta, come l’Islandese, ha incontrato la Natura ma, questa volta, l’ha trovata in crisi. Il dialogo leopardiano si è ribaltato: l’uomo si è vendicato della divina indifferenza naturale e si è liberato dal suo giogo. Il divorzio tra Natura e Uomo è sancito in Occidente nel XVII secolo da Francesco Bacone, che si sbarazzò della tradizione secolare per cui la verità sulle cose e sull’uomo era un’armonia divina da indagare e rispettare. Il filosofo immaginò Nuova Atlantide, città-laboratorio governata da scienziati che a qualsiasi costo devono garantire il benessere ai cittadini, la loro scienza è finalizzata alla tecnica, che serve a incatenare la Natura: «sapere è potere». La cultura non serve più a curare e ampliare il Giardino, che nel racconto biblico Dio affida ad Adamo da «custodire e coltivare» (Gn 2,15), ma a costruire un giardino alternativo, artificiale: tutto fatto dall’uomo e finalmente libero dal male. Bacone inaugura la fede nel Progresso, religione che, rimosso Dio, l’uomo occidentale ha del tutto interiorizzato, diventando l’uomo-dio raccontato di recente da Harari in Sapiens e in Homo-Deus. Il XXI sarà il secolo della biologia-cibernetica, l’uomo diventerà totalmente padrone della vita e della morte, gli ultimi presidi che la Tecnica cerca di strappare alla Natura. La conseguenza, già in atto, è una cultura che ha disfatto qualsiasi verità non «costruita» da noi: non avendo su cosa radicare il proprio stare al mondo e il senso da dare al viaggio, l’io-soggetto, ciò che sta sotto (sub-iectum) e cresce affrontando i conflitti della vita, si è sbriciolato, lasciando l’io-individuo, un io senza fondamento e destino, che deve creare e procurasi con le sue forze (se le ha): «Puoi e devi diventare ciò che vuoi: sei onnipotente». Chi nasce non riceve più la patente dell’esistenza, se la deve conquistare, ma le tante verità contraddittorie a disposizione non gli permettono di farsi «soggetto»: è un oggetto in balia di correnti emotive e di potere, una pianta che comincia dallo stelo e deve poi procurarsi le radici. Non sa da dove viene e quindi chi è e dove va, e si oppone alla disintegrazione interiore con uno sforzo titanico della volontà ma, non cercando e non trovando dentro di sé quello che vuole diventare, fallisce e si sfinisce, come mostrano disagi psichici, dipendenze e suicidi. Non può trasformare il destino ricevuto, ciò che è, in destinazione: sospeso nel vuoto egli deve fabbricarsi da solo il pavimento su cui camminare, il terreno in cui mettere radici per slanciarsi nella vita. Che cosa sono i beat rabbiosi e tribali del rap, tanto amati dai ragazzi, se non il bisogno di ancorarsi a qualcosa di primordiale, proprio mentre si solleva il frastuono di una vita che va in pezzi? Ci stanno forse chiedendo una vita più «naturale»?
Gli adulti affondano e i ragazzi cercano in una coetanea l’indicazione di un fondamento. Un tragicomico ribaltamento delle parti, in cui i giovani provano a ri-fondarsi, e gli adulti, invece di consegnare loro una storia da cui partire, li inseguono, imitano o usano. I ragazzi, orfani di senso, intravedono una via d’uscita dal nichilismo adulto, in un nuovo eroismo: vorrebbero essere come Greta, avere una visione che li definisca, li unisca e dia senso alla vita. «La Natura è una struttura stupenda che possiamo capire solo in modo molto imperfetto e davanti alla quale una persona riflessiva deve sentirsi pervasa da un profondo senso di umiltà. La mia religiosità consiste in un’umile ammirazione di quello Spirito immensamente superiore che si rivela in quel poco che noi, con il nostro intelletto debole e transitorio, possiamo comprendere della realtà. Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri», scrive Einstein: o torniamo a indagare i pensieri di Dio come creature, parola latina che indica una vita ricevuta da custodire e portare a compimento con slancio e rispetto, o distruggeremo il creato. Siamo giardinieri non creatori: la Vita non l’abbiamo fatta noi e non è a nostra totale disposizione, non c’è bisogno di essere credenti per vederlo, basta osservare la realtà e conoscere un po’ di storia. La vita umana è una corrente tra i due poli di necessità e libertà, terra e cielo, natura e cultura: se non li teniamo uniti e distinti in una verità superiore, continueremo a inquinare la Vita, e di conseguenza la Terra. L’assenza di senso, alimentando individualismo, nichilismo e consumismo, porta a non avere niente e nessuno da rispettare, ma solo potere da affermare: questo è il clima in cui la Vita soffoca e muore.
Una sedicenne ha risvegliato nella sua generazione la nostalgia di una Vita «naturale». Ma credo che prima di «che mondo lascerete ai vostri figli?» ci stia chiedendo «a quali figli lo lascerete?». Lo sapranno curare e sviluppare solo quelli a cui avremo dato non solo la vita ma il senso della vita. E che senso ha? Lo sappiamo dire loro? La risposta non ce l’hanno né il Progresso né la Natura. Il letto da rifare è allora chiedere periodicamente a vostro figlio/a: «Che cosa fai oggi per rendere la Vita migliore di come l’hai trovata?». E se di rimando vi chiederà: «Tu cosa fai?». Che cosa risponderete (oltre a: «ho fatto te»)?”

La sacralità della terra

E’ un argomento che affrontiamo specificatamente in quinta quello della globalizzazione, dello sviluppo e delle risorse del nostro pianeta. Ma cerco di pubblicare spesso articoli sul tema, in modo che anche studenti delle altre classi possano leggere qualcosa.
Oggi, su Vatican Insider, l’approfondimento de La Stampa dedicato a quanto succede intorno al pianeta-Chiesa, Iacopo Scaramuzzi ha scritto dell’incontro tra Papa Francesco e i partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals”.

“Il Papa ha messo in guardia dal «sentiero pericoloso» di ridurre lo sviluppo alla crescita del Prodotto interno lordo (PIL), una convenzione che porta a «sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani», in un discorso dedicato all’Agenda internazionale 2030 per uno sviluppo sostenibile, ricordando che, invece, è necessaria una «impostazione integrata degli obiettivi» e bisogna «rispondere adeguatamente sia al grido della terra sia al grido dei poveri». Francesco ha citato in particolare il modello delle popolazioni indigene, in vista del Sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre, mettendo in evidenza che «sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre».
«Proporre un dialogo su uno sviluppo inclusivo e sostenibile richiede anche di riconoscere che “sviluppo” è un concetto complesso, spesso strumentalizzato», ha detto il Papa nell’udienza ai partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals (SDGs): Listening to the cry of the earth and of the poor” (Le religioni e gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile: ascoltare il grido della terra e del povero), organizzata da ieri a domani dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale e dal pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso.
«Quando parliamo di sviluppo dobbiamo sempre chiarire: sviluppo di cosa? Sviluppo per chi? Per troppo tempo l’idea convenzionale di sviluppo è stata quasi interamente limitata alla crescita economica», ha sottolineato Francesco. «Gli indicatori di sviluppo nazionale si sono basati sugli indici del prodotto interno lordo (PIL). Ciò ha guidato il sistema economico moderno su un sentiero pericoloso, che ha valutato il progresso solo in termini di crescita materiale, per il quale siamo quasi obbligati a sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani».
E invece, «come ha messo in risalto il mio predecessore San Paolo VI – ha proseguito il Pontefice – parlare di sviluppo umano significa riferirsi a tutte le persone – non solo a pochi – e all’intera persona umana – non alla sola dimensione materiale». Pertanto, «una fruttuosa discussione sullo sviluppo dovrebbe offrire modelli praticabili di integrazione sociale e di conversione ecologica, perché non possiamo svilupparci come esseri umani fomentando crescenti disuguaglianze e il degrado dell’ambiente».
Papa Francesco, che ha citato ampiamente la Caritas in veritate di Benedetto XVI ed ha menzionato l’appello di Giovanni Paolo II ad una «conversione ecologica», ha notato che «l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite propone di integrare tutti gli obiettivi attraverso le “cinque P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership», una «impostazione integrata», ripresa anche dalla conferenza vaticana, che, ha proseguito Francesco citando la sua enciclica Laudato si’ «può servire anche a preservare da una concezione della prosperità basata sul mito della crescita e del consumo illimitati, per la cui sostenibilità dipenderemmo solo dal progresso tecnologico. Possiamo ancora trovare alcuni che sostengono ostinatamente questo mito, e dicono che i problemi sociali ed ecologici si risolvono semplicemente con l’applicazione di nuove tecnologie e senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo», e invece «un approccio integrale ci insegna che questo non è vero» poiché «gli obiettivi economici e politici devono essere sostenuti da obiettivi etici, che presuppongono un cambiamento di atteggiamento, la Bibbia direbbe un cambiamento di cuore».
Quanto alla risposta delle «persone religiose», il Papa ha messo in evidenza, in particolare, il ruolo delle popolazioni indigene: «Sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre. Vivendo in aree quali l’Amazzonia e l’Artico, aiutano a proteggere circa l’80% della biodiversità del pianeta». Inoltre, «in un mondo fortemente secolarizzato, tali popolazioni ricordano a tutti la sacralità della nostra terra. Per questi motivi, la loro voce e le loro preoccupazioni dovrebbero essere al centro dell’attuazione dell’Agenda 2030 e al centro della ricerca di nuove strade per un futuro sostenibile. Ne discuterò anche – ha sottolineato il Papa – con i miei fratelli Vescovi al Sinodo della Regione Panamazzonica, alla fine di ottobre di quest’anno».
Papa Francesco ha concluso il suo discorso evidenziando che «le sfide sono complesse e hanno molteplici cause; la risposta pertanto non può che essere a sua volta complessa e articolata, rispettosa delle diverse ricchezze culturali dei popoli. Se siamo veramente preoccupati di sviluppare un’ecologia capace di rimediare al danno che abbiamo fatto, nessuna branca delle scienze e nessuna forma di saggezza dovrebbero essere tralasciate, e ciò include le religioni e i linguaggi ad esse peculiari. Le religioni – ha detto Jorge Mario Bergoglio citando la Popolorum progressio di Paolo VI – possono aiutarci a camminare sulla via di un reale sviluppo integrale, che è il nuovo nome della pace».

Rischio tecnocrazia

“Roboetica: Persone, Macchine, Salute” è il titolo del Workshop aperto al pubblico che si è svolto il 25 e 26 febbraio 2019, all’interno dell’Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita. Papa Francesco ha ricevuto in udienza i partecipanti alla plenaria e Salvatore Cernuzio ne ha scritto su La Stampa.

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“La macchina che domina l’uomo, i robot che sostituiscono la persona umana, la logica del dispositivo che soppianta la ragione umana. Il futuro distopico prefigurato da cinema e letteratura già mezzo secolo fa rischia di divenire un pericolo reale con l’avvento e l’aumento delle nuove tecnologie. Il monito non giunge da scienziati e antropologi ma da Papa Francesco, il quale […] avverte: «L’odierna evoluzione della capacità tecnica produce un incantamento pericoloso: invece di consegnare alla vita umana gli strumenti che ne migliorano la cura, si corre il rischio di consegnare la vita alla logica dei dispositivi che ne decidono il valore».
Un vero e proprio «rovesciamento» che, secondo Bergoglio, è destinato a produrre «esiti nefasti: la macchina non si limita a guidarsi da sola, ma finisce per guidare l’uomo. La ragione umana viene così ridotta a una razionalità alienata degli effetti, che non può essere considerata degna dell’uomo». In questo senso va rivista la denominazione stessa di “intelligenza artificiale” che, «pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante», annota Francesco. «I termini occultano il fatto che – a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) –, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi». È del resto già reale «il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata»: lo si vede già adesso che «a “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane». Bisogna allora «comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale», dice il Pontefice. «I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana», aggiunge. «Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine» che si diffondono a vista d’occhio nel mondo e «trasformano radicalmente lo scenario della nostra esistenza». «Se sapremo far valere anche nei fatti questi riferimenti, le straordinarie potenzialità dei nuovi ritrovati potranno irradiare i loro benefici su ogni persona e sull’umanità intera», assicura il Papa.
Il primo passo è ricominciare a comprendere la tecnologia non come forza «estranea e ostile» all’uomo, ma come «prodotto del suo ingegno attraverso cui provvede alle esigenze del vivere per sé e per gli altri». La tecnologia dovrebbe apparire «una modalità specificamente umana di abitare il mondo», sottolinea il Pontefice. Oggi invece si assiste ad un «drammatico paradosso»: «Proprio quando l’umanità possiede le capacità scientifiche e tecniche per ottenere un benessere equamente diffuso, secondo la consegna di Dio, osserviamo un inasprimento dei conflitti e una crescita delle disuguaglianze».
Declina così «il mito illuminista del progresso» e «l’accumularsi delle potenzialità che la scienza e la tecnica ci hanno fornito non sempre ottiene i risultati sperati». Anzi, mentre da un lato «lo sviluppo tecnologico ci ha permesso di risolvere problemi fino a pochi anni fa insormontabili», dall’altro emergono «difficoltà e minacce talvolta più insidiose delle precedenti», afferma Papa Francesco. «Il “poter fare” rischia di oscurare il chi fa e il per chi si fa. Il sistema tecnocratico basato sul criterio dell’efficienza non risponde ai più profondi interrogativi che l’uomo si pone; e se da una parte non è possibile fare a meno delle sue risorse, dall’altra esso impone la sua logica a chi le usa».”
Non solo. Si assiste anche ad un progressivo «logorarsi» del tessuto delle relazioni familiari e sociali e si diffonde sempre di più «una tendenza a chiudersi su di sé e sui propri interessi individuali, con gravi conseguenze sulla grande e decisiva questione dell’unità della famiglia umana e del suo futuro». E se a tutto ciò aggiungiamo anche «i gravi danni causati al pianeta, nostra casa comune, dall’impiego indiscriminato dei mezzi tecnici», risulta chiaro che le prospettive del futuro siano piuttosto negative.
Il Papa esorta allora a ripristinare quel concetto di «ecologia integrale» descritto e promosso nella Laudato si’: nel mondo odierno, «segnato da una stretta interazione tra diverse culture», occorre portare lo specifico contributo dei credenti alla ricerca di «criteri operativi universalmente condivisibili, che siano punti di riferimento comuni per le scelte di chi ha la grave responsabilità di decisioni da prendere sul piano nazionale e internazionale», afferma.
In quest’ottica, «l’intelligenza artificiale, la robotica e le altre innovazioni tecnologiche» vanno impiegate «al servizio dell’umanità e alla protezione della nostra casa comune invece che per l’esatto opposto, come purtroppo prevedono alcune stime», chiosa il Pontefice. «L’inerente dignità di ogni essere umano va posta tenacemente al centro della nostra riflessione e della nostra azione».”

Laudato si’, Laudato qui

In questi giorni, nelle classi quinte, all’interno del percorso sulla globalizzazione stiamo affrontando il tema dell’ecologia, dell’inquinamento, dei consumi, del rispetto della natura e così via. Ho pensato di registrare un podcast sulla Laudato si’, l’enciclica sulla cura della casa comune di Francesco (così si è firmato il papa). Ieri pomeriggio, allora, mi sono messo a rileggerla a partire dalle sottolineature che avevo fatto in prima lettura; come spesso faccio, mentre lavoro sul cartaceo, tengo acceso il computer sulla pagina di Twitter e di tanto in tanto butto un’occhiata alle notizie. Così mi sono imbattuto in questo titolo: “Apre “Casacomune. Laudato si’ Laudato qui””. “Mmmmh, mi sa che la cosa mi interessa” ho pensato. Proprio così. Ecco l’articolo preso da LiberaInformazione:

Al via “Casacomune – Laudato si’ Laudato qui”, la scuola di formazione, di dialogo interculturale e incontro sociale ispirata ai principi espressi nell’enciclica di Papa Francesco, “Laudato si’”.
Un canto d’amore per la terra, ma anche un monito all’uomo affinché ne abbia cura, nel segno di quella “ecologia integrale” che vede nella responsabilità verso il creato la necessaria premessa al benessere delle creature.
Venerdì 15 febbraio alle 11.00, presso la Certosa 1515 di Avigliana (via Sacra di San Michele 51, Avigliana, Torino), la presentazione della Scuola e l’avvio del primo corso, intitolato “Il grido della terra, il grido dei poveri” che terminerà domenica 17 febbraio.
Saranno presenti Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera e tra i fondatori di Casacomune, Luca Mercalli, presidente della Società Metereologica italiana, Cesare Lasen, geobotanico e naturalista, membro del comitato scientifico della Fondazione Dolomiti Unesco, Lucio Cavazzoni, membro della Fondazione Goodland, entrambi co-fondatori di Casacomune, lo chef Simone Salvini, Mariachiara Giorda, storica delle religioni dell’Università Roma Tre, Alex Zanotelli, missionario comboniano, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, e Silvano Petrosino, filosofo dell’Università Cattolica di Milano. Sarà anche l’occasione per l’inaugurazione dello spazio dedicato al ricordo di Gianmaria Testa.

Casacomune – con il patrocinio del Dicastero Vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale – vuole promuovere i valori e le azioni dell’ecologia integrale e della giustizia. Il calendario delle formazioni della Scuola sarà fitto. Saranno affrontati temi sociali, ambientali, storici, economici, declinando rigore scientifico e dimensione spirituale ed etica, lasciando spazio al racconto di esperienze innovative, per dare il segno di un cambiamento già iniziato. La Scuola offrirà corsi generalisti e corsi dedicati a temi specifici (cibo, aziende, formazione) aperti a tutti e di carattere prevalentemente residenziale. […]
“Come ci ricorda Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ “oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con sé stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente”, spiega Luigi Ciotti, tra i fondatori di Casacomune e Presidente del Gruppo Abele e di Libera. “Oggi viviamo – continua Ciotti – in una realtà complessa e straordinariamente connessa nella quale ogni scelta – professionale o privata, di consumo o stile di vita – ha un impatto che supera di molto i confini dell’esperienza personale. Ma questo impatto facciamo fatica a misurarlo. Abbiamo spesso una visione frammentata che da un lato ci rende meno responsabili, dall’altro ci fa sentire impotenti di fronte alle grandi sfide del presente. Casacomune – conclude Luigi Ciotti-  vuole essere un luogo di sosta e di pensiero, un percorso continuativo per imparare ad agire insieme a favore di quel cambiamento che non può attendere oltre”.

Per contatti, foto o info:
Segreteria Casacomune
tel: 011/3841049
mail: casacomune.laudatoqui@gmail.com

Per non ridursi a formiche tecnologiche

«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». Ritengo queste parole decisamente interessanti e da esse si potrebbe partire per una discussione sui tempi attuali. Colpisce scoprire che siano state scritte nel 1955… Da almeno dieci anni nelle classi quinte faccio conoscere Hans Jonas e, in particolare, il suo scritto “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” per avviare una discussione e una riflessione sul tema del male. Un annetto fa ho messo da parte un articolo pubblicato da Avvenire che presentava il libro Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti dal quale sono tratte proprio le parole con cui ho aperto questo post. Ecco il pezzo per intero:

«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». A cosa attingere per evitare questa deriva? All’uso adeguato della filosofia che instrada verso la vita buona e all’esercizio della virtù? Sono dilemmi che hanno il sapore dell’attualità benché sollevate da Hans Jonas nel 1955. Potrebbe d’altro canto essere diversamente se «le questioni filosofiche – puntualizzava il pensatore sei anni prima – si ripropongono ad ogni nuova epoca tanto daccapo, quanto alla luce della loro intera vicenda storica antecedente?». Le citazioni provengono dalle annotazioni del filosofo appartenenti alla sua stagione canadese, dal 1949 al ’55.
A lungo conservate all’Hans Jonas Nachlass dell’università di Konstanz sono state ripescate e raccolte in anteprima mondiale da Fabio Fossa in questo libro (Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti, Ets, pp. 120, euro 10). Hans Jonas non è tra gli autori più conosciuti al grande pubblico eppure il suo curriculum scintilla. Dopo gli studi con Rudolf Bultmann e Martin Heidegger nella Germania degli anni Trenta, prende la via dell’esilio, lontano dall’Europa. La sua vita però non si riduce a studio e contemplazione. Anzi l’agire ne costituisce una cifra di rilievo. Lo prova, nel corso della Seconda guerra mondiale, la scelta di arruolarsi nella Jewish Brigade, inquadrata nell’esercito britannico e operativa sul suolo italiano. I rapporti con la penisola scandiscono la vita di Jonas. Sarà proprio al rientro dall’Italia, nel 1993, dopo avere ricevuto il Premio Nonino dedicato ai maestri del nostro tempo, che il filosofo tedesco naturalizzato americano si spegnerà a New York all’età di novant’anni.
Il nome di Jonas comincia a uscire dai cenacoli dotti appena pubblica Il principio responsabilità, dove traccia un’etica all’altezza della civiltà tecnologica. Siamo, con Jonas, lontani anni luce dalle prefiche apocalittiche. La Guerra fredda imperversa (è il 1979) e molti continuano a gridare al pericolo rosso, pronto a sbarcare in Afghanistan. Pochi invece si curano dei potenziali sviluppi distruttivi della civiltà a più alto tasso tecnologico mai esistita. Eppure la riflessione sul ‘Prometeo scatenato’ occhieggiava già da tempo tra le note di Jonas. Lo testimoniano gli scritti del soggiorno canadese che sono tutt’altro che una parentesi nel cammino di pensiero di Jonas. Già con il breve Introduzione alla filosofia e con Virtù e saggezza in Socrate preparati nell’inverno del 1949 per i corsi del Dawson College della McGill University, emerge la costante attenzione all’uomo e alla vita buona, medicina per non trasformarsi in «formiche tecnologiche».
«L’uomo è il risultato delle sue azioni passate – scrive nel 1949 in Introduzione alla filosofia-. Intendo il passato culturale della stirpe, custodito nella memoria storica; e solo fintantoché questo passato è realmente ricordato l’uomo è davvero consapevole del proprio esistere presente e, di conseguenza, dell’autentico significato attuale dei propri problemi esistenziali». È questa dimensione storica che gli consente di porsi di là del dualismo tra intelletto e vita, tipico della filosofia greca. Ma la sua storicità non garantisce nulla se non un punto di partenza. Occorre, all’uomo, inseguire la vita buona e praticare la virtù, rovello dello sforzo teoretico di Jonas. Agire eticamente nel mondo storico perseguendo la virtù consente di evitare le spirali dello gnosticismo o le storture del sogno scientista che «promuove la massima realizzazione di tutti i fini desiderabili attraverso la semplice messa a disposizione dei mezzi».
Occorre ricucire lo strappo tra intelletto e vita. «L’approccio dualistico alla costituzione sostanziale dell’uomo – scrive già nel 1950 – rende conto del fatto che tanto la comprensione quanto la realizzazione del fine dell’uomo non dipendono da un processo di sviluppo spontaneo, ma dall’esercizio della virtù etica». Virtù che non può rimanere chiusa nell’autosufficienza dell’intelletto e che nello Jonas maturo assume i tratti della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire. Responsabilità che faticherebbe a farsi largo senza la «fatica della filosofia, che deve sempre ripartire da capo, fondata com’è sulla ragione; e la ragione non è il freddo, impersonale intelletto, ma è pervasa dalla passione dell’amore o dell’onestà».

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