Prendo dal Post un articolo molto interessante di Elena Zacchetti sullo scontro che si sta sviluppando in Afghanistan tra talebani e Isis e sui possibili (nefasti) esiti.
“Negli ultimi due mesi e mezzo, da quando Kabul è stata conquistata dai talebani, in Afghanistan si è intensificata una rivalità pericolosa e a tratti poco comprensibile, vista da qui: quella tra i talebani e l’ISIS, due gruppi sunniti estremisti, considerati terroristici da molti paesi occidentali, che condividono l’obiettivo di costruire un qualche tipo di stato islamico basato su un’interpretazione molto rigida della sharia (la legge islamica). È una rivalità che arriva da lontano e che si sta mostrando in tutta la sua violenza tramite attentati – come quello di martedì a un ospedale di Kabul –, esibizione di cadaveri per le strade e uccisioni “extra-giudiziali”, cioè omicidi compiuti o autorizzati da un’autorità statale senza essere preceduti da un procedimento giudiziario.
I rapporti tra i due gruppi sono entrati in «una nuova fase», ha scritto il sito specializzato War on the Rocks, iniziata dopo il ritiro dei soldati statunitensi dall’Afghanistan e che «sarà quasi certamente sanguinosa e violenta».
Si parla di «nuova fase» perché questa inimicizia in Afghanistan non è una cosa nuova. Iniziò a svilupparsi nel 2015, cioè fin dalla nascita dell’ISIS-K (o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico), che in maniera un po’ approssimativa si può definire la divisione afghana dello Stato Islamico.
Già allora (ma anche oggi) i talebani erano alleati con al Qaida, grande organizzazione sunnita che si contendeva con l’ISIS la supremazia del mondo jihadista globale, e già allora ISIS e talebani avevano differenze ideologiche significative. Mentre l’ISIS-K, così come il nucleo principale dell’organizzazione (poi sconfitto in Iraq e in Siria), auspicava la creazione di un Califfato islamico esteso oltre i confini di un unico stato, i talebani avevano obiettivi più locali: volevano riconquistare il potere in Afghanistan e imporre un’interpretazione radicale della sharia dentro i confini nazionali. L’ISIS accusava inoltre i talebani di essere «apostati» per adottare posizioni troppo morbide nell’applicare le norme dell’Islam; i talebani sostenevano che l’ISIS fosse un gruppo estremista eretico.
Con il ritiro dei soldati americani, e con il rapido sgretolamento delle forze di sicurezza afghane, lo scorso agosto i talebani sono riusciti a riconquistare l’Afghanistan e allo stesso tempo si sono aperti nuovi spazi d’azione per l’ISIS-K, che ha approfittato fin da subito della nuova instabilità, oltre che delle evasioni di massa dalle carceri afghane che si sono verificate durante la presa di Kabul. In quei giorni confusi di metà agosto erano stati infatti liberati migliaia di detenuti, tra cui molte persone accusate di terrorismo e di essere affiliate all’ISIS.
L’inizio di una «nuova fase» si era già visto già lo scorso 26 agosto, quando l’ISIS-K aveva ucciso quasi 200 civili afghani radunati fuori dall’aeroporto di Kabul nel tentativo di salire a bordo di uno degli aerei impegnati nelle operazioni di evacuazione di stranieri e afghani da Kabul.
Nelle settimane successive l’ISIS-K ha compiuto numerosi attacchi sia nelle zone del paese dove la sua presenza è considerata più solida, come la città di Jalalabad (nell’est), sia in aree che fino a quel momento erano state abbastanza fuori dal suo raggio d’azione, come le città di Kandahar e Kunduz.
Le maggiori violenze si stanno verificando proprio nella provincia di Nangarhar (in rosso nella mappa), dove si trova Jalalabad e dove da settimane sembra essere in corso una specie di guerra segreta ed estremamente cruenta.
Secunder Kermani, inviato di BBC a Jalalabad, ha raccontato quello che sta succedendo in città e le estese violenze di cui sono testimoni gli abitanti locali. Kermani ha scritto che quasi ogni giorno corpi di persone uccise vengono trovati ai lati delle strade, «alcuni colpiti da spari o impiccati, alcuni decapitati. Molti hanno biglietti scritti a mano nelle tasche che li accusano di essere membri della divisione afghana dello Stato Islamico». Nessuno sta rivendicando gli omicidi e molti ritengono che si tratti di uccisioni extra-giudiziali compiute dai talebani contro persone sospettate di far parte dell’ISIS-K: «I due gruppi hanno iniziato una guerra sporca e sanguinosa. Jalalabad è il fronte di questa guerra», ha scritto Kermani.
Il sospetto deriva anche dal fatto che a capo dei servizi di intelligence della provincia di Nangarhar c’è un uomo conosciuto con il nome di Dr Bashir, che già in passato aveva combattuto e sconfitto l’ISIS e che si era fatto una reputazione di grande ferocia e violenza. Dr Bashir ha negato di essere coinvolto nelle molte uccisioni delle ultime settimane e ha sostenuto che i talebani non abbiano motivo di preoccuparsi per la presenza dell’ISIS in Afghanistan.
Nonostante le affermazione di Dr Bashir, sembra che l’ISIS stia riuscendo a ottenere qualche successo e a mettere in difficoltà il nuovo governo talebano, per esempio attaccando la minoranza degli Hazara, di orientamento sciita, a lungo perseguitata in Afghanistan ma con cui ora i talebani stanno cercando di costruire rapporti pacifici. Avinash Paliwal, vicedirettore del SOAS South Asia Institute dell’Università di Londra ed esperto di Afghanistan, ha detto al Financial Times che questi attacchi compiuti dall’ISIS-K «esacerberanno una faglia settaria che non è nell’interesse dei talebani che si infiammi davvero», e ha aggiunto che «la violenza aumenterà e sarà un “tutti contro tutti”».
Con i suoi attentati, l’ISIS sta provocando anche un’erosione di fiducia della popolazione afghana nei confronti dei talebani e della loro capacità di riportare la pace e la sicurezza nel paese. Per anni, infatti, i talebani avevano sostenuto di essere l’unico gruppo in grado di stabilizzare l’Afghanistan. Le cose però si stanno dimostrando più complicate di quanto avessero previsto i leader del gruppo, anche perché i comandanti talebani locali stanno avendo parecchie difficoltà a contrastare le tattiche terroristiche e di guerriglia adottate dall’ISIS.
È difficile prevedere come si svilupperà la rivalità tra i due gruppi, e con che livello di violenza.Il timore, ha scritto War on the Rocks, è che la divisione afghana dell’ISIS provi a diventare ancora più attiva ed efficace reclutando combattenti talebani delusi dal nuovo regime, che in un certo senso sta cercando di ottenere legittimità a livello internazionale collaborando con diversi paesi e diventando allo stesso tempo più attaccabile dalle frange più radicali ed estremiste. Con il ritiro degli americani e delle forze della NATO, inoltre, l’ISIS-K è ora in grado di concentrare tutte le sue forze direttamente contro i talebani, compiendo attacchi ancora più frequenti e violenti rispetto al passato”.
Alla fine ho deciso di abbonarmi a Il Post, un progetto editoriale che seguo da un po’. L’ho fatto sia per continuare ad ascoltare due podcast, Morning e Tienimi bordone, sia perché apprezzo l’accuratezza con cui vengono scritti gli articoli. Inoltre, dopo un po’, hai la sensazione di far parte di un gruppo, di stare effettivamente contribuendo alla realizzazione di un bel lavoro. Infine non nascondo che abbia inciso anche il costo abbordabile per le mie tasche. Mi capiterà, quindi, di pubblicare un po’ più frequentemente dei loro pezzi rispetto a quelli di altre fonti, anche perché non hanno alcuna forma di paywall. Oggi pubblico un articolo sulla situazione che si sta delineando in Pakistan, in particolare sulle pressioni che un gruppo radicale sta esercitando sul governo di Islamabad. L’articolo lo potete trovare qui.
“Dalla fine di ottobre in alcune regioni del Pakistan, a sud della capitale Islamabad, migliaia di persone appartenenti a gruppi islamici fondamentalisti hanno bloccato un’importante autostrada e ricattato il governo, chiedendo diverse concessioni e protestando contro alcuni atti che considerano blasfemi. Il più importante di questi gruppi si chiama Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) ed è diventato una forza importante e pericolosa nelle dinamiche sociali del paese. Il 1° novembre, dopo giorni di scontri in cui sono morti quattro poliziotti e durante i quali sono state bloccate alcune tra le più importanti vie commerciali del paese, il governo ha infine ceduto ai manifestanti, raggiungendo un accordo i cui termini sono segreti ma che, a detta dei giornali locali, garantisce molte concessioni ai fondamentalisti. Il TLP è da tempo una presenza influente nella vita politica e sociale del Pakistan e, come avvenuto più volte negli anni scorsi, ha mostrato di essere in grado di ricattare il governo nazionale con manifestazioni e azioni violente per ottenere i suoi obiettivi.
Ad aprile il governo pakistano, per cercare di fermare il TLP, aveva perfino designato il gruppo come organizzazione terroristica e ne aveva arrestato il leader, Saad Hussain Rizvi (nella foto). Dopo l’arresto c’erano state rivolte di piazza, con un numero imprecisato di morti e centinaia di feriti. Il governo allora era riuscito a placare le manifestazioni facendo delle concessioni, ma gli estremisti del TLP sono tornati a protestare lo scorso 21 ottobre. A migliaia, spesso armati, hanno cominciato una marcia da Islamabad, la capitale, alla grande città di Lahore, con l’obiettivo di occupare la Grand Trunk Road, un’autostrada che collega le due città e che è una delle principali vie di trasporto di tutto il paese. Le richieste dei manifestanti erano numerose e confuse, ma le principali erano tre: il rilascio di Saad Hussain Rizvi, il ritiro delle accuse di terrorismo avanzate dai tribunali pachistani contro centinaia di affiliati al gruppo, e l’espulsione dell’ambasciatore francese. Quest’ultima richiesta era una ritorsione per il fatto che un anno fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva difeso la pubblicazione di vignette satiriche che raffiguravano il profeta Maometto: è una vecchia battaglia del TLP, che aveva portato a scontri tra i manifestanti e la polizia pachistana già nei mesi scorsi. Secondo alcuni giornali pachistani citati dal New York Times, i termini dell’accordo che ha risolto la crisi degli ultimi giorni prevedono il rilascio di vari membri del gruppo in prigione, la promessa che non ci saranno più accuse contro rappresentanti del TLP e la rinuncia alla designazione di gruppo terroristico. Il TLP avrebbe rinunciato invece a chiedere al Pakistan di tagliare i rapporti diplomatici con la Francia. Il TLP, che oltre a essere un movimento sociale estremista e un gruppo di pressione è anche un partito politico (con poco successo elettorale, finora), fu fondato nel 2015 con lo scopo di difendere la rigida e controversa legge sulla blasfemia del paese, che prevede pene durissime, compresa la pena di morte, per chiunque offenda una qualunque religione. In Pakistan, dove il 96 per cento della popolazione si professa musulmano, quasi sempre la religione offesa è l’islam. Il gruppo divenne un movimento di massa durante i vari sviluppi della vicenda di Asia Bibi, una donna cristiana accusata ingiustamente di blasfemia, la cui vicenda divenne un caso internazionale. Tra le altre cose, il TLP organizzò grandi rivolte di piazza in difesa di Mumtaz Qadri, una guardia del corpo che nel 2011 aveva ucciso il governatore della provincia del Punjab dopo che questi aveva difeso Asia Bibi e chiesto una riforma della legge sulla blasfemia. Nel 2017, il TLP organizzò altre rivolte dopo che il governo aveva proposto di modificare lievemente il testo del giuramento dei parlamentari che faceva riferimento al profeta Maometto: negli scontri morirono sei persone, e centinaia furono ferite. Nel corso degli anni, il governo del Pakistan non è stato in grado di gestire organizzazioni come il TLP: ha consentito che diventasse «uno dei gruppi di pressione più importanti» del paese e di fatto ne è diventato «ostaggio», come ha scritto l’Economist. Il governo tuttavia non è soltanto una vittima. Nel corso degli anni, la politica e l’esercito pachistani hanno alimentato sentimenti fondamentalisti nella popolazione, servendosi di gruppi come il TLP per polarizzare l’opinione pubblica e ottenere vantaggi elettorali. Come ha scritto sempre l’Economist, i legami tra l’élite pachistana e il TLP sono noti: per esempio, durante le proteste del 2017, un alto ufficiale dell’esercito fu filmato mentre consegnava somme di denaro ai leader del gruppo”.
Non è un tema sul quale è facile approfondire le cose in classe, un po’ perché piuttosto specifico, un po’ perché c’è un po’ di confusione anche tra gli studiosi. Ho trovato un articolo di due anni fa, ma aggiornato di recente (ieri!), sulla questione delle voci autorevoli all’interno del mondo islamico. La fonte è il sito Oasis e l’autore è Michele Brignone.
“Si afferma spesso che nell’Islam non esiste un’autorità religiosa. In realtà, le figure che svolgono questo ruolo sono numerose, ma sono scarsamente istituzionalizzate e soprattutto non sono organizzate gerarchicamente. Lo dimostrano anche i molti termini che sono usati per definire gli specialisti di religione (ulema, imam, shaykh…). Questa guida prova a fare un po’ di chiarezza.
Imām letteralmente “guida”, è il capo della comunità islamica. Storicamente è il termine più antico impiegato dai musulmani per designare i primi successori di Muhammad, insieme ad amīr al-mu’minīn (“comandante dei credenti”), titolo di cui si fregia ancor oggi il re del Marocco. In ambito sunnita questo termine è diventato sinonimo di califfo, che ha finito per prevalere nell’uso. Secondo la definizione classica del giurista Abū l-Hasan al-Māwardī (m. 1058) “l’imamato è istituito per supplire alla profezia nella salvaguardia della religione e nella gestione degli affari terreni”. L’imām deve dunque preservare il messaggio religioso rivelato a Muhammad e sovrintendere all’amministrazione della comunità. Tra i compiti che i giuristi sunniti gli assegnano vi sono l’amministrazione della giustizia, la fortificazione dei confini, la conduzione del jihad contro gli oppositori dell’Islam, la raccolta del bottino e la designazione di governatori per le province. In teoria, per assumere legittimamente la funzione di imām occorre essere investiti dalla comunità tramite i suoi rappresentanti, poiché nessuno può vantare un diritto intrinseco all’imamato. Il candidato inoltre non può avere difetti fisici, deve essere giusto, possedere le competenze necessarie all’interpretazione della legge, avere capacità di governo, essere dotato di forza e coraggio per condurre il jihad, nonché appartenere tribù dei Quraysh, dalla quale proveniva anche Muhammad. In realtà molto spesso i giuristi hanno dovuto derogare a uno o più di questi criteri. Per questo i musulmani considerano che dopo l’epoca dei primi quattro califfi, detti “ben guidati”, e con poche altre eccezioni, l’imamato abbia finito per degenerare, trasformandosi in un mero potere monarchico (mulk). Inoltre, a partire dal X secolo il potere effettivo non è stato più esercitato dall’imām, ma da sultani ed emiri (comandanti militari). Anche per questo l’autorità, nel mondo sunnita, finisce per trasferirsi dalla figura del califfo/imām alla comunità nel suo insieme, e in particolare ai detentori del sapere religioso, gli ‘ulamā’. Peraltro, è probabile che i primi imām/califfi avessero prerogative più ampie e religiosamente connotate rispetto alla teorizzazione degli ‘ulamā’, che ragionano sul modello del califfato abbaside (VIII-XIII secolo). In senso più generale, imām è per i sunniti anche chiunque guidi la preghiera. Il termine è inoltre utilizzato come titolo onorifico per alcuni ‘ulamā’ particolarmente autorevoli, per esempio i fondatori delle quattro scuole giuridiche riconosciute. Diversa la situazione tra gli sciiti, per i quali l’imām non è soltanto la guida temporale della comunità, ma detiene anche un carisma religioso, che ne fa l’interprete vivente e infallibile della rivelazione, assumendo spesso una dimensione metafisica (“Imām di luce”). Secondo gli sciiti inoltre l’imamato non viene conferito per nomina, ma è una prerogativa dei discendenti di Muhammad, a partire dal cugino e genero ‘Alī. A sua volta lo sciismo è suddiviso in diverse correnti, ciascuna con una propria catena di imām. Secondo gli sciiti duodecimani (Iran, Iraq, Libano, Bahrein, Arabia Saudita), che rappresentano la corrente maggioritaria, a Muhammad succedono dodici imām. L’ultimo di essi si sarebbe occultato nell’874 d.C. e tornerà alla fine della storia per ristabilire la giustizia. Secondo gli sciiti ismailiti, il settimo imam, da loro identificato in Ismā‘īl Ibn Ja‘far, inaugura un nuovo ciclo profetico che trascende le religioni storiche. Secondo gli zayditi, oggi diffusi soprattutto in Yemen, l’imām non è infallibile e può essere scelto tra qualsiasi discendente di ‘Alī tramite i suoi due figli Hasan o Husayn.
Califfo
Califfo letteralmente “successore, vicario”, è sinonimo di imām come capo della comunità in ambito sunnita. Nei versetti coranici in cui ricorre il termine (2,20 e 38,26), califfo (in arabo khalīfa) è riferito ad Adamo e a David, in entrambi i casi come vicari di Dio sulla terra. Alcuni tra i primi califfi intesero in questo senso la loro funzione. Tuttavia secondo gli ‘ulamā’ il termine è da intendere esclusivamente nel senso di khalīfat rasūl Allāh, “vicario dell’inviato di Dio” (e non “vicario di Dio”), cioè come guida temporale della comunità, senza particolare carisma religioso. In epoca moderna il califfato ha finito per designare il progetto politico di uno Stato islamico universale, fondato sull’applicazione della sharī‘a.
‘Ālim
‘Ālim (pl. ‘Ulamā’) letteralmente “colui che sa”, dotto. Il termine indica gli studiosi e gli esperti delle scienze religiose: teologia, esegesi coranica, hadīth (detti profetici) e soprattutto diritto (fiqh). È questo sapere, unito alla pietà personale, a conferire agli ‘ulamā’ una particolare autorevolezza come guardiani e interpreti della tradizione religiosa. Un detto di Muhammad ne fa gli “eredi dei profeti”. Non sono però un corpo istituzionalizzato, benché storicamente mostrino una forte identità di gruppo. Nei primi secoli dell’Islam si organizzarono indipendentemente dal potere politico, anche se molti di essi assunsero incarichi ufficiali a corte o nell’amministrazione. Tuttavia il loro prestigio dipendeva anche dalla distanza critica che riuscivano a mantenere rispetto ai governanti. Nell’Impero ottomano furono integrati all’interno dell’amministrazione e dotati di una struttura gerarchica, al vertice della quale si trovava lo Shaykh al-Islam (in turco Şeyhülislam), che aveva il compito di presiedere all’amministrazione religiosa dell’Impero. L’incorporazione degli ‘ulamā’ e la loro organizzazione amministrativa all’interno delle strutture statali permane anche in molti Stati musulmani moderni e contemporanei. Sempre in epoca moderna l’autorità degli ‘ulamā’ è stata messa in discussione dalla presenza di nuovi intellettuali musulmani, sia di orientamento islamista che modernista, che ai dotti hanno spesso rimproverato l’eccessiva vicinanza al potere politico e l’incapacità rinnovare il sapere tradizionale per adattarlo alle esigenze della vita moderna. Tuttavia, per quanto trasformato, il ruolo degli ‘ulamā’ non è venuto meno. Negli ultimi decenni molti di loro hanno dato vita a nuove associazioni e istituzioni, spesso di carattere transnazionale, come l’Unione mondiali degli Ulema musulmani (fondata e presieduta dallo shaykh Yousef al-Qaradawi), o il Consiglio dei saggi musulmani (presieduto dallo shaykh Ahmad al-Tayyeb, grande imam di al-Azhar).
Shaykh
Shaykh letteralmente significa “vecchio”, “anziano” ed è il titolo con cui nel mondo arabo si designano le autorità tribali. Nell’ambito della spiritualità sufi, lo shaykh è il maestro di una via mistica. Chi svolge questo ruolo è talvolta chiamato anche murshid (guida). Storicamente, molti ‘ulamā’ erano anche shaykh sufi, ciò che contribuiva ad accrescere il loro prestigio religioso e sociale. Nell’Islam di lingua persiana, l’equivalente dello shaykh è il pīr. Più in generale shaykh è anche il titolo con cui ci si rivolge a uno ‘ālim, in particolare se esso ricopre un ruolo istituzionale, come lo Shaykh al-Azhar, guida dell’importante centro d’insegnamento del Cairo, o, nell’Impero ottomano lo Şeyhülislam (si veda sopra la voce ‘ālim).
Faqīh
Faqīh è un ‘ālim esperto di fiqh, cioè di diritto. Il faqīh particolarmente versato nella sua scienza può essere mujtahid, cioè praticare l’ijtihād, lo sforzo interpretativo basato sul ragionamento personale con cui, in assenza in una norma esplicita contenuta nel Corano o nella tradizione profetica, il giurista esprime un parere o emette un giudizio. Il giurista che invece si attiene al parere di un altro dotto senza ricorrere al ragionamento personale è un muqallid, cioè uno che pratica il taqlīd, l’imitazione.
Qādī
Qādī è il giudice. In epoca premoderna, il qādī era colui che applicava la legge religiosa e doveva perciò essere un ‘ālim. In quanto funzionario ufficiale, il qādī era in teoria un delegato del califfo, detentore originario di tutti i poteri della comunità musulmana. Al vertice della struttura giurisdizionale dello Stato si trovava il Qādī al-qudāt (“il giudice dei giudici”), che presiedeva all’amministrazione della giustizia. Con la fine del califfato abbaside e la frammentazione politica della comunità musulmana, ogni regno o sultanato si dotò del suo Qādī al-qudāt, istituzione che fu ripresa anche dall’Impero ottomano. In epoca moderna, con il ridimensionamento della giurisdizione religiosa a vantaggio di tribunali civili, anche le funzioni dei qādī religiosi si sono molto ridotte.
Muftī
Muftī è un ‘ālim abilitato e emettere fatwe, cioè pareri giuridici su particolari punti di diritto. I muftī più autorevoli hanno avuto un ruolo importante nella formazione del diritto islamico, perché le raccolte delle loro fatwe sono state utilizzate come manuali di diritto. Secondo la dottrina classica, per poter esercitare la funzione di muftī occorre essere dotati di integrità personale e della scienza necessaria a praticare l’ijtihād, cioè la capacità di raggiungere una soluzione a un particolare problema giuridico esercitando il ragionamento personale. Già a partire dal settimo secolo i muftī sono stati integrati nella struttura dello Stato, che provvedeva a designare i giuristi abilitati a svolgere tale compito. Anche nell’Impero ottomano, la funzione di muftī fu istituzionalizzata e attribuita alle più alte cariche della struttura religiosa. In epoca moderna e contemporanea, molti Stati dispongono di un muftī ufficiale. In questi casi molto spesso il muftī non si limita a fornire pareri giuridici, ma è il più alto dignitario religioso dello Stato. Un fenomeno recente è quello dell’emissione di fatwe da parte di istituzioni indipendenti dagli Stati, come il Consiglio Europeo per la Fatwa, o da parte di siti internet specializzati.
Ministro degli Awqāf
Ministro degli Awqāf si tratta di una figura nata in epoca moderna, quando gli Awqāf, cioè le fondazioni pie, sono stati incamerati dagli Stati, che hanno così assunto l’amministrazione di una vasta rete di moschee e centri di insegnamento precedente autonomi. Il Ministro degli Awqāf funge perciò da Ministro degli Affari Religiosi. Più che di un’autorità vera e propria, è un alto funzionario, che tuttavia presiede al funzionamento di una consistente struttura di enti e personale religioso.
Khatīb
Khatīb nell’Arabia pre-islamica era colui che nella tribù parlava con autorità. Con l’avvento dell’Islam è rimasta una figura che si rivolge autorevolmente ai musulmani. È infatti colui che pronuncia la khutba (sermone), durante la preghiera comunitaria del venerdì e in altre occasioni particolari, per esempio durante il mese di Ramadan.
Dāʿī
Dāʿī letteralmente è “colui che invita” (alla fede), il predicatore. Storicamente è riferito ai maggiori propagandisti di gruppi musulmani dissidenti, in particolare in ambito sciita. Tra gli ismailiti, i Dāʿī erano i rappresentanti dell’imām e formavano una vera e propria gerarchia religiosa. È dalla predicazione di alcuni di loro che sono nati diversi movimenti e sette, come, in Medio Oriente, i drusi e gli alawiti (anticamente noti come nusayrī). In tempi più recenti il termine dā‘ī (o l’equivalente dā‘iyya) è utilizzato in senso più generale, anche in ambito sunnita, per indicare i predicatori che, attraverso televisioni satellitari e nuovi media, stanno dando vita a un nuovo internazionalismo islamico. Alcuni di questi predicatori sono anche ‘ulamā’, ma spesso le due figure non coincidono, segno che il sapere religioso tradizionale non è più l’unica fonte di autorità. Tra i primi e più noti protagonisti di questa nuova forma di comunicazione religiosa c’è lo shaykh Yousef al-Qaradawi. Oggi questi predicatori si sono moltiplicati e sono diventati estremamente popolari.
Mullah
Mullah termine derivato dall’arabo mawlā (“signore, tutore”), nel mondo turco-iraniano è l’equivalente dello ‘ālim, ma può avere un senso anche più generale e indicare qualsiasi figura detentrice di un sapere o di un carisma religioso (per esempio il famoso mistico Rūmī è noto come Mawlā-nā, “nostro mawlā”). Nella gerarchia religiosa sciita indica un dotto di basso rango, privo cioè della qualifica di mujtahid (interprete).
Marjaʿ al-taqlīd
Marjaʿ al-taqlīd (“fonte dell’imitazione”): in ambito sciita duodecimano è un dotto che per, virtù e sapienza rappresenta un modello da emulare. La figura del Marjaʿ al-taqlīd si è affermata in epoca relativamente recente (metà del XIX secolo), ma affonda le sue radici nella disputa sulla pratica dell’ijtihād (lo sforzo interpretativo) e sul ruolo del mujtahid (il giurista abilitato a praticare l’ijtihād). Tale disputa ha origine al momento dell’occultamento del dodicesimo imām, nel IX secolo, quando per i fedeli si pose il problema di come praticare la fede in assenza della guida suprema, che era anche l’interprete vivente della rivelazione. Secondo alcuni i contenuti della sharī‘a sono definiti dalle tradizioni degli imām. Secondo altri invece le norme della sharī‘a possono essere ricavate anche attraverso sforzo interpretativo di alcuni ‘ulamā’ particolarmente qualificati, i quali vanno così a colmare almeno parzialmente il vuoto lasciato dall’imām. Nell’Ottocento l’istituzionalizzazione della Marja‘iyya inaugura l’obbligo, per i comuni fedeli, di seguire gli insegnamenti di un mujtahid, imitandone la condotta. I mujtahid ricevono il titolo di Āyatollāh (letteralmente “segno di Dio”). Per circa un secolo, la dignità del Marjaʿal-taqlīd si concentra in un’unica persona, il più eminente dei mujtahid. Alla morte dell’Ayatollah Burūjirdī nel 1961 la Marja‘iyya si frammenta in diverse personalità, legate ognuna a un particolare centro di insegnamento (Qom, Najaf, Mashhad, Teheran), mentre anche mujtahid minori vengono riconosciuti come marja‘. Inoltre, con l’ascesa di Khomeini e la rivoluzione iraniana, la marja’iyya assume una chiara dimensione politica, tanto che nella Repubblica Islamica d’Iran viene creata la figura della Guida Suprema. Da questo momento i vari marja‘ di distinguono anche per la posizione che assumono rispetto alla svolta khomeinista e alla dottrina della wilāyat al-faqīh, secondo la quale, in assenza dell’imām, il giurista (faqīh) avoca a sé le prerogative politiche della guida, anticipando così il tempo escatologico.”
Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.
“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne?Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione. Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa? Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito. Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.
Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché? O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”. P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica. O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.
Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione? P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione. O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.
La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta? P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica. Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico. O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.
Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr] P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria. O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione. La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.
Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente… O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam. P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”
Un breve articolo di Giuseppe Lorizio a margine del viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti. E’ tratto da Avvenire del 5 febbraio.
“Il fatto che il Vescovo di Roma partecipi, in una terra di cultura islamica, a un importante evento di dialogo interreligioso a tutto campo, è certamente un segno da leggere, interpretare e vivere con simpatetica partecipazione. Che non siano gli islamici a recarsi ad Assisi per il dialogo interreligioso, ma il Papa ad andare “fuori” dal proprio ambiente culturale e religioso non è irrilevante, né da considerarsi in termini meramente propagandistici o alternativi rispetto ad altri momenti singolari ed eccentrici rispetto alla nostra tradizione. Il raccoglimento di papa Benedetto XVI nella moschea blu di Istanbul nel 2006 è un precedente indimenticabile. Il gesto/segno e l’evento che stiamo seguendo con attenzione e pathos hanno qualcosa da dire al mondo intero, e all’Occidente in particolare: le religioni hanno un messaggio da lanciare a questa società che rischia la perdita dell’umano e l’abisso della dispersione: c’è un unico Dio, in una dimensione di trascendenza assoluta, che ci porta a relativizzare il nostro assolutismo antropocentrico ed etnocentrico. In particolare le religioni abramitiche non possono non allearsi in questo contesto conflittuale: le stesse radici veterotestamentarie e cristiano-nestoriane della religione coranica affermano qualcosa di decisivo. La moschea dedicata alla madre di Gesù, che richiama la sura XIX del Corano è un simbolo significativo per tutti. Lo dobbiamo abitare e sperimentare per poterlo esprimere nell’oggi della nostra storia. Da soli non andiamo da nessuna parte e siamo tutti destinati al declino e alla sconfitta. E se l’Europa, terra di antica cultura cristiana, appare in difficoltà nel confronto con l’islam , questo avviene – come ha sottolineato giustamente il vescovo Camillo Ballin, vicario apostolico in Arabia – «perché l’Europa non fa figli». Non fa figli – e non solo in senso biologico, ma di fatto non genera persone strutturate – e non custodisce e trasmette le proprie radici ebraico-cristiane, in nome di un laicismo deteriore, che nulla ha a che fare con l’autentica laicità, che invece denomina l’appartenenza a un popolo. Del resto senza l’ebraismo e il cristianesimo l’islam risulterebbe del tutto incomprensibile. In rapporto poi alle esperienze religiose che fanno riferimento alla natura e propongono modelli olistici di integrazione dell’uomo con l’universo degli esseri, non possiamo solo proporci in direzione alternativa e critica, bensì siamo chiamati a recuperare ed elaborare, anche teologicamente, quella che oggi denominiamo la dimensione cosmicoantropologica della rivelazione, dove il peccato ha rotto l’armonia dell’uomo con Dio e con gli altri, e ha anche lacerato la relazione uomo-natura. Questo è un orizzonte significativo e fecondo per l’alleanza di tutte le esperienze religiose che in questi giorni si stanno incontrando negli Emirati Arabi Uniti. Il tema della creatività, che la sfida della tecnica propone e ripropone in ogni passaggio epocale, non può mettere in ombra il legame creaturale e il senso del limite, da cui ogni esperienza religiosa trae origine. Ciascuno è chiamato a guardare e andare oltre, accompagnando questo evento e quelli che seguiranno con la riflessione e l’orazione, ma soprattutto declinando la parola chiave, che lo guida e lo anima: pace”.
Difficile non imbattersi in questi giorni nella notizia del viaggio di Papa Francesco negli Emirati Arabi. Oggi sono state poste delle importanti firme.
Prendo dal sito di Avvenire di oggi, a firma di Stefania Falasca.
“Abu Dhabi 4 febbraio 2019: «In nome di Dio Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Non solo. È messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze. Nero su bianco la condanna dell’estremismo e l’uso politico delle religioni, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto e il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti». E ancora: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione». È questo l’epilogo di un incontro interreligioso decisamente coraggioso in un lacerato Medio Oriente che ha visto protagonisti nel Paese-ponte del Golfo Persico papa Francesco e il Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib. Una solenne quanto impegnativa doppia firma a un documento comune sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», che sigla un’appello congiunto senza precedenti rivolto a «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Una dichiarazione non annunciata, resa pubblica solo alla fine dal Founder’s Memorial, dedicato al padre fondatore degli Emirati arabi, dove davanti ai rappresentanti delle diverse religioni il Successore di Pietro e un leader musulmano hanno sottoscritto la lista di punti “non negoziabili” e chiesto a loro stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di invertire la rotta delle violenze e «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace».
Foto tratta da Eastwest
Un gesto forte, di parole altrettanto forti, soprattutto per la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad al-Tayyib, che già nell’incontro con il Papa all’Università di al-Azhar a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita, aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione. La dichiarazione comune che muove «da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea» condanna l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – che porta a far «morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – in «un silenzio internazionale inaccettabile». Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e chiede di «smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Perché Dio «non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati» nella loro vita e nella loro esistenza», «non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Si dichiara perciò «fermamente» che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. «Queste sciagure – è scritto – sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione». Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le atre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale». Tutto questo è affermato in nome di Dio – come è ribadito – che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. In nome dunque della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali – ma che è lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato, dalle tendenze ideologiche che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome «dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità». In nome dei poveri, dei più vulnerabili. «In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre». La scossa doveva arrivare ed è arrivata. Inshallah.”
Un articolo apparso su Confronti il 20 settembre: è a firma di Soumaya Bourougaaoui e tratta della Tunisia e della sua tradizione di dialogo interculturale e interreligioso.
“La Tunisia, nella sua storia è diventata simbolo di accoglienza: sempre aperta e tollerante, è il luogo dell’incontro dove non si impongono limiti culturali, religiosi o politici. Promuove le diversità, resta un modello di pluralismo e di incrocio di religioni e culture. Ricordiamo le parole di Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, intervenendo all’Assemblea dei rappresentanti del popolo tunisino (Arp) nel febbraio 2016: «La Tunisia è un modello di pluralismo e tolleranza».
La Tunisia è indiscutibilmente un esempio di convivenza pacifica e del dialogo interculturale ed interreligioso. Non si scorda Sidi Mehrez (951-1022), considerato il patrono di Tunisi, che è stato soprattutto convinto protettore delle minoranze religiose… Il suo nome è legato alla fondazione del quartiere ebraico della città vecchia di Tunisi ovvero Elhara, per quasi 10 secoli, Elhara è stato effettivamente il cuore pulsante della comunità ebraica di Tunisi, la cui localizzazione sarebbe stata scelta gettando un bastone dall’alto della moschea che oggi porta il suo nome (David Cohen, Le parler arabe des Juifs de Tunis, Parigi, 1964). Quindi, la minoranza ebraica di Tunisi ebbe modo di vivere all’interno della città, mentre precedentemente gli ebrei ne erano esclusi e dovevano rimanere all’esterno durante la chiusura delle porte, dovevano passare la notte nei pressi del villaggio.
Oggi l’isola di Djerba, la perla del Mediterraneo, è anche nota per la sua minoranza ebraica, che abita sull’isola da secoli. Quest’anno, ha ospitato migliaia ebrei all’antica sinagoga di Ghriba. Ogni anno, il 33° giorno dalla Pasqua ebraica e in occasione della festa di Lag Ba’omer, la Ghriba – che in arabo significa “straniero” – diventa meta di un pellegrinaggio che mobilita migliaia di credenti.
«La Tunisia resterà un Paese di apertura e coabitazione di religioni», afferma il premier tunisino Youssef Chahed, nel periodo di effettuazione di questa tradizionale ricorrenza, nel corso della giornata di domenica 14. Inoltre, in quest’occasione, è stato annunciato che Tunisi presenterà ufficialmente la richiesta all’Unesco per l’inserimento dell’isola di Djerba tra i siti patrimonio dell’umanità, esempio di convivenza di fedi diverse da millenni: musulmana, ebraica e cristiana.
Un altro esempio di vicinanza tra comunità religiose diverse (alla Goulette hanno convissuto a lungo tunisini, francesi, maltesi, italiani), la messa dell’Assunzione di Maria, che fino al 1962 prevedeva anche la processione della Madonna di Trapani fino al mare. La Goulette è diventata il polo d’attrazione dei giovani grazie alla tradizionale tolleranza.
Il filologo e mediterraneista Alfonso Campisi (professore ordinario di Filologia Romanza presso l’università la Manouba a Tunisi e presidente dell’Aislli, Associazione per lo Studio della Lingua e Letteratura Italiana, sezione Africa. Studioso della Sicilia e del Maghreb, si occupa di identità, lingua e storia dell’emigrazione siciliana in Tunisia e negli Stati Uniti) scrive: «Il quartiere de La Petite Sicilie, alla Goulette, nasce intorno alla chiesa della Madonna di Trapani, celebrata dai trapanesi il 15 agosto. Secondo gli archivi da me consultati, la Madonna usciva dalla chiesa attraversando le stradine de La Goulette accompagnata da una banda musicale. La giornata si concludeva con i fuochi d’artificio e un concerto sulla piazza principale. Dornier così descrive la processione: “La processione della Madonna di Trapani, a La Goulette, non è un semplice corteo dove si cammina in fila, cantando inni o recitando il rosario. La Vergine è portata su un carro da una dozzina di uomini che si alternano. E tutto intorno alla Vergine c’è una folla eterogenea, che vuole toccare la statua, chi con un fazzoletto, o chi con la mano. A questa folla si mescolano donne musulmane velate, ebrei praticanti, che erano venuti anch’essi a pregare la Madonna. Alcuni seguono la processione scalzi per esaudire un voto, andando da La Goulette a Tunisi. Nelle ore serali, intorno alle 20:30, saranno le prostitute accompagnate dai loro protettori a fare il rito chiamato Le rite de la Madeleine prostrandosi ai piedi della croce”» (si veda “La comunità siciliana di Tunisia: La Goulette,un esempio di tolleranza”, del prof. Alfonso Campisi).
Nella prima metà dell’800, l’emigrazione italiana nel Maghreb è prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: «Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti». Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.
«Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna. Gli emigrati già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”» (Francesco Casula, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura).
Con la scrittrice Marinette Pendola si scopre la storia dei siciliani di Tunisia. Pendola è nata a Tunisi da genitori di origine siciliana e come molti ha dovuto abbandonare la terra natale. Ricostruisce queste vicende personali della sua infanzia nel romanzo La riva lontana (Sellerio, 2000), è autrice di L’erba di vento (Arkadia Editore, 2014), ha insegnato lingua e letteratura francese nelle scuole superiori, vive a Bologna e fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui L’alimentazione degli italiani di Tunisia (2006). Per i “Quaderni del Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino” ha pubblicato Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo) (2007). Inoltre, ha creato il sito http://www.italianiditunisia.com, con questi obiettivi:
Creare un luogo di scambio e di ritrovo fra tutti gli italiani di Tunisi sparsi nel Mondo.
Mantenere viva la memoria dell’esperienza storica e del patrimonio culturale italo-Tunisino.
Diffondere la conoscenza dell’esperienza storica e culturale italiana in Tunisia.
Raccogliere materiale di vario genere sulla comunità italiana di Tunisia.
Promuovere la ricerca attraverso la premiazione di tesi di laurea e di dottorato sulla storia, costumi, e la cultura degli italiani di Tunisia.
In Tunisia, nel settore dell’educazione e della ricerca, presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e dell’Umanità di Manouba, è stato attivato il Master di ricerca in civiltà e religioni comparate. È stata una buona iniziativa e unico modo per partecipare alla costruzione di un futuro di pace e di convivenza armonica di diverse culture, ovvero, lanciare un messaggio di pace, e consolidare la coesistenza pacifica sottolineando come la tolleranza e la convivenza interreligiosa, siano un valore distintivo della società tunisina.
«Nel 2007, la Tunisia aveva 10 milioni di abitanti, di cui 20.000 cattolici, provenienti da 60 nazioni diverse. È veramente una Chiesa… cattolica! La domenica alla Messa, su 100 persone presenti, possono essere rappresentate ben 50 nazionalità diverse. Ciò porta una grande ricchezza culturale, spirituale e liturgica. Oggi la Tunisia è un Paese musulmano moderato, molto aperto; riconosce il suo passato cristiano e bizantino. La Chiesa è rispettata e tollerata. Coloro che sono in contatto con noi, ci apprezzano» (mons. Marun Lahhm, vescovo di Tunisi dal 2005, “Cristiani che vivono tra i musulmani”. L’articolo è tratto da una conferenza tenuta a Brescia presso la parrocchia di s. Francesco di Paola).
In Tunisia ebrei e musulmani e cristiani coabitano in pace da sempre, la Tunisia si conferma una terra dove la tolleranza e il rispetto non mancano. E le minoranze non hanno mai avuto problemi nel professare il loro credo. Il decano della Facoltà di Lettere, delle Arti e dell’Umanità di Manouba, professor Habib Kazdaghli, in una conferenza, tenuta il 28 marzo 2017, presso la Biblioteca “Diocésaine” di Tunisi, sulle minoranze tunisine tra ricordo e oblio, organizzata dal giornalista Hatem Bourial, dice: «La minoranza è la fonte della grandezza della maggioranza, e le minoranze fanno parte della storia di Tunisia».”
Quello che segue è un post piuttosto lungo. Si tratta dell’articolo uscito su La Civiltà Cattolica 4010 a firma Antonio Spadaro (direttore della rivista) e Marcelo Figueroa (pastore presbiteriano e direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano). Ho deciso di pubblicarlo perché lo trovo ricchissimo di spunti di riflessione.
“In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia. Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male. A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche». Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.
Lyman Stewart
Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush. Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati». Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli. Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto. Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione». In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova». Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».
Rushdoony
Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca [sollevato dall’incarico il 18 agosto 2017] e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1]. «La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa. La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden. Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici. È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano. Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna. Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato. L’ecumenismo fondamentalista Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica. Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici. La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica. È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione». La tentazione della «guerra spirituale» L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiettare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana. Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico. Colpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3]. Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces. Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto. Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista. Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza». Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali. Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico». Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista». Contro la paura Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’alleanza spuria tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo. La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa. Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4]. ******** [1]. Bannon crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny. Cfr anche N. Howe, «Where did Steve Bannon get his worldview? From my book», in The Washington Post, 24 febbraio 2017. [2]. Cfr A. Aresu, «Pope Francis against the Apocalypse», in Macrogeo, 9 giugno 2017. [3]. Cfr «Donald “Constantine” Trump? Could Heaven be intervening directly in the election?», in Church Militant. [4]. Per approfondire queste riflessioni, cfr D. J. Fares, «L’antropologia politica di Papa Francesco», in Civ. Catt. 2014 I 345-360; A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», ivi 2016 I 209-226; D. J. Fares, «Papa Francesco e la politica», ivi 2016 I 373-385; J. L. Narvaja, «La crisi di ogni politica cristiana. Erich Przywara e l’“idea di Europa”», ivi 2016 I 437-448; Id., «Il significato della politica internazionale di Francesco», ivi 2017 III 8-15.
Un articolo breve che tocca diversi temi, da quello della prossima visita del papa in Egitto a quello dei recenti attentati contro la chiesa copta, dal radicalismo islamico all’islam del grande imam di al-Azhar. E’ il frutto dell’intervista di Riccardo Cristiano al professor Antoine Courban, pubblicata su Vatican Insider.
Nel suo appartamento al primo piano di una palazzina moderna nel cuore di Ashrafyyeh, il “quartiere cristiano per eccellenza” di Beirut, il professor Antoine Courban, docente all’Università Saint Joseph, storica istituzione dei gesuiti in Libano, tra icone bizantine e commentari coranici attende con ansia che Papa Francesco giunga al Cairo.
«Per capire la portata di un evento occorre collocarlo nel suo contesto. E il contesto nel quale avverrà questo viaggio è certamente segnato dal duplice attentato contro le Chiese e i fedeli copti d’Egitto. Un attentato? No, piuttosto direi un atto di guerra. Ma quale guerra? La guerra dichiarata dai radicali ai “moderati”, tutti i moderati. Ci si può chiedere come possa una guerra essere dichiarata anche all’islam moderato e avvenire con lo spargimento di sangue cristiano. La mia risposta è semplice: perché aprendo il recente convegno del Cairo sulla cittadinanza il grande imam di al-Azhar ha detto che è giunto il momento di sfidare il fanatismo e l’estremismo che usa la religione come una maschera con un vero scontro culturale, ed ha indicato come farlo. I terroristi hanno capito e trasferito il combattimento sul loro terreno, colpendo il fianco debole, la carne tenera del nemico, le chiese e i fedeli copti». Ci può spiegare? Se è chiaro l’atto di guerra, sembra proprio un atto di guerra contro i cristiani, definiti “infedeli”…
«Per rispondere devo tornare al convegno promosso da al-Azhar poco prima della strage. E per capire bene dobbiamo partire da una parola. Questa parola è “umma”. La conoscono tutti. Nella storia questa parola è stata usata per indicare la comunità dei fedeli musulmani, quindi in senso religioso. Indica una “ecclesia”, o una comunità universale religiosa. Poi è stata usata in senso etnico, l’umma araba, cioè la comunità di tutti i popoli arabi. Queste due concezioni di umma, religiosa o etnica, hanno dato forma alle due prevalenti correnti politiche: il panislamismo e il panarabismo. Nel documento conclusivo del recente convegno di al-Azhar, al quale ho partecipato come inviato come altri 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi come me, si parla però di un’altra umma, alla cui base non c’è la religione né l’etnicità, ma la geografia: l’umma della patria, cioè la comunità di chi vive un territorio. È fondamentale leggere il primo articolo della dichiarazione di al-Azhar, dove si parla di “eguali diritti di musulmani e cristiani nei loro paesi, considerandoli una umma/nazione”. Ma non è tutto. L’articolo 6 dice che l’ambizione è quella di promuovere un nuovo partenariato, “un nuovo contratto tra i cittadini di paesi arabi, musulmani, cristiani o di altra fedeltà”. Tale contratto è basato sul “reciproco riconoscimento, sulla cittadinanza e sulla libertà”. La dichiarazione sottolinea che tutto questo è “una necessità vitale” e specifica che tutti nella patria comune si è sottoposti a un dettato costituzionale. E le costituzioni, si sa, non le scrivono i teologi. È un passaggio importantissimo. Nel paragrafo finale poi si afferma che in questa Patria fondata su una Costituzione “il nostro obiettivo, vivendo sulla stessa barca e facendo parte della stessa società, [….] è garantire un migliore futuro ai nostri figli e alle nostre figlie”». Si indica qui la parità uomo-donna?
«Come vede parliamo di novità storiche, epocali: è da secoli che si cerca di plasmare il concetto di cittadinanza nelle nostre società, la comune cittadinanza senza distinzioni di sesso, di etnia, di fede. Il concetto di nazione, vocabolo che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato interpretato in termini etnici o religiosi. Ora la più importante istituzione sunnita, al-Azhar, lo plasma in termini geografici, nella patria comune, dove vivere insieme, da uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. E, par di capire, di sesso. Ecco perché l’imam di al-Azhar ha voluto parlare di sfida culturale e si capisce perché gli odiosi attentati contro le Chiese copte siano un atto di guerra dei fanatici contro tutti i moderati. Mi preme sottolineare un ultimo aspetto, molto importante per me. Questo testo redatto alla fine della conferenza di marzo e che pone la base per la conferenza sulla pace alla quale parteciperà Papa Francesco è stato letto, in aula, davanti a tutti i delegati e gli ospiti, dal grande imam in persona. Alcuni ulema conservatori di al-Azhar, parte cioè di quella che potremmo definire per capirci “la Curia” di al-Azhar, preferivano che fosse letto da uno speaker. L’intento poteva essere quello di depotenziare il testo, il suo valore vincolante. Lui però ha insistito, ha voluto leggerlo personalmente, e credo che questo abbia un enorme significato. Dunque il viaggio del Papa al Cairo arriva sulla scia di questo, in un contesto nel quale l’islam moderato dice che non ci sono più minoranze etniche o religiose, ma cittadini. E il cardinale Rahi rientrando qui dal Cairo lo ha detto benissimo: non siamo più minoranze». Lei crede che il Libano abbia svolto un ruolo in questo?
«Osservo la platea degli invitati al convegno di marzo: 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi. Credo che il Libano del vivere insieme, non del convivere tra comunità, ma del vivere insieme, del legame, della cittadinanza, abbia costituito il nucleo concettuale, il messaggio di partenza di questo incontro che proseguirà a fine mese, alla presenza di Papa Francesco».
Un articolo molto molto interessante di Chiara Maritato sulla Turchia, sulla laicità e sul ruolo religioso ed etico dell’Islam. La fonte è l’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa.
“In molti articoli che raccontano la Turchia di oggi, compare una narrazione che segue più o meno la seguente trama: nata dalle ceneri di un impero, dove regnava un Sultano/Califfo (kalifat rasul Allah, cioè rappresentante dell’inviato di Dio, e quindi successore di Maometto), la Turchia si è poi laicizzata con la proclamazione della Repubblica fondata il 29 ottobre del 1923 da Mustafa Kemal (che si farà poi chiamare, dal 1934, padre dei turchi, Atatürk). Oggi, dopo quindici anni di governo conservatore religioso del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), la Turchia si sta islamizzando. Questa visione, seppure molto diffusa, è incompleta. Come si “islamizza” una nazione la cui popolazione è per oltre il 90% di religione musulmana? La domanda può sembrare retorica, ma non lo è del tutto. Nell’aprile 2016, in un intervento che ha scatenato molte polemiche il Presidente del parlamento turco, Ismail Kahraman, ha affermato senza mezzi termini che la Turchia è uno stato a maggioranza musulmana e dovrebbe avere una costituzione religiosa. Se è vero che il ruolo e il significato della religione nella sfera pubblica sono andati ridefinendosi, l’Islam non ha mai cessato di essere una componente fondante dell’identità turca. Inoltre, la laicità intesa come separazione tra stato e chiesa ha poco o niente a che fare con la laicità turca, laiklik. Principio costituzionale e valore fondante, ispiratore di politiche restrittive e di non pochi colpi di stato, il laiklik è lontano da una separazione tra stato e religione come due realtà a sé stanti. Al contrario, esso si presenta come principio assertivo in cui lo stato, attraverso il suo apparato burocratico e militare, controlla la religione relegandola alla sfera privata. Un altro aspetto critico è che a livello istituzionale, a differenza di quanto talvolta si legge, la Repubblica turca non nasce laica. L’articolo 2 della Costituzione del 1924 afferma che “la religione della Repubblica è l’Islam”. Quest’articolo sarà emendato nel 1928, quando viene meno il riferimento alla religione, ma è solo nel 1937 che includerà la laicità tra i principi fondamentali della Repubblica. Questo ritardo non sorprende, se invece di concentrarsi esclusivamente sulle celebri misure per la modernizzazione volute da Atatürk, si considera la nascita della Turchia come stato-nazione alla luce del nazionalismo turco, un’ideologia che può essere sintetizzata in tre principi chiave: turchizzazione, occidentalizzazione e islamizzazione. Nel 1925 sono proclamate una serie di leggi dette “Rivoluzionarie”, che impongono la chiusura delle confraternite sufi e delle comunità religiose e vietano il fez (copricapo ottomano). Durante i primi venti anni della Turchia Repubblicana, l’élite al governo è stata quindi impegnata nella missione di “rieducare” la popolazione a una morale civica e alle cosiddette sei frecce del kemalismo, elaborate nel 1931 (nazionalismo, populismo, repubblicanesimo, statalismo, rivoluzionarismo, laicismo). Questa “missione civilizzatrice” ha avuto l’obiettivo di modernizzare e occidentalizzare usi e costumi, anche negli aspetti più privati. A tale processo, noto in Turchia con il termine di “ingegneria sociale” (toplumsal mühendisliği) si sono contrapposte una serie di rivolte scoppiate tra il 1925 e 1930. Il regime ha risposto rafforzando il suo controllo autoritario contro una costante minaccia islamista (irtica). Tuttavia, le pratiche religiose “non-ufficiali” sono continuate clandestinamente nel quotidiano. L’intento di educare la società a una modernità secolare non prevedeva la costituzione di una società senza religione. Quello che è spesso definito come Islam kemalista ufficiale versus l’Islam della tradizione e delle confraternite è da intendersi come il controllo dello stato su una religione da praticarsi in forma privata e il più possibile “razionale”. Un aspetto che spesso sfugge quando si analizza la prima secolarizzazione, è che il laicismo turco è stato un tentativo di re-islamizzare la società verso un Islam “nazionale”, “civile”, “ufficiale”, “puro” (doğru din) lontano dalla tradizione e dalla superstizione. Uno degli strumenti con cui la Repubblica turca ha avviato questa trasformazione del religioso è indubbiamente il Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet). A seguito della proclamazione della Repubblica nel 1923, il 3 marzo 1924 gli affari religiosi diventarono competenza di un’unità amministrativa, il Direttorato per gli Affari Religiosi. Il Diyanet è un organo statale il cui presidente è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo ministro. Tra le sue principali competenze vi sono la gestione dei servizi riguardanti la fede, le pratiche islamiche e l’amministrazione dei luoghi di culto. Concretamente, il Diyanet supervisiona le attività che si svolgono nelle circa 90.000 moschee in Turchia, seleziona gli operatori di culto (che sono quindi dipendenti statali) e diffonde la dottrina religiosa, l’Islam sunnita di scuola hanafita. Se è vero che nell’ultimo ventennio le competenze e risorse di questa istituzione pubblica sono profondamente mutate, la trasformazione del Diyanet fu avviata molto prima della vittoria dell’AKP alle elezioni del 2002. Nel 1965, la legge sull’organizzazione e i doveri del Direttorato elenca tra i compiti dell’organo quello di “illuminare la società sulla morale”. È dunque a partire dagli anni Sessanta che la sfera morale entra tra le competenze dirette dell’istituzione. Per restarci. Durante gli anni Settanta, e soprattutto dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, sarà anche attraverso la rete capillare del Diyanet, diffusa sul territorio nazionale e nelle comunità turche in Europa, che si consolida la cosiddetta “Sintesi turco-islamica”. Quest’ultima ha visto un utilizzo strumentale della religione come collante della società. Il Diyanet assunse dunque una funzione tutelare di contrasto ai movimenti di sinistra e al partito comunista. Infatti, la Costituzione oggi vigente, promulgata nel 1982 e figlia di quel colpo di stato, all’articolo 136 aggiunge tra le competenze del Direttorato quella di “promuovere la solidarietà e l’integrità nazionale”. A partire dai primi anni 2000, e soprattutto dal 2010, una riorganizzazione interna ha rinforzato la capacità amministrativa del Diyanet. Il suo budget è oggi pari a più di 2 miliardi di dollari e conta circa 120.000 dipendenti. Nell’ultimo decennio, da protettore del laicismo di stato, il Diyanet è diventato una delle istituzioni più politicizzate, nonché uno degli strumenti attraverso cui diffondere nazionalismo turco e morale islamica, due componenti chiave su cui si fondano le politiche dell’AKP. In questo quadro si inserisce la volontà di formare una “nuova generazione di devoti”, come ha affermato in un celebre discorso del 2012 l’allora premier Erdoğan. Ad emergere è soprattutto il sostegno morale e spirituale che il Diyanet, tramite il suo personale maschile e femminile, fornisce alla popolazione. Questo avviene non solo nelle moschee dislocate in tutta la Turchia, ma anche in strutture pubbliche come ospedali, orfanotrofi, prigioni, località protette per donne vittime di violenza, riformatori. A seguito di accordi con i ministeri competenti, il personale del Diyanet si reca regolarmente in queste strutture pubbliche per svolgere attività di predicazione, lettura di Corano, guida spirituale (irşad) e sostegno morale. Dal 2005, sono stati inoltre istituiti uffici del Diyanet con l’intento di fornire sostegno morale e guida spirituale a donne e famiglie (Aile Irşad ve Rehberlik Büröları). Si tratta di una sorta di consultori familiari, dislocati sul territorio nazionale, dove predicatori e predicatrici del Diyanet incontrano su appuntamento donne e famiglie, ascoltano i loro problemi, organizzano seminari e attività di formazione. Questi uffici sono forse la struttura che più di tutte incarna la volontà dello stato, attraverso il Diyanet, di appropriarsi di ambiti nuovi come il supporto morale. L’educazione alla morale islamica e le misure conservatrici recentemente adottate – da ultima la decisione di rimuovere la teoria di Darwin dai libri di biologia riecheggiano, capovolgendolo, il tentativo di secolarizzazione dei costumi imposto dall’alto, da parte di uno “stato-padre” kemalista chiamato ad educare più che a governare. Tuttavia, la questione va oltre la ricerca di pronostici sul se e come l’Erdoğanismo riuscirà in una nuova impresa di “ingegneria sociale” volta ad una re-Islamizzazione. L’attuale riposizionamento dei confini tra stato e religione in Turchia si evince proprio dal ruolo assunto dalla religione nelle istituzioni pubbliche, in quanto insieme di pratiche oltre che di valori. Tuttavia, la piena realizzazione di una missione “moralizzatrice” solleva non poche perplessità. Nonostante l’ingente apparato burocratico e militare, il fallimento della modernizzazione kemalista invita a riflettere criticamente sugli strumenti e sull’efficacia delle politiche oggi in campo, nonché sugli scenari futuri.”
Nile Green è professore di storia presso la University of California, Los Angeles. Il suo ultimo libro è ‘The Love of Strangers: What Six Muslim Students Learned in Jane Austen’s London’ (2016). E’ autore di questo testo, tradotto in italiano da Francesco d’Isa, uscito su Aeon in collaborazione con la Princeton University Press, sotto licenza Creative Commons. L’ho recuperato su L’Indiscreto.
“Duecento anni fa, giunge a Londra il primo gruppo di studenti musulmani della storia d’Europa. Inviati dal principe ereditario dell’Iran, gli studenti hanno la missione di esaminare le nuove scienze emerse dalla rivoluzione industriale. Quando negli ultimi mesi del 1815 i sei giovani musulmani si stabiliscono nei loro alloggi londinesi, sono pieni di entusiasmo per il nuovo tipo di società che vedono intorno a loro. Folle di uomini e donne riuniti ogni sera presso le ‘case-spettacolo’, come chiamano i teatri della città. Londra è animata dalla definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo di qualche mese prima, e le nuove scienze – o ulum-i-ladid – che devono scoprire gli studenti sembrano ovunque, persino nei nuovi battelli a vapore che trasportano i passeggeri lungo il Tamigi. Quando le settimane si trasformano in mesi, i sei stranieri cominciano a rendersi conto della portata del loro compito. Non hanno qualifiche riconoscibili, né alcun contatto tra i piccoli gruppetti accademici di allora: non conoscono nemmeno l’Inglese. Al tempo, infatti, non esiste ancora un dizionario Persiano-Inglese che li possa aiutare. Nella speranza di imparare l’inglese e il latino, che prendono erroneamente per la lingua principale della scienza europea, gli aspiranti studenti arruolano un sacerdote di nome John Bisset. Laureato a Oxford, Bisset gli parla dei due più antichi luoghi di studio inglesi. Quando successivamente due degli studenti vengono assunti dall’eclettico matematico Olinthus Gregory, sviluppano ulteriori collegamenti con le università, dal momento che Gregory ha trascorso diversi anni come libraio di successo a Cambridge. Covano un piano per presentare almeno uno degli studenti, Mirza Salih, a un professore che potrebbe essere interessato a introdurre informalmente uno studioso straniero presso uno dei college di Cambridge. Questo accade molto tempo prima che i cattolici siano autorizzati a studiare presso le università della Gran Bretagna, quindi l’arrivo a Cambridge di un iraniano islamico (che avrebbe poi fondato il primo giornale in Iran) causa scandalo e costernazione. Il docente scelto per ospitare Salih è un certo Samuel Lee del Queens College. Lee sembra un candidato strano per sostenere il giovane taliban, come vengono chiamati gli studenti in Persia. Devoto evangelico, Lee è dedito alla causa di convertire i musulmani di tutto il mondo al cristianesimo. Insieme ad altri colleghi del Queens, compresa l’influente famiglia di Venn, ha anche degli stretti legami con la Church Missionary Society. Fondata nel 1799, la Società diviene velocemente il centro del movimento missionario di Cambridge. Eppure è proprio questo che rende il giovane musulmano così attraente per Lee. Il punto non è tanto che la conversione di Salih possa portare un’anima più al cristianesimo. Piuttosto, in veste di persiano istruito, Salih può aiutare il professore nel grande compito di tradurre la Bibbia in persiano, un linguaggio che allora era utilizzato anche in tutta l’India, oltre che in quello che oggi è l’Iran. Lee coglie al volo l’occasione ed è così che Salih viene invitato a Cambridge. Come rivela il suo diario persiano, a Salih il professore piace moltissimo. Anche se i posteri avrebbero ricordato Lee come un illustre orientalista di Oxbridge che sale al rango di Regius Professor di ebraico, la sua educazione è molto umile. Lee era cresciuto in un piccolo villaggio dello Shropshire, in una famiglia di falegnami, e nella sua adolescenza è stato apprendista falegname egli stesso. In un mio viaggio di ricerca in California, ho visitato Longnor, il villaggio natale di Lee. È ancora oggi un luogo remoto, raggiungibile con strade a una sola corsia nascoste nelle siepi. Presso la chiesa locale, ho trovato con gioia le iniziali del suo bisnonno falegname, Richard Lee, incise nella banchi che aveva fatto per i compaesani. Duecento anni fa era quasi impossibile per un ragazzo di campagna come Sam Lee diventare un professore di Cambridge, ma egli ha un genio per le lingue che gli vale il patrocinio di un signore locale. Essendo anch’egli un giovane studioso pieno di ambizioni, Salih apprezza il percorso di Lee, e nel suo diario persiano parla della sua vita con ammirazione. Attraverso il patrocinio di Lee, Salih è in grado di abitare al Queens College e cenare in sala con professori come William Mandell e Joseph Jee. A quel tempo, il presidente del Queens è il filosofo naturale Isaac Milner, celebre come chimico quanto come conversatore. Salih apprezza certamente le cene ai piani alti, ma il suo tempo a Cambridge non è tutto un banchettare. Fa molti viaggi di studio presso le librerie che lo interessano, in particolare la Biblioteca Wren presso il Trinity College, che ospita la statua di Sir Isaac Newton. Nel suo diario, Salih lo chiama ‘un filosofo che era sia gli occhi che la luce d’Inghilterra’. In cambio dell’accesso al mondo dell’università, Salih aiuta Lee nel suo lavoro sulla Bibbia persiana. Scrive anche una lettera di raccomandazione quando Lee viene candidato al ruolo di Regius Professor. La lettera è ancora conservata negli archivi universitari. Tra il diario di Salih, le lettere di Lee e i documenti universitari, emerge un ricco quadro dell’improbabile rapporto formato tra questo straniero musulmano e quello che allora era il più cristiano dei collegi di Cambridge. L’università è solo uno dei tanti luoghi che Salih e i suoi compagni musulmani visitano durante i loro quattro anni in Inghilterra, alla ricerca dei frutti scientifici del secolo dei Lumi. L’incontro tra ‘Islam e l’Occidente’ è spesso raccontato in termini di ostilità e di conflitto, ma il diario di Salih presenta atteggiamenti molto diversi – di cooperazione, compassione e umanità – e, grazie alla testimonianza di un inaspettato rapporto con l’evangelico Lee, di amicizie improbabili. Scritto in Inghilterra contemporaneamente ai romanzi di Jane Austen, il diario di Salih è un testamento dimenticato, e un salutare ricordo dell’incontro tra europei e musulmani agli albori dell’era moderna.”
Questa mattina, andando a lavorare, stavo ascoltando Virgin Radio. All’interno del Buongiorno di Dr. Feelgood e Massimo Cotto, vi è spazio per Beppe Severgini che, in uno dei suoi interventi, fa riferimento al modo in cui è considerata la donna all’interno del mondo islamico. Mi sono allora ricordato di aver salvato da qualche parte un articolo di qualche settimana fa, pubblicato su L’Huffington Post USA e tradotto in italiano da Milena Sanfilippo. L’articolo è stato scritto da Jim Garrison e Banafsheh Sayyad. Certo alcuni punti sono controversi, ma sicuramente è un articolo stimolante e arricchente. Se non altro una voce che non si sente così spesso.
“Il profeta Maometto sarebbe scioccato dal modo in cui gli odierni fondamentalisti islamici trattano le donne sotto il loro controllo. Questa repressione viene perpetrata nel nome della Legge Islamica, conosciuta come Sharia. Ma l’attuale repressione delle donne è plasmata dalla cultura e dalla storia. Trova scarso fondamento nel Corano e, di certo, non è in linea con quello che sappiamo sugli insegnamenti di Maometto o sul modo in cui trattava le donne. Fra tutti i fondatori delle maggiori religioni (Buddismo, Cristianesimo, Confucianesimo, Islam e Ebraismo) Maometto fu senza dubbio il più radicale ed il più incoraggiante nel modo di trattare le donne. Probabilmente, è stato il primo femminista della storia. Si tratta di un aspetto di fondamentale importanza perché, se c’è una sola cosa che arabi e musulmani possono fare per riformare e rigenerare la loro cultura oppressa dalla crisi, questa sarebbe liberare le donne e garantire loro i pieni diritti di cui le altre godono nei paesi del mondo. La parità è la chiave per una vera Primavera Araba. Tra i fondatori di grandi religioni, Confucio accennava a malapena alle donne ed in tutti i suoi insegnamenti dava per scontato che fossero subordinate agli uomini, all’interno di un ordine patriarcale. Buddha insegnava che le donne potevano diventare sagge, illuminate. Ma per fare questo dovevano essere messe alla prova tre volte, prima che fosse permesso loro di farsi monache. Questo solo a condizione che la monaca sul gradino più alto della gerarchia monastica fosse comunque inferiore al monaco al livello più basso. Nei racconti del Vangelo, Gesù non fa mai commenti espliciti sullo status delle donne, anche se si avvicinò a donne dalla cattiva reputazione o non ebree. Mosè era convintamente patriarcale. Nella Torah, non c’è praticamente nulla che indichi una specifica preoccupazione per i diritti delle donne. Maometto fu sostanzialmente diverso. Predicò in modo esplicito la parità assoluta tra donne e uomini come principio fondamentale della vera spiritualità e prese diverse misure concrete per migliorare nel profondo lo status e il ruolo delle donne in Arabia, durante la sua vita. Maometto era vicino alla causa delle donne perché era nato povero e diventò orfano molto presto. Era anche analfabeta e illetterato. Sapeva, come pochi altri sanno, cosa significassero la povertà e l’esclusione sociale. Confucio faceva parte della piccola nobiltà accademica dell’antica Cina. Alla nascita, Buddha era un ricco principe del Nepal. Gesù nacque da un falegname di discendenza reale e all’interno di una stretta comunità ebraica in Palestina. Mosè nacque da una famiglia ebrea e fu cresciuto nel palazzo del Faraone in Egitto. Maometto non ebbe nessuno di questi vantaggi. Per questo, mentre gli altri leader religiosi sembravano mantenere il silenzio sull’oppressione femminile, Maometto innalzò lo stato delle donne facendone una questione di credo religioso e politica di stato. Prendete in considerazione quanto segue: Nell’Arabia del settimo secolo, l’infanticidio femminile era una pratica comune, Maometto lo abolì. Un detto contenuto nell’Hadith (la raccolta di aneddoti su Maometto) sembra testimoniarlo: Maometto disse infatti che la nascita di una bimba era una “benedizione”. All’epoca, le donne arabe erano considerate una proprietà e non godevano di alcun diritto civile. Maometto garantì loro il diritto di possedere delle proprietà, oltre ad importanti diritti coniugali e patrimoniali. Prima di Maometto, la dote pagata da un uomo per la sua sposa veniva offerta al padre di lei come parte del contratto tra le due figure maschili. Le donne non avevano voce in capitolo. Maometto dichiarò che le donne dovevano acconsentire al matrimonio e che la dote doveva andare alla sposa, non a suo padre. Inoltre, la sposa poteva tenersi la dote anche dopo il matrimonio. La moglie non era tenuta a utilizzare la dote per spese familiari. Era una responsabilità dell’uomo. Alle donne fu anche concesso il diritto di divorziare dai propri mariti, qualcosa di inaudito per l’epoca. In un divorzio, la donna era autorizzata a prendere la dote con sé. Alle donne furono estesi anche diritti patrimoniali. Veniva concesso loro soltanto la metà di quanto spettava ai loro fratelli perché gli uomini avevano più responsabilità economiche per le spese di famiglia. Ma con Maometto le donne divennero eredi delle proprietà e dei beni familiari per la prima volta in Arabia. All’epoca, una misura del genere era ritenuta rivoluzionaria. Lo stesso Maometto veniva spesso visto svolgere “lavori femminili” in casa ed era molto attento alla sua famiglia. Il suo primo matrimonio con Khadija fu monogamo per i 15 anni in cui furono sposati, una cosa rara in Arabia allora. A detta di tutti, erano profondamente innamorati e Khadija fu la prima convertita all’Islam. Incoraggiò Maometto dal suo primissimo incontro con l’angelo Gabriele e dalla rivelazione delle prime sure che avrebbero composto il Corano. Dopo la morte di Khadija, Maometto sposò 12 donne. Una di queste era Aisha, figlia del suo più intimo amico e alleato, Abu Baker. Le altre erano quasi tutte vedove, donne divorziate o prigioniere. Egli predicava regolarmente che era responsabilità degli uomini proteggere le donne che avevano conosciuto la sfortuna. Questa fu una delle ragioni per cui la poligamia veniva incoraggiata. Furono prese misure anche per l’infanticidio femminile: le donne nel settimo secolo erano molto più numerose degli uomini perché questi venivano uccisi nei conflitti intertribali ogni giorno. Tra le mogli di Maometto, diverse erano povere e indigenti. Lui le prese con sé, insieme ai loro figli, in casa sua. Nel suo Sermone dell’Addio, pronunciato poco prima di morire nel 632, Maometto disse agli uomini “Voi avete determinati diritti sulle donne, ma anch’esse hanno diritti su di voi”. Le donne, disse, sono “vostre compagne e vostre ausiliarie”. In uno dei detti dell’Hadith, Maometto dice “Gli uomini migliori sono quelli che le loro mogli considerano i migliori”. Dopo la sua morte, la moglie Aisha assunse un ruolo di leadership nella composizione dell’Hadith mentre un’altra moglie giocò un ruolo primario nella raccolta delle sure che costituiscono il Corano. Ognuna delle 114 sure che formano il Corano, ad eccezione della numero 9, inizia con le parole Bismillah al Rahman al Rahim. Tradotte più frequentemente come “Nel nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso”. Il significato più profondo di questa espressione è “Nel nome di Dio, Colui che dà origine a compassione e misericordia dall’utero”. L’invocazione all’aspetto femminile di Allah è la chiave per una rinascita Islamica. Infine, nel Corano non si accenna alle donne che indossano il velo, l’Hijab. All’epoca era senza dubbio una tradizione in Arabia e le mogli di Maometto lo indossavano per rimarcare il loro speciale status di “Madri dei Fedeli”, ma l’unica cosa che il Corano dice esplicitamente è che le donne dovrebbero vestire “con semplicità”. Maometto disse lo stesso agli uomini. Per lui, la semplicità nel vestire era espressione della semplicità del cuore. Lo stesso Maometto, anche quando era il leader supremo, non indossava mai nulla di più di semplici abiti di lana bianca. Le riforme di Maometto furono così radicali che lo status delle donne in Arabia e nell’antico Islam era il più elevato di qualsiasi altra società del mondo, all’epoca. Le donne nell’Arabia del settimo secolo godevano di diritti non concessi alla maggior parte delle donne occidentali fino ad epoche recenti, più di mille anni dopo. Il fatto che oggi le donne si ritrovino in una posizione tanto svalutata, in molte delle province arabe/musulmane, è una tragedia e deve essere sanata se la cultura e la civiltà islamiche vogliono prosperare di nuovo come successe durante il Califfato Abbaside (dall’ottavo al tredicesimo secolo), quando la civiltà islamica era un faro luminoso per il mondo. Liberare le donne avrebbe profondi effetti da un punto di vista politico, economico, culturale, artistico e religioso. Porterebbe la Primavera Araba ad un livello completamente nuovo, cosa estremamente necessaria in quei paesi in cui la prima Primavera Araba si è rivelata una morte in utero. È tempo che l’Islam liberi le donne completamente e che lo faccia sull’esempio di Maometto e sull’autorità del Corano, per cui compassione e misericordia sono le caratteristiche principali di Allah.”
Un’inchiesta di Viviana Mazza pubblicata oggi sul Corriere della Sera. Questa è l’introduzione: “Per lo Stato islamico sono apostati, «bersagli obbligatori». Sono gli imam dei Paesi occidentali che condannano la violenza: questa inchiesta è il risultato di una lunga serie di colloqui che il Corriere ha avuto con loro. «Il nostro attivismo — dicono — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo». Senza finzioni: negano che l’Isis sia l’essenza dell’Islam, ma non dicono che «non ha nulla a che fare con l’Islam». Una riforma è dunque necessaria, «e non solo come reazione all’Isis».” Ecco l’inchiesta (questa la fonte):
“L’imam Suhaib Webb ha 43 anni, suo nonno era un predicatore cristiano dell’Oklahoma, ma lui da ragazzo s’è convertito all’Islam. Nella sua moschea, a Washington D.C., alcune donne portano l’hijab e altre no. Non piace all’estrema destra Usa ma ancor meno all’Isis che considera un complotto il suo uso della cultura pop e il suo accento del sud. Nell’ultimo numero della rivista Dabiq, i seguaci del Califfo lo hanno condannato a morte, insieme ad altri dieci imam occidentali, definiti «apostati», «bersagli obbligatori» e da eliminare con qualunque arma per «farne degli esempi». Ecco cosa tre di loro raccontano al Corriere.
Suhaid Webb
Contattiamo l’imam Webb su Snapchat, dove pubblica continuamente video contro l’estremismo, alcuni girati nelle gelaterie e ironicamente intitolati «Isis e ice cream». «Il nostro attivismo — dice — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo, è da un po’ che lo facciamo». Le loro vite, in seguito alle minacce, sono cambiate, anche su suggerimento dell’Fbi. Webb sostiene di prendere qualche precauzione in più quando viaggia e di stare attento prima di incontrare sconosciuti; allo stesso tempo esulta: «È chiaro che stiamo avendo un impatto nel contrastare il messaggio dell’Isis. Se così non fosse, non ci presterebbero attenzione. Le api attaccano chi disturba il loro alveare». Altri imam, tra quelli minacciati di morte, sono più preoccupati. «Non vivo nella paura, ma so che ci sono simpatizzanti dell’Isis in America, si capisce dai loro tweet, e ci sono molte persone con problemi mentali, fanatici e lupi solitari. Ho cinque figli e non voglio diventare un martire», ci dice Hamza Yusuf,
Hamza Yusuf
56 anni, di Berkeley, California, definito dalla stampa inglese e americana lo studioso di Islam più importante del mondo occidentale. In un sermone intitolato «La crisi dell’Isis», diventato virale su Youtube, ha implorato Dio di non punire gli altri musulmani «per ciò che fanno questi idioti tra di noi». Invece lo sheikh Yasir Qadhi, che opera in Tennessee ed è noto per un famoso programma sulla tv satellitare Mbc, si sente più minacciato dall’estrema destra che dall’Isis. «Non credo di correre seri rischi finché resto in America perché l’Isis non ha un grande seguito tra i musulmani qui, e di questi tempi non andrei nei luoghi caldi come Iraq e Siria. Considero comunque più pericolosi i fan di Trump e i Tea Party. Tra l’altro loro mi hanno minacciato ancor prima dei terroristi». Molti studiosi di Islam che intendono contrastare l’Isis — non solo quelli minacciati di morte — respingono l’affermazione tout court che l’Isis non abbia «nulla a che fare con l’Islam», tanto quanto respingono l’idea che la mentalità dell’Isis sia «l’essenza dell’Islam». Per l’Imam Webb la verità sta da qualche parte nel mezzo. «I testi religiosi, come altri testi, politici o sociali, offrono una licenza interpretativa alle persone. C’è un supporto fattuale per l’Isis all’interno di questo paradigma, ma la loro interpretazione è stata e continua ad essere considerata errata sulla base del sapere normativo dell’Islam. Ci saranno sempre dei lunatici che usano i testi religiosi per legittimare la propria ideologia, e ci saranno sempre coloro che li confutano». A farlo sono anche ex estremisti, come Maajid Nawaz, che ha un passato di reclutatore del gruppo radicale islamico Hizb ut-Tahrir ma oggi è un consulente per l’Islam del premier britannico David Cameron: «L’affermazione che tutto questo non abbia nulla a che fare con l’Islam non è onesta — ha scritto sul New York Times —. È una affermazione inutile quanto lo è dire che l’Isis è l’essenza dell’Islam. Dobbiamo avere una conversazione onesta e riconoscere che c’è un legame con le Scritture. Ci sono anche le questioni geopolitiche, certo, ma esiste un rapporto con le Scritture». «Quello che sta accadendo è in parte una reazione protestante all’incapacità dell’Islam tradizionale di rispondere alla crisi del mondo moderno — sostiene Hamza Yusuf, che paragona la crisi attuale nell’Islam a quella della rivolta di Lutero contro il cattolicesimo —. Tutte le istituzioni, nello stesso Occidente, sono in difficoltà, pensiamo a Trump, ma la crisi è particolarmente grave nel mondo musulmano. Ricordiamoci quanto fu violenta la riforma protestante. Secondo me, dovremmo pensare a una sorta di Concilio di Trento, dove gli studiosi musulmani possano discutere le affermazioni che gli estremisti fanno sull’Islam. Si tratta di affermazioni che non hanno a mio parere alcuna legittimità religiosa e che sono inaccettabili sulla base della tradizione legale dell’Islam che proibisce la violenza indiscriminata, l’uccisione dei prigionieri o di civili innocenti considerati infedeli».
Yasir Qadhi
Quanto si debba porre l’accento sulle Scritture e quanto sulle questioni geopolitiche è però oggetto di dibattito. Yasir Qadhi era un predicatore salafita fino al 2009. Poi uno dei suoi allievi, Umar Farouk Abdulmutallab, l’attentatore delle «mutande bomba» che quel Natale tentò di farsi esplodere su un volo Klm da Londra, lo ha portato a rivedere le sue priorità. «Era stato un mio allievo ad una conferenza. A quel tempo io evitavo la politica, ma quello che è successo mi ha fatto capire che non potevo più stare zitto. Forse proprio perché stavo zitto i giovani gravitano verso gli estremisti». Oggi Qadhi si è anche allontanato dal salafismo per abbracciare una visione dell’Islam più «indipendente». Sostiene che «c’è bisogno di voci moderate», ma allo stesso tempo avverte che alla radice dell’estremismo non ci sono le Scritture, ma piuttosto il senso di un’ingiustizia verso i musulmani, che porta i gruppi estremisti a legittimarsi come freedom fighters. «Certo, l’Islam ha una teoria della “guerra giusta”, come ce l’ha ogni civiltà che predica di difendere gli innocenti, ma la questione se l’Isis sia musulmano o no non è la domanda fondamentale. La domanda è: quali sono le cause dell’Isis? La risposta non è nelle Scritture, ma nelle ragioni sociali e politiche in Iraq e in Siria, di cui è responsabile l’Occidente». L’imam Webb sostiene di aver provato a parlare di teologia con giovani e meno giovani che considera potenziali prede dell’estremismo. Ma si è reso conto di una cosa: «La maggior parte delle persone che aiuto e che sono influenzate dall’Isis o da altri gruppi hanno problemi esistenziali: povertà, abusi, crisi familiari, questioni emotive, mentali. Molto raramente sono in grado di discutere di teologia, non sono consapevoli dei testi che vietano di uccidere né delle interpretazioni degli studiosi che contestano l’Isis. Infatti spesso sono inconsapevoli perfino delle stesse idee dell’Isis! Per battere l’Isis non servono più teologi, ma servono assistenti sociali, psicologici e sanitari, servono educatori». L’Isis è una ragione in più per pensare a una riforma dell’Islam? Alcuni ne sono convinti. Il giornalista e commentatore Mustafa Aykol ci dice al telefono da Ankara che «i leader jihadisti immergono se stessi nel pensiero e negli insegnamenti islamici, anche se usano la loro conoscenza per fini perversi e brutali». Certo si tratta di interpretazioni estremiste, basate su scuole di pensiero radicali, ma a suo parere l’esperienza dell’Isis dovrebbe portare i musulmani a riflettere sugli aspetti problematici insiti nella sharia, la legge islamica, dalle questioni della parità di genere alla morte per apostasia. «Se non lo facciamo noi direttamente, l’Isis lo farà comunque a modo suo. In un numero della rivista Dabiq, per esempio, contestavano il concetto di Irja, ovvero l’idea di poter procrastinare il giudizio su chi sia o meno un vero musulmano all’aldilà, accusando altri gruppi ribelli in Siria poiché non costringono le donne a portare il velo e non uccidono gli apostati». Se l’idea di riforma è condivisa da alcuni, il dibattito è aperto sulla direzione in cui debba andare. Per Hamza Yusuf è irrealistico pensare a una secolarizzazione del mondo musulmano, mentre invece ad esempio lo studioso Abdullahi An-n’aim è convinto che la stragrande maggioranza dei musulmani oggi non tenda assolutamente verso la sharia, ma al contrario verso uno Stato laico. Influenzato dal movimento riformista islamico del sudanese Mahmoud Mohammed Taha (che fu giustiziato per le sue idee), An-Na’im crede in una compatibilità dell’Islam con il secolarismo e i diritti umani. Il problema — ci dice al telefono dagli Stati Uniti, dove insegna all’Emory College — è che i musulmani non riescono ad argomentare e giustificare questa aspirazione da un punto di vista teologico e questo è oggi il compito degli studiosi. «Quella della sharia resta una nozione romantica, come se al solo evocare la gloriosa sharia, tutti improvvisamente potessimo diventare forti, come se la corruzione potesse essere eliminata. È una fantasia seducente che tende a piacere alla gente. Ed è in parte il risultato di un giustificato risentimento per il comportamento degli Stati Uniti nella regione. Ma la sharia è frutto di interpretazione, è un processo umano. Quando la sharia veniva applicata, prima del periodo coloniale, ciò avveniva in un modo consensuale, in una realtà dove non c’era uno stato centralizzato. Oggi i cosiddetti tradizionalisti dello Stato Islamico, lungi dal tornare ai vecchi tempi, usano la nozione europea di Stato per obbligare la gente a seguire la sharia, la cui applicazione non era mai stata intesa per un contesto simile. E poi c’è la questione su quale parte del Corano usiamo: quello della Mecca che è più inclusivo nel suo linguaggio, con i suoi valori egualitari tra uomini e donne, musulmani e non musulmani; oppure quello di Medina la cui applicazione era legata ad un tempo di schiavitù e sottomissione delle donne?». Per Qadhi una riforma dell’Islam è necessaria, ma non come reazione all’Isis: «Come musulmani dobbiamo riunirci e decidere quello che possiamo cambiare e quello che non possiamo. Ma se questa riforma è una reazione all’Isis, non funzionerà. L’Isis è un fenomeno temporaneo, la riforma deve essere indipendente, altrimenti è destinata a fallire perché macchiata da finalità politiche». An-Na’im è d’accordo: «L’Isis non può durare, ma dopo l’Isis ci sarà un altro Isis. Perciò dobbiamo lavorare sulla teologia e la legge islamica».
“La mia gemma è il libro «Mille splendidi soli»: mi ha fatto molto riflettere sulla situazione delle donne protagoniste, sottomesse agli uomini del regime talebano. Nonostante io sia una persona che si lamenta di continuo, penso a loro e alla loro situazione e penso che le mie siano stupidaggini. L’altro aspetto che voglio sottolineare è che in una storia di dolore, violenza e sofferenza possono nascere amicizie e amori: anche dalle cose tragiche possono nascere cose belle.” Con queste parole A. (classe quarta) ha presentato la sua gemma. Ecco uno dei passi in cui si descrive la situazione delle donne: “Donne, attenzione: Dovete stare dentro casa a qualsiasi ora del giorno. Non è decoroso per una donna vagare oziosamente per le strade. Se uscite, dovete essere accompagnate da un mahram, un parente di sesso maschile. La donna che verrà sorpresa da sola per la strada sarà bastonata e rispedita a casa. Non dovete mostrare il volto in nessuna circostanza. Quando uscite, dovete indossare il burqa. Altrimenti verrete duramente percosse. Sono proibiti i cosmetici. Sono proibiti i gioielli. Non dovete indossare abiti attraenti. Non dovete parlare se non per rispondere. Non dovete guardare negli occhi gli uomini. Non dovete ridere in pubblico. In caso contrario verrete bastonate.” Una delle conseguenze? “L’amore era un errore pericoloso e la sua complice, la speranza, un’illusione insidiosa.” La negazione dell’essere umano.
Un articolo molto interessante di Marco Palillo, pubblicato poche ore fa su L’Huffington Post. Argomenti? Francia, laicità, Europa, femminismo, velo islamico, donne, islam…
“La ministra socialista francese della Famiglia, Laurence Rossignol ha recentemente rilasciato una dichiarazione fortemente provocatoria sul velo indossato dalle donne islamiche “Ci sono donne che lo scelgono come c’erano negri americani favorevoli allo schiavismo”. Il parallelo fra velo e schiavismo dei neri è molto interessante e rivela inconsciamente alcuni nodi irrisolti del dibattito europeo su multiculturalismo e identità religiose. La questione del velo in Francia ha infatti più a che fare con la storia nazionale della Repubblica francese – incluso il periodo colonialista e la tragedia dell’Algeria – che con i recenti attacchi terroristici di Parigi. Già nel 2004 il tema fu affrontato in un tumultuoso dibattito sulla controversa legge che proibiva il velo nelle scuole. Anche allora il movimento femminista francese si divise in maniera significativa: da un lato, alcune donne identificarono quella battaglia con gli ideali di laïcité repubblicana, dall’altro alcuni gruppi femministi, condannarono fortemente la legge bollandola come islamofoba e sessista. Fra questi, la più celebre è senza dubbio Christine Delphy, leader storica del femminismo materialista, cofondatrice con Simone de Beauvoir della rivista “Nouvelles Questions Feministes”. Delphy in un articolo pubblicato dal Guardian definì il divieto del velo come parte di una più ampia strategia anti-Islam iniziata in Francia 40 anni prima e accusò le femministe favorevoli al divieto di farsi strumentalizzare, come già accaduto per esempio durante la guerra in Afghanistan, da chi utilizza i diritti delle donne per sostenere altre battaglie. Secondo Delphy “se le donne musulmane sono un’oppressa minoranza, andrebbero abbracciate, capite, non attaccate o private di un diritto fondamentale, come quello all’istruzione”. La Delphy ha ragione quando smaschera l’ipocrisia di una battaglia ideologica che si sta facendo sul corpo delle donne (sia islamiche che non islamiche) ma che nasconde altri fini. Innanzitutto, l’esigenza di riempire un vuoto politico prodotto dall’incapacità delle classi dirigenti occidentali di affrontare le complessità prodotte dalla globalizzazione e dalle migrazioni internazionali. In questo quadro di grande ipocrisia, incapacità e malafede, le donne islamiche sono rimaste schiacciate fra due sistemi patriarcali che vogliono utilizzarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il mondo islamico fondamentalista, che le tratta come esseri inferiori, a volte come merci; dall’altro l’occidente che vuole utilizzarle per fare una battaglia contro i maschi islamici, cacciandoli via dalla fortezza Europa. Insomma, dai fatti di Colonia in poi, è evidente che nello scontro fra islam-occidente, le donne, le loro libertà, i loro corpi, non contano proprio nulla. Se contassero qualcosa, le donne islamiche non verrebbero costantemente rappresentate come delle povere vittime, senza capacità di discernimento o scelta, e dunque sempre assolte, assistite o compatite. Pensiamo al caso più paradossale delle giovani islamiche che si sono unite al Califfato. Queste ragazze vengono raccontate dalla stampa come delle povere indifese circuite da Imam, ovviamente maschi, finite nelle mani di crudeli mariti in Siria che le segregano. Eppure la cronaca ci insegna che non è così, nella maggior parte dei casi si tratta di donne educate, occidentali, che decidono di unirsi all’ISIS, come i loro commilitoni maschi, prendendo aerei e viaggiando di nascosto raggiungendo spesso da sole il confine siriano dalla Turchia. Musulmane sono anche le soldatesse curde che ai terroristi dell’ISIS sparano con i kalashnikov o le attivista yazide, che stanno cercando di liberare le loro sorelle divenute schiave sessuali dopo la presa del Sinjar. Insomma la ministra Rossignol, nella sua dichiarazione impacciata rivela due grande verità:
• il femminismo europeo (specie quello della sinistra tradizionale) non ha fatto pace con l’autonomia e la soggettività delle donne islamiche, anzi tende a negarle ogni volta che può;
• il pensiero femminile europeo non è stato influenzato adeguatamente dal femminismo intersezionale di matrice americana che mette in rilievo come non esista un’unica voce femminile valida per tutte le donne, ma che le differenze prodotte dall’intersezione del genere con i molteplici aspetti che compongono l’identità (classe sociale, etnia, la religione, l’orientamento sessuale) presuppongano più femminismi e il riconoscimento delle differenze non solo tra maschile e femminile, ma anche tra diversi gruppi di donne. Ecco perché il paragone con gli schiavi afroamericani della Rossignol è assai rivelatorio. Le donne musulmane vengono dipinte comunque come esseri inferiori, costantemente vittime, sia dai loro difensori che dai loro nemici. Soggetti senza voce, a cui le donne occidentali, rivendicando il proprio privilegio, devono sostituirsi (per il loro bene, s’intende) anche quando si tratta di scelte come l’abbigliamento personale e la fede religiosa. In pratica, vogliamo liberare le donne musulmane, sostituendo i maschi islamici (padri, mariti) che parlano e decidono per loro, con altre donne (questa volta occidentali) che però continuano a parlare e a decidere a loro posto. Facendo così si rischia di vanificare l’operazione – questa sì veramente libertaria e rivoluzionaria – di cambiamento sociale portata avanti dalla stragrande maggioranza di giovani islamiche europee, che si sentono pienamente parte della cultura occidentale, aderendo in toto negli stili di vita, costumi, e valori, ma che non vogliono rinunciare alla propria identità etnica-religiosa, di cui il velo è un chiaro simbolo storico-culturale. Lo racconta bene Amara Majeed, studentessa in neuroscienze alla prestigiosa Brown University, in una lettera aperta alla ministra Rossignol pubblicata da Bustle. Quando a quattordici anni decise di indossare lo hijab, la domanda più frequente fu “sono stati i tuoi genitori a importelo?”. La Majeed raccontando la sua scelta personale, frutto di una libera scelta senza costrizioni, afferma che “il velo le copre la testa non il cervello”. E forse questa rivendicazione di auto-determinazione femminile che spaventa più di ogni altra cosa? Per questo motivo, Amara ha lanciato un esperimento sociale, The Hijab Project, in cui invita le donne di tutte le fedi e razze, a indossare il copricapo islamico per un giorno, raccontando poi l’esperienza sul suo blog. Il progetto che ha riscosso grande attenzione dai media occidentali, dalla BBC a Good Morning America, mira a promuovere l’empowerment delle donne islamiche, facendo capire alle donne occidentali cosa si provi a vivere con il velo. Per Majeed indossare il hijab è una scelta femminista, di ribellione rispetto a un mondo che mercifica e sessualizza costantemente le donne, dalle copertine dei giornali alle molestie sessuali. In questo, sorprendentemente, Amara Majeed riecheggia la ministra francese Rossignol che in un’intervista al Corriere, paragona il velo agli abusi di chirurgia estetica. Chi scrive ovviamente non è d’accordo con nessuna delle due, essendo assolutamente favorevole tanto al velo quanto alle labbra a canotto se frutto di consapevole scelta; allo stesso tempo ritengo però che questo dibattito interculturale tra donne sia una grande ricchezza, perché il tema del velo riapre questioni irrisolte che danno ancora fastidio: il riconoscimento delle soggettività femminili, la libertà di scelta delle donne e l’autodeterminazione sul proprio corpo. Sia Rossignol che Majeed infatti si interrogano su un sistema simbolico – il velo e la chirurgia estetica – creato dal potere maschile, dalle sue regole e dei suoi canoni estetici, anche se in due culture differenti. Ecco, che allora se da un lato il dibattito sul velo va fatto con le donne musulmane e non al posto loro, non bisogna dimenticare che questo dibattito non è neutro perché avviene comunque all’interno dello scontro fra due sistemi patriarcali, quello occidentale e quello islamico. Essere femministe o femministi, oggi, significa non fare sconti a nessuno dei due, ma soprattutto non farsi strumentalizzare da nessuno dei due. Le femministe occidentali non devono farsi portavoce delle donne islamiche, soprattutto quando le uniche che frequentano sono le proprie colf. Ecco che la pletora di articoli in stile “io ti salverò”, intrisi di paternalismo e buonismo, non è più accettabile. In questo senso, sono più oneste le commentatrici di destra, alla Fallaci, che vedendo nell’Islam un nemico, vedono le donne islamiche alla stregua dei maschi un avversario da battere. Inoltre, le femministe occidentali, che come me non credono nello scontro fra civiltà, ma semmai fra patriarcati, non possono essere così ingenue da non problematizzare il proprio privilegio che le rende così distanti – quasi aliene – rispetto alle donne musulmane, nonostante la biologia e l’anatomia. Dall’altra parte, le femministe islamiche non possono però chiederci di non vedere le crudeltà e la violenza inflitte nelle comunità islamiche nei confronti delle donne, delle minoranze religiose, o degli omosessuali. La laicità è un valore irrinunciabile per l’Europa, conquistato con grande fatica e molti sacrifici: non siamo perciò disposti a nessuna forma di indulgenza motivata su basi culturali o religiose verso quelle pratiche che limitino le libertà o il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. Inoltre, le nostre amiche e sorelle islamiche devono avere il coraggio – molte già lo fanno a dire il vero – di aprire una discussione franca su questo con i loro uomini, sfidandone il potere se serve. Noi dobbiamo sostenerle, ma non possiamo e non dobbiamo sostituirci a loro. Su questi basi si può aprire una vera discussione paritaria fra donne (e uomini) di diverse culture, religioni, classi sociali, che superi lo scontro di civiltà, gli stereotipi, le caricature, per regalarci un vero incontro fra civiltà, non basato sulla stucchevole retorica buonista che non porta da nessuna parte, ma su un mutuo riconoscimento della differenze all’interno di una più ampia politica delle identità.”
Quello che pubblico ora è un articolo molto interessante, in cui il prof. Martino Diez ragiona tra teologia, escatologia e geopolitica per spiegare il motivo per cui Isis abbia chiamato la propria rivista di propaganda Dâbiq.
“Nella sterminata letteratura di hadîth (le centinaia di migliaia di detti attribuiti al Profeta dell’Islam), alcuni godono da sempre di una fortuna particolare in ragione del contenuto, di una formula particolarmente felice o della loro ampia diffusione, vista come garanzia della loro autenticità. È il caso ad esempio della collezione di 40 hadîth raccolta da an-Nawawî, tradizionista siriano del XIII secolo, e tuttora diffusissima nel mondo islamico. Altre volte invece alcuni hadîth altrimenti dimenticati tornano “di moda” perché sono fatti propri da un movimento militante. È il caso oggi della tradizione che situa la battaglia finale tra le forze del bene e del male nella città siriana di Dâbiq, non lontana da Aleppo. Da quando infatti Isis se n’è appropriato facendone il titolo della sua rivista, questo hadîth è uscito dall’anonimato dei polverosi volumi di tradizioni per vivere una nuova vita sotto le luci del palcoscenico globale. Il genere in cui questo hadîth s’inserisce è quello apocalittico, relativo alle profezie intorno agli avvenimenti che precederanno il Giorno del Giudizio. Come illustra David Cook, autore di diversi studi sul tema, la produzione islamica più antica si contraddistingue, rispetto a quella ebraica o cristiana, per il fatto di non presentare “i Segni dell’Ora” secondo una sequenza narrativa continua, ma allo stato di frammenti, tradizioni isolate che saranno poi gli ulema più tardi a cercare di ricucire in una storia unica. E tra questi frammenti, quasi fermi immagine di un film ancora da girare, s’inserisce anche lo hadîth relativo a Dâbiq. Preceduto dalla consueta catena dei trasmettitori (da Zuhayr ibn Harb; da Mu‘allâ ibn Mansûr; da Sulaymân ibn Bilâl; da Suhayl; da suo padre; da Abû Hurayra), esso recita: L’inviato di Dio disse: «L’Ora [del Giudizio] non si leverà finché i Romani non si accamperanno nel basso corso dell’Oronte (al-A‘mâq) o a Dâbiq. Allora muoverà contro di loro un esercito da Medina, composto dai migliori abitanti della terra. Quando le due schiere saranno sul punto di scontrarsi, i Romani diranno: “Lasciateci mano libera con quelli che hanno preso dei prigionieri tra noi: andremo a combattere loro soltanto”. Ma i musulmani risponderanno: “No, per Dio. Non vi lasceremo mano libera con i nostri fratelli”. E il combattimento divamperà. Un terzo [dei musulmani] si volgerà in fuga sconfitto: Dio non ne accetterà mai il pentimento. Un terzo resterà ucciso: saranno presso Dio i martiri migliori. E un terzo conseguirà la vittoria e non avranno più da temere dissensi: questi conquisteranno Costantinopoli. E mentre si troveranno a dividere il bottino, e avranno appeso le loro spade agli ulivi, ecco Satana griderà tra loro falsamente: “L’Anticristo ha preso il vostro posto nelle vostre famiglie!”. Usciranno allora da Costantinopoli. Quando arriveranno in Siria, Satana uscirà contro di loro. Mentre si prepareranno a combatterlo e stringeranno i ranghi, ecco verrà il tempo della preghiera. Allora Gesù figlio di Maria scenderà [dal cielo] a dirigere la preghiera. Quando il nemico di Dio lo vedrà, si scioglierà come il sale nell’acqua. E se lo lasciasse andare, si scioglierebbe fino a scomparire. Ma Dio lo ucciderà per mano sua e mostrerà loro il suo sangue sulla punta della lancia di Gesù». (Sahîh di Muslim, Kitâb al-fitan wa-ashrât al-Sâ‘a, Bâb fî fath al-Qustantîniyya wa-khurûj al-Dajjâl wa nuzûl ‘Îsâ b. Maryam, hadîth numero 7312, pag. 1073, ed. Dâr Sâdir, Bayrût s.d). Qualche veloce spiegazione, necessariamente parziale, per illustrare il contenuto del testo. Innanzitutto la tradizione è conservata nella raccolta di Muslim (m. 875), considerata dai sunniti come la più autorevole insieme a quella di al-Bukhârî (m. 854). Tale raccolta è divisa in diversi libri, uno dei quali s’intitola Il Libro delle tribolazioni e dei segni dell’Ora. In esso si trova un capitolo (bâb 9) dedicato alla «conquista di Costantinopoli, all’uscita dell’Anticristo e alla discesa di Gesù figlio di Maria». Tale capitolo contiene in realtà unicamente questo hadîth. La formula con cui si apre la tradizione («l’Ora non si leverà finché…») è ricorrente nel materiale apocalittico più antico. Ad esempio nello stesso libro della raccolta di Muslim la si ritrova nel capitolo 14 dove sta scritto: «L’Ora non si leverà finché non uscirà dalla terra dello Hijaz [= la regione di Mecca e Medina] un fuoco che illuminerà i colli dei cammelli a Bosra [in Siria]». Poco prima, al capitolo 12 si leggeva del resto che «l’Ora non si leverà finché» non saranno compiute le conquiste, indicate in quest’ordine: la Penisola Arabica, l’impero persiano, l’impero bizantino. A esse seguirà – come racconta anche il nostro hadîth – l’uscita dell’Anticristo, figura mostruosa che s’impadronisce della terra per qualche tempo prima di essere sconfitta da Cristo, il Messia figlio di Maria che per l’Islam è asceso in cielo al momento della crocifissione. A differenza di altri testi apocalittici, non è difficile ricostruire il contesto dello hadîth di Dabiq e la sua zona di origine: esso infatti è evidentemente nato durante le guerre arabo-bizantine. Nello slancio iniziale delle prime campagne militari i musulmani si impadronirono di tutto il vicino Oriente, ma fallirono la conquista di Costantinopoli. La città rimase da allora e per diversi secoli un obiettivo simbolico, mentre il confine si stabilizzava alle pendici dell’altopiano anatolico. Parlare di confine è in realtà inesatto quando lo si immagini come una frontiera moderna, precisamente demarcata. Si trattava piuttosto di una terra di nessuno di diversi chilometri di larghezza, conclusa da una prima linea di piazzeforti e marche di confine (thughûr in arabo) a cui seguiva una seconda linea di città-fortezze (‘awâsim). Ogni anno, con la bella stagione, i due eserciti conducevano campagne offensive nel territorio nemico, per fare prigionieri e bottino. Si comprende dunque come per gli abitanti della Siria (e per quelli dell’Anatolia bizantina dall’altra parte del confine) lo stato di guerra quasi endemico abbia stimolato la formazione di materiale apocalittico che situa in questo contesto di secolare ostilità i tremendi eventi legati all’avvento dell’Ora. L’ambientazione siriana fornisce dunque un elemento utile alla datazione dello hadîth, che deve essere posteriore alla prima ondata di conquiste (un primo assedio di Costantinopoli ebbe luogo dal 674 al 678 e un secondo nel 717-718) e probabilmente si situa tra la tarda età omayyade e la prima età abbaside, non molto tempo prima della compilazione della raccolta di Muslim. Il confine bizantino-arabo rimase poi sostanzialmente immutato fino alle campagne di Niceforo Foca nel X secolo, che culminarono nella momentanea riconquista della Cilicia e di Antiochia da parte dei bizantini. Nel 1071 tuttavia la decisiva vittoria turca a Manzikert segnava il tracollo dell’impero romano d’Oriente e apriva la strada alla conquista dell’Anatolia e infine di Costantinopoli nel 1453. La Siria del Nord, dopo un ultimo decisivo scontro tra ottomani e mamelucchi, usciva così di scena. Come si può intuire anche da questa sommaria presentazione, lo hadîth di Dâbiq non gode dunque di particolare preminenza nel materiale apocalittico islamico. Altre tradizioni situano infatti gli eventi decisivi del giorno del giudizio in altre regioni o città, ad esempio a Damasco o a Gerusalemme. È stato probabilmente il fatto di essersi impadroniti di buona parte della Siria settentrionale ad aver spinto Isis a dare particolare rilievo a questa tradizione. Il recupero del testo avviene attraverso la sua attualizzazione: i romani di cui si parla, cioè i bizantini, sono infatti riletti come gli occidentali in genere. E dato che la conquista della nuova Roma (Costantinopoli) si è già compiuta, Isis sposta le sue attenzioni, per ora fortunatamente solo mediatiche, verso l’altra Roma. Come osserva Hamit Bozarslan in un’intervista in uscita nel prossimo numero di Oasis, lo Stato islamico si muove su un duplice piano: di razionalità strumentale, tesa alla creazione di una compagine statale, e di irrazionalità, protesa alla dimensione simbolica e a volte schiettamente apocalittica. E proprio per questa duplice logica il fenomeno esige, per essere compreso, di essere trattato su diversi livelli, dalle considerazioni geopolitiche fino alle aspirazioni escatologiche, che per una parte almeno della leadership non sono meno reali dei calcoli strategici immediati.”
Riporto l’articolo “Halal d’Europa. Definizioni teologiche e rappresentazioni sociali” di Khalid Rhazzali, preso da Reset.
“Il termine Halal ha oramai acquisito una certa diffusione anche nei media italiani e comincia a figurare nelle conversazioni quotidiane anche dei non musulmani. In questo uso corrente la nozione collegata al lemma sembra prevalentemente evocare un islam fatto di obblighi e di divieti, perentori e indiscutibili, che dettano agli adepti di questa religione norme di comportamento soprattutto di carattere alimentare. Insomma, per i più, Halal è ciò che i musulmani possono bere e mangiare senza trasgredire i loro precetti. In qualche misura gli italiani hanno cominciato a dare per acquisite queste consuetudini a maggior ragione perché le “zone di contatto” culturale (Hermans, Kempen 1998) si vanno moltiplicando e perché, aspetto a cui oggi si tende a dar un’importanza legittima, ma che oscura probabilmente la complessità di quanto si lega al rapporto dei musulmani con i loro precetti, i musulmani costituiscono un significativo segmento del mercato interno, nonché in prospettiva una vasta “prateria” per le esportazioni del made in Italy (Rhazzali 2014). In realtà, il termine Halal fa parte di un sistema lessicale e concettuale complesso e nella sua configurazione più autentica e articolata particolarmente raffinato. L’opposizione tra Halal (lecito) e Haram (illecito) istituisce uno spazio ampio all’interno del quale si situano molti termini intermedi, come ad esempio Makruh (sconsigliabile) e Mubah (ammissibile), che consentono di inquadrare i vari comportamenti rispetto alla loro propensione a contribuire positivamente o negativamente alla relazione di un complessivo ordine fisico e spirituale nel singolo come nella comunità. Al di là dell’aspetto che si è soliti registrare, quello del divieto, che bandisce alcuni tipi di carne o di bevande, questo sistema di precetti trova la sua dimensione più propria in una prospettiva teologica nella quale il credente è chiamato a elaborare modalità attraverso le quali fare il miglior uso di sé nella prospettiva di una più attiva e riuscita adesione alla volontà divina. Va precisato che contrariamente a quanto spesso si ritiene, l’islam, la pace e la sottomissione ad Allah, non ha nulla a che fare con una mortificante soggezione a un Dio punitore, esso piuttosto intende favorire la piena adesione dell’uomo alla generosità creatrice di un Dio che innanzitutto è Rahman (misericordioso) e Rahim (clemente) (Rhazzali, 2010). Di conseguenza, più ancora che a impedire materialmente determinati consumi, la norma punta a impegnare il credente in un esercizio di organizzazione orientata verso l’alto dei propri istinti e in generale della soddisfazione dei propri bisogni. La repressione in sé stessa non è un valore, mentre essenziale è la capacità di porsi limiti e di renderne moralmente fruttuoso il rispetto favorendo un insieme di pratiche virtuose. Certamente nella storia dell’islam e in molti contesti della sua realtà attuale non sono mancate versioni esasperatamente rigoriste che hanno dato dell’islam in generale un’immagine ascetica e addirittura guerriera alla quale esso non può però in alcun modo venire ridotto, cosa che risulta tanto più evidente, quanto più le comunità musulmane sappiano adeguatamente dar peso all’approfondimento della ricchezza della proposta teologica e del respiro spirituale del Corano e delle tradizioni di pensiero ad esso ispirate. Questa prospettiva diviene più evidente ancora quando si consideri un momento essenziale per l’islam quale il Ramadan, dove la regolazione del rapporto con il cibo diviene un tratto decisivo di questo Rokn (pilastro). Il Ramadan è il mese del calendario lunare destinato alla purificazione, finalità alla quale si riferisce la indubbiamente impegnativa prescrizione che vuole non si assuma né cibo, né bevande dal sorgere dell’alba all’avvenuto tramonto. Significativamente, questo arco temporale nonostante la gravosità dell’impegno viene vissuto nel mondo islamico come un periodo non privo di aspetti gioiosi. Dopo il tramonto, poi alla fine dell’intero mese, si apre un tempo di festa in cui la socialità tocca i suoi momenti più intensi e in cui anche l’elaborazione gastronomica del cibo si sviluppa con particolare vigore. Il Ramadan infatti va concepito in rapporto a un insieme di equilibri che si estende all’intero anno e al corso complessivo della vita. Esso costituisce una periodica intensificazione della dimensione religiosa dell’esistente e come tale esalta sia lo sforzo nell’aderire alla volontà divina, sia la gioia che premia l’ordine che così si realizza. Proprio un’osservazione più attenta del profilo teologico, e delle concrete pratiche del Ramadan, potrebbe dimostrare quanto di equivoco operi in una visione cupa dell’islam e delle sue prescrizioni in particolare. Va sottolineato come il Corano non proponga né precetti alimentari in genere, né digiuni durante il Ramadan, come pura somministrazione di una sofferenza. Non vi è in altri termini disprezzo del corpo, quanto l’intenzione di procurare una “vera” salute. Il Corano è particolarmente attento nel prevedere una serie di eccezioni che intervengano a impedire che il rispetto delle norme sconfini in un danno fisico o morale grave (si pensi alla previsione di deroghe dagli obblighi per i viaggiatori, i malati, le gestanti, i bambini e la sospensione dei divieti nei confronti di cibi e bevande considerate Haram quando circostanze d’emergenza giustifichino il ricorso ad essi). La moderazione nel ricorrere al cibo che può giungere sino al digiuno prolungato non presuppone alcun disprezzo né del cibo, né del corpo. Attraverso una condotta corretta e, meglio ancora, sapiente, il rapporto con il cibo materiale diviene accesso a un cibo spirituale, come risulta ancora più evidente dalla relazione che si instaura tra cibo assunto nel rispetto delle norme e la dimensione sociale. Paradossalmente i divieti e gli obblighi finiscono per agire, come per altro avviene in altre religioni (si pensi al grande apporto dato dalla cucina conventuale alle tradizioni gastronomiche dell’Europa cristiana o al rapporto tra feste e invenzioni culinarie nell’evoluzione della cucina ebraica), come stimolo all’elaborazione gastronomica, all’arricchimento dei significati culturali dell’alimentazione. In uno scenario come quello della diaspora islamica in Europa (Saint-Blancat, 1995), e in Italia in particolare, questa complessità di motivi religiosi e culturali spesso sembra eclissarsi e il confronto interculturale con i contesti d’accoglienza che pure potrebbe giovarsene largamente, finisce per registrare aspetti più esteriori e semplificati. Ciò avviene non solo nello sguardo tra il diffidente, il curioso e, a volte, lo schiettamente amichevole degli europei, ma nella stessa relazione che in molti casi i musulmani intrattengono con la propria religione, di cui percepiscono talvolta più gli aspetti riducibili a comportamento esteriore che la vastità dell’esperienza spirituale a essa collegata. Non si può in proposito tacere che nelle politiche pubbliche italiane ed europee sovente la gestione della diversità religiosa e culturale è stata orientata a favorire forme di riduttiva caratterizzazione identitaria, dove il riconoscimento delle concrete fisionomie culturali e della loro intensa evoluzione nello spazio europeo rischia di risolversi in un generico multiculturalismo. Non a caso l’oscillazione tra resistenza e accoglienza da parte dei contesti sociali e istituzionali ospitanti ha trovato nel rapporto con le tradizioni alimentari islamiche uno dei più espliciti banchi di prova, dal riconoscimento o meno del diritto dei musulmani a vedere prese in considerazione le loro esigenze alimentari nelle strutture pubbliche, alla diffusione non sempre incontrastata dell’imprenditoria gastronomica dei musulmani (Saint-Blancat, Rhazzali, Bevilacqua, 2008) degradata spesso a puro business etnico, sino all’interesse crescente per un’elaborazione normativa volta a fare dell’halal qualcosa di più simile a un brand che a un principio morale (Bergeaud-Blackler, Bruno, 2010) . Eppure la gastronomia proposta dai vari filoni delle tradizioni musulmane sta incontrando un interesse tenace e da parte non soltanto dei musulmani d’Europa sino a proporsi come una parte ormai ampiamente accettata del nostro comune paesaggio alimentare. Forse al di là delle retoriche politiche che sovente e incredibilmente hanno fatto degli usi alimentari musulmani il nucleo di aggressive costruzioni sociali e al di là anche della gestione solo affaristica dell’Halal come occasione per dare respiro all’impresa alimentare, si va configurando un’esperienza diffusa e interculturale del gusto da cui si potrebbe ripartire per recuperare accanto ai segni che essa lascia nell’ordine materiale, anche la ricchezza e la varietà di una filigrana culturale cresciuta nel tempo con l’osmosi costante tra il cibo del corpo e il cibo dell’anima.”
Gli attentati di Tunisi della scorsa settimana mi hanno colpito particolarmente perché hanno toccato luoghi che ho visitato in un viaggio di qualche anno fa. Oggi pubblico un articolo di Simone Olmati del 20 marzo (pubblicato su Limes), con alcune foto che ho scattato nel luglio 2008.
“La sparatoria davanti al Parlamento e il successivo attacco all’adiacente museo del Bardo che ha provocato 22 vittime accertate gettano la Tunisia nella guerra regionale al jihadismo (non solo dello Stato Islamico). Un vortice da cui la giovane democrazia nordafricana avrebbe volentieri mantenuto le distanze, come testimoniano le posizioni assunte dal governo di Tunisi in merito alla crisi libica e la replica, ben più esplicita, del primo ministro Habib Essid all’appello interventista dell’Egitto. “Abbiamo preso tutte le misure necessarie”, aveva dichiarato Essid lo scorso 18 febbraio. Un mese dopo, l’attacco terroristico non solo ha smentito nei fatti le parole del premier, ma ha messo in mostra le falle evidenti dell’intelligence e trascinato di peso il paese dei gelsomini nella lotta al terrorismo. L’attentato avrà senza dubbio conseguenze rilevanti sull’approccio che il governo deciderà di adottare per prevenire la penetrazione jihadista. Nel discorso immediatamente successivo all’assalto il premier ha parlato di una “guerra lunga”, ma ha voluto altresì rassicurare i tunisini sul fatto che il governo adotterà contromisure straordinarie per tutelare la capitale e i siti turistici, ben consapevole del danno economico che l’attentato può produrre in termini di riduzione delle presenze turistiche. Il governo stima una perdita di almeno 700 milioni di dollari. Il turismo infatti, sebbene in calo negli ultimi anni, rappresenta pur sempre circa il 15% del pil tunisino.
Nel pomeriggio del 19 marzo è arrivata la rivendicazione del gesto da parte dello Stato Islamico (Is), con un file audio e un testo diffusi via twitter. Entrambi i file dovranno essere vagliati attentamente per accertarne l’attendibilità. Nonostante l’attribuzione del gesto all’Is, la presenza organizzata e strutturata di seguaci di al-Baghdadi in Tunisia non sembra trovare riscontro; così come non sembrano esserci state, ad oggi, affiliazioni ufficiali di gruppi jihadisti locali al “califfato”. I messaggi di sostegno all’Is da parte di alcuni battaglioni di terroristi sembrano più opera di singoli militanti che non delle rispettive leadership, ancora fedeli ad al Qaida. Il battaglione Okbaa Ibn Nafaa rientra in questa casistica. La katiba, operativa al confine tra Tunisia e Algeria, ha rivendicato – tra le altre azioni – l’uccisione di quattro soldati di stanza nel governatorato di Kasserine avvenuta nella notte tra il 17 e il 18 febbraio scorso. Nonostante la katiba (non l’unica operativa in Tunisia) abbia in passato diffuso contraddittori messaggi di supporto allo Stato Islamico (come riporta David Thompson), essa non ha mai giurato fedeltà al califfato ed è, viceversa, ritenuta affiliata alla casa madre Ansar al-Sharia, alla quale garantirebbe un legame “operativo” con al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi). Le forze attualmente attive in Tunisia sono dunque riconducibili all’ombrello di Aqmi più che allo Stato Islamico. Proprio il giorno prima dell’attentato di Tunisi, era stato uno dei leader di Ansar al Sharia, Wannes Fékih, a preannunciare in un video – dove compare soltanto in foto – “giorni pieni di avvenimenti”. Gli arresti delle ultime ore sapranno dare qualche informazione in più a riguardo.
Stato Islamico o al Qaida, la Tunisia deve preoccuparsi soprattutto del “terrorismo di ritorno”, laddove il paese dei gelsomini più di ogni altro esporta foreign fighters sui fronti caldi di Iraq e Siria. Tali combattenti, arruolatisi in molti casi anche a causa di condizioni di marginalità economica e sociale, potrebbero tornare in patria da militanti estremamente radicalizzati ma soprattutto da esperti combattenti, con tutti i rischi che ne conseguono. Lo scorso 13 febbraio, Rafik Chelli – segretario di Stato incaricato della sicurezza – aveva dichiarato che i jihadisti rientrati dalla Siria sarebbero almeno 500. I due autori materiali dell’attacco al parlamento e al Bardo avrebbero trascorso un periodo in due campi d’addestramento in Libia prima di rientrare, secondo quanto riportato dallo stesso Chelli. Si badi bene, però: la Tunisia non è la Libia. A fronte di un non-Stato petrolifero ai suoi confini orientali, il governo di Tunisi, peraltro già impegnato nella repressione dei movimenti estremisti e nel controllo delle proprie frontiere, dispone delle risorse militari e di intelligence da dispiegare per arginare il fenomeno. È prevedibile che l’esecutivo, come preannunciato ieri dai suoi più alti esponenti, adotterà ulteriori misure a protezione dei siti sensibili. Anche grazie a una tradizione laica di bourghibiana memoria e a una società civile variegata ma adulta, la primavera tunisina non è sfociata in un vuoto di potere colmato da gruppi jihadisti, bensì nelle istituzioni democratiche che oggi sono chiamate ad affrontare la situazione. A tale proposito, dal 24 al 28 marzo si terrà a Tunisi il Forum Sociale Mondiale, confermato dagli organizzatori proprio per non mostrare cedimento alla minaccia terrorista. Sarà un appuntamento importante sia per dimostrare solidarietà alla società civile tunisina, sia per rimettere al centro del discorso temi quali i diritti sociali e lo sviluppo economico sostenibile che potrebbero costituire dei veri argini al reclutamento jihadista, soprattutto all’interno di società a forte sperequazione sociale come quelle arabe.
L’attentato del Bardo, infine, ha dimostrato che la Tunisia non può combattere da sola. Sarà dunque importante che l’Europa e l’Italia in particolare, per ragioni di prossimità geografica e di relazioni storico-economiche, rafforzino la cooperazione con Tunisi nello scambio di informazioni sensibili e di intelligence. Quattro anni fa i paesi occidentali hanno perso l’occasione di dialogare con le forze progressiste, laiche e religiose dei paesi mediterranei lasciando che fossero altri attori regionali a farsi largo tra le pieghe delle rivoluzioni. La Tunisia ha resistito finora, nonostante tutto. Oggi l’Europa e l’Occidente non possono lasciarla sola.
A proposito di Islam moderato o moderno o evoluto… scrive Michele Brignone su Oasis:
“Mentre nel quarto anniversario della Rivoluzione l’Egitto vive le sue convulsioni politiche, nel Paese continua il dibattito sull’Islam e sulle sue interpretazioni, dopo che il 1° gennaio scorso il presidente egiziano al-Sisi aveva chiesto alle autorità islamiche di «uscire» da un pensiero religioso percepito come una minaccia da gran parte dell’umanità per produrre un pensiero più «illuminato». A conclusione del suo appello, al-Sisi si era rivolto con tono solenne all’imam Ahmad al-Tayyib, shaykh della moschea di al-Azhar: «Lei ha una grande responsabilità davanti a Dio. Tutto il mondo si aspetta una parola da Lei». E le parole dello shaykh non si sono fatte attendere. Tra le iniziative prontamente intraprese dall’importante guida religiosa per dar seguito all’invito di al-Sisi spicca la lunga intervista apparsa il 14 gennaio scorso su Al-Masry al-Yowm, la «prima rilasciata a un giornale del Medio Oriente da quando ha assunto il suo incarico», come con orgoglio riporta la testata. Lo shaykh ha toccato molti temi: il ruolo di al-Azhar, l’estremismo islamista, la formazione degli imam, l’insegnamento religioso, l’attentato a Charlie Hebdo, i rapporti con i Fratelli Musulmani e con lo Stato egiziano. «La missione di al-Azhar – ha detto al-Tayyib – è presentare il carattere mediano e tollerante dell’Islam […]. Al-Azhar è pienamente consapevole del fatto che ci troviamo in mezzo alle onde impetuose provocate dai grandi cambiamenti e dai conflitti politici, economici, sociali e culturali e che la religione è una delle carte che i contendenti tentano di giocarsi nella lotta […]. Al-Azhar si adopera giorno e notte per contrastare queste onde […], ma non tocca solo a lei farlo perché questo deve avvenire anche a livello dello Stato con la cooperazione del ministero dell’istruzione». Inoltre, aggiunge l’imam, «nessuno può dire che l’estremismo verrà cancellato dalla società con facilità o in poco tempo. Ci troviamo di fronte a un fenomeno sociale con un radicamento decennale». L’intervista dedica poi abbondante spazio a una questione molto “egiziana”, ma che non è priva di analogie con il dibattito che si registra in altri contesti, anche occidentali, cioè il profilo e la formazione dei predicatori che parlano dai pulpiti delle moschee. Commentando la decisione dello Stato egiziano di vietare l’accesso ai pulpiti a chi non sia in possesso di un diploma di al-Azhar, lo shaykh è convinto che sia «un passo che va nella giusta direzione», visto che «vista la loro rilevanza e funzione, non è possibile lasciare i pulpiti nel caos in cui versavano in precedenza». Sollecitato a rispondere sui metodi di insegnamento di al-Azhar, recentemente messi sotto accusa da alcuni intellettuali, al-Tayyib invita l’intervistatore a riflettere sul fatto che «tranne una sola eccezione, nessuno degli ideologi dell’estremismo e del radicalismo di tutto il mondo si è diplomato ad al-Azhar […] ed è perciò spiacevole che al-Azhar sia continuamente accusata di essere responsabile del terrorismo». Riguardo agli attentati di Parigi lo shaykh afferma che «tra i modi di difendere l’Islam e il suo profeta non ci sono l’uccisione barbara e i massacri, il cui prezzo è pagato dai musulmani di ogni parte del mondo», e precisa che «i musulmani sono ovunque chiamati a condannare e a rifiutare pubblicamente atti criminali come questo». Tuttavia, interrogato su come sia possibile che un persona che pronuncia la shahâda (la professione di fede) decapiti un altro uomo e dichiari di essere musulmano, al-Tayyib fa riferimento alla distinzione tra peccatore e miscredente, tema cruciale e dibattuto nell’Islam fin dalla primissima riflessione teologica (VII secolo). I jihadisti restano musulmani e non possono essere dichiarati miscredenti, altrimenti si aprirebbe un ciclo di condanne reciproche senza fine. Si domanda infatti al-Tayyib: «In quale fattispecie rientra un musulmano che decapita un altro musulmano? Nel taglione. Deve essere ucciso così come ha ucciso, ma non è un miscredente, perché la miscredenza è un’altra cosa e colui che crede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nel suo profeta, nel giorno del giudizio e nei decreti divini è un credente e non può essere accusato di non esserlo. E se commette un peccato grave come uccidere un uomo o bere del vino diventa un miscredente? No. […] Se apriamo la porta dell’anatema non si salverà nessuno». È infine interessante rilevare l’insistenza con cui al-Tayyib si premura di delimitare la funzione e le prerogative della moschea di al-Azhar, un’istituzione che a torto viene spesso descritta come il centro del sunnismo mondiale o addirittura il “Vaticano dell’Islam”: «L’opinione di al-Azhar non è vincolante, e noi non siamo una magistratura che emette sentenze né un organo esecutivo che può promulgare dei decreti. Non abbiamo un bastone con cui punire chi non si conforma alla nostra opinione. […] Non esercitiamo alcuna tutela né siamo un potere religioso». In generale, l’imam non nega l’esistenza di problemi all’interno della moschea, ma respinge sistematicamente i tentativi di dipingerla come fomentatrice di quella violenza di cui parte dell’Islam è oggi malato. Le parole di al-Tayyib sono rappresentative di una cultura religiosa probabilmente piuttosto diffusa nelle società islamiche, che condanna senza reticenze le violenze perpetrate in nome di Dio, ma è in maggiore difficoltà quando deve interloquire positivamente con le istanze della società contemporanea e con le aspirazioni che le Rivoluzioni arabe hanno portato in superficie anche se in maniera apparentemente fugace. Si tratta peraltro di una posizione scomoda, perché presa nella morsa di una duplice contestazione. Da un lato quella islamista, per la quale la quantità e la qualità dell’Islam presenti nella società non sono mai sufficienti. Il giorno prima della pubblicazione dell’intervista, un importante studioso della stessa moschea di al-Azhar, Muhammad ‘Imara, vicino ai Fratelli Musulmani, denunciava «l’inaridimento delle fonti della religiosità in Egitto». Dall’altra quella modernista, che senza mettere direttamente in discussione il ruolo della religione nella società, vorrebbe un Islam finalmente conciliato con la ragione e la scienza e capace di lasciarsi alle spalle una tradizione che contempla l’uccisione dell’apostata, la discriminazione tra musulmani e non musulmani, la sottomissione della donna, come ha scritto l’analista ‘Adil Numaan sullo stesso giornale che ha ospitato l’intervista allo shaykh di al-Azhar. Dopo il discorso del presidente al-Sisi la partita tra queste diverse letture è aperta, almeno in Egitto. In assenza di un’autorità religiosa deputata all’interpretazione corretta dell’Islam (lo ha ricordato lo stesso shaykh), il ruolo di arbitro spetterà probabilmente alla politica. E, se ne avrà la forza, alla società civile.”
Pubblico un articolo di Giorgio Cuscito tratto da Limes per chi voglia avere in cinque minuti un inquadramento generale su Boko Haram e quanto sta avvenendo in Nigeria.
“Nei giorni in cui si è verificato in Francia l’assalto dei jihadisti, cominciato con l’attentato alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, in Nigeria se ne è registrato uno ancor più grave. L’organizzazione terroristica Boko Haram ha condotto feroci attacchi nel Nord del paese, provocando la morte di migliaia di persone. Nel paese africano si sta assistendo a un’escalation di violenza che se trascurata potrebbe creare i presupposti per un altro Stato Islamico (Islamic State, Is), simile a quello operante in Siria e in Iraq.
Gli attentati
Dal 3 gennaio per circa una settimana, Boko Haram ha compiuto un raid nel villaggio di Baga e in quelli circostanti nel Nord Est della Nigeria. Il ministero della Difesa nigeriano afferma che sarebbero rimaste uccise 150 persone, mentre secondo i funzionari locali le vittime sarebbero circa 2 mila, di cui la maggior parte bambini, donne e anziani. Come ha affermato Amnesty International, potrebbe trattarsi dell’attentato “più sanguinoso” mai sferrato da Boko Haram. Nei giorni successivi, l’organizzazione jihadista ha condotto due attentati a Maiduguri e a Potiskum (sempre nel Nord Est del paese), utilizzando delle “bambine kamikaze” con addosso dell’esplosivo. Il primo attacco ha provocato venti morti, il secondo almeno tre. Negli ultimi mesi, Boko Haram si è servita in più occasioni di donne pronte (o forse no) al martirio per condurre attentati, ma secondo il New York Times, il coinvolgimento di bambine sarebbe una pericolosa novità.
Origini di Boko Haram
Boko Haram (che significa “l’educazione occidentale è peccato”),il cui nome ufficiale è Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (ovvero “persone impegnate per la propagazione degli insegnamenti del profeta e per il jihad”), è un’organizzazione terroristica fondata formalmente nel 2002 da Mohamed Yusuf e guidata oggi da Abubakar Shekau. Il suo scopo è imporre il califfato in Nigeria. Secondo il dipartimento di Stato Usa, avrebbe dei legami con al Qaida nel Maghreb islamico (Aqim), inoltre, lo scorso luglio Shekau ha dichiarato il suo supporto allo Stato Islamico. Nel 2002 Yusuf ha creato a Maiduguri, nello Stato del Borno, un complesso religioso, che include una moschea e una scuola islamica, con la scopo di contrastare l’educazione occidentale. La scuola ha attratto musulmani da tutto il paese, diventando il luogo perfetto di reclutamento. Ma è dal 2009, a seguito della violenta repressione dell’esercito locale, che l’organizzazione jihadista ha cominciato a seminare il panico, compiendo attentati contro edifici delle forze di polizia, scuole, chiese, moschee e uccidendo civili. L’attività di Boko Haram si è intensificata nel 2011, quando in un clima di tensione è stato eletto l’attuale presidente della Nigeria Goodluck Jonathan, del People’s democratic party e appartenente agli Ijaw, un’etnia cristiana minoritaria del Sud del paese. Nell’aprile 2014, Boko Haram ha rapito 276 alunne nigeriane, episodio che ha dato inizio alla campagna mediatica su Twitter, #BringBackOurGirls. Cinquantasette di loro sono riuscite a scappare, ma le restanti non sono ancora libere. Da questa estate l’organizzazione jihadista ha cominciato ad ampliare il proprio raggio d’azione e secondo il Telegraph attualmente controllerebbe un’area di circa 52 mila chilometri quadrati nel Nord Est del paese. Secondo un rapporto sul jihadismo realizzato dall’International centre for the study of radicalisation and political violence in collaborazione con la Bbc, nel mese di novembre Boko Haram è stata la seconda organizzazione jihadista per uccisioni (801 in 30 attacchi) dopo l’Is (2.206 in 306 attacchi). I talebani sarebbero terzi in questa macabra classifica (720 vittime in 150 attacchi). La ferocia di Boko Haram non è una novità. Già lo scorso anno, il National consortium for the study of terrorism and response to terrorism (Start) aveva affermato che nel 2013 questa organizzazione è stata la terza al mondo per attacchi perpetrati, proprio dopo i talebani e lo Stato Islamico (all’epoca ancora Stato Islamico di Iraq e Levante). In questi anni, a causa degli attentati di Boko Haram, circa un milione e mezzo di nigeriani ha abbandonato le proprie case e centinaia di migliaia di persone sono fuggite in Ciad, Niger e Camerun. Peraltro, paesi in cui i jihadisti nigeriani stanno estendendo il proprio campo d’azione. L’ascesa di Boko Haram e più in generale l’instabilità della Nigeria non dipendono solo dalle tensioni religiose tra musulmani (a Nord) e cristiani (a Sud) ma anche dagli interessi tribali e regionali legati allo sfruttamento delle risorse naturali, dalla corruzione dei politici locali e dalla povertà in cui vive la maggioranza della popolazione. Sono queste le vulnerabilità che l’organizzazione jihadista può sfruttare per consolidare il suo potere sul territorio.
Rischi di nuovi attentati
Il quadro che emerge è preoccupante. Con le dovute differenze, il caos in cui regna la Nigeria non è molto diverso da quello che ha favorito l’ascesa dello Stato islamico in Iraq e Siria. Inoltre, in quanto a determinazione Boko Haram ha poco da invidiare all’organizzazione di al Baghdadi e le forze di sicurezza locali necessiterebbero di un concreto sostegno internazionale, visto che non sembrano adeguatamente equipaggiate, addestrate e motivate per fronteggiare da sole la minaccia. Arginare l’ascesa dell’organizzazione jihadista pare indispensabile per evitare che la sua ombra si estenda sul resto dell’Africa nordoccidentale. Dal canto suo, il governo di Abuja dovrebbe porre rimedio ai problemi sociali e politici che caratterizzano la Nigeria, ostacolando l’attività di proselitismo dell’organizzazione jihadista. Il 15 febbraio in questo paese si terranno le elezioni presidenziali e Muhammadu Buhari, politico musulmano del Nord, appartenente al All progressives congress (principale partito d’opposizione), ex generale dell’esercito nigeriano che ha governato il paese dall’83 all’85, è il più importante antagonista di Jonathan. Il suo passato militare, le sue radici e soprattutto il malcontento per la scarsa efficacia con cui l’attuale presidente ha contrastato Boko Haram sono le carte di cui si servirà nelle prossime settimane. Un periodo che probabilmente sarà segnato da nuovi attentati.”