Gemma n° 2333

“Qualche giorno fa ho ritrovato questa piccola macchina fotografica appartenente a mia madre e ho riscoperto l’esistenza di tantissime foto della mia infanzia. Ho dedicato del tempo a me stessa per osservare tutte le fotografie e rivivere tutti i ricordi racchiusi nelle stesse. Avere la possibilità di riprendere in mano queste immagini mi ha suscitato un’emozione particolare che mi ha fatto riflettere sul valore dei ricordi.
Io riconosco di essere una persona molto legata al passato, perché durante tutta la mia vita ho vissuto dei momenti bellissimi che mi hanno lasciato delle memorie indimenticabili. Tuttavia, non so se definire il mio atteggiamento un pregio o un difetto, dal momento che io sono così strettamente legata ai miei ricordi che mi sembra di vivere continuamente una condizione di permanente malinconia, consapevole del fatto che tendo spesso a rivivere il passato e a dimenticarmi di ciò che mi circonda nel presente. Io penso che ricordare sia quel valore umano che consente di legare tutte le fasi della propria vita, di rivivere gli stessi momenti con le stesse emozioni, e riconosco la mia paura del tempo, una forza irrefrenabile, che determina l’avanzare del presente e un abbandono del passato. Ed è proprio questa la mia preoccupazione, ovvero il dimenticare i momenti speciali e le memorie più belle, determinato da un proseguire del tempo al quale io non riesco a stare dietro. Proprio per questo motivo, mi prendo del tempo per dedicarmi a dare importanza ai miei ricordi, che sono una parte essenziale di me e che mi danno un senso di sicurezza, perché so di poterli rivivere attraverso la memoria.
Dalle foto che ho velocemente guardato, sono emerse alcune che mi hanno consolato del fatto che io stessa, in questo momento, mi sento serena e in un certo senso anche soddisfatta nei confronti della mia vita. In particolare, mi hanno colpito principalmente delle foto raffiguranti me e la mia famiglia, che mi hanno fatto realizzare il valore della stessa e una foto che mi ritrae con una farfalla posata sulla mia mano. Quest’ultima, nel suo complesso, risulta essenzialmente semplice, ma, per me, racchiude la mia personalità, e, in un certo senso, mi lascia un senso di sicurezza, perché so che dentro di me lei è ancora chiaramente presente”.
(C. classe quarta)

Gemma n° 2258

“Premessa: non sono una persona che ama fare vedere le proprie debolezze e i propri problemi. Anzi, cerco di evitarli per illudermi di stare bene. Allora voglio usare la mia gemma per liberarmi da pesi che porto dentro e che raramente riesco a buttare fuori e spero di potervi regalare un po’ di speranza con il mio discorso.
Allora ho deciso di parlarvi di mio papà che è venuto a mancare 2 anni fa.
Oggi vi volevo leggere la lettera di addio che ho scritto e letto al suo funerale.
Nota: in accordo con C. la lettera resta tra i muri dell’aula.
Ora ho scritto un pensiero per tutti quelli che hanno perso qualcuno, che sia un amico, un papà, una mamma, uno zio, un gatto, un cane, oppure che hanno rischiato di perdere qualcuno a cui volevano bene o ancora a chi ha perso se stesso.
Non c’è vita senza morte. E non c’è morte senza vita.
Sta a noi decidere se vivere senza vivere e attendere la morte o se vivere tutto ciò che capita di bello o brutto che sia, assaporando ogni secondo che abbiamo per poi poter dire “ho vissuto”. Un giorno tutt’a un tratto, purtroppo, ci viene tolta la possibilità di creare nuovi ricordi, nuove risate, nuove chiacchiere con le persone a cui teniamo e pensiamo di non poter fare a meno di quel qualcuno. È vero che parte di noi muore con la morte di una persona a noi cara ed è giusto sentirsi sperduti e pieni di dolore. Ma, oltre alla parte di noi che se ne va, ne abbiamo un’altra che resta. E sta a noi decidere se abbandonarci al dolore o cercare di salvarci aggrappandoci a quelle cose che nella vita valgono la pena di essere vissute.
Quindi vi chiedo di vivere. È molto più facile a dirsi che a farsi, è vero. Ma il tempo corre, modifica le nostre vite, le prende e le spiaccica al muro come un foglio in piena bora triestina. Prendete voi in mano le vostre vite e piangete, disperatevi, urlate ma non dimenticatevi che il tempo che passate a torturare voi stessi è meno tempo per essere felici. Godetevi ogni istante, dalle feste con gli amici fino alle sere più noiose a cena con la famiglia, nulla è eterno tutto può distruggersi in un nanosecondo, ma voi dovete vedere il sole non solo dopo la tempesta ma anche prima.
La vita è vostra e per quanto possa fare spesso schifo, ci sarà sempre quel qualcosa o quel qualcuno che vi farà dire “cavolo, meno male che sono qui e sto vivendo”.
(C. classe quarta).

Natale 2022

Chi è nel triennio ormai lo sa: tra gli stoppini prima (durante la DAD) e gli auguri poi, a Natale e a Pasqua ho preso l’abitudine di rivolgervi un pensiero scritto…
Non so che periodo vi aspetti, non so quali feste vi attendano. So che c’è chi aspetta con trepidazione le vacanze natalizie perché è un momento di gioia e condivisione e chi le attende con paura perché legate a momenti dolorosi, c’è chi le attende con indifferenza perché è tutto come gli altri giorni e chi le passerà da una festa all’altra. C’è in particolare chi le vivrà con il vuoto di chi non può più avere accanto fisicamente, e costoro le e li abbraccio con forza.
In mezzo a tutto questo, desidero farvi un augurio per il pranzo di Natale o di Capodanno o di un qualsiasi giorno delle vostre vite. Prendo spunto da una poesia di Franco Arminio:

Alzatevi durante la cena,
ditelo che avete un dolore
che non passa. Guardate negli occhi
i parenti, provate a fondare
davvero una famiglia
una federazione di ferite.
Ora che siete in compagnia
ditela la vostra solitudine,
sicuramente è la stessa degli altri.
E dite la noia, l’insofferenza
per il freddo, per il cappotto,
per la digestione.
Se scoppiate a piangere
è ancora meglio,
scandalizzateli i vostri parenti,
piantate la bandiera dell’inquietudine
in mezzo al salotto.
Fatevi coraggio, prendete un libro di poesia
leggete qualche verso,
loro per domani hanno programmato
il cinema.
Parlate dei morti,
parlate di voi e poi ascoltate,
sparecchiate, togliete di mezzo il cibo,
mettete a tavola la vostra vita.

Mi viene da aggiungere un piatto a questa tavola imbandita: quello della gioia, delle cose belle perché anche loro hanno bisogno di essere condivise, di essere portate alla luce, di essere consumate e digerite per diventare sostanza dei nostri giorni. Si tratta di mettere in tavola quello che conta, di mettere a fuoco l’essenziale. In una classe prima, quest’anno, è stato messo sulla cattedra il presepe della foto. Come nella foto, accade spesso anche nella vita che ci voglia un po’ per mettere a fuoco l’essenziale, la condivisione, l’io e il tu, il noi, l’amore…
A tutte voi, a tutti voi, alle persone che amate e che sono una benedizione nelle vostre vite, auguro buon Natale e, viste le parole che ho scritto… buon appetito!

Gemma n° 2145

“Eh sì, è arrivato il fatidico momento. Come l’anno scorso, per me scegliere cosa condividere con voi è molto difficile, ho sempre preso molto seriamente questo “lavoro”, eh si, perché per molti potrà sembrare un semplice momento di svago della lezione dove si condivide di solito un momento bello della propria vita perché, diciamocelo, nessuno ha voglia di portare negatività in classe, si ha sempre un po’ paura di confidarsi e si finisce per scartare l’opzione di raccontarsi in modo molto profondo. Eppure io oggi voglio fare proprio questo. Non ho mai criticato chi ha deciso di portare come gemma una semplice foto che ricordasse un bel momento, o un portafortuna etc…etc…, anzi mi rende felice il fatto che la gente condivida un bel momento, però per me non è abbastanza, è come se mi sentissi in dovere di raccontarmi, di farmi conoscere, e dunque sono sempre indeciso su cosa portare. La gemma… che bell’opportunità. Ebbene, all’inizio non l’ho mai colta bene, sia per pigrizia perché chi ha voglia con tutti i problemi che ci affliggono di spendere tempo su di essa (la gemma) e in più anche per timidezza perché non avevo voglia di condividere la mia vita. Dall’anno scorso invece ho capito il vero valore di questo compito, questo perché col tempo sono maturato e ho capito che magari raccontarmi può servire a qualcuno e la gente può riflettere attraverso i miei pensieri, anche se questa cosa fino ad ora non mi è mai accaduta, o meglio, io non l’ho mai notata perché nessuno mi ha mai detto qualcosa dopo che io mi sono confidato, e questa cosa mi fa molto arrabbiare perché poi ci chiediamo “che senso ha fare tutto ciò se poi agli altri APPARENTEMENTE non sembra importare qualcosa? Forse vogliamo solo liberarci?” Allora avrebbe senso scriverle queste cose e basta. Non lo so, sono molto confusionario, non riesco a darmi delle risposte. Ma giuro che dopo ci ritorno su questo discorso (del fatto che mi arrabbio). Concludo questa prima parte riprendendo l’importanza di questa gemma, ribadendo quanto per me sia un momento importante e forse liberatorio e di cui ho capito l’importanza solamente crescendo e maturando e forse mi renderò ancora di più conto di questa importanza della gemma solo più avanti e non potrò mai ringraziare il prof. Del Mondo.
MUSICA E GLI ALTRI
Che titolo strano ahahah… lo sto scrivendo senza pensarci troppo eppure mi suona così bene. La musica per me ha sempre rappresentato il mio specchio, la mia ancora, il luogo dove rifugiarmi e dove elaborare i miei pensieri; per me rispecchiarmi nella musica e nel pensiero degli altri è molto importante perché la maggior parte delle volte mi ci ritrovo in questi pensieri. Avrei dovuto spiegare il significato della musica per me già l’anno scorso, ma preso dall’emozione in classe non l’ho fatto e allora lo farò oggi portando 2 canzoni molto importanti per me che hanno dei testi molto profondi: uno parla della mia generazione, come la canzone e il video che ho portato l’anno scorso e di cui vorrei menzionare una citazione: “la vita va di corsa, la vita non aspetta, ma già la vita è corta, tu vuoi la vita stretta” SalmoLunedì. Ho quasi sempre i brividi quando ascolto questa frase perché in fondo la vita è già piena di problemi, abbiamo mille cose a cui pensare, ci sono 70000 problemi che ci circondano eppure non ci interessa, quello che ci interessa è apparire agli altri… che cazzata! E vorrei lasciare appunto un immagine del video che ho portato l’anno scorso e che può far capire molto meglio cosa intendo.

Penso non ci sia altro da aggiungere. In più l’anno scorso ho portato il significato dell’amicizia molto importante per me e non avevo ancora trovato qualcuno con cui confidarmi. Quest’anno, invece, fino ad una settimana fa sì, pensavo di aver trovato la mia copia perfetta di amico che mi potesse capire e supportare e invece così non sembra essere…che vita beffarda. Sto trovando però supporto da una ragazza che non ho mai voluto far scompensare perché non ho mai voluto condividere i miei problemi; infatti io e lei parliamo maggiormente di scuola e ci divertiamo molto… il che sembra banale, invece il distrarsi e scacciare via i cattivi pensieri è molto importante! Lei si chiama G. e la devo ringraziare molto perché mi aiuta e cerca di farmi vedere il lato positivo delle cose in quanto io sono molto negativo e testardo; questo è veramente bello, lei è veramente profonda e matura. Infine sempre l’anno scorso ho portato l’intro dell’album di Rkomi, artista molto profondo che sembra la mia copia, e definisce la vita come una corsa, come una macchina dove lui deve guidare e ispirare gli altri e con me lo sta facendo tutt’ora. Per me la macchina è una metafora molto importante, per “macchina” intendo proprio l’auto. La vita è una corsa in macchina, essa è la nostra bolla dove ci rifugiamo quando piove, a volte rallentiamo perché tutto va male, altre volte acceleriamo perché pensiamo di essere al sicuro e vogliamo raggiungere subito quella cosa (l’amore nel mio caso, che è il secondo argomento di oggi) e poi ci andiamo a schiantare. Dopo esserci schiantati l’auto va cambiata (la persona amata va lasciata perdere) e non abbiamo sempre i soldi per cambiarla, non vorremmo cambiarla, andiamo sempre alla ricerca dello stesso modello e il punto più difficile è proprio l’andare avanti; non vogliamo renderci conto che stare senza quella determinata persona è la cosa più giusta da fare. Voglio citare un’altra canzone di Rkomi e poi giuro che inizio con la mia gemma odierna. La canzone si chiama Più lei che noi in quanto noi diamo importanza molte volte all’amore e lasciamo perdere stupidamente le amicizie. Nella canzone lui dice: “presi in tempo quel volo però persi un amico”. Appena ci capita una ragazza davanti a noi, cerchiamo sempre di non farcela scappare dando ascolto solo a lei e non ai nostri amici, qualcuno questo giustamente non lo accetta e se ne va. Finisco col dire che l’indecisione quest’anno era tanta; volevo portare il significato di che cos’è una famiglia e raccontare le mie esperienza e tante altre cose e alla fine ho optato per raccontare di me attraverso 2 canzoni che parlano della mia generazione, di me stesso e dell’amore.
Non vivo più sulla terra

Vorrei riflettere su alcuni punti significativi.
Il primo è il titolo; non vivo più sulla terra. È proprio nella parte strumentale finale della canzone che non vivo più sulla terra in quanto inizio a pensare e realizzare tutta la mia vita, come sono cresciuto, i miei problemi, come sarà il mio futuro, mi lascio trasportare senza pensarci troppo.
Ora mi soffermo su alcune frasi
Sei ricco quando te ne accorgi
La verità è che stare immobili serve con le api, d’accordo.
Beh qua è molto difficile rendersi conto delle persone che abbiamo accanto, pensiamo sempre di essere ricchi ma alla fine queste persone ci tradiscono e la verità è che stare immobili serve con le api che sennò ci pungono e non con gli altri: BISOGNA ANDARE AVANTI, FREGARSENE E PENSARE A SE STESSI.
Mi hanno detto: “Farai strada, ma chi ami poi dovrà piangerti
Chiamami quando passi”
Mi ritengo una bella persona e molto matura e poi quando la gente mi perde capisce veramente cosa ha perso e piange, cerca di chiamarmi ma io non rispondo, mi è successo poco tempo fa…
Un bimbo mi ha detto, “Non si è mai troppo grandi”
Un vecchio invece che non lo sei mai abbastanza
Questo sono io del passato, io piccolo che dico a me del futuro che non si è mai troppo grandi, non si smetterà mai di crescere, mentre un vecchio, ovvero l’io grande, ripensa a quello che si è detto da piccolo e pensa di aver detto una stupidaggine perché pensa ormai di essere uomo e di aver affrontato tutto della vita e così non è, non si smette mai di diventare grandi.
Non vivo più sulla terra
Vuoto, mi bussi alla porta
Vuoi che mi abbandoni all’aria?
Cielo, facci strada
Diecimila voci e tu mi dici di calmarmi
Dovrei prendere esempio da te
Che non hai ancora mai perso il controllo
La monotonia è uno dei problemi più grandi che mi perfora dentro e non mi lascia mai stare. Il vuoto mi bussa alla porta, ci sono dei pomeriggi in cui nulla sembra avere un senso, guardo il vuoto e cerco di non pensare, non riesco a fare nulla.
Volete che mi abbandoni all’aria? Che il cielo, DIO, mi faccia strada? Non credo, in questo periodo della vita la religione rappresenta un problema, ha sempre rappresentato un problema, non riesco a capirla, se Dio esiste veramente perché la vita di molti va male, NON ESISTE COMPASSIONE, IO NON CREDO CHE DIO VOGLIA IL MALE, lui l’ha creato però secondo me è la tentazione il male che ha creato, i vari peccati che tutt’ora esistono, ma non il male interiore, non penso lui voglia che la gente stia male. Massimo Pericolo in una sua canzone dice: “Se esiste Dio perché tua madre ha il cancro?” Nessuno potrà mai rispondermi e convincermi.
Poi entra in gioco l’amore e il discorso dell’arrabbiarmi : “Diecimilavoci e tu mi dici di calmarmi…
dovrei prendere esempio da te che non hai ancora mai perso il controllo.”

Quando stai male la gente inizia a darti consigli da tutte le parti, e sbaglia, non ti lascia pensare e stare da solo, pensa di aiutarti e invece…Come posso restare calmo davanti a situazioni del genere? Dovrei prendere esempio da te, persona immaginaria, che non hai ancora mai perso il controllo… E io lo perdo facilmente, ora sto raccontando tutto questo ma forse a pochi interesserà. A CHI IMPORTA CIÒ CHE STO DICENDO, CI SONO MILLE PROBLEMI però questo mi fa arrabbiare, una riflessione molto articolata e poi nulla, mi svuoto di una parte di me per poi? cosa otterrò? un confronto? non lo so. NON SONO IN GRADO DI DARMI DELLE RISPOSTE. Nella canzone poi si dice: “come fossi tu la legge per cui gira il mondo” infatti… chi sono io? chi sono io per ricevere delle attenzioni da terzi… non sono io al centro del mondo, ogni persona è afflitta da tanti problemi, non ha tempo di starmi ad ascoltare. Questa cosa mi fa arrabbiare ma devo accettarla perché è giusto così, quante volte nella vita accettiamo cose che non vorremmo? SEMPRE, digerisco anche questa volta e vado avanti. Però che fastidio, ci sono sempre per gli altri, ascolto sempre pur stando nel mio, senza costringere nessuno a raccontarmi nulla. Io fuori sono sempre stato simpatico e solare, carino, sempre fatto complimenti a tutti e gli altri a me? Mai nulla, anche per un semplice abbraccio, l’ho sempre dovuto cercare io. Io sono questo qui, quello che sto raccontando adesso, non sono sempre felice, quando sono solo di notte soprattutto dove penso e scrivo meglio, sono tutt’altra persona, la gente non lo capisce. Che bella la notte, vorrei andare di notte sopra gli autobus e ascoltare musica, mi sfogherei molto, ma non ho tempo. BASTA, PENSO SEMPRE AGLI ALTRI E MAI A ME STESSO, non sto trovando spazio per me, non faccio più quello che mi piace, non vado più in palestra… etc… vorrei riniziare a suonare il piano…
Non so cosa voglian le persone
Non so cosa si dicano la notte per farsi coraggio
La notte è un momento dove la maggior parte delle volte io sto da solo e penso, quindi non lo so cosa si dicano le persone la notte. La notte è un momento di pensiero, dove si ragiona meglio e si elaborano i pensieri più belli e concreti. Ma è anche il buio, io ho paura del buio.

Mi giro e non ci sei già più, yeah
Se fosse sempre buio
Come distingueresti il giorno?
Mi giro e non ci sei già più… pensiamo sempre di contare su di una persona, ci apriamo sin da subito e poi… il giorno dopo se ne va… cambia comportamento, tutti abbiamo una maschera e rivelare noi stessi è molto difficile.
Vorrei che fosse sempre notte, che il giorno non esistesse perché durante la notte tiro fuori la parte più intima e migliore di me, ma come distinguerei il giorno se ci fosse solo la notte? Il tempo non lo posso cambiare, il tempo cura, il tempo è l’unico maestro, l’unica forma d’amore.
So che sei da qualche parte, in un ricordo che non vedo
In un pianeta non molto lontano, le canzoni sono ciò che mi hai fatto
E ti guardo mentre scappi (Yeah), ti giri dall’altra parte (Yeah)
I tuoi problemi sono a casa e non serve che ti aspettino svegli
Ci capissi qualcosa di più di qualcosa, anche tu di’ qualcosa
Caddi così in basso, riuscivo a guardarti da sotto la gonna
È la fine del mondo o è solo il sangue che circola?
E la mia migliore emozione è una canzone che odio.
La cosa migliore è dimenticare il passato, la cosa + difficile. Io so che le persone che in passato mi hanno fatto male esistono ancora, ma per fortuna in un ricordo che non vedo, o meglio che non voglio vedere e ricordare ma inevitabilmente è dentro di me. In passato quando bisognava affrontare un problema, l’ho sempre affrontato da solo, l’altra persona durante la discussione si girava dall’altra parte e quando tornava a casa i problemi la tormentavano perché quella persona era consapevole che scappare non è mai la scelta migliore, bisogna affrontare tutto anche se a volte si sta male. Altre volte invece non capisco nulla dell’amore, vorrei sentirmi dire qualcosa dall’altra parte e l’unica cosa è il NON LO SO, lo scappare dai problemi e questo mi fa rimanere male e cadere in basso. “Le canzoni sono ciò che mi hai fatto”; io mi rispecchio molto in questa canzone perché le parole scritte in questa canzone ma anche in tutte le altre canzoni che ascolto spesso, rispecchiano qualcosa che delle persone mi hanno fatto in passato.
LA MIA MIGLIORE EMOZIONE, È UNA CANZONE CHE ODIO
Nessuno vorrebbe rispecchiarsi in queste parole, me compreso, non è bello vivere queste esperienze, ma servono a crescere, stare soli, stare in solitudine molte volte aiuta e serve, non per forza bisogna avere un costante bisogno di persone attorno a noi. Questa canzone è molto emozionante ma la odio perché non vorrei più vivere queste esperienze ma so che ritorneranno, la vita è un cerchio.
LA GENESI DEL TUO COLORE

La generazione… quella in cui l’indifferenza regna, l’unica cosa che conta è stare bene con noi stessi e farci vedere bene dagli altri. Dunque non vogliamo dimostrarci deboli eppure mostrandosi forti io dico che in realtà ci si dimostra deboli.
Il mio pensiero ruota tutto attorno a una frase di questa canzone: COLORA L’ANIMA, CON UNA LACRIMA.
È una frase corta e concisa, che ti entra dentro… PIANGERE ci fa sfogare, ci fa mostrare la parte migliore di noi, spesso associamo il piangere all’essere deboli, io penso l’esatto contrario. Noi giovani non vogliamo piangere, l’adolescenza è breve e ce la vogliamo godere, diventare grandi e pensare che non potremo più divertirci ci spaventa, non abbiamo tempo di stare male. Condividere tutte le nostre sensazioni invece è la chiave, mostrarci per come siamo. Se tutti piangessimo e condividessimo questi momenti intimi, coloreremmo l’anima della nostra generazione. Un mio difetto è quello di non riuscire a piangere in pubblico, mi è successo veramente pochissime volte, io vorrei sempre scoppiare in lacrime ma non ci riesco, al massimo mi commuovo ma non riesco. Solo quando sono a casa mia, chiuso nella mia stanza, sfogo tutto me stesso.
Non sarà la neve
A spezzare un albero
Avessi finito sarebbe stato meglio
Di averti visto piangere in uno specchio
E mi manca la tua voce ormai
Ora che, ora che, ora che sei qui
Io sono qui
Ci vestiremo di vertigini
Mentre un grido esploderà
Come la vita quando viene
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome

Avessi finito sarebbe stato meglio
Hai poco tempo ormai
Per vivere una vita che non sentirai
Chiudo il sole in un attimo

Anche se non dormirò oh
E i pensieri passano
Come eclissi resti qui
Io resto qui
E danzeremo come i brividi
Mentre la vita suonerà
Con le dita tra le veneziane

In queste righe del brano riecheggia l’essere se stessi: molte volte preferiamo fingere per non vedere gli altri piangere e stare male senza renderci conto che è meglio dire subito le cose piuttosto che far passare il tempo” (G. classe quarta).

Gemma n° 2142

“Come ultima gemma del mio percorso al liceo ho deciso di portare una breve scena del mio film preferito, un film che mi ha aiutata a crescere e lo continua a fare ogni volta che lo riguardo. Si chiama La Storia della Principessa Splendente, ed è un film di animazione spettacolare che non smetterò mai di consigliare.
Ho scelto una scena molto breve e a mio parere particolarmente significativa. Kaguya, la protagonista, trascorre un veloce ed intenso momento di felicità, il primo dopo tanto tempo. Questa scena mi ricorda com’è facile sorridere per le piccole cose, come in questo caso per l’arrivo della primavera. Mi ricorda di un periodo triste e difficile della mia vita e di come ora sto lentamente riscoprendo tutte le piccole cose che mi rendono felice. Mi ricorda che la felicità si può trovare ovunque.
E dopo quell’interminabile periodo della mia vita segnato dall’infelicità e dalla pesantezza, è strano riuscire a sorridere di nuovo per le cose più piccole e apparentemente insignificanti. E per quanto sia ancora difficile per me accettare una realtà diversa da quella in cui ho vissuto per tanto tempo, finalmente noto che tutto sta cambiando. Persone, luoghi, momenti e sensazioni che ho ignorato per anni, finalmente si stanno facendo spazio nella mia vita per renderla più serena” (M. classe quinta).

Gemma n° 2136

“Dato che ormai siamo a fine novembre, ho pensato di portare come gemma un’immagine che possa rappresentare in qualche modo l’anno quasi giunto al termine.
Nel corso di questi mesi mi sono divertita un sacco, ho riso, mi sono emozionata, ho pianto tanto, ho conosciuto molte persone nuove, alcune delle quali sono rimaste fino a ora, altre invece se ne sono andate, ma soprattutto ho pensato. Forse troppo.
Ricordo che a febbraio ho portato come Gemma una nota scritta in un momento di debolezza in cui mi sentivo sopraffatta da tutto quello che stava succedendo, ma soprattutto che era successo e con cui non mi ero mai interfacciata, perché se c’è una cosa che ho capito, probabilmente con le cattive, è che tutto ciò che la vita ci presenta, ogni avvenimento, bello o brutto che sia, non può semplicemente essere ignorato nella speranza che passi da solo e che ce ne dimentichiamo, dato che prima o poi ritornerà, pronto a schiacciarci con il doppio, il triplo della potenza, fino a che non ci decidiamo finalmente a combatterlo una volta per tutte.
Ed è un po’ quello che è successo a me.
Io ho sempre amato passare del tempo da sola: per tutta la vita sono sempre stata abituata a gestire i miei tempi e spazi in armonia con me stessa e quando ciò è venuto a mancare, quando quell’equilibrio per qualche ragione si è spezzato, sono precipitata.
Inizialmente ho cercato di ignorare il problema nella vana speranza che se ne andasse da solo, ma quest’anno, ad un certo punto, quest’inutile fuga mi aveva talmente sfinito che ho dovuto dire basta.
Così ho iniziato a pensare, a riflettere, ad interrogarmi sul perché fossi arrivata fino a quel punto. Mi sono chiesta se avessi fatto qualche cosa di male, attribuendo inizialmente alle mie sensazione il titolo di “punizione”, per poi comprendere come stessi solamente cercando in tutti i modi di scappare da episodi che mi sono capitati e su cui non mi sono mai soffermata perché convinta che non avessero importanza o per cui non mi sentissi in diritto di stare male perché in fondo: “…tutti abbiamo i nostri demoni e chi sono io per lamentarmi dei miei quando ci sono persone che magari vivono cose più gravi della mia? Non ho assolutamente il diritto di lamentarmi!”.
Insomma, non mi sono mai presa del tempo per me stessa, per guarire ferite passate che hanno così, d’un tratto, sfondato la porta del mio cuore tutte in un colpo solo, senza nemmeno suonare il campanello e senza aspettare che io dessi loro il permesso per entrare.
Ho provato ad affrontare questa situazione da sola e ho dovuto combattere contro tutta me stessa per accettare il fatto che questo non sarebbe bastato, che non ce l’avrei fatta senza l’appoggio di qualcuno, così ho iniziato piano piano ad aprirmi con la mia migliore amica e, casualità, il destino mi ha fatto incontrare diverse persone che nel corso dei mesi ho cominciato a conoscere e con cui ho parlato come mai avevo fatto prima. Grazie a queste conoscenze ho cominciato a coltivare il rapporto più importante della mia vita, ossia quello con me stessa, andando alla scoperta di questa persona che ormai era diventata una completa estranea, a cui forse non avevo mai dato importanza, ponendola costantemente in secondo piano rispetto all’aiutare le persone che la circondavano, lasciando che la ferissero e incolpandola sempre e comunque per errori altrui.
Ebbene, penso che quello introspettivo sia il viaggio più terrificante che abbia mai fatto e che sto tuttora compiendo. Esso mi sfinisce, prosciuga tutte le tue energie, distoglie la mia concentrazione da altri ambiti della mia vita, come per esempio le amicizie, la scuola, lo sport, le relazioni, ma al momento non riesco a non essere egoista, perché per volersi bene, per capire di avere un valore, per comprendere che anche io merito di stare male e prendere del tempo per guarire dalle ferite, devo fare delle scelte e chiedermi quali siano davvero le mie priorità, a rischio di allentare la presa negli altri settori per mettermi al primo posto.
I pensieri sono qualcosa di veramente potente, che possono arrivare a schiacciarti, facendoti pensare di non potercela fare, di non essere abbastanza, ma con l’impegno e tanta forza di volontà, è possibile affrontare la tempesta, un passo dopo l’altro, senza farsi spaventare dalle aspettative o senza convincersi di dover soddisfare requisiti e obiettivi imposti da terzi, ma facendolo solo per se stessi e nessun altro, dedicandosi del tempo, tutto quello necessario, perché quando si tratta di stare bene non esistono scadenze e soprattutto non ci si può paragonare agli altri. E se un giorno lo passiamo nel letto sotto le coperte perché mancano le forze per fare qualsiasi cosa di “produttivo”, per così dire, va bene lo stesso, non dobbiamo pensare di essere una delusione per questo, perché non siano degli automi, ma proviamo delle emozioni che hanno tutto il diritto e la necessità di essere ascoltate, analizzate e interiorizzate.
Come ho già detto, quest’anno ho conosciuto un sacco di persone nuove, e non solo…sono anche entrata in contatto con dei lati di me che si sono manifestati in maniera sempre più invasiva nel corso dei mesi e con cui mi sono dovuta, e mi sto tutt’ora interfacciando, con non poca fatica.
Uno di questi tratti è sicuramente l’ansia. Tutto è iniziato con episodi sporadici in cui prima c’era un’alternarsi di emozioni, il respiro si faceva pesante e sempre più ravvicinato, la testa mi scoppiava e il cuore sembrava esplodere nel petto. Ad un certo punto però le cose hanno cominciato a cambiare, perché questi sintomi che sembravano spaventosi hanno lasciato il posto ad altri che mi hanno disorientata, mi hanno fatto completamente perdere la percezione della mia stessa esistenza, anche se devo dire che con il passare del tempo ho imparato perlomeno a riconoscerli. Al posto dell’iperventilazione e della tachicardia infatti gli occhi mi si sbarrano, ho bisogno di sedermi o di distendermi. Nella testa tuttavia questa volta non c’è un susseguirsi frettoloso e irrefrenabile di pensieri, ma essa risulta essere vuota. Provo a pensare a qualcosa, una cosa qualsiasi, anche la più stupida, ma niente, ciò mi risulta impossibile. Anche il cuore che prima batteva all’impazzata ora non lo riesco più a sentire. Metto una mano su di esso, ma inutilmente, non riesco a percepirlo, così mi tocco il polso, cerco l’arteria, ma ancora niente. NIENTE. Il nulla assoluto. Sono diventata improvvisamente un corpo che occupa un determinato spazio nel mondo, mi limito ad esistere in qualche modo.
Ho pensato molto a cosa possa innescare questi episodi che si presentano nelle maniere e nei momenti più svariati. Io non credo che le mani mi inizino a tremare a causa delle troppe cose da fare, di un compito da consegnare, di una partita da giocare, poiché sono tutti eventi che in sé non hanno nulla di particolarmente preoccupante, ma che in quel momento sembrano essere l’ostacolo più grande della mia vita. Anche adesso, ad esempio, mentre sto seguendo il flusso di pensieri che mi scorre nella mente, le mani hanno iniziato a tremare e sento crescere dentro di me quella sensazione d’ansia che oramai è diventata parte integrante delle mie giornate. Solamente l’idea, il lontano pensiero di dover guardarmi dentro mi mette una paura immensa e quello che mi terrorizza maggiormente è che non ho una vera risposta a queste reazioni, dunque non riuscendo ad individuarne chiaramente la causa profonda, non sto facendo altro che subire. Non riesco a fare niente perché tutto diventa un problema e fonte di preoccupazione, anche solo alzarmi per bere un po’ d’acqua, così preferisco restare ferma nella speranza che la sensazione passi.
Oltre agli attacchi di panico, ultimamente un’altra riflessione che mi scombussola la mente è il fatto che non riesco a pensare al futuro, a fare programmi che si spingono più in là di una settimana. Non penso che sia una problematica che concerne solamente me, anzi tutt’altro. Ritengo che sia un’incognita abbastanza diffusa tra i miei coetanei e solo il pensiero di trovarmi in una fase della mia vita in cui sono tenuta a compiere delle scelte che determineranno il mio futuro mi paralizza. Sono domande come “cosa farai all’università? Che lavoro vuoi fare?” che mi fanno impazzire a tal punto da immobilizzarmi, ma più che la mancanza di una risposta a questi quesiti, ciò che mi fa più male è la consapevolezza di non poter essere capita, perché vai tu a spiegargliela ai mie genitori questa assenza di speranza nel futuro, spiegagli tu come non conosco nemmeno il significato di tale termine che più che una speranza mi sembra un’utopia. Per loro la vita è sempre stata molto concreta, hanno sempre avuto la certezza che in qualche modo ce l’avrebbero fatta. Dopo la scuola si sarebbero trovati un lavoro, poi una moglie o un marito, avrebbero fatto una famiglia e una casa dove abitare con i bambini. Per la nostra generazione invece è tutto estremamente astratto e inafferrabile, abbiamo la testa piena di false promesse che non vengono mai seguite effettivamente dai fatti. La società oggigiorno ci impone un percorso prestabilito da seguire se vogliamo la possibilità di condurre una vita quantomeno dignitosa: asilo, elementari, medie, superiori, università, tirocinio, e poi… E poi? Poi la guerra, l’epidemia, il rintanarci sempre più in noi stessi e il trovarsi più a proprio agio a parlare tramite uno schermo perché il confronto reale genera panico e disagio. E allora che senso ha tutto questo? Ogni giorno veniamo bombardati da notizie di disordini sociali, catastrofi ambientali, conflitti imminenti, migliaia di vite spezzate perché uomini potenti fanno i capirci e giocano a farsi la guerra. È davvero questo il mondo in cui vogliamo vivere? L’essere umano fa davvero paura, ma se questo è la realtà odierna, a cosa mi serve sapere che quando è stata scoperta l’America o come si risolve un’equazione? “Ad imparare dagli errori passati ed evitare che essi vengano ripetuti”, risponde un adulto nella maggior parte dei casi, ma sono gli stessi adulti che stanno commettendo proprio in questo momento gli errori di cui hanno letto sui libri e discusso tra i banchi di scuola.
Forse sono pensieri più grandi di noi, di me, ma sono lì, nella mia testa e non posso ignorarli, anche perché spuntano continuamente facendomi perdere piano piano l’entusiasmo e la voglia di fare qualunque cosa, perché la risposta a tutto diventa: che senso ha?
Tutte queste preoccupazioni spesso mi portano a passare pomeriggi interi distesa sul divano a fissare il soffitto, incapace di fare o provare nulla perché in fondo che senso ha tutto questo? Cosa importa prendere dei bei voti se non riesco nemmeno a stare con me stessa? A cosa mi serve prendere un otto a scuola su un argomento che mi dimenticherò il giorno seguente se nella mia testa è inconcepibile anche solo pensare a cosa farò tra una settimana?
Per tanto tempo sono scappata da queste sensazioni devastanti e ora le sto affrontando tutte assieme. Non mi riconosco, non faccio nulla, “spreco” un sacco di tempo, non sono “produttiva”, ma cosa vuol dire in fondo essere produttivi? Svolgere compiti impartiti da terzi per sentirsi dire bravo o essere in pace con la propria coscienza, ma a che prezzo? A costo di perdere se stessi, di toccare il fondo e non sapere nemmeno di esserci perché c’è sempre qualcosa di più importante da fare piuttosto che curare se stessi?
Perché sì, non esiste solamente lo star male fisico, ma soprattutto quello mentale, cosa che ho impiegato tantissimo tempo anche solo ad ammettere a me stessa e che, non avendolo mai minimamente ascoltato, adesso mi ritrovo a chiedermi anche se sia reale o meno.
A volte l’unica cosa che vorrei è vomitare in faccia alle persone tutto il mio dolore, ma mi fermo sempre prima perché chi sono io per aggiungere pesantezza alla vita altrui? Tutti hanno i loro problemi, i loro demoni da gestire, non potrei mai essere così egoista, quindi in questo momento DEVO prendermi cura dell’unica persona che può salvarmi: me stessa. E se per fare questo devo rinunciare a rispettare le aspettative altrui su altri ambiti della mia vita, va bene. È arrivata l’ora di dare importanza anche a me, perché se non lo faccio io come posso solo minimamente pensare che lo facciano gli altri?” (R. classe quinta).

Gemma n° 2135

“Questo che vedete è un piccolo scatto rubato, una foto del 10 settembre che ho scattato durante il primo ballo di quei due ragazzi innamorati, e che sono anche i miei zii. Li chiamo ragazzi perché l’amore di cui si inondano l’un l’altro ho avuto solo la possibilità di immaginarlo, un po’ come nelle commedie romantiche che danno quasi la nausea o in quelle lettere dei vostri bisnonni alle loro mogli cariche di speranza e amore. Dovete sapere che mio zio detesta ballare, si definisce “un tronco d’albero rinsecchito” e sbuffa ogni volta che qualcuno prova anche solo a porgli la domanda “ti va di ballare?”. Ma quella sera non ha smesso di muoversi un secondo e dal suo sorriso deduco si stesse anche divertendo abbastanza. Tutto merito della donna che ha a fianco, anzi direi dell’amore perché si sa, quando si è davvero innamorati si fanno cose che non ci aspetteremmo pur di rendere la nostra persona contenta, anche solo per un minuto.
Effettivamente chi mi conosce sa che non sono una persona su cui la parola “amore” sta proprio bene addosso: non sono particolarmente empatica, non dimostro affetto facilmente, probabilmente quasi mai, e non credo nemmeno nell’atto del matrimonio.
Forse perché fin da bambina ho visto amori tramontare e innamorati diventare sconosciuti, o forse perché l’idea di rendermi vulnerabile a qualcuno mi terrorizza.
E allora perché questa foto?
Quella sera è scattato qualcosa in me, ho sentito un’impercettibile scossa travolgermi da un lembo all’altro del mio corpo e che mi ha portato a riflettere e rivedere degli aspetti che regolano i meccanismi della mie mente e conseguenti riflessioni.
Sono sempre stata convinta che questa generazione non è mai stata in grado di riconoscere il vero significato dell’amore e per questo ha dato vita ad un’altra versione di questo per tentare di colmare l’inevitabile vuoto creatosi, anche se non ne ha nulla a che vedere. I ragazzi si circondano di relazioni false, di breve durata, ingannevoli, dolorose e immature. È un ciclo tossico che non ha fine.
Eppure quella sera il mio occhio ha captato qualcosa di diverso, qualcosa di finalmente autentico. Ho visto una luce nei loro occhi che non avevo mai visto prima, un senso di rispetto, di sostegno, un legame profondo che mi ha colpito immensamente.
Nonostante i miei protagonisti non appartengano ovviamente alla mia generazione, mi hanno comunque fatta riflettere molto sulle mie idee poiché queste partivano sempre da una concezione relativamente pessimista delle relazioni sentimentali. Non che non ne abbia mai viste di vere prima d’ora, eppure vedendoli così innamorati e insieme proprio davanti ai miei occhi mi ha fatto nascere in me l’idea per la prima volta che forse, in fondo, è ancora possibile tutto ciò e non è solo una stupida fantasia nell’anticamera del mio cervello.
Tutto questo per invitare gli altri, ma soprattutto me stessa, a buttarci un po’ di più nelle situazioni che ci mettono potenzialmente paura o in quei legami o conoscenze che ci sembrano voler solo fare del male. Magari si scopre qualcosa di bello, qualcosa di inaspettato, qualcosa di autentico” (V. classe quinta).

Gemma n° 2134

“La mia Gemma oggi è una riflessione sulla mia condizione interiore in questo momento e ho deciso di parlarne perché sento, anzi sono abbastanza certa, di non essere l’unica a provare queste cose. Mentre scrivevo stavo ascoltando Solas un brano di Jamie Duffy.
Ad oggi mi sento come un pesce che è stato tirato fuori dall’acqua e dunque incapace di respirare, di vivere.
Ad oggi mi viene chiesto di decidere cosa farò per il resto della mia vita, fino alla morte.
Ad oggi il mondo si aspetta che io lo sappia. In qualche modo si aspettano che io sappia che tipo di pedina diventerò. E non è ammesso non saperlo, non è ammesso sentirsi come sospesi senza avere delle vere e proprie passioni specifiche. È questo il meccanismo. Vai alle elementari, vai alle medie, vai alle superiori, “mi raccomando esci con i massimi voti” e vai l’università e mi raccomando scegli una facoltà che ti darà una buona prospettiva di vita. Questo è il meccanismo. Ottieni una laurea, e trovi un lavoro, lavori per sopravvivere e dare una vita migliore ai tuoi figli, lavori ogni giorno, e ogni giorno è lo stesso. Così fino a quando non arrivi alla pensione. Dopodiché passi i tuoi ultimi anni di vecchiaia senza più un lavoro, che ormai era come parte integrante di te, e ti sentì un po’ vuoto, fino alla morte.
È un percorso già tracciato che la maggior parte di noi a volte compie senza neanche farsi delle domande. Ma io non riesco a non distogliere il pensiero dalla paura di una vita monotona, che è quella che tutti quanti mi spingono ad intraprendere.
E dunque a questo punto mi chiedo, quali sono le alternative? Se ci sono delle alternative?
‘alternativa sarebbe non seguire questo percorso già tracciato e finire perciò nella paura di non poter avere “una vita” degna di essere chiamata vita, senza stabilità, senza sicurezza. E queste alternative di vita sono destinate a coloro che presentano dei talenti speciali o delle convinzioni molto forti. Che eventualmente li porteranno al successo.
Io però non ho un talento, né una convinzione molto forte, non ho niente che mi contraddistingua dalla massa e ciò mi porta a dover conseguire il primo percorso descritto, quello delle pedine, se voglio avere una vita degna di essere chiamata vita.
È come se non ci fosse una via d’uscita.
Siamo tutti destinati ad essere pedine e probabilmente l’unica cosa che mi rimane da fare è accettarlo, senza pormi troppi quesiti. A volte non vorrei avere la facoltà di pensare, i pensieri sono ricorrenti, vorresti evitarli ma è impossibile farlo. Ma dire che non vorrei avere la facoltà di pensare è come dire di non voler essere umana perché è il nostro pensiero che è segno della nostra umanità. Non sarebbe male però la vita di un animale inconsapevole di se stesso, completamente libero dal tormento interiore” (F. classe quinta).

Gemma n° 2127

“Questa croce mi è stata regalata dai miei genitori quando sono stato promosso. Mi ricorda, visto che è un albero della vita, che le diverse pieghe che può prendere la vita, anche se non sempre piacevoli, portano comunque significato; questa croce mi ha portato a capire che bisognava lavorare di più e mi ha portato a migliorare drasticamente i miei voti. Questa croce simboleggia per me il piano di Dio per tutti noi e come non ci sia sempre chiaro all’inizio” (G. classe seconda).

Gemma n° 2123

“In alcuni momenti ho solo bisogno di fermarmi, sospendere qualsiasi preoccupazione e vivere l’attimo come se il tempo avesse interrotto il suo corso. Per questo ho scelto come gemma la Luna: quando la osservo attraverso il cannocchiale, oppure ad occhio nudo dal finestrino dell’auto o dalla strada, riesco a sentirmi in pace. Inizio a pensare a tutti quelli che la stanno osservando nel medesimo istante, ma soprattutto a chi l’ha fatto prima di me, compresi i familiari che non ci sono più e tutte le persone che non ho mai conosciuto; in quei momenti mi rendo effettivamente conto di quanto la vita sia effimera e di quanto futili siano spesso quelli che chiamo problemi, e questo mi tranquillizza come poche altre cose riescono a fare. Allo stesso tempo, è come se potessi comprendere solo osservando la Luna che ogni cosa che ho vissuto è accaduta per un motivo, che ogni scelta ha avuto un senso, e che tutto mi ha condotto a quel preciso istante in cui non devo far altro che lasciar andare” (B. classe quinta).

Gemma n° 2100

“Quest’anno ho deciso di portare la canzone “Ricordi” dei Pinguini Tattici Nucleari come gemma perché, nonostante io non sia una grande fan di questo gruppo, penso che questa canzone sia un capolavoro, con un significato profondo e, per me, con un valore immenso. Inizialmente mi piaceva la sua musicalità e il suo testo che, nel periodo in cui l’ho ascoltata per la prima volta, mi riportava alla mente la mia appena terminata storia d’amore adolescenziale, trasformandosi in un riflesso della nostalgia e tristezza che provavo, facendomi sentire capita.
Un giorno però, parlando di questa canzone con le mie amiche, mi è stato svelato il vero senso della canzone, che parla di ricordi, come dice il titolo, che stanno svanendo dalla mente di una persona affetta di demenza senile.
Da quel momento ogni volta che l’ho ascoltata mi ha mosso qualcosa dentro in maniera diversa rispetto ai primi ascolti, probabilmente perché l’alzheimer l’ho vissuto sulla mia pelle in maniera passiva, avendo perso mia nonna materna nel 2020 a causa di questo male atroce e disumano.
Perciò ora questa canzone è il “ricordo” che a me rimane di lei e che posso condividere con mia madre, cantandola a squarciagola, cercando di nascondere le lacrime.
La cosa che mi segna e mi rende felice di questa canzone è che finalmente è stata data voce ai sentimenti suscitati da una malattia che toglie tutto, sia quando vissuta direttamente che quando subita indirettamente, come “spettatori”.
D’altronde cosa siamo noi senza i ricordi?” (A. classe quinta).

Verso nuovi racconti

Immagine tratta da Il mio libro

E’ notte. Il rumore della lavastoviglie non copre il canto dei grilli che entra dalle finestre insieme al fresco portato da un fugace temporale serale. Mi sono appena imbattuto in un articolo di Samuele Pigoni dedicato ad un medico scomparso a gennaio e che non conoscevo, ma di cui probabilmente leggerò il libro citato: Giorgio Bert. “Ha animato la cultura italiana proponendo l’incontro tra scienze biologiche e sociali, medicina, letteratura e filosofia contribuendo al tentativo di umanizzare la cura, di superare la separazione tra scienze dure e studi umanistici, di introdurre nelle professioni d’aiuto una migliore consapevolezza del ruolo che le interazioni comunicative hanno nel destino dei processi di aiuto e guarigione.”
Scrive Pigoni: “Mi sono trovato in piena pandemia ad affrontare una serie di esperienze legate alla malattia e alla morte di affetti a me cari e a osservare in presa diretta una serie di temi al centro del pensiero e dell’impegno di Giorgio Bert.
Malattia e morte sono esperienze esistenziali centrali nella vita di tutti e nello sviluppo del pensiero umano: «Il fatto di essere mortali dà senso alla nostra esistenza. Che pensiamo o no esplicitamente alla morte, essa condiziona le nostre scelte, i nostri progetti, la nostra visione del passato e del futuro. È la morte a dare significato alla vita» (Gli uomini sono erba. Conversazioni sulla cura, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007).
Spesso però ci dimentichiamo che l’incontro con la malattia e la morte avviene attraverso la mediazione concreta dei sistemi umani che ne organizzano l’esperienza: ci troviamo all’improvviso ad attraversare le corsie degli ospedali, ad attendere lunghe ore in sale d’attesa, ad ascoltare parole più o meno comprensibili da parte del personale sanitario, a telefonare alla ricerca di informazioni sulle case di riposo, a rispondere a domande che ci vengono fatte per sapere come stiamo oppure ad attendere quelle che invece non ci verranno fatte. Incontriamo questi luoghi, fatti di assenze o presenze, frette o premure, proprio quando siamo più fragili e quando si generano nelle nostre biografie di malati o caregiver delle vere e proprie crepe che rischiano di danneggiarci con senso di privazione delle opportunità, di colpa, di perdita del controllo sulla nostra vita.
Giorgio Bert ci ha insegnato, da formatore e teorico dei princìpi della medicina narrativa e studioso della comunicazione in ambito sanitario e non solo, che una migliore consapevolezza delle interazioni comunicative può favorire il fronteggiamento delle esperienze della fragilità.”
A questo punto le parole di Pigoni ampliano il discorso e fanno risuonare in me delle corde utili a motivare il lavoro dell’anno scolastico alle porte: “Se i sistemi organizzativi sanitari – ma anche quelli scolastici, formativi, socio-assistenziali, aziendali – imparassero infatti ad accostare le persone a partire da una prospettiva sistemica e narrativa, se imparassero a percepirsi e percepire i propri membri come portatori di storie che vale la pena ascoltare e co-narratori di nuove storie da scrivere insieme, forse ridurremmo di un po’ le infiltrazioni dolorose che la vita porta con sé. Impareremmo a percepire che siamo parte di un sistema di relazioni che ci interconnette gli uni alle altre, fatti di interazioni ed equilibri in movimento e risposta a stimoli comunicativi e relazionali che influenzano decisivamente l’esito degli incontri e dunque le storie di malattie e di morte che inevitabilmente ci troviamo prima o poi ad attraversare.
In quanto umani siamo di casa nella parola e non possiamo non comunicare: ogni gesto, parola, domanda, commento può far succedere cose diverse intorno a noi. L’invito che Bert ci ha fatto nel corso della sua vita e del suo lavoro scientifico è di cambiare prospettiva, di acquisire la postura del narratore di storie tra narratori di storie, di fare come i registi, che spostano la cinepresa, cambiano la disposizione delle luci, e con questo sanno mettere in luce punti di vista diversi, tanto diversi da cambiare la direzione della storia che abbiamo da narrare, e vivere: «Le storie possono avere sviluppi e finali differenti, e in questo senso costituiscono potenti fattori di cambiamento: è il motivo per cui nelle narrazioni non conta tanto la verità dei fatti quanto il percorso e il senso che a esse dà il narratore. Le storie costruiscono significato e sono pertanto dinamiche e variabili» (da Gli uomini sono erba).”

Gemma n° 2015

“Come gemma ho portato una riflessione religiosa fatta due anni fa, un periodo complicato della mia vita, al di là della questione pandemica, anche per la perdita di una persona cara. Essendo io una persona cristiana mi sono fatta le tipiche domande: perché una persona innocente deve soffrire? perché il dolore se c’è Dio? dov’è quando stiamo male? Provo a rispondere. C’è il mistero dell’agire di Dio, però noi crediamo anche se non sappiamo come egli agisca. Immagino la nostra vita come una linea del tempo. Su questa linea ad un certo punto è arrivato Cristo, Dio è sceso in terra. Prima di Cristo eravamo in una situazione negativa; anche ora c’è il peccato, con la differenza che Cristo è venuto a salvarci e possiamo redimerci perché siamo nella grazia di Cristo. C’è chi crede e chi no, lui è venuto per salvare tutti. Per questo disegno la persona prima di Cristo sotto la linea. Noi abbiamo il libero arbitrio, possiamo decidere tra bene e male, possiamo credere in Dio o meno. Dio è in controllo dell’Universo, non delle singole vite, siamo noi il motore delle nostre azioni. Come esempio porto la vicenda di Giuseppe, capace di interpretare i sogni del Faraone; sicuramente mentre era imprigionato non pensava a ringraziare Dio della propria sorte, come noi nelle difficoltà vediamo la nostra fede venire meno. Dio non funziona come vogliamo noi; ha un piano generale in cui si collocano le nostre vite. Per un cristiano la speranza non viene mai meno, Dio è come un salvagente; come ha avuto un piano per Giuseppe, così ce l’ha per me. Ho una visione che mi proietta in avanti, oltre il momento difficile che sto vivendo: anche per me, come per Giuseppe, ci sarà il lieto fine”.

Mentre riflettevo su come commentare la gemma di F. (classe quarta) mi sono imbattuto in alcune parole di David Maria Turoldo: “Spero sempre nell’umanità. Nella mia umanità, nella tua umanità. Quello che non ho fatto ieri, cerco di attuarlo oggi. Spero sempre nel nuovo giorno, che è sempre un giorno mai vissuto da nessuno. E’ come se il mondo sorgesse di nuovo alla luce. Penso al bene che posso fare, il piccolo, grande aiuto che posso dare ai fratelli. Il sole rispunta, la vita risplende, aiutiamoci a sperare”.

Gemma n° 1926

“Ho portato una lettera che ho scritto a Lorenzo Parelli, morto il 21 gennaio a causa di un incidente sul lavoro mentre faceva stage. Con lui ho fatto le elementari e le medie. Il giorno del funerale, a sera, quando sono tornata a casa ho scritto questa lettera.
Ciao Lore,
ci manchi già sai?
Oggi, 02/02/2022 ti abbiamo detto “arrivederci”. Appena sono arrivata e ho visto tutta quella folla di amici, parenti, conoscenti, il mio istinto è stato quello di cercarti; non so perché, ma ti ho cercato tra le persone e quando non ti ho trovato ho sentito un senso di vuoto che non so nemmeno spiegarti. È difficile da capire, ma fino ad oggi non avevo ancora realizzato che te ne saresti andato per sempre. Ad accompagnarti in chiesa c’era il rombo delle moto dei tuoi amici e  sono sicura che a guidarli c’eri tu, tanta la passione che avevi; una cosa te la devo dire: hai degli amici con la A maiuscola e mi rende felice sapere che eri circondato da persone buone e genuine come te. Hai lasciato vuoto un po’ il  cuore di tutti, tante persone che nemmeno conoscevi erano lì a salutarti per l’ultima volta, molti ragazzi hanno preso la tua storia come esempio protestando per la tua morte, per evitare che lassù vengano a farti compagnia altri giovani. Anche se io e te ci eravamo un po’ persi negli ultimi anni, ogni volta che ci incontravamo non mancavano mai le chiacchierate e le risate, sentirti tornare a casa con la moto ed esclamare “aje pariell!!” sorridendo.
Ecco sono queste le cose che mi mancheranno, le particolarità che ti caratterizzavano, le tue abitudini che erano un po’ le abitudini di tutti, le domeniche a sgasare con la moto insieme ai tuoi amici in quel di gonny. Hai unito tutti quanti oggi pomeriggio, stringendoci in un abbraccio ed un pianto di dolore puro, ma non serviva che ci facessi questo scherzo perché succedesse eh!!
Ho abbracciato la tua mamma quando ti abbiamo salutato in cimitero, mi ha riconosciuta e mi ha stretta a sé; l’ho stretta con tutta la forza che avevo, ma la debolezza dettata dal dolore ha prevalso.
I suoi occhi erano spenti, bui, persi perché quella luce te la sei portata lassù proprio tu. Nonostante volessimo consolarla, era lei a fare forza a noi, assicurandoci che tu ci avresti osservato da lassù e dicendoci che eri felice, di questo ne era sicura e proprio mentre lo diceva le si sono illuminati gli occhi per un istante, istante che non dimenticherò mai.
Tanti giornalisti hanno scritto molto su di te in questa settimana, ma nessuno di loro ti conosceva davvero; il tuo obiettivo era essere felice, finire scuola, cominciare a lavorare, divertirti e realizzare i tuoi sogni più grandi e questo non te lo potrà ridare indietro nessuno.
Come ha detto la tua famiglia durante l’omelia: “Lore, tu che ci guidavi verso sentieri sperduti, guidaci ora nel buio che ci hai lasciato affinché non ci perdiamo nel dolore della tua perdita”, anch’io ti chiedo di proteggerci da lassù e stampare un sorriso su di noi ogni volta che ti ricorderemo, proprio come stai facendo adesso mentre ti scrivo questa lettera.
Ti voglio bene, G.
La foto riporta due emoji perché la famiglia ha consegnato a noi ragazzi un foglietto dove c’era scritto che Lorenzo si manifesterà secondo loro attraverso un fiore o una foglia.”

Queste le parole di G. (classe quinta). Penso che non ci sia un dolore più grande di quello di sopravvivere ad un figlio, in particolare quando ciò avviene in giovane età. Credo che sia fuori dalla comprensione umana, fuori dalle logiche, dai pensieri, dalle aspettative. E’ una vita che si spezza e che spezza con sé altre vite, perché nulla può essere più come prima. E’ un punto di rottura e penso che ci voglia molto tempo prima di raggiungere, se mai sia possibile farlo, un nuovo punto di equilibrio. Nuovo, perché quello di prima non si può ricreare.

Gemma n° 1925

“E’ una foto scattata ieri mentre andavo a fare una passeggiata. Non sapevo cosa portare e tornata a casa ho scritto alcuni pensieri fatti durante la passeggiata: ho pensato di condividerli oggi.
Giornata splendida dopo una settimana volata tra pioggia, allenamenti e verifiche, perché non andare a fare una passeggiata nel bosco per schiarirmi le idee?
Non è un periodo facile, non riesco a trovare la motivazione giusta per fare nulla, non trovo uno scopo, il mio scopo, ma magari sono stati solamente giorni faticosi, sono solo stanca.
Esco, cuffiette nelle orecchie, alzo il volume fino a che il rumore dei miei passi non scompare, chiudo la porta di casa e parto.
È stata una camminata di circa 50 minuti in cui ho ascoltato musica ininterrottamente, ma non saprei nominare nemmeno un titolo tra le canzoni ascoltate perché i pensieri erano più assordanti.
Mi sono ritrovata sola, sperduta per il bosco del mio piccolo paesino a fare i conti con me stessa ed è stata la cosa più difficile del mondo. Inconsciamente la mia mente ha iniziato a vagare, a scavare sempre più a fondo nei ricordi, ripensando a quanto successo negli ultimi sei mesi, poi in terza, seconda, prima superiore, fino ad arrivare alla terza media. Qui le riflessioni si sono protratte per più tempo, accompagnate da lacrime e singhiozzi che non riuscivo a sentire a causa del volume troppo alto, come se non riuscisssi ad accettare il mio dolore, come se non avessi il diritto di piangere.
Ad un tratto parte una pubblicità di Spotify che mi strappa un sorriso, ritorno con la testa alla mia passeggiata e mi sento stupida a camminare per i campi sola e piangendo.
Riparte la musica. Ormai penso di essermi sfogata e di poter godermi finalmente la passeggiata, ma ad un tratto, senza volerlo eccoli lì di nuovo, questa volta però sono i ricordi dell’estate tra la prima e la seconda elementare…quella maledetta estate.
Piango.
Cerco di distrarmi, ma l’unica cosa a cui riesco ad aggrapparmi sono i miei amici, più o meno recenti, e tutto d’un tratto mi sento incredibilmente sola, sento un vuoto dentro che ho paura di non riuscire a colmare, ho paura di non farcela, di deludere tutti.
Non riesco più ad ascoltarmi e comincio a correre. Mi sfogo. Ricomincio a camminare.
Arrivata a casa mi accorgo di aver passato l’ultimo tratto di strada senza aver ascoltato né le parole della canzone, né i miei pensieri, come se per un momento tutto il mondo si fosse messo in pausa.
Quanto fa paura restare soli con se stessi”.

E’ difficile commentare la gemma di R. (classe quarta) tanto è ricca di suggestioni, emozioni, riflessioni. Ha premesso di non sapere cosa portare: ci ha portato in classe se stessa, la sua interiorità senza sovrastrutture o artificiali costrutti, un suo momento di fragilità e al contempo di forza. Non poteva farci regalo più grande. E mi ha anche ricordato di ricominciare a fare una cosa che da un po’ non faccio: deserto. Per me ‘fare deserto’ ha sempre significato prendere del tempo per me, isolarmi, appartarmi, mettere a tacere le voci delle cose da fare, degli impegni, delle incombenze e, in questo silenzio, ascoltarmi. Un proverbio tuareg dice Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima. Può far paura restare soli con se stessi, ma penso sia la via da percorrere e che a forza di essere percorsa porti alla nostra anima. E’ tornando da lì che poi il deserto si fa sentiero, si fa viottolo erboso e si fa giardino; è tornando da quel deserto che il “vuoto dentro” si fa pienezza e la “paura di non farcela” si fa sfida e voglia di farcela.

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

Gemma n° 1919

“In questi lavori tendo a essere molto personale; la prima cosa a cui ho pensato è stato l’anello che ho al dito, quello che era di mia mamma. Poi a novembre è venuto a mancare mio fratello e quindi è iniziata l’indecisione. Cosa porto? L’anello di mia mamma o il fiocco di mio fratello? Poi a febbraio c’è stato Sanremo e Irama, il mio artista preferito, ha portato Ovunque sarai e l’ha dedicata alla nonna e alle persone che non ci sono più. L’ho sentita molto, davvero tanto, perché rispecchia tante cose a cui penso ogni giorno.

Ho perso la mamma da piccola, mentre mio fratello se n’è andato da piccolo. Questo mi fa capire davvero nel profondo quanto sia importante ogni momento passato con le persone che si amano. Amare quel che si fa, cogliere l’attimo al massimo: se c’è qualcuno a cui volete una marea di bene, diteglielo perché non si sa mai purtroppo nella vita quando potrebbe essere l’ultima volta. Apprezzate ogni istante della vostra vita”.

Quando, anni fa, ho iniziato a fare queste gemme mi ero immaginato uno spazio per dar voce alle cose belle, ai sorrisi, alle emozioni positive. Infatti invito ragazze e ragazzi a portare una cosa per loro significativa, preziosa, luminosa come una gemma appunto. Ed è andata proprio così, solo che stupisce come tante di quelle cose significative, preziose, luminose siano frutto di esperienze dolorose, siano generate dall’elaborazione di una sofferenza. E’ la direzione delle parole di Irama. All’inizio una serie di elementi naturali nei quali si riserva la possibilità di trovare tracce di presenza della nonna (vento, acqua, luce, luna); poi le azioni (in ogni gesto io ti cercherò) e un silenzio non muto (nel silenzio io ti ascolterò); infine la certezza di un rapporto che non finisce (Se sarò in terra mi alzerai, se farà freddo brucerai e lo so che mi puoi sentire). G. (classe terza) prende queste parole, tutti questi verbi declinati al futuro e le sue dolorose esperienze e li fa diventare insegnamento, accorato suggerimento, caldo consiglio a sfruttare al 100% il tempo che ci è dato di vivere e a dirsi i sentimenti belli che ci portiamo nel cuore. Non perdo l’opportunità che G. mi offre in questo contesto: vi voglio un mondo di bene ragazze e ragazzi.

Gemma n° 1911

“Inizialmente, a settembre-ottobre, avevo intenzione di portare una cosa, un altro oggetto, ma poi a novembre è successo qualcosa cha ha cambiato in peggio la mia vita e quindi ho deciso di portare questo, un semplice anello che può sembrare insignificante e che porto sempre con me qui alla mano sinistra. L’anello mi ricorda la persona che me l’ha dato: mia nonna, per me una seconda mamma. L’anello mi sta dando la forza di andare avanti e la convinzione che, nonostante tutti i problemi, scuola compresa, un giorno tornerà a valer la pena vivere e sentirsi viva”.

La voce di A. (classe terza) è flebile, le parole sono macigni. Essere attraversati da un’esperienza di dolore lancinante segna un’esistenza e c’è bisogno di arrivare al fondo di quel dolore per trovare i segni che ti riportino in superficie dopo la lunga apnea. Il grande dolore ti lascia senza fiato ma poi quei segni ti fanno prima risalire e prendere le prime boccate d’aria e saranno boccate disordinate, esagerate, fameliche di ossigeno. Poi ritroverai il tuo respiro normale, ma prima di riprendere la navigazione avrai bisogno di un po’ di tempo per restare a galla a riposarti dopo quello che hai vissuto e cercare di raccordare il ritmo del cuore e del respiro con quello delle onde. Dopo, soltanto dopo, tornerà il momento di rimettere vento nelle vele e risentirti vivo. Hai ragione A., quel giorno tornerà.

Gemma n° 1906

“Ho deciso di portare questa canzone come gemma perché è il mio portafortuna. La ascolto ogni mattina prima di venire a scuola in corriera oppure quando affronto un viaggio in macchina o in treno. Oltre ad essere molto allegra, regala un momento di leggerezza quando si vivono momenti pesanti.”

Questa la gemma di V. (classe terza). Mi ero già soffermato tempo fa su alcune parole di Buon viaggio di Cesare Cremonini. Oggi punto l’attenzione su altre: Chi ha detto che tutto quello che cerchiamo non è sul palmo di una mano e che le stelle puoi guardarle solo da lontano. Colgo quindi un duplice invito: da un lato a cercare vicino a me ciò di cui ho bisogno, a trovare l’essenziale nella mia vita, dall’altro a guardare da vicino ciò che sembra irraggiungibile, a portare nella mia vita i grandi ideali cui aspirare. Bello come esercizio!