Riporto il caldo saluto che don Agostino Petriciello rivolge oggi, sulle pagine di Avvenire, a fatel Biagio Conte, scomparso a Palermo in questi giorni a causa di una malattia.
“Fratel Biagio è morto? No, questa è una menzogna. Fratel Biagio è vivo, più vivo che mai, adesso che è volato via da questo mondo. Lo incontrai, ci incontrammo. Insieme ci calammo nelle acque pure del Vangelo e della preghiera per tentare di dissetare l’arsura che ci portiamo dentro. Quel giorno, come sempre, avevo pregato: «Manda, Signore, un angelo sul mio cammino». E l’angelo, ancora una volta, arrivò. Aveva un volto pulito, incorniciato da una barba incolta che gli dava l’aspetto di un antico patriarca; un sorriso largo, sereno, leggero. E degli occhi stupendamente verdi. «Come sono belli gli angeli», pensai. E mi misi alla tua scuola. L’angelo non va ostacolato, ma ascoltato, seguito. Quante volte ero stato ad Assisi? Quante volte avevo desiderato di poter essere stato contemporaneo di Francesco? Quante volte avevo sostato e sognato davanti al suo saio, ormai quasi ridotto in polvere? Un giorno lo incontrai sul mio cammino, Francesco. Si chiamava Riccardo. Chiedeva la carità di un passaggio in auto. Incuriosito, mi fermai. Mi riportò alla fede. Poi, come un’aquila alla quale va stretto il nido, volò verso un Paese da cui tanti fratelli scappano. A servire un popolo che tanti potenti affliggono. A farsi povero per loro e con loro. Oggi lo vedo poco. La Tanzania è lontana. Rimane l’affetto, la riconoscenza, la collaborazione, la nostalgia. Il desiderio e il bisogno di essere scandalizzato ancora dalla radicalità dei coraggiosi. E arrivasti tu, Biagio. A ricordare a me, alla Chiesa, al mondo, che l’amore vero non conosce le mezze misure; che gli innamorati sanno osare, rischiare, mettersi in gioco, sfidare il destino. Sempre eccessivi, sempre presenti. Sei stato un ingordo, frate. Hai affollato quella schiera di uomini e donne che non si accontenta mai. Che guarda continuamente oltre l’orizzonte. Che non ha paura di niente, nemmeno del peccato. Che non si ferma nemmeno davanti all’evidenza. Milioni di persone muoiono di fame. Avresti voluto sfamarle tutte, ma non ti era possibile. Non ti sei arreso. Hai dato da mangiare ai poveri di Palermo. Confidando in Dio. Fidandoti della Provvidenza. Ai poveri di pane si aggiunsero i poveri di cuore, i poveri di spirito, i poveri di vita. Non ti sei scagliato con rabbia contro i rapinatori dei forni altrui, li hai cercati, li hai trovati, li hai aiutati a non perdere la speranza, la dignità, la fede. Sei stato, Biagio, un calcio negli stinchi per tanti tiepidi come me. Il Francesco di Assisi siciliano del nostro tempo. Com’è bella la nostra santa madre Chiesa, frate. Questa grande famiglia dove c’è posto per tutti, santi e peccatori e peccatori trasformati in santi. Così simili, così diversi, così normali, così strani, così originali. Sei volato via a pochi giorni di distanza da papa Benedetto. Le differenze tra te e lui, tra la tua vita e la sua, saltano agli occhi. Eppure quanto vi somigliate. Con strumenti diversi e diverse voci, insieme avete cantato la serenata a chi vi aveva rapito il cuore. Che state facendo, adesso? Quale inenarrabile Mistero stanno contemplando i vostri occhi? Biagio, Benedetto, fratelli di tutti, pregate per noi. Alla Sicilia, cui la mafia stupida e assassina, ha fatto tanto male, ha strappato tante vite, il Signore ha voluto regalare un uomo buono, semplice, spoglio, indifeso, ricco della sua sola povertà. Un uomo con le braccia larghe, lo sguardo lungo, il cuore senza confini. Non hai disprezzato niente dei doni che Dio ha dato agli uomini. Hai voluto condividerli con i poveri. In fondo – permettimi – sei stato lo scaltro del vangelo. Hai capito che la gioia non viene dal possesso e dal potere, ma dal servizio che si rende alle persone, soprattutto quelle che sanno gioire per le piccole cose. Quanto pane hai spezzato agli affamati? « Entra, benedetto dal Padre». A quanti ignudi hai offerto un mantello e un tetto perché non morissero di freddo e di vergogna? « Entra, benedetto dal Padre» Fratel Biagio, Pino Puglisi, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Doni immensi della Sicilia del nostro tempo alla Chiesa e al mondo. Prega per noi, frate. Continua ad essere l’angelo che ognuno desidera incontrare. Grazie per averci ricordato che «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». Ottienici il dono della perseveranza, perché, come te, non ci stanchiamo di fare sempre e solamente il bene.”
Scrivo oggi, quindi non è più una notizia. Da mesi non guardo la TV (l’antenna non funziona e l’interesse per ripararla è molto basso) e mi informo tramite podcast e versione web dei giornali. Il tempo è poco, quindi non ho letto molto. Sono rimasto colpito per i tanti titoli acchiappa clic, i clickbait, e le tante esternazioni scomposte e sguaiate. Allora ho deciso di raccogliere qui, in unico post, due articoli (non divulgativi) di Avvenire e il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco alle esequie di ieri.
L’eloquenza delle mani di Pierangelo Sequeri Non è il fantasma di un grande teologo che rimane sospeso sul nostro capo, quasi per prendersi la rivincita su di noi, come ha sospirato qualche incauto commentatore (magari di alto bordo ecclesiastico, ma di piccola statura ecclesiale). È la bianca figura di un grande teologo donato al ministero petrino, quella che rimane. Un ministero che il teologo Joseph Ratzinger ha personalmente onorato in favore della Chiesa per tutto il tempo della consegna ricevuta dal Signore. E che ha personalmente restituito alla Chiesa, nel tempo in cui il Signore l’ha ispirato a riconsegnarlo per il bene della Chiesa. Misteriosa la consegna, non meno misterioso il congedo: lo Spirito di Dio sa quello che fa. Oseremo noi intrometterci, nella nostra sentenziosa estraneità, nel rapporto speciale fra il Signore e Pietro, che in ogni Papa si rinnova? Ora, «l’umile servitore della vigna del Signore» ha consegnato anche il suo spirito. E proprio di qui, giustamente, il papa Francesco, ha invitato ad aprire il cuore di tutti, nella meditazione evangelica e nella preghiera riconoscente. Come il Signore, la vita di quest’uomo di Dio fu «un continuo consegnarsi nelle mani del Padre». Non ci sono retroscena da evocare, più incisivi di questo. Non ci sono paragoni da eccitare, più pregnanti di questo. «Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore». Questo è forse il passaggio più commovente – e commosso – dell’intensa omelia di Francesco nella Messa esequiale in piazza San Pietro. L’immagine-chiave è quella delle mani. Francesco cita l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Messa crismale del 2006, iscrivendo nell’immagine delle mani il suo speciale legame con il Signore: «Tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue». L’eloquenza delle mani di Benedetto XVI è di dominio pubblico. Il suo modo di aprire e stringere le dita, con le braccia protese davanti a sé, così teneramente infantile, rimarrà nei nostri occhi. E chi l’ha conosciuto da vicino riconosce nella sua personale stretta di mano, che stringeva senza stringere, un delicato passaggio di benedizione e di rispetto, più che un saluto. La benedizione della mano era il tocco leggero della dedizione del cuore. « Fecondità invisibile e inafferrabile – prosegue Francesco, citando 2Tim 1,12 – che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia». La dedizione, che mai si inorgoglisce del dono, rifiuta di requisirlo come privilegio personale e di convertirlo in prebenda clientelare. Una simile limpidezza interiore del cuore, unita al tratto di uno spirito gentile – commenta Francesco – espone alla stanchezza dell’intercessione, al logoramento dell’unzione: mette alla prova di una bontà che deve lottare con la malizia, e di una fraternità ferita dalla mancanza di dignità. La prova non fu risparmiata al Signore. Non verrà risparmiata ai suoi Discepoli. Pietro per primo. Il Signore provvede, generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e affidarsi al di là delle incomprensioni. E lo Spirito della ricerca appassionata e della gioiosa bellezza del Vangelo, ispira ogni volta la decisione opportuna, procura ogni volta la consolazione necessaria. Dovremo congedarci il più rapidamente possibile dall’aneddotica delle immagini di scena e delle indiscrezioni di retroscena. E incominciare a leggere e a rileggere il prodigioso lascito di testi nei quali il teologo Joseph Ratzinger ha finemente cesellato, in favore della fede e della testimonianza, la sapienza nella quale egli ha saputo filtrare come illuminazione e restituire in benedizione la sua lotta con l’Angelo. La profondità e la potenza della sua passione per l’intelligenza che orienta la fede ha occupato interamente anche il ministero del pontefice Benedetto XVI. È questa la speciale qualità della sua eredità, destinata a durare nel tempo, come il tesoro dello scriba che si fa discepolo del regno di Dio: dal quale trarre con grata ammirazione cose antiche e cose nuove (Mt 13, 52). « Deus caritas est», ha scritto papa Benedetto. « L’amore non si perde», ha concluso papa Francesco. Nostro, rimane il lieto compito di essere «profumo della gratitudine e unguento della speranza», che conferma la preziosa eredità ricevuta. E così sia, « Benedetto, fedele amico dello Sposo».
Omelia di Papa Francesco «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro – potremmo dire –, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli. Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso (Gv 20,27), e lo dice ad ognuno di noi: “Guarda le mie mani”. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso (cfr 1 Gv 4,16). [1] «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio (cfr Is 29,16) il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù (cfr Fil 2,5). Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”. [2] È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo, corpo che si offre per voi (cfr Lc 22,19). La synkatabasis totale di Dio. Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare (cfr 1 Pt 1,6-7) e l’invito fiducioso a pascere il gregge (cfr Gv 21,17). Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità (cfr Eb 5,7-9). In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia (cfr 2 Tim 1,12). Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio (cfr Gv 21,18): «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza». [3] E anche dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate 57), nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre (cfr Lc 1,54-55). Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr Mt 25,6-7). San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato. [4] È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”. Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce! [1] Cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1. [2] Cfr Id., Omelia nella Messa Crismale, 13 aprile 2006. [3] Id., Omelia nella Messa di inizio del pontificato, 24 aprile 2005. [4] Cfr ibid.
Libertà, scienza, ragione «debole»: Ratzinger al cuore del secolarismo di Vittorio Possenti Con la scomparsa di Benedetto XVI idee e ricordi emergono dallo scrigno della memoria, evocando il lungo dialogo (a distanza e talvolta di persona), iniziato prima del 1980, che ebbi con il cardinale Joseph Ratzinger. Sul piano teologico e sapienziale Benedetto è stato un grande Maestro di scrittura e di parola, il cui insegnamento nella comunicazione della fede non tramonterà. Oggi sento la responsabilità di condensare in breve spazio un discorso immenso concernente il lascito teologico e intellettuale del Papa emerito: quale eredità per la Chiesa che verrà! Uno dei massimi compiti di Ratzinger fu di porre costantemente in dialogo fede e ragione perché si riconoscessero e potessero compiere almeno in parte un cammino comune. È la prospettiva dell’enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II (1998) e preparata da una commissione presieduta da Ratzinger stesso. La Fides et ratio sembra oggi, dopo qualche attenzione iniziale, un documento dimenticato. La restrizione della ragione umana entro i limiti dello scientismo e del libertismo, e gli eccessi della ragione debole hanno contribuito a metterla da parte. In merito, ficcanti sono le diagnosi di Ratzinger a Subiaco (1° aprile 2005), in cui egli descrive acutamente la cultura illuminista: «Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha finalmente completa coscienza di sé stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi come compiuta in sé stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso altri fattori culturali». È come se tale cultura dicesse: abbiamo la ragione, la scienza e la tecnica dalla nostra e questo costituisce il massimo, né vi è bisogno di altri apporti. Ratzinger solleva poi la questione se le «moderne filosofie illuministe, complessivamente considerate, si possano ritenere l’ultima parola della ragione comune a tutti gli uomini. Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che alla fine Dio non può avere in esse alcun posto. Esse sono basate su una autolimitazione della ragione positiva, che è adeguata all’ambito tecnico, ma che, laddove viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo». La quaestio de veritate, coniugare fede e ragione in modo che entrambe dialoghino e si innalzino, fu segno distintivo della teologia di Ratzinger, dove non ha parte la ratio a una sola dimensione che soffoca lo slancio naturale della mente verso il vero, nel cui ambito rientrava per lui, come per Paolo VI e Giovanni Paolo II, la verità sull’uomo. Il primo annunciava l’hominem integrum e l’altro racchiudeva in una nitida formula la missione della Chiesa: «La verità che dobbiamo all’uomo è soprattutto una verità sull’uomo». Nel campo teologico-politico, in una solida vasta consapevolezza del ruolo globale della Chiesa universale, fu primario per Ratzinger-Benedetto XVI il Problema Europa cui dedicò un’attenzione partecipe e critica, ben avvertendo la crisi spirituale e la devastazione della secolarizzazione. Molti grandi discorsi di Benedetto (Parigi, Londra, Berlino, Ratisbona, etc.) toccano questi nuclei, in cui emergono i temi dei diritti e doveri umani e della libertà. I diritti sono finalizzati solo alla libertà di scelta dell’io isolato e non inserito entro la società? Esistono diritti primari che non siano diritti di libertà? Il discorso di Subiaco, ma anche quello all’Onu (2008), hanno richiamato l’indebita preminenza dei soli diritti di libertà nelle culture illuministiche: «Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta in dubbio proprio questo canone». La concezione libertaria o libertista dei diritti ha impregnato profondamente di sé la cultura e i popoli occidentali, sino al punto che capi di Stato auspicano che il diritto all’aborto sia scritto a chiare lettere nella Carta europea. Se così dovesse accadere, il tradimento della Dichiarazione universale del 1948 sarebbe alle porte: l’occidentalismo libertario sta mettendo a serio rischio il tessuto stesso di tale Dichiarazione. La questione da sollevare una volta di più non riguarda se occorra ampliare o restringere l’area della libertà, tema che rimane generico, ma come educare a un’idea di libertà più vera e ricca di quella che ne vede l’unica manifestazione nell’autodeterminazione e nel servizio alla libertà del singolo, che nega o comprime le relazioni sociali e il riconoscimento dell’altro. Ciò porta a lasciare da parte il compito dell’edificazione morale dell’uomo e del cittadino. Ratzinger solleva la questione se le moderne filosofie antropocentriche e succubi del mito del progresso non abbiano perso il senso del limite umano, che in civiltà diverse da quella occidentale è invece rimasto come monito contro l’hybris. Negli antichi vi era reverentia e non superbia verso il divino, e si era consapevoli della propria finitudine. Oggi è diverso: l’ala marciante del pensiero occidentale profondamente secolaristico ha messo da parte il principio di realtà e procede guidato dalla volontà di potenza. Vuole costruire l’uomo nuovo non più con la rivoluzione politica ma con quella tecnologica. Non siamo perciò usciti dall’antropocentrismo moderno, che anzi si prolunga nella postmodernità in maniera estesa e con nuovi miti. Chi offendiamo menzionando Dio anche in pubblico? Il secolarismo europeo accampa l’assunto che offenderemmo gli appartenenti alle altre religioni. Ratzinger osserva: «non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio». La lezione teologico-politica di Benedetto XVI sulla presenza dei cristiani nella società secolarizzata punta sulla necessità di minoranze creative o profetiche. Il suo sguardo va, oltre che ai cristiani, verso i fedeli della religione ebraica. Si esprime in un invito discreto all’ebraismo, alle sue minoranze creative, a cooperare affinché la luce divina non scompaia dalla storia universale e il mondo non entri nel buio della mancanza di senso. Su questo nucleo è importante il suo Discorso alla Sinagoga di Roma, durante la visita del 17 gennaio del 2010. «Come insegna Mosè nello Shemà e Gesù riafferma nel Vangelo, tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi… Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza». Il Papa si trovò in sintonia con il grande Rabbino di Londra Jonathan Sacks che, ponendo il problema della famiglia in dissoluzione, osservava con forza che gli europei sono troppo egoisti per avere figli, e che tale egoismo stava uccidendo l’Europa secolarizzata. La decostruzione della famiglia all’insegna del libertismo e del ricorso manipolante alle tecnologie è tuttora una piaga aperta. Nel testamento spirituale del 29 agosto 2006, reso noto alla morte del Papa emerito, Benedetto si rivolge al popolo di Dio, esortando a rimanere saldi nella fede, a non farsi confondere da discorsi provenienti dalle scienze naturali e dalle scienze storiche che sembrano in contrasto con la fede ma che poi esse stesse abbandonano, lasciando viva la pretesa di ragionevolezza della fede. Benedetto, invitando a non perdere l’orizzonte secondo cui Cristo è la via, la verità, la vita, ricordava una bella frase di Tertulliano: «Cristo non ha detto di essere l’abitudine, bensì la verità».
Fonte: profilo Instagram dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
A inizio marzo, il voto all’undicesima sessione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) sulla risoluzione sull’aggressione russa dell’Ucraina ha registrato che solo 5 paesi – Siria, Eritrea, Bielorussia e Corea del Nord oltre ovviamente alla Russia – si sono schierati apertamente con Mosca votando contro la risoluzione. 141 sono stati i favorevoli e 35 gli astenuti. Oltre a Cina e India, sono stati numerosi gli stati africani ad astenersi: perché? Mi soffermo su due di essi attraverso due articoli, uno sul Mali (a firma di Enzo Nucci, corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana e curatore di una rubrica su Confronti) e uno sul Sudan (a firma di Marco Cochi per il mensile Nigrizia). Inoltre torno su Kirill I, patriarca di Mosca molto legato a Putin, e sul suo ruolo proprio in Africa (articolo di Rocco Bellantone, sempre su Nigrizia).
VIA I FRANCESI, AVANTI I RUSSI
2 Febbraio 2022 di Enzo Nucci. In Mali il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura legati al governo di Mosca. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse e vendita di armi. Via l’esercito francese, avanti i mercenari russi della compagnia privata Wagner. Benvenuti in Mali. Il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura (ma legati a triplo filo al governo di Mosca) nel Paese africano, considerato strategico per fermare alla fonte una parte importante dei flussi migratori clandestini diretti verso l’Europa. Duecento di loro sono accampati a Segou, 200 chilometri a nord est della capitale Bamako, sul fiume Niger. Il governo maliano a dicembre si è limitato a spiegare la presenza degli addestratori russi come un contributo al rafforzamento delle capacità operative delle Forze di difesa e sicurezza. E a gennaio l’esecutivo ha chiesto a Parigi di rivedere gli accordi militari firmati nel 2013 quando la Francia (guidata allora dal socialista François Hollande) lanciò l’operazione di contrasto al terrorismo islamista, estesa successivamente agli altri Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania). Da allora molte cose sono cambiate. L’intervento armato si è dimostrato fallimentare e oneroso dal punto di vista economico, di costi umani e ricavi politici. Tanto che si parla apertamente di un “nuovo Afghanistan” per il presidente Emmanuel Macron che si accinge a sottoporsi al test delle imminenti elezioni presidenziali. Ma il Mali resta una ferita purulenta anche per il suo eventuale successore. Il Mali (in 9 anni di presenza militare) si è rivelato lo Stato africano con l’opinione pubblica più antifrancese tra i Paesi francofoni, tanto che un colpo di Stato militare (forse ispirato da Mosca) ha sparigliato le carte. I gruppi terroristici islamisti non hanno preso il potere ma hanno allargato la loro influenza tra la gente, rendendo instabili istituzioni già profondamente fragili. Non è certo un grande risultato. Sul Mali (guidato dalla giunta golpista) si sono anche abbattute le sanzioni economiche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché il governo di transizione ha deciso di rimandare le elezioni per un periodo variabile dai sei mesi ai cinque anni. Il dato politico è il ritorno in grande stile della Russia sulla scena africana. Gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse (estrazioni di minerali) e vendita di armi sono gli obiettivi principali. La strategia fu spiegata da Putin nel summit russo-africano tenutosi a Sochi (sul Mar Nero) nell’ottobre 2019. Il presidente ribadì la sua volontà di offrire aiuti e contratti commerciali “senza condizioni politiche o di altro genere”, al contrario di quanto fanno i Paesi occidentali. E anzi affermò che la Russia sarebbe stata la migliore soluzione a cui far ricorso per resistere alle indebite intromissioni nella sovranità nazionale esercitate da europei, statunitensi e cinesi. La presenza dei paramilitari della Wagner (fondata da un veterano delle forze speciali dell’esercito russo e da un ricco uomo d’affari legato a Putin) si conta già in 23 nazioni africane. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma in realtà svolgono training agli eserciti, forniscono scorte armate agli uomini di governo, conducono guerre informatiche, svolgono operazioni contro i ribelli nelle zone minerarie per facilitare contratti con compagnie russe, spesso connesse proprio agli azionisti della Wagner. I mercenari sbarcarono per la prima volta in Africa nel 2013 quando in Sudan (guidato allora dal dittatore islamista Omar al-Bashir) furono utilizzati per reprimere manifestazioni di piazza. Da allora è stata una escalation in tutto il continente, ultimamente anche nella ricca regione mineraria di Cabo Delgado (Mozambico) dove operano terroristi islamisti, autori di numerosi attacchi. Mentre in Libia sostengono Khalifa Haftar con grande preoccupazione degli Stati Uniti. I mercenari esordirono nel 2014 in Crimea a fianco dell’esercito russo che aveva occupato la penisola. Oggi conterebbero su almeno diecimila uomini contrattualizzati. Un escamotage che consente a Putin di avere le mani libere, non dover rendere conto a nessuno delle operazioni di questi “privati” che sono responsabili di abusi e crimini contro prigionieri e civili inermi. Ma Mosca ufficialmente ignora tutto questo.
RUSSIA IN AFRICA. IL SUDAN È UNA MINIERA D’ORO
09 Marzo 2022 di Marco Cochi. La recente visita a Mosca di “Hemetti”, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese, ha allarmato molti paesi, tra cui Stati Uniti ed Egitto. Spaventa il progetto di una base navale del Cremlino sul Mar Rosso. E si vuole porre un freno al contrabbando di centinaia di tonnellate di oro illegale che dal Sudan finiscono nei forzieri russi. Molti paesi africani stanno mostrando una buona dose di cautela nel rivedere le loro relazioni con la Russia per proteggere i loro interessi nazionali. Lo dimostra l’astensione di ben 17 nazioni del continente, oltre al veto dell’Eritrea, nell’approvazione della risoluzione votata, lo scorso 2 marzo, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’invasione russa dell’Ucraina. Una cautela che trae origine dal fatto che negli ultimi anni il Cremlino ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. Un chiaro esempio è l’invio, a partire dal 2018, dei mercenari russi del Gruppo Wagner, oltre che in Libia, per aiutare i leader locali di Centrafrica, Mozambico e Sudan a mantenere saldo il loro potere e silenziare la dissidenza interna. E non a caso i tre paesi figurano tra gli stati africani astenuti. A partire dallo scorso 6 gennaio, l’impegno militare della compagnia privata russa sta interessando anche il Mali, dove i paramilitari sono stati dispiegati nella città di Timbuctu. Ufficialmente, le unità della Wagner sono impegnate nell’addestramento delle Forze armate maliane e nel contrasto delle milizie jihadiste legate ad al-Qaida e al gruppo Stato islamico. Altro aspetto saliente è da ricercare nei dati del SIPRI, che indicano Mosca come il principale fornitore di armi all’Africa, dove tra il 2015 e il 2019 ha esportato il 49% dell’equipaggiamento militare del continente, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Per questo, è improbabile che molti leader africani aderiscano al moltiplicarsi degli appelli in corso per condannare l’aggressione della Russia in Ucraina. Tra i paesi africani che non nascondono il loro sostegno a Mosca c’è il Sudan. Con il Cremlino, il terzo più grande paese dell’Africa intrattiene una partnership così consolidata che il 23 febbraio il vicepresidente del Consiglio sovrano di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemetti ha iniziato una visita a Mosca, durante la quale, poi, l’armata russa ha invaso l’Ucraina. Dagalo è anche a capo delle Rapid support forces (Forze di supporto rapido – Rsf), un’unità irregolare al soldo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di indicibili violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe fur, maasalit e zaghawa. Violenze che continuano ancora oggi. Di recente, è emerso che le Rsf hanno avuto legami con la Wagner e anche se non ci sono statistiche ufficiali sul numero e sul luogo in cui si trovano i contractor russi in Sudan, alcune stime indicano la presenza di 300 effettivi, impegnati in attività congiunte e programmi di addestramento con la milizia di Dagalo. Nel paese, si è diffuso il sospetto che alcuni oppositori politici favorevoli a un ritorno del governo civile siano recentemente scomparsi per mano dei mercenari russi. Nel 2017, l’interesse iniziale della Wagner nei confronti del Sudan è stato cercare i giacimenti di oro presenti nelle aree remote del paese, così cospicui che potrebbero rendere Khartoum in pochi anni il terzo produttore dell’Africa. Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia ha contrabbandato centinaia di tonnellate di oro illegale dal Sudan, nell’ambito del piano di costruire la “fortezza Russia” e difendersi dalle previste sanzioni legate all’invasione in Ucraina. Il Cremlino ha più che quadruplicato la quantità di oro detenuto nella banca centrale dal 2010, creando un “forziere di guerra” attraverso un mix di importazioni estere e vaste riserve auree nazionali, diventando il terzo produttore mondiale del prezioso metallo e arrivando, nel giugno 2020, a detenere più oro che dollari. Mentre le statistiche ufficiali suggeriscono che il Sudan esporta scarsissime quantità di oro in Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al Telegraph che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del paese. Secondo la fonte, rimasta anonima, ogni anno circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate dal Sudan in Russia, sebbene sia impossibile valutare la reale portata dell’operazione. Secondo Sim Tack, cofondatore di Force Analysis, una società di consulenza con sede in Belgio specializzata nella mappatura dei conflitti, alcune società russe come M-Invest, che ha una filiale locale chiamata Meroe Gold, hanno iniziato a operare in Sudan dopo che l’ex dittatore Omar El-Bashir ha incontrato Vladmir Putin nel 2017, offrendogli concessioni minerarie e permettendogli di costruire una base navale nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. Una struttura in grado di ospitare fino a 300 persone, civili e militari, e 4 navi da guerra. Secondo il progetto, Mosca avrà il diritto di trasportare, attraverso porti e aeroporti sudanesi, armi, munizioni e attrezzature destinate al funzionamento della sua base. Questo sito sarà il primo del suo genere per Mosca in Africa, e il secondo al mondo, dopo quello di Tartus, in Siria. La base servirà a coprire due dei grandi interessi russi nella regione africana. Il primo è l’export bellico, per creare dipendenza e influenza attraverso questo mercato nei paesi del continente. Il secondo è che Mosca potrà avere un peso sull’asse Mar Rosso, Suez, Corno d’Africa che connette Mediterraneo e Oceano Indiano, considerato strategico per il commercio internazionale. Una promessa che nella sua recente visita a Mosca, il generale Dagalo ha rinnovato proprio mentre le truppe dell’Armata russa si preparavano a invadere l’Ucraina. Secondo Hemetti, la proposta russa per lo sviluppo della base navale in Sudan sarebbe all’attenzione del ministro della difesa di Khartoum, di conseguenza non direttamente sotto la sua capacità decisionale. Secondo gli Stati Uniti, invece, l’approvazione sarebbe imminente perché la missione del generale Dagalo a Mosca avrebbe avuto come principale oggetto proprio la discussione in merito alla definizione dell’accordo per la base navale. L’assenso di Hemetti alla costruzione della base russa ha provocato la dura reazione delle autorità egiziane, che hanno chiesto al potente generale sudanese di fornire chiarimenti sulle dichiarazioni riguardanti la base. I funzionari del Cairo hanno affermato «di opporsi alla creazione di qualsiasi base straniera vicino ai confini e alle aree di influenza del paese». Sarà però difficile che Khartoum receda dai suoi propositi, mentre cerca aiuti economici, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso per intero un pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari, in seguito al colpo di stato del 25 ottobre.
UN CONFLITTO POCO “ORTODOSSO”
11 Marzo 2022 di Rocco Bellantone. A fine 2021, oltre cento sacerdoti in servizio nel continente hanno lasciato il patriarcato di Alessandria (Egitto) per passare a quello di Mosca. Artefice della manovra il patriarca russo Kirill I, fedelissimo di Putin, in rotta con Tawadros II di Alessandria Centodue sacerdoti in servizio in 8 paesi africani passati dal patriarcato greco-ortodosso di Alessandria a quello russo. Con questo cambio di casacca di massa, annunciato a Mosca nel Sinodo di fine 2021 e di cui ha dato notizia Asia News, agenzia di informazione dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime), il patriarcato russo ha creato ufficialmente un proprio esarcato in Africa. Dodici in totale le bandierine fissate nelle due diocesi dell’Africa settentrionale e meridionale: Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ciad, Camerun, Nigeria, Libia, Centrafrica e Seicelle. Incarico di guida assegnato al vescovo russo di Erevan in Armenia, Leonid (Gorbačev). Con una sola mossa, l’artefice di questa manovra, il patriarca di Mosca Kirill I, ha centrato due obiettivi: ha scippato sostegno internazionale alla Chiesa autocefala di Ucraina, frutto dello scisma ortodosso del 2018 (innescato nel 2014 dall’occupazione russa della Crimea) e riconosciuta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartomoleo I; e ha assestato un duro colpo all’autorevolezza in Africa del patriarca di Alessandria, Tawadros II, che nell’agosto scorso, sull’isola turca d’Imbros, aveva teso la mano al metropolita autocefalo di Kiev Epiphany, segnando il definitivo punto di rottura con la Chiesa russa, già maturato nel 2019. In passato compagni di studi all’università sovietica di Odessa, Kirill I e Tawadros II sono dunque ormai ai ferri corti. Nella sua campagna di conversione in Africa, il patriarca di Mosca sa di poter contare sull’appoggio incondizionato del Cremlino. Kirill I fa parte, infatti, della cerchia dei fedelissimi del presidente russo Vladimir Putin. Ha rapporti molto stretti con oligarchi e manager delle più influenti aziende del paese, compreso il gigante petrolifero Gazprom. Una fedeltà riconosciutagli dal governo, che nel 2019 ha sborsato circa 43 milioni di dollari per ristrutturare la sua residenza nell’ex palazzo imperiale di San Pietroburgo. Da anni la Chiesa di Mosca coltiva contatti in Africa. Ultime terre di conquista, come segnalato in un report di Africa Intelligence, sono stati Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia e Sudafrica. Tra le parrocchie sfilate ad Alessandria c’è quella di Sergio di Radonež a Johannesburg (Sudafrica), guidata dall’arciprete Daniel Lugovoy. Altro fronte caldo è il Madagascar, dove l’ambasciatore russo Andrey Andreev sta raccogliendo fondi per affidare una nuova chiesa a sacerdoti legati a Mosca. I centodue transfughi di fine anno sono il risultato di un pressing diplomatico istruito in occasione di un precedente sinodo che si era tenuto a Mosca il 23 e 24 settembre. Da allora l’uomo di Kirill I in Africa, il vescovo Leonid – scelto non a caso per questo ruolo dopo aver rappresentato il patriarcato russo ad Alessandria tra il 2004 e il 2013 – non si è mai fermato. A metà novembre è stato a Dar es Salaam, dove ha incontrato i metropoliti Dimitrios di Irinoupolis, referente per la Tanzania orientale, e Jeronymos di Mwanza, per la Tanzania occidentale. Nella sua visita è stato accompagnato dall’ambasciatore russo in Tanzania, Yuri Popov, che in questo paese cura in particolare gli interessi della compagnia di stato Rosatom nei locali giacimenti di uranio. Il blitz di Leonid era stato anticipato, qualche settimana prima, da un tour di visite di Tawadros II, volato prima a Kampala (Uganda) per un incontro con il presidente Yoweri Museveni, poi in Tanzania insieme all’ambasciatore egiziano Mohamed Gaber Abulwafa e al console onorario greco William Ferentinos – dove a capo di un codazzo di imprenditori greci ha incontrato anche il vicepresidente Filippo Mpango –, infine a Johannesburg per un colloquio con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. La regione dei Grandi Laghi è lo scacchiere in cui la posta in palio tra le due Chiese è la più alta. Tra fine luglio e inizio settembre le morti prima del metropolita Nikoforos di Kinshasa, poi del suo omologo di Kampala Jonah Lwanga, hanno aperto una delicata partita per la loro successione. Chi riuscirà ad accaparrarsi quelle poltrone, infatti, avrà accesso a uno dei più ampi bacini di fedeli ortodossi di tutto il continente. Mosca ci tiene moltissimo. I governi di Rwanda e Uganda sono tra i principali acquirenti africani di armi di fabbricazione russa, mentre in Rd Congo è sempre più attivo il gruppo Alrosa, specializzato in estrazione di diamanti. Sono business in forte crescita, che il Cremlino vuole tutelare garantendosi una leadership religiosa nella regione. Se in Africa meridionale Zimbabwe, Angola e Mozambico restano sotto il controllo del patriarcato di Alessandria, che in quest’area conta sull’arcivescovo cipriota Seraphim, la sfida è aperta in Repubblica Centrafricana. La piccola comunità ortodossa del paese è passata recentemente sotto la sfera d’influenza russa. E nella capitale Bangui è in fase di costruzione il settimo centro russo per la scienza e la cultura, sotto lo sguardo vigile della compagnia di sicurezza privata Wagner. Segno, anche questo, che quella in corso non è solo una campagna religiosa.
Se cerchiamo “Chiesa ortodossa dell’Ucraina” su Wikipedia troviamo :
“La Chiesa ortodossa dell’Ucraina (in ucraino: Православна церква України, Pravoslavna cerkva Ukraïny) è una Chiesa ortodossa nazionale ucraina. È stata fondata il 15 dicembre 2018 con un “concilio di riunificazione” tra la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev e la Chiesa ortodossa autocefala ucraina, con l’autorizzazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha riconosciuto alla nuova Chiesa l’autocefalia. Tale decisione è stata però fortemente contestata dalla Chiesa ortodossa russa, che riconosce invece una differente Chiesa ortodossa ucraina, e che ha quindi denunciato lo “sconfinamento” del Patriarcato di Costantinopoli, rompendo le relazioni con esso e dichiarando il concilio “illegale” e la nuova Chiesa “scismatica”. Questa crisi religiosa, chiamata “scisma ortodosso del 2018”, è iniziata nel 2014 con l’occupazione russa della Crimea e la conseguente annessione della Crimea alla Federazione Russa. L’autocefalia della Chiesa ucraina è infatti stata fortemente voluta e supportata dal presidente ucraino Petro Porošenko, collocato su posizioni filo-atlantiste e filo-europeiste. Il primate della Chiesa ha il titolo di metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina ed è, dal 15 dicembre 2018, Epifanij.”
La vicenda non è di facile comprensione per chi non conosce il mondo delle Chiese ortodosse, i suoi termini, le sue parole, il suo linguaggio (e non posso mettermi a spiegare qui tante cose). Però conoscere questi fatti, anche in generale, è utile per comprendere alcuni vissuti di ieri e di oggi. Per questo, essendo abbonato da anni alla rivista Confronti, ho recuperato alcuni articoli del 2018 e del 2019. Prima li elenco e poi li pubblico integralmente. Sarà un post lungo, IL PIÙ LUNGO DI QUESTO BLOG, ma per approfondire e comprendere ci vuole tempo. Specifico anche che le elezioni in Ucraina si sono tenute il 21 aprile 2019 (secondo turno): prima di quella data il presidente era, come letto sopra, Petro Porošenko.
2018.10.04: Scisma tra Mosca e Costantinopoli? qui
2018.11.02: La questione ucraina innesca uno scisma qui
2019.02.07: Dopo la scelta di Kiev un futuro inquietante qui
2019.04.05: Si acuisce lo scisma tra Mosca e il Fanar qui
2019.07.15: Morire per Kiev? Un tragico duello ecclesiale qui
2019.10.03: L’autocefalia ucraina secondo Costantinopoli qui
2019.10.31: Il patriarcato russo contro gli “scismatici” ucraini qui
SCISMA TRA MOSCA E COSTANTINOPOLI?
4 Ottobre 2018
di Luigi Sandri.
L’aereo, destinazione Kiev, è già pronto all’aeroporto di Istanbul per portare il tomos (decreto sinodale) con cui il patriarcato ecumenico di Costantinopoli concederebbe la “autocefalia” alla Chiesa ortodossa ucraina, con ciò avviando una rottura che, dopo quella tra Oriente ed Occidente del 1054, innescherebbe un nuovo e più aspro scisma, stavolta intra-ortodosso, con la nuova Roma (l’ex Bisanzio) e la terza (Mosca) irriducibilmente contrapposte.
Le parole rassicuranti – «Abbiamo parlato cuore a cuore» – pronunciate il 31 agosto dai protagonisti al Fanar (il quartiere dell’antica capitale bizantina dove sorge il palazzo del patriarcato), al termine del vertice tra il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, e quello di Mosca, Kirill, giunto apposta nella metropoli turca “per discutere temi di comune interesse”, sul problema decisivo – la “indipendenza canonica” ucraina pur mai citata nei comunicati – hanno pietosamente nascosto un fallimento, esploso poi alla luce del sole nelle settimane seguenti.
KIEV, MADRE SPIRITUALE DI MOSCA
Già da tempo conosciuto attraverso mercanti e missionari che, provenienti da Costantinopoli, attraversato il Mar Nero risalivano il fiume Dniepr, a Kiev il Cristianesimo nella Rus’ divenne religione ufficiale dopo che nel 988 il principe Vladimir si fece battezzare: il che comportò la “conversione” di tutti i sudditi alla nuova religione. La reciproca scomunica del 1054 tra l’antica e la nuova Roma non scompose Kiev, che salomonicamente cercò di mantenere buoni rapporti con ambedue.
Dopo l’invasione mongola del 1240 che devastò Kiev, i metropoliti della città trovarono rifugio in varie città russe, finché non fissarono la residenza a Mosca, fondata pochi decenni prima, nel 1147. Vi erano, allora, città russe più importanti di essa: Novgorod, Iaroslavl, Vladimir; Mosca, però, s’impose, e il suo Gran Principe divenne la guida del paese, in prima fila per scuotere il giogo tartaro.
Il 29 maggio 1453 i turchi ottomani prendono Costantinopoli, ponendo fine al millenario impero romano d’Oriente. Un decennio dopo, papa Paolo II si adopera per far sposare la nipote dell’imperatore, Zoe, con il Gran Principe di Mosca: il sogno è che la principessa convinca il marito, Ivan III, a farsi cattolico e ad attaccare i turchi, mentre una crociata occidentale sarebbe accorsa per sconfiggere gli “invasori” musulmani. Il progetto, però, abortisce: la Russia, in ciò spronata da Zoe (diventata Sofia) che porta in dono allo sposo le insegne imperiali bizantine, rimane ortodossa e in comunione con il patriarcato di Costantinopoli che, tramontato il rapporto “sinfonico” Chiesa-Stato, deve muoversi sotto il potere del sultano. Nel paese, intanto, cresce il mito di Mosca “terza Roma” (“l’antica, quella del Tevere, è caduta nell’eresia del papismo; la nuova in mano ai turchi; la terza, colonna dell’Ortodossia, non cadrà mai!”).
A metà del Cinquecento Ivan il Terribile debella i tartari, e si fa “zar”. Nel 1589, ottenendo poi il consenso dei quattro patriarcali orientali (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme), Mosca diventa patriarcato che, nel 1686, incorporerà la sostanza dell’eredità di Kiev. E – secoli dopo! – stante l’Urss l’Ucraina, dal punto di vista ecclesiastico, rimane un esarcato legato a Mosca. Ma nel 1991 – proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina e, poi, collasso dell’Urss – la Chiesa ortodossa là si spacca in tre: Chiesa ortodossa ucraina (la più numerosa), legata a Mosca, e oggi guidata dal metropolita Onufry; l’autonominatosi Patriarcato di Kiev, guidato dal metropolita Filaret, scomunicato dal patriarcato russo; la piccola Chiesa autocefala. Queste ultime due non riconosciute da nessuna Chiesa ortodossa.
Con la “nuova” Ucraina riprendono vigore i greco-cattolici (dagli ortodossi polemicamente chiamati “uniati”, perché considerati uniti con la forza al papato). Nati nel 1595-96 con l’approvazione di molti vescovi ortodossi, accolti allora da Clemente VIII, sotto l’Urss subiranno poi persecuzione. Essi ritengono di aver compiuto, a fine Cinquecento, una libera scelta ecclesiale (e senza prima mai aver rotto ufficialmente con Roma); il patriarcato russo, invece, li considera “traditori” sorti per le pressioni dei re polacco-lituani che volevano usarli come “cavallo di Troia” per distruggere dall’interno l’Ortodossia.
CHIESA AUTOCEFALA UCRAINA: LA MOSSA DEL PRESIDENTE POROSHENKO
Tra XX e XXI secolo. Bartolomeo – regna dal 1991 –, rifacendosi agli antichi Concili ecumenici, che diedero alla “nuova Roma” privilegi simili alla antica, rivendica il suo ruolo di primus inter pares tra i primati ortodossi; i patriarchi russi (Aleksij II e, poi, dal 2009, Kirill) lo accusano però di voler strafare, quasi fosse “il papa degli ortodossi”. Aspro è il loro dissenso sulla “giurisdizione” di alcuni paesi: l’Estonia, ad esempio, deve dipendere da Mosca, come questa sostiene, o da Costantinopoli, come affermano i greci? E l’Ucraina? Sullo sfondo un dato, pur non teologico, che pesa: Bartolomeo sovraintende a circa cinquemila ortodossi in Turchia (erano milioni, stante l’impero ottomano, in Anatolia) e a tre milioni tra Europa occidentale e due Americhe; il patriarcato di Mosca, invece, ha sotto di sé circa il 65-70% dei duecento milioni di ortodossi nel mondo, e un centinaio di milioni in patria. Una sproporzione invalicabile.
La questione religiosa ucraina viene poi avvelenata, e appesantita, dal contrasto politico-militare tra Mosca e Kiev, che ha portato, ancor oggi accesa, a una guerra “a bassa intensità” (ma ha fatto diecimila vittime!), nella zona del Donbass e, nel marzo 2014, alla occupazione della Crimea da parte russa. “Aggressione” la definiscono il governo di Kiev, il “patriarca” Filaret e Sviatoslav Shevciuk, arcivescovo maggiore dei greco-cattolici; “liberazione e ritorno alla patria”, secondo il Cremlino – e, implicitamente, per Kirill – perché la Crimea, russa dal 1783, era stata sbrigativamente “regalata” all’Ucraina sovietica da Kruscëv nel 1954.
Su questo sfondo si pongono gli eventi susseguitisi nei due ultimi anni. Kirill, pur dopo aver annunciato la sua partecipazione al Concilio ortodosso di Creta, che si sarebbe celebrato nell’isola greca nel giugno 2016, pochissimi giorni prima che esso iniziasse informò che lui e la sua delegazione avrebbero disertato l’appuntamento. “Un sabotaggio”, sentimmo dire, là, da molti padri “conciliari”. E, di fatto, quell’assenza amputò l’autorevolezza ecclesiale di quella pur importante Assemblea. Calò il gelo tra Costantinopoli e Mosca.
Il 9 aprile 2018 il presidente ucraino Petro Poroshenko si è recato al Fanar per chiedere il riconoscimento di una Chiesa autocefala ucraina, che raccoglierebbe le tre Chiese ortodosse del paese; il 19 aprile il parlamento di Kiev ha appoggiato la richiesta. Bartolomeo ha assicurato che lui con il suo Sinodo avrebbero studiato a fondo la questione. Allora il metropolita Hilarion di Volokolamsk, “ministro degli esteri” del patriarcato russo, ha replicato: la “pretesa” ucraina non ha fondamento canonico; e, se accolta da Costantinopoli, drammatiche sarebbero state le conseguenze per l’intera Ortodossia.
D’altra parte, un’”autocefalia” di Kiev farebbe perdere a Mosca, in prospettiva, molto suo clero, che è di origine ucraina. Kirill ritiene che l’analogia con altre Chiese autocefale – la romena, la bulgara, la greca, la serba… – che nel loro paese sono la Chiesa ortodossa nazionale, non possa valere per il caso ucraino, perché la Chiesa russa è sovranazionale, e al suo patriarcato appartengono metropoliti che guidano sue Chiese in Ucraina, Estonia, Lettonia, Kazakhstan, Uzbekistan, Azerbaigian, Bielorussia, Moldova…
LO SCENARIO DI UN EVENTUALE SCISMA TRA LA NUOVA E LA TERZA ROMA
Kirill, insieme con Hilarion, per due ore e mezza il 31 agosto scorso ha incontrato al Fanar il patriarca che era accompagnato dal metropolita Emmanuel di Francia. La delegazione, poi, non si è fermata per il pranzo, dove era attesa, ed è ripartita subito per Mosca. Le due Parti, senza entrare nei dettagli, hanno detto di aver discusso in spirito fraterno; lasciava tuttavia meravigliati che, nella sua dichiarazione prima di tornare in patria, Kirill non avesse mai pronunciato la parola “Ucraina”, come tema affrontato; mentre quel nome lo ha fatto Emmanuel, facendo intendere che la procedura per l’attesa “autocefalia” non si si sarebbe fermata.
Se, in teoria, sul “vertice” erano possibili valutazioni attendiste, a darne l’aspra interpretazione autentica ci hanno pensato i protagonisti. L’8 settembre, dopo una riunione di urgenza, il Santo Sinodo di Mosca, in una dichiarazione proclamava la “decisa protesta e profonda indignazione” per la decisione “anti-canonica” con la quale il giorno prima Costantinopoli, senza consultarsi con la Chiesa russa, nominava due suoi vescovi del Nord America – Daniil (Usa) e Hilarion (Canada) – come “esarchi” in Ucraina, cioè aventi, là, il compito di “preparare la concessione dell’autocefalia”. «Bartolomeo – chiosava il “ministro degli esteri” del patriarcato russo – risponderà della sua azione di fronte al giudizio di Dio e a quello della storia».
Poi, il 14 settembre, in una sua riunione straordinaria lo stesso Santo Sinodo – che, insieme al patriarca, ha raccolto una quindicina di metropoliti e di alti dirigenti della Chiesa russa – lanciava un solenne ultimatum a Costantinopoli. Il testo fa un’ampia ricostruzione della storia del Cristianesimo da Kiev a Mosca, e dei rapporti di questa con Costantinopoli. È vero – afferma – che la fede cristiana arrivò prima a Kiev, e poi a Mosca, rimanendo Costantinopoli il punto di riferimento ecclesiale; ma, a partire dal XV secolo Mosca si regolò da sola, fino a diventare, nel Cinquecento, patriarcato, del quale è diventata parte l‘Ucraina: questa, perciò, si trova nel “territorio canonico” del patriarcato russo; e Bartolomeo, volendo legiferare in essa, o inviandovi “esarchi”, si immischia negli “affari” interni di un’altra Chiesa ortodossa, il che – concludeva la dichiarazione – è vietato dai canoni degli antichi Concili.
Poi, venendo all’attualità, afferma:
«Nel gennaio 2016 all’incontro dei primati delle Chiese locali [presente Kirill] a Chambésy, Ginevra, Bartolomeo pubblicamente indicò il metropolita Onufryi come “il solo primate canonico della Chiesa ortodossa in Ucraina”. E allora il patriarca promise che né durante il Concilio di Creta, né dopo, avrebbe legittimato lo scisma [di Filaret e degli “autocefali”] o garantito, unilateralmente, l’autocefalia a quella Chiesa. Prendiamo atto con grande rincrescimento che quella promessa è stata violata… con una decisione anti-canonica che costituisce un diretto appoggio allo scisma ucraino».
Conclusione: «Il patriarcato di Mosca è costretto a sospendere la commemorazione liturgica del patriarca Bartolomeo. Inoltre, con grande dispiacere, sospendiamo la concelebrazione con autorità del patriarcato di Costantinopoli, e così pure la partecipazione della Chiesa ortodossa russa in Assemblee episcopali, in dialoghi teologici, in commissioni multilaterali e simili strutture presiedute o copresiedute da rappresentanti del patriarcato di Costantinopoli. Se questo prosegue le sue attività anti-canoniche nel territorio della Chiesa ortodossa ucraina [quella guidata da Onufry], saremo costretti a interrompere totalmente la comunione eucaristica con esso. La piena responsabilità di queste tragiche conseguenze e di questa divisione incombe personalmente su Bartolomeo e su quanti stanno con lui. Chiediamo alle Chiese autocefale sostegno in questo momento difficile. Facciamo appello ai primati di tutte le Chiese perché ben comprendano la nostra responsabilità condivisa per il destino del mondo ortodosso».
La Chiesa sotto accusa, però, contesta questa ricostruzione. Un autorevole rappresentante del patriarcato, l’arcivescovo Job di Telmessos, in un’intervista del 15 settembre ad una agenzia ucraina ha affermato: «Costantinopoli si è sempre considerata – canonicamente – la “Chiesa-madre” dell’Ucraina; non fu legittima la presa ecclesiale russa del paese; il Fanar, e solo lui, ha il diritto di proclamare la “autocefalia” della Chiesa ucraina, come nei secoli XIX e XX ha proclamato quelle delle Chiese di Romania, Serbia, Bulgaria; anche la Chiesa ucraina legata a Mosca, nel 1991, voleva l’autocefalia! Il patriarcato ecumenico – ha sottolineato – non propone l’autocefalia in Ucraina come arma di guerra, ma come medicina per sanare uno scisma ecclesiale che dura da trent’anni». Ed ha concluso rilevando che sarebbe increscioso che Mosca facesse uno scisma per ragioni canoniche, quando non è in questione nessun dogma di fede.
A questo punto manca un solo passo perché Mosca proclami lo scisma, cioè la cancellazione nei dittici – l’elenco, nella divina liturgia, dei capi delle Chiese sorelle con le quali si è in comunione – del nome di Bartolomeo. Sarebbe uno scisma eucaristico, dunque lacerante. Le altre dodici Chiese ortodosse dovrebbero, poi, scegliere da che parte stare. Finora, solo l’arcivescovo Hieronymos di Atene si è schierato con Costantinopoli; quasi tutti i patriarchi, invece, con Mosca: Theophilos III, di Gerusalemme; Theodoros II di Alessandria (Filaret è “scismatico”); Ilia II della Georgia; Johannes X di Antiochia; Irenej di Serbia («quanto sta succedendo in Ucraina è molto pericoloso o addirittura catastrofico, probabilmente fatale per l’unità della Santa Ortodossia»). Non si sa, per ora, la reazione del patriarca rumeno Daniel.
Gran parte dell’Ortodossia mette dunque in dubbio il ruolo di Bartolomeo come primus inter pares. E il papa di Roma? Imbarazzatissimo, e attento a non schierarsi; prudentissimi anche la Curia romana e la diplomazia pontificia. Ma se i contendenti si appellassero a lui per un arbitrato? Egli farebbe quello che, talora, il papato romano fece nel primo millennio… Se però fallisse? Intanto – primo “effetto collaterale” dello scisma, che poi lambirà anche il Consiglio ecumenico delle Chiese – va in crisi la commissione mista cattolico-ortodossa, istituita nel 1980 per affrontare i problemi teologici pendenti (primo fra tutti il ruolo del vescovo di Roma nell’ecumene); infatti, essa, con un cardinale romano, è co-presieduta da un metropolita di Costantinopoli… dunque out per Mosca.
Un terremoto ecclesiale, dalle conseguenze devastanti, incombe sull’Ekklesìa, e per ragioni estranee all’Evangelo. Ma se, stante il muro tra Mosca e Costantinopoli, il “popolo ortodosso” ucraino, il quale – lo abbiamo constatato in loco – fatica a sentirsi rappresentato da diatribe come queste, e superando le sue stesse lacerazioni interne, in ciò sollecitato da gruppi più arditi della diaspora ortodossa in Occidente, con una pacifica e dolente insurgenza obligasse i “vertici” a un soprassalto di audacia ecclesiale, e di fantasia creativa per immaginare soluzioni canoniche mai esperimentate, pur di impedire l’irreparabile? Intanto, all’aeroporto di Istanbul l’aereo per Kiev è sulla pista, in attesa del tomos. Qualcuno lo fermerà?
LA QUESTIONE UCRAINA INNESCA UNO SCISMA
2 Novembre 2018
di Luigi Sandri.
Dopo le “sciabolate” estive, in ottobre hanno fatto un passo avanti verso lo scisma ufficiale i patriarcati di Mosca e Costantinopoli irriducibilmente divisi sulla questione della “autocefalia” della Chiesa ortodossa ucraina.
A settembre, in seguito al problematico incontro del 31 agosto, a Istanbul, tra il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, e quello di Mosca, Kirill, il primo aveva proseguito con iniziative che andavano nel senso opposto ai desiderata dei russi, che reagirono perciò con durezza [vedi Confronti 10/18].
LA STRADA DI BARTOLOMEO
Ma, convinti di fare la cosa giusta, Bartolomeo e il suo Sinodo l’11 ottobre hanno infine deciso di: 1) “procedere” alla concessione dell’autocefalia della Chiesa ucraina; 2) ristabilire nei loro ranghi gerarchici Makariy Maletich (della piccola e già esistente Chiesa autocefala ucraina) e Filaret Denisenko, l’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev, nel 1997 scomunicato dal Santo Sinodo russo, del quale pure aveva fatto parte per tanti anni; 3) revocare il vincolo giuridico della Lettera sinodale del 1686, che dava al patriarca di Mosca il diritto di ordinare il metropolita di Kiev; 4) lanciare un appello «a tutte le parti coinvolte, perché evitino l’indebita appropriazione di chiese, monasteri e altre proprietà, e qualsiasi altro atto di violenza».
LA RISPOSTA DEL SINODO DI MOSCA
Fermissima, il 15 ottobre, la risposta del Santo Sinodo di Mosca, riunitosi a Minsk, in Bielorussia: 1) interruzione della comunione eucaristica con Costantinopoli (teologicamente, la proclamazione dello scisma), e proibizione agli ortodossi russi di partecipare alle liturgie di quella Chiesa; 2) accuse a quel Sinodo di aver violato i canoni stabiliti dai Concili ecumenici; 3) rivendicazione dell’Ucraina come proprio territorio canonico; 4) inammissibilità della revoca della lettera del 1686 (che, secondo Mosca, affidava “per sempre” a essa la metropolia di Kiev, mentre ora Costantinopoli sostiene essersi trattato di una decisione “temporanea”, e “revocabile” anche dopo secoli); 5) scandalo per la riabilitazione dello “scismatico” Filaret.
Perché la decisione “politica” del Sinodo costantinopolitano diventi concreta, occorre però che esso appronti un tomos ad hoc, cioè un documento ufficiale che stabilisce esattamente i termini dell’autocefalia. Allora sarà il momento della verità: si vedrà la “composizione” della futura Chiesa autocefala. Per ora, in Ucraina l’Ortodossia è spezzata in tre: una, legata a Mosca (un terzo delle circa trentamila parrocchie dell’intera Chiesa russa stanno in quel paese!); il “patriarcato” di Kiev; la Chiesa autocefala (del tutto distinta da quella di cui si discute). Queste due – finora non riconosciute da nessuno nell’Ortodossia – formeranno la nascente Chiesa autocefala; ma, da sole, esse rappresentano solo un terzo degli ortodossi ucraini, perché i due terzi (alcuni dicono: la metà) appartengono alla Chiesa legata a Mosca.
Quanti di questi ucraini-russi rimarranno con la Chiesa oggi guidata dal metropolita Onufry, e quanti passeranno alla neonata “autocefala”? Se i “trasmigratori” saranno davvero molti, e magari la maggioranza, avranno vinto Bartolomeo e il presidente ucraino Petro Poroshenko che il 9 aprile scorso si era recato apposta da quel patriarca, per chiedere il tomos dell’autocefalia (un auspicato traguardo che, a suo parere, rappresenterà «la caduta della Terza Roma [Mosca]); se, invece, la Chiesa ucraino-russa manterrà sostanzialmente i suoi fedeli, avrà vinto Kirill. Per chi perderà la “scommessa”, il fallimento sarà rovinoso. Al di là dei numeri, è comunque assai probabile che sorgano contrasti, per non dire atti di violenza – magari per il possesso dell’unica chiesa del villaggio – tra ortodossi “ucraini” (considerati patrioti) e “filo-moscoviti” (considerati “traditori” dal governo di Kiev). E chi dovrebbe difendere questi ultimi, se le cose prendessero una brutta piega?
LA RISPOSTA DI PUTIN
Meraviglia assai che in Occidente non si sia dato rilievo a un dettaglio: Vladimir Putin, subito dopo la decisione dell’11 ottobre, ha riunito il Consiglio russo per la sicurezza, per discutere della Ortodossia in Ucraina. Lo “zar” voleva predisporre le sue mosse nel caso in cui Poroshenko, che ha legato le sue fortune politiche alla “autocefalia”, favorisse misure repressive contro gli ortodossi ucraino-russi. E il ministro degli esteri del Cremlino, Serghiei Lavrov, ha definito quella organizzata da Bartolomeo «una provocazione con il diretto sostegno pubblico di Washington»!
Quali che siano ragioni e torti nel Da (sì) o Niet (no) all’autocefalia, su essa pesano questioni geopolitiche e nazionaliste, con risvolti militari – perché nell’Ucraina orientale continuano gli scontri tra ucraini e filo-russi (sostenuti dal Cremlino), mentre Poroshenko esige la restituzione della Crimea “brutalmente occupata”, che Putin, con la sua annessione, approvata da un referendum nel 2014 ma non riconosciuto dalla comunità internazionale, ormai ritiene “per sempre” russa.
Dal punto di vista canonico, il cuore della discordia è la questione del “territorio canonico”: per il patriarcato russo l’Ucraina fa parte del “suo” territorio e, dunque, ritiene intollerabile che Costantinopoli abbia osato intervenire in esso. Analoga contesa tra i due patriarcati per la giurisdizione sull’Estonia, nel 1996 portò Mosca a proclamare uno scisma, chiuso però dopo sei mesi con un compromesso: la compresenza, a Tallinn, di due vescovi ortodossi, l’uno legato alla Chiesa russa, l’altro a quella di Bartolomeo. Insopportabile, per Kirill, e “inaudita interferenza politica”, è poi che la richiesta ufficiale dell’autocefalia sia stata presentata dal presidente ucraino, e confermata dal parlamento di Kiev. A tali obiezioni il Sinodo di Bartolomeo replica, apportando ampia documentazione storica: l’Ucraina è parte del “suo” territorio canonico, anche perché Bisanzio è stata la Chiesa-Madre che inviò missionari a Kiev dove infine, nel 988, portarono il principe Vladimir a farsi battezzare. Del resto, secondo il patto del 1686 il metropolita di Kiev doveva porre al primo posto, nella liturgia, il patriarca di Costantinopoli.
Catastrofica, comunque, sul fronte intra-ortodosso, è la deflagrazione della questione ucraina: le quattordici Chiese autocefale ora dovranno schierarsi. Dopo l’11 ottobre, il patriarca di Antiochia, Johannes X, ha dato torto a Bartolomeo; e così Ireneo di Serbia; pure un metropolita bulgaro si è schierato con Mosca. Qualche rara voce sostiene che dovrebbe essere un Concilio panortodosso a dirimere la vertenza: epperò Mosca non lo vuole; del resto, pur dopo aver assicurato la sua partecipazione al Concilio ortodosso di Creta del 2016, lo aveva poi disertato. Esso, comunque, non avrebbe potuto, per l’opposizione previa di Kirill, mettere in agenda i criteri per concedere l’autocefalia, sui quali russi e greci divergono. Osserva Bartolomeo: nell’Ottocento e Novecento è stato il patriarca di Costantinopoli – primus inter pares – a dare il tomos dell’autocefalia alle Chiese di Romania, Serbia e Bulgaria.
BUIO SULL’ECUMENISMO
Anche il Consiglio ecumenico delle Chiese – del quale sono membri le due Chiese in dissidio – è in enorme imbarazzo. E ancora più lo è papa Francesco (che il 19 ottobre ha ricevuto in udienza privata il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, “ministro degli esteri della Chiesa russa”): ormai la commissione mista cattolico-ortodossa, attiva dal 1980, viene depotenziata, perché Mosca – che rappresenta quasi i tre quarti dei duecento milioni di ortodossi nel mondo – ha annunciato che non prenderà più parte a organismi co-presieduti da un rappresentante di Costantinopoli. Come, appunto, quella commissione.
Il buio scende sul cammino ecumenico di tanti anni. Forse ai semplici fedeli ortodossi dei paesi coinvolti nulla interesserà delle beghe dei loro capi; e nelle liturgie continueranno a pregare con devozione, senza preoccuparsi a quale Chiesa appartengano. Forse. Perché lo scisma in atto è potenzialmente lacerante. Infatti, le due Parti in contrasto citano, sì, canoni e eventi storici per sostenere le proprie tesi; mai, però, l’Evangelo. Che, infatti, non potrebbe essere addotto per questioni di potere ecclesiastico.
DOPO LA SCELTA DI KIEV UN FUTURO INQUIETANTE
7 Febbraio 2019
di Luigi Sandri.
Il 5 gennaio a Istanbul il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, presente il presidente ucraino Poroshenko, ha firmato il “tomos” – decreto sinodale – che concede l’autocefalia alla neonata Chiesa ortodossa d’Ucraina; e l’indomani l’ha consegnato al neo-primate Epifanyi. Che il patriarcato di Mosca, furente, considera “scismatico”.
Ora che lo “scisma” tra i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli – irrimediabilmente divisi sulla questione dell’autocefalia (indipendenza) della Chiesa ortodossa in Ucraina – è stato consumato, ci pare utile qualche considerazione sulle ragioni apportate dai protagonisti della vicenda, e su «che cosa», ora, prevedibilmente accadrà. Lasciando sullo sfondo quanto già raccontato [vedi Confronti 10 e 11/18, 1/19], rivisitiamo i tre fronti della “battaglia”: ucraino, moscovita, costantinopolitano.
Il 5 gennaio, nella cattedrale di san Giorgio al Fanar (antico quartiere di Istanbul, residenza dei patriarchi di Costantinopoli) Bartolomeo I ha firmato il tomos – decreto sinodale – con il quale, come Chiesa-madre a una Chiesa-figlia, concedeva la “autocefalia” alla neonata Chiesa ortodossa in Ucraina.
Alla solenne cerimonia erano presenti il presidente ucraino Petro Poroshenko, e il metropolita di Kiev e primate della nuova Chiesa, Epifanyi, eletto a quella carica il 15 dicembre, da un Concilio per la riunificazione – “Conciliabolo”, secondo il patriarcato russo – formato da delegati del “Patriarcato di Kiev” e della piccola e preesistente Chiesa autocefala ucraina. Presenti anche due (due, su novanta) vescovi della Chiesa ortodossa ucraina legata a Mosca, che gode di amplissima autonomia, e fino al momento la più numerosa nel paese. Essa è guidata dal metropolita Onufryi. Il 6 gennaio Bartolomeo ha consegnato a Epifanyi il tomos che poi già l’indomani era esposto nella cattedrale di Santa Sofia, a Kiev, a perenne memoria dell’evento.
Sul lato ucraino, il protagonista principale – ci pare – è stato colui che fino al 15 dicembre 2018 era il “patriarca” di Kiev (“cosiddetto”, secondo Mosca), Filaret. Nato in Ucraina nel gennaio 1929, Mykhailo Antonovych Denysenko, diventato monaco – con il nome di Filaret – e poi prete, fece tutti i suoi studi in Russia e rappresentò poi il patriarcato di Mosca in varie missioni all’estero. Infine, fu scelto come metropolita di Kiev e, come tale, per anni fu membro permanente del Santo Sinodo di Mosca. Quando, nel maggio 1990, morì il patriarca russo Pimen, Filaret fu locum tenens del patriarcato. Egli sperava di diventare il successore del defunto, ma fu invece eletto Aleksij II, già metropolita di Leningrado. Pieno di rancore – questa l’accusa dei moscoviti – per la mancata nomina, nel ’92 (l’anno prima era collassata l’Urss e nata l’Ucraina indipendente) Filaret favorì la nascita del “patriarcato di Kiev”, al quale aderì una parte minoritaria degli ortodossi ucraini: il Concilio episcopale russo lo ridusse, allora, allo stato laicale. Ma egli nel ’95 accettò l’elezione a “patriarca” di Kiev: e perciò, nel ’97, lo stesso Concilio lo scomunicò. Bartolomeo riconobbe legittime le due punizioni.
Filaret, sdegnato, rifiutò quei provvedimenti, e continuò a ordinare preti e vescovi. Si adoperò perché Costantinopoli riconoscesse il “patriarcato” di Kiev; infine è stato il massimo sostenitore del “Concilio” del 15 dicembre. Bartolomeo e il suo Sinodo l’11 ottobre ‘18 gli avevano tolto le censure comminategli dall’episcoparo russo; una provocazione intollerabile, per quest’ultimo. I critici di Filaret sostengono che, stante l’Urss, egli fosse legato al Kgb: accusa, a dire il vero, rivolta a tutto l’establishment della Chiesa russa del tempo sovietico; e quindi da valutare criticamente e imparzialmente (tutti gli ecclesiastici di alto rango che viaggiassero all’estero, rientrati in patria dovevano in qualche modo riferire ai servizi di sicurezza russi). Gli ucraini fautori della nuova (quindicesima) Chiesa autocefala, considerano Filaret un padre della patria e della Chiesa. I suoi avversari, invece, ritengono che egli abbia agito per orgoglio. Il “Concilio” gli ha attribuito il titolo di “patriarca emerito di Kiev”. Il quale conta ancora molto perché l’ora quarantenne Epifanyi è una sua creatura, quasi un alter ego.
Sul fonte politico, è Poroshenko il grande vincente per la nascita della Chiesa indipendente.
Egli, in opposizione a Mosca (suo lo slogan: «Via da Putin, via da Kirill»), si è battuto con energico e pubblico impegno per la “autocefalia” ucraina, e vorrebbe che la Chiesa filorussa esprimesse anche nel nome… che dipende da una autorità straniera, il patriarcato russo. Ma la sua trasbordante presenza – al “Concilio” e alle cerimonie del Fanar – hanno impresso un tale sigillo politico e nazionalista alla vicenda da esacerbare i russi e, forse, infastidire i gerarchi di varie Chiese ortodosse. Però – salvo possibili differimenti – il 31 marzo si vota in Ucraina, per l’elezione presidenziale. A dicembre i sondaggi davano appena il 10% dei voti a Poroshenko: a questi, eletto nel giugno 2014, si rimprovera di non aver recuperato la Crimea, occupata e poi annessa dai russi nel marzo di quell’anno; di non aver sconfitto la Russia nel Donbass (dove la guerra “a bassa intensità” in cinque anni ha fatto diecimila vittime); di non aver tratto l’Ucraina fuori dalla sua grave crisi economica. Lui, però, è convinto che la sua battaglia per la “autocefalia” convincerà il popolo a rieleggerlo presidente. Le urne, tra poche settimane, diranno…!
Sul fronte russo, la vicenda ucraina ha visto la costante presenza del patriarca di Mosca, Kirill; e poi un convitato di pietra, il presidente Vladimir Putin. Dopo vari altri interventi, il 31 dicembre il capo della Chiesa russa ha scritto una lettera, dai toni drammatici, a Bartolomeo, ritenuto reo, con la sua iniziativa “scismatica”, per: 1) aver interferito nel “territorio canonico” della Chiesa russa, dato che proprio un suo predecessore, Dionigi IV, nel 1686 aveva affidato a Mosca la metropolia di Kiev; 2) aver restituito dignità ecclesiale a Filaret, pur scomunicato dal Concilio episcopale russo, come se questo nulla contasse; 3) aver sostenuto il “Conciliabolo” del 15 dicembre 2018. Conclusione: Kirill scongiurava Bartolomeo di annullare il programma annunciato per il 5 e 6 gennaio a Istanbul: «Non è troppo tardi per fermarlo». Al di là di queste motivazioni, ve ne è una, inespressa, che molto preoccupa Kirill: se la Chiesa ucraina guidata da Onufryi iniziasse a sgretolarsi, con intere parrocchie e diocesi che passassero alla neonata Chiesa autocefala, gravissime sarebbero, per i filorussi, le perdite di edifici, personale, strutture.
E se un domani – questa la domanda cruciale – facessero lo stesso le Chiese, oggi legate al patriarcato di Mosca, di Bielorussia, Lituania, Lettonia, Estonia, Kazakhstan, Uzbekistan, Moldova? La rivendicata “sovra-nazionalità” del patriarcato russo andrebbe in frantumi. È vero che i legami storici ed ecclesiali tra Mosca e Kiev non hanno paragoni, per la loro unicità; e, tuttavia, guardando in lunga prospettiva, la frana avviata con l’Ucraina potrebbe riproporsi in altri casi.
Versante politico: a differenza dell’“onnipresente” Poroshenko, Putin formalmente ha mantenuto un low profile. Ma già da ottobre aveva fatto sapere che non avrebbe tollerato violenze contro ucraini filo-moscoviti. I quali, se considerati in patria “traditori”, potrebbero ora trovarsi in situazioni spiacevolissime. In effetti, è sul filo del rasoio, a Kiev, la distinzione tra amore per la patria, scelta della propria Chiesa, libertà religiosa, separazione tra Chiesa e Stato. In ogni caso, il capo del Cremlino conta che gli ortodossi filorussi non mettano in discussione quella che lo “zar” considera “liberazione della Crimea” mentre per gli ucraini filo-Kiev si tratta di brutale “occupazione e annessione illegale”, da rovesciare. Ad aggrovigliare l’aspetto politico vi è Donald Trump, favorevolissimo alla Chiesa di Epifanyi, un tassello in più – egli pensa – per dare comunque addosso alla Russia.
Saranno i fatti, adesso, a premiare speranze o a stroncarle. Se la Chiesa ucraina filorussa rimarrà sostanzialmente compatta, l’intero disegno Filaret-Pososhenko-Bartolomeo andrà in fumo. Se invece essa iniziasse a sgretolarsi, esso sarebbe premiato. Ma, intanto, come si porranno – tolte la russa, la costantinopolitana e la neonata ucraina – le rimanenti dodici Chiese ortodosse autocefale?
Al momento il panorama è nebbioso: a favore di Kirill si è schierato il metropolita di Varsavia, Sawa, primate della Chiesa ortodossa di Polonia. Da parte sua, il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, il “ministro degli esteri” del patriarcato di Mosca, il 10 gennaio a Gerusalemme ha incontrato il patriarca greco di quella città, Theophilos III, per convincerlo a porsi pro-Kirill: ci è riuscito? Non si sa. Chrysostomos II, capo della Chiesa autocefala di Cipro, pare aver scelto Mosca; così, anche l’arcivescovo di Tirana, Anastasios. Filo-Kirill il patriarca serbo Irenei, e quello di Antiochia, Johannes X: questi ha poi proposto che sia un Concilio panortodosso a dirimere la questione ucraina (ma chi potrebbe convocarlo, e su quale ordine del giorno, stante il dissidio in atto, e dato che la Chiesa russa rifiuta assolutamente un Bartolomeo che faccia “il papa degli ortodossi”?). Anche Bartolomeo dunque, rischia credibilità e autorità. Ma, il suo, era un rischio obbligato. Umiliato da Kirill che, nel giugno 2016, all’ultimo momento aveva disdetto la partecipazione della Chiesa russa al Concilio di Creta, con la vicenda ucraina ha cercato di rientrare in scena.
Infatti una forte Chiesa ucraina autocefala sarebbe un contraltare alla straripante Chiesa russa che, da sola, conta il 70% dei duecento milioni di ortodossi nel mondo; infatti, se essa raccogliesse tutti gli ortodossi ucraini, sarebbe la seconda Chiesa ortodossa al mondo, per numero di fedeli, e dunque capace di aprire un’efficace dialettica con Mosca.
In Turchia il patriarcato ecumenico – primus inter pares nell’Ortodossia – ha meno di cinquemila fedeli: una piccolezza numerica che rischia di diventare irrilevanza ecclesiopolitica.
Se l’operazione ucraina si imporrà, si rafforza il ruolo di Costantinopoli, e gli ucraini – che aspettano Bartolomeo a Kiev per accoglierlo trionfalmente – saranno riconoscenti in eterno alla “Chiesa-madre” che li ha liberati dal “giogo” di Mosca; altrimenti, dolorosa sarebbe la sconfitta.
La lite tra la “seconda” Roma, Costantinopoli, e la “terza”, Mosca, pone in estremo imbarazzo la “prima” Roma, cioè il papato (non a caso Francesco, finora, non ha mai parlato!). Ma, in realtà, il Vaticano si esprime. Infatti, monsignor Andrea Palmieri, sottosegretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, su L’Osservatore romano del 19 gennaio, in un articolo dedicato al dialogo teologico tra le Chiese cattolica e ortodossa – dal 1980 in mano ad una commissione mista – scrive:
«Nonostante la posizione di assoluta neutralità della Chiesa cattolica sulla questione dell’autocefalia ucraina, è gravida di conseguenze potenzialmente negative la decisione del Santo Sinodo del patriarcato di Mosca, del 14 settembre».
Il quale, quel giorno, ha stabilito: la Chiesa russa diserterà ogni commissione (come la citata!) che preveda la co-presidenza di un delegato del patriarcato di Costantinopoli. E lo scisma – forse più aspro di quello del 1054, che separò le due Rome di allora – taglia come una spada l’intera oikoumene, che inevitabilmente dovrà schierarsi per l’una o l’altra parte.
Saprà, l’Ortodossia, superare la sua crisi? Oppure Mosca non citerà più Bartolomeo nei dittici, le preghiere della divina liturgia in cui si ribadisce la comunione con i singoli capi delle Chiese sorelle autocefale, rimanendo dunque in stato di scisma con lui? O, invece, esso sarà ricucito? Lo chiederebbero la ragionevolezza e, anche, molti semplici fedeli sconcertati da un tale asperrimo contrasto; e l’Evangelo, questo sconosciuto nella disputa ucraina.
SI ACUISCE LO SCISMA TRA MOSCA E IL FANAR
5 Aprile 2019
di Luigi Sandri.
Piervy sriedì ravnikh oppure Piervy biez ravnykh? Questi, in russo, i lemmi giuridici latini Primus inter pares (primo tra pari) o Primus sine paribus (primo senza pari, cioè senza uguali)? La divergente risposta che danno all’interrogativo il Patriarcato di Mosca, oggi guidato da Kirill, e quello di Costantinopoli, retto da Bartolomeo I, fonda il loro irriducibile contrasto sulla autocefalia (indipendenza) della Chiesa ucraina. Una drammatica disfida che ha spinto i vertici della Chiesa russa a proclamare l’interruzione della comunione eucaristica – cioè lo scisma in senso stretto – per le scelte della consorella che ha la sua base a Istanbul, nel quartiere del Fanar.
Riassumiamo una vicenda tormentata, di cui abbiamo scritto più volte su Confronti. Il 19 aprile 2018 la Verkhovna Rada (parlamento di Kiev) aveva fatta sua la richiesta del presidente Petro Poroshenko al Fanar di concedere l’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina. Bartolomeo, senza rispondere con un rotondo “sì”, lo lasciava balenare, allarmando così Mosca. In settembre, poi, accettava la proposta, per finalmente – sosteneva – riunire le tre Chiese ortodosse del paese:
Chiesa ortodossa, legata a Mosca, e guidata dal metropolita di Kiev, Onufry;
Patriarcato di Kiev, in mano a Filaret;
Chiesa autocefala ucraina, una modesta comunità.
La prima è la più numerosa; le altre due, sorte nel 1992 dopo il collasso dell’Urss e la nascita dell’Ucraina indipendente, sono considerate scismatiche da Mosca (che già nel 1995 aveva ridotto allo stato laicale, e nel ’97 scomunicato Filaret, l’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev). Kirill, il 31 agosto ‘18 si recava da Bartolomeo, per fermarlo: ma questi con il suo Sinodo procedeva, infine “benedicendo” un “Concilio per la riunificazione” – considerato illegale da Mosca – che il 15 dicembre ha poi dato vita, a Kiev, alla Chiesa ortodossa d’Ucraina, formata dal Patriarcato di Kiev e dalla Chiesa autocefala ucraina, e eletto come primate Epifany. Poroshenko si è speso moltissimo per l’intera operazione: una pressione politica assai indigesta per i russi. Poi il 5 gennaio Bartolomeo ha firmato il tomos (decreto sinodale) dell’autocefalia e l’indomani lo ha consegnato al nuovo primate.
Ai russi che contestavano la legittimità canonica della decisione, il patriarcato ecumenico replicava invocando il suo diritto di concedere l’autocefalia agli ucraini: come dimostrerebbe la storia ecclesiale dei Balcani – della quale qui diamo una nostra sintesi.
Quando la Bulgaria, nel 1393, cadde in mano turca, perse la sua autocefalia. Cinque secoli dopo, nel 1870 il governo ottomano permise la ricostituzione di una Chiesa nazionale bulgara; ma il Fanar la dichiarò scismatica, e solo nel 1945 esso riconobbe l’autocefalia della Chiesa bulgara, e pose fine allo scisma. Altro caso: nel 1922 la Chiesa ortodossa albanese si proclamò autocefala, decisione non riconosciuta da Costantinopoli e da gran parte dell’episcopato greco (irritati che a Tirana si usasse l’albanese, invece del greco, come lingua liturgica). Ma, infine, nel 1937 il patriarcato ecumenico concesse l’autocefalia agli albanesi.
Ancora: dopo la fusione dei principati di Valacchia e Moldavia, la Romania divenne indipendente nel 1878. Il Fanar, sotto la cui giurisdizione stavano quando facevano parte dell’impero ottomano, riconobbe l’autocefalia della Chiesa romena nel 1885. Esso già nel 1879 aveva riconosciuto l’autocefalia della Chiesa serba. Invece contrasto vi fu, dopo il 1945, tra il Fanar e Mosca, per la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa cecoslovacca e, con la divisione nel 1993 di quel paese, a quella che è diventata la Chiesa delle terre céche e della Slovacchia il cui primate dal 2014 è Rostislav. L’autocefalia delle Chiese balcaniche iniziò, a quanto pare, senza obiezioni da parte di Mosca. Va però ricordato che dal 1721 al 1917 la Chiesa russa – per decisione di Pietro il grande, e poi dei successivi zar – rimase senza patriarca; e di nuovo senza, per volontà dei sovietici, dal 1925 al ’43. In ogni modo, rifacendosi a questi precedenti, ora Bartolomeo ribadisce di avere solo lui, e non altri, il diritto di concedere l’autocefalia. A Kiev, intanto, nella neonata Chiesa è stato istituito il Sinodo, di cui fa parte il “patriarca d’onore Filaret”. Il quale, novantenne, l’indomani del “Concilio” ha precisato che lui «rimane patriarca, perché questi è a vita e, insieme col primate, governa la Chiesa ortodossa d’Ucraina». Non solo: il 5 febbraio il Sinodo lo ha nominato vescovo della diocesi di Kiev (escluso il monastero di san Michele). Rimane però un mistero che cosa ciò significhi, dato che Epifany è metropolita di Kiev.
Affermando che Bartolomeo è “primo” sriedì ma non biez ravnykh, il santo Sinodo russo gli nega il diritto di prendere, da solo, decisioni riguardanti l’intera Ortodossia: egli può coordinare il lavoro degli “uguali a lui”, mai però interferendo negli affari interni delle altre Chiese sorelle, o addirittura ignorando il loro parere. Perciò, ribadisce Kirill: solo la Sinassi (riunione) dei capi delle Chiese autocefale – oggi quattordici, perché la quindicesima, l’ucraina nata il 15 dicembre 2018, non è riconosciuta da Mosca – potrebbe concedere a una Chiesa l’autocefalia.
Per i russi, il “come” siano nate le Chiese autocefale balcaniche non prova nulla; d’altronde nessuna di esse è paragonabile alla situazione ucraina, dove la maggior parte degli ortodossi, per ora, si riconosce nella Chiesa filo-russa che considera anti-canonico e scismatico il “Concilio” del 2018. Il 31 gennaio scorso a Mosca è stato solennemente celebrato il decimo anniversario dell’elezione di Kirill a patriarca. In un discorso ai rappresentanti di Chiese autocefale presenti (mancava Costantinopoli!) egli ha ironizzato sul “nuovo” principio del piervy biez ravnykh: per i russi – sottinteso – non può esistere un “papa” degli ortodossi.
Serbia. Come si è posizionata l’Ortodossia di fronte alla lacerazione in atto? Vediamo, per ora, la risposta di alcune Chiese europee. Il patriarca serbo, Irenej – che era stato a Mosca per il decennio di Kirill – e il suo Sinodo a fine febbraio hanno emesso una dichiarazione ufficiale. Premesso che lo stesso Irenej si era recato a Salonicco, per invitare il primus inter pares a tornare sui suoi passi, vista l’inutilità di questi sforzi «la Chiesa ortodossa serba:
Non riconosce l’anti-canonica “invasione” del patriarcato di Costantinopoli nel territorio canonico della santa Chiesa russa, dato che la metropolia di Kiev, che include dozzine di diocesi, nel 1686, sulla base di decisioni del patriarca di Costantinopoli, Dionigi IV, fu posta sotto quello di Mosca.
Non riconosce la “Chiesa autocefala d’Ucraina” che, dal punto di vista canonico, non esiste. Gli scismatici rimangono scismatici, a meno che, con una sincera confessione, non si pentano.
Non riconosce il “Concilio” di Kiev. Esso è erroneamente chiamato di “riunificazione” e ha disintegrato ancor più l’infelice Ucraina.
Non riconosce un episcopato scismatico, che appartiene all’ala di Denishenko [Filaret, ndr], ridotto [da Mosca, ndr] allo stato laicale e scomunicato.
Raccomanda ai gerarchi e al clero di astenersi da ogni comunione liturgica e canonica non solo con il Signor Epifany e con altri come lui, ma anche dai vescovi e chierici che concelebrano con loro… La Chiesa serba implora sua Santità il patriarca ecumenico di riconsiderare la decisione presa».
Romania. Più sfumata la posizione del Sinodo romeno, riunitosi il 21 febbraio:
Per circa trent’anni il problema della divisione [della Chiesa ortodossa, ndr] in Ucraina non è stato risolto.
Il patriarcato ecumenico ha deciso di uscire dall’impasse e ha concesso il tomos dell’autocefalia. Ma esso è stato accolto solo dall’Ortodossia ucraina non in comunione con Mosca; e così la questione dell’unità della Chiesa in Ucraina rimane non del tutto risolta.
Si raccomanda al patriarcato ecumenico e a quello di Mosca di trovare le vie per risolvere il contenzioso, per preservare l’unità nella fede, rispettare la libertà pastorale e amministrativa di clero e fedeli di quel paese (compreso il diritto all’autocefalia) e di ristabilire la comunione eucaristica.
Nel caso fallisca il dialogo bilaterale, è necessario riunire la Sinassi dei primati delle Chiese ortodosse per risolvere il problema pendente».
Il Sinodo insiste poi perché alle 127 parrocchie rumeno-ortodosse in Ucraina, soprattutto in Bukovyna (regione già della Romania, durante la Seconda guerra mondiale passata all’Ucraina sovietica) sia garantita piena libertà, e l’uso del rumeno nella liturgia. Proposte che Epifany – in procinto di recarsi a Bucarest – ha assicurato di accogliere (del resto nel paese opera un Vicariato ucraino ortodosso libero di organizzarsi).
Albania. Già il 4 gennaio il Sinodo della Chiesa albanese aveva invocato la Sinassi: una proposta che l’arcivescovo di Tirana, Anastasios, aveva comunicata a Bartolomeo, dieci giorni dopo, con una lettera resa nota solo il 7 marzo e, tradotta in russo, a Mosca pubblicata tre giorni dopo.
Il primate albanese deplora che la Chiesa russa abbia disertato il Concilio di Creta; e che abbia rotto la comunione eucaristica con il Fanar. Ma, insieme, critica a fondo Filaret (uno scomunicato che – ricorda – ha consacrato perfino vescovi, che perciò tali non sono!); e rifiuta di riconoscere la canonicità della Chiesa ucraina nata dal Concilio di dicembre.
E allora? Bartolomeo, che ha questo “privilegio esclusivo”, convochi una Sinassi, o un Concilio, «per scongiurare l’evidente pericolo dell’avvio di un doloroso scisma, che minaccia la solidità dell’Ortodossia e la sua persuasiva testimonianza al mondo d’oggi». Bartolomeo, ha risposto ad Anastasios il 20 febbraio (ma la lettera è stata pubblicata settimane dopo), ribadendo le proprie tesi (in particolare, la validità dell’ordinazione dei vescovi della nuova Chiesa d’Ucraina). Ma ignora del tutto l’auspicata riunione della Sinassi. In merito, dato che le decisioni di questa vanno prese all’unanimità, e siccome Mosca e Costantinopoli divergono sui criteri per concedere l’autocefalia, in passato si era stabilito di sottrarre la questione all’esame del Concilio ortodosso (poi celebrato nel 2016 a Creta: ma, all’ultimo momento, la Chiesa russa – che pur rappresenta circa il 70% dei duecento milioni di ortodossi nel mondo – rifiutò di partecipare).
Domanda: ciò che fu improponibile tre anni fa, sarà possibile adesso? Intanto, hanno condiviso le tesi russe Rostislav («Filaret è un impostore»), e Sava, primate degli ortodossi polacchi. Da altre Chiese autocefale vi sono state dichiarazioni di singoli gerarchi, spesso nebulose – come quelle di Theophilos III, patriarca greco di Gerusalemme. Si attendono impegnative parole dei vari Sinodi: saranno filo-russe le Chiese slave, e filo-Fanar quelle greche? Non è detto. Intanto si fa più profonda la faglia aperta nell’Ortodossia dal terremoto ecclesiale ucraino.
MORIRE PER KIEV? UN TRAGICO DUELLO ECCLESIALE
15 Luglio 2019
di Luigi Sandri (Redazione Confronti) e Paolo Emilio Landi (Regista teatrale e giornalista, rubrica Protestantesimo Rai 2).
[da Kiev, Ucraina]
Irrisolvibile. Questa, per ora, la nostra “diagnosi” – dopo aver ascoltato in loco le Parti contrapposte – del puzzle delle Chiese ortodosse ucraine, dove la maggioritaria [Cou], legata al patriarcato di Mosca, guidato da Kirill, considera “scismatica” la neonata e autocefala Chiesa ortodossa d’Ucraina [Codu], benedetta dal patriarcato di Costantinopoli, guidato da Bartolomeo, ma già insidiata dell’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev, Filaret, pur sponsor, con il presidente Petro Poroshenko, della “indipendenza” ecclesiale ucraina.
LE TAPPE DELLO SCISMA
Con una troupe di Protestantesimo (Raidue), guidata dal regista Paolo Emilio Landi, dal 22 al 25 giugno siamo stati a Kiev per meglio capire l’intricata vicenda: di essa molto ha già scritto Confronti, e qui riepiloghiamo per flash.
09/04/2018: Poroshenko si reca al Fanar, la residenza a Istanbul dei patriarchi di Costantinopoli, per chiedere la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ucraina. Il 19 la Verkhovna Rada (parlamento di Kiev) appoggia la proposta.
31/08: Kirill, accompagnato dal metropolita di Volokolamsk, Hilarion, “ministro” degli esteri del patriarcato russo, raggiunge il Fanar per ribadire il secco “no” della Chiesa russa all’ipotetica “autocefalia”. Bartolomeo rimane vago.
07/09: Il Fanar annuncia l’invio di due suoi vescovi a Kiev per preparare la concessione dell’autocefalia.
14/09: il Santo Sinodo di Mosca riconosce che quella di Kiev è anche la Chiesa-madre della Chiesa russa, ma ricorda che nel 1686 Costantinopoli affidò a lui la metropolia di Kiev; dunque il Fanar non può interferire nei suoi affari interni. Se Bartolomeo procederà con la “indipendenza” ucraina, Mosca sospenderà la sua partecipazione in Assemblee e commissioni presiedute o copresiedute da rappresentanti del patriarcato di Costantinopoli; e interromperà totalmente la comunione eucaristica con esso. E precisa: nel paese è canonica solo la Chiesa ortodossa ucraina [Cou], guidata dal metropolita Onufriy di Kiev, legata a Mosca.
15/09: l’arcivescovo Job di Telmessos (Fanar), ribadisce: Costantinopoli ha il diritto di proclamare la “autocefalia” dell’Ucraina, come nei secoli XIX e XX ha proclamato quelle delle Chiese di Romania, Serbia, Bulgaria.
11/10: Bartolomeo e il suo Sinodo decidono di: 1) “procedere” verso la “indipendenza” ucraina; 2) ristabilire nei loro ranghi gerarchici Makariy Maletich [della piccola e già esistente Chiesa autocefala ucraina] e Filaret Denisenko [l’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev, nel 1992 ridotto allo stato laicale e nel 1997 scomunicato dal Santo Sinodo russo, del quale pure aveva fatto parte per tanti anni]; 3) revocare il vincolo giuridico della Lettera sinodale del 1686.
15/10: il Santo Sinodo di Mosca: 1) interrompe la comunione eucaristica con Costantinopoli (teologicamente, la proclamazione dello scisma); 2) rivendica l’Ucraina come proprio territorio canonico; 3) rifiuta la revoca della lettera del 1686; 4) esprime sconcerto per la riabilitazione dello “scismatico” signor Filaret.
15/12: a Kiev Concilio della riunificazione tra la Chiesa di Makariy e quella di Filaret. Creata la Chiesa ortodossa d’Ucraina [Codu], autocefala, e di essa è eletto primate Epifaniy. Dei 90 vescovi della Cou, solo due vi entrano. L’ambasciatore Usa a Kiev plaude alla nuova Chiesa. Il Cremlino tace.
05/01/2019: Bartolomeo, presente Poroshenko, firma il tomos – decreto sinodale – dell’autocefalia alla Codu. E il 6 lo consegna a Epifaniy. Per Mosca lo scisma è consumato.
LA PAROLA ALLA CHIESA UCRAINA FILORUSSA
In una piccola cappella alla periferia di Kiev incontriamo l’arciprete Nikolay Danilevich, portavoce della Cou. Parla un po’ italiano e un po’ russo: «Fino al 1992 in questo paese vi era, in pratica, una sola Chiesa Ortodossa, inserita in un esarcato del patriarcato di Mosca. Metropolita di Kiev era Filaret: questi, e altri, dopo il collasso dell’Urss, volevano assolutamente la “autocefalia”». La Chiesa russa non era, di per sé, contraria all’ipotesi; ma rilevava: «La situazione ora è molto confusa, occorre aspettare».
Ma lui ha proceduto, appoggiando l’autoproclamato Patriarcato di Kiev di cui nel ’95 sarà eletto titolare. Una realtà non canonica, come lo era la piccola Chiesa di Makariy… Con il cosiddetto Concilio della riunificazione, benedetto dal Fanar, queste due Chiese si sono sciolte, formando la Codu. A essa il 5 gennaio Bartolomeo ha dato l’indipendenza canonica. Ma la Cou non è entrata in questa nuova Chiesa, per noi scismatica. E finora nessuna delle quattordici Chiese ortodosse autocefale l’hanno riconosciuta come la quindicesima autocefala. Essa ha circa 4mila parrocchie; la nostra, 12.500.
Non si mescolano troppo, nella vicenda, questioni religiose e politiche?
Certo che sì. Poroshenko è stato presente a tutte le tappe che hanno portato alla “autocefalia”. È stato al Fanar a perorarla. Gestiva il “Concilio” di dicembre. Sperava forse che questo suo impegno, più la retorica nazionalista antirussa, lo portasse a vincere le elezioni presidenziali di due mesi fa; ma le ha perse, e ha vinto Volodymyr Zelenskij. Insomma, la strumentalizzazione politica della religione non ha funzionato. D’altronde, la Chiesa non è un dipartimento dello Stato e non è legata alle sue ideologie. Noi non siamo né contro l’Est né contro l’Ovest.
Perché rifiutate il metodo del Fanar per la concessione della “autocefalia”?
Perché esso porta allo scisma, come dimostra quanto accaduto, il 20 giugno. Filaret, malgrado le vibranti proteste della Codu, quel giorno ha convocato un suo proprio Concilio locale per proclamare che il “patriarcato di Kiev”, di cui si proclama titolare, continua a esistere: siamo a uno scisma nello scisma della Chiesa “autocefala”! Comunque, noi non riconosciamo validi i sacramenti della Codu: se una persona là battezzata viene da noi, la ribattezziamo.
Padre Nikolay, come si esce da questo groviglio?
Non sono un profeta, e non so come finirà. Molte Chiese ortodosse locali (=autocefale) propongono di celebrare una sinassi – vertice dei vari primati – , oppure un Concilio ortodosso per risolvere una questione che interpella l’intera Ortodossia. I responsabili della “indipendenza” ucraina debbono venire al Concilio, e pentirsi di quello che hanno fatto. Li aspettiamo a braccia aperte. Dimentichiamo le loro male parole contro di noi.
LA PAROLA ALLA NUOVA CHIESA AUTOCEFALA
Brillano al sole del tramonto le cupole dorate della Lavra di san Michele, dove incontriamo l’arcivescovo Yevstratiy, portavoce della Codu:
Cosa è successo in Ucraina negli ultimi trent’anni?
Abbiamo una ferita, e occorre tempo per guarire.
Prima del Concilio di riunificazione di dicembre qui v’erano tre Chiese ortodosse; poi due si sono unite, mentre la Chiesa filorussa è rimasta fuori. Nel ’91 era stata proclamata l’indipendenza dell’Ucraina. Ma il patriarcato di Mosca crede ancora che l’Ucraina non sia uno Stato reale ma solo una parte della Grande Russia. Ha una mentalità imperiale… Da noi il sentimento religioso e quello nazionale sono molto intrecciati: come vi è una Chiesa autocefala in Romania, Serbia, Bulgaria… perché Mosca non vuole una Chiesa autocefala ucraina?
Per ora, tuttavia, nessuna Chiesa ortodossa riconosce la Codu.
Abbiamo avviato un processo; occorre pazienza e fiducia. Il consenso arriverà. Prima o poi le circostanze politiche più complicate cambieranno, come avvenne nel ’91 con la fine dell’Unione sovietica. Quando il regime del Cremlino crollerà, anche la posizione del patriarcato di Mosca cambierà. In ogni caso, è innegabile che, dal punto di vista religioso, quella ucraina è una “figlia” – nata nel 988 – della Chiesa-madre di Costantinopoli. Perciò a essa abbiamo chiesto l’autocefalia. Aggiungo che la Chiesa di Mosca non ha mai condannato l’aggressione russa contro la Crimea e le interferenze russe nel nostro paese. Per Kirill quella in atto dal 2014 in Ucraina orientale [ha provocato, finora, oltre 13mila vittime eingentissimi danni anche ecologici] è una “guerra civile” intra-ucraina!
E il recentissimo (20 giugno) miniscisma di Filaret?
È una vicenda personale.
Ma non così piccola – rileviamo – se il 24 giugno il Sinodo della Codu si è riunito, sotto la guida di Epifanyi, per precisare quanto già detto in un comunicato del 20 giugno: 1) il Concilio convocato da Filaret è illegale; 2) non si può parlare di “scisma” (perché – sottinteso – non ha avuto un seguito significativo); 3) le parrocchie già legate al “patriarcato di Kiev” passano tutte alla Codu; 4) nel Concilio di riunificazione il “patriarcato” di Kiev aveva accettato di confluire nella neonata Chiesa autocefala; 5) «Riconoscendo i suoi speciali meriti, nel passato, verso la Chiesa ortodossa ucraina, il Sinodo ha deciso che il patriarca Filaret rimane parte del suo episcopato». Rileviamo, infine: fonti della Codu ci hanno detto di non vedere possibile un Concilio che smentisse l’operato di Bartolomeo.
Poi, sia p. Nikolay che il vescovo hanno ammesso che la gente ortodossa ucraina poco sa di queste diatribe; spesso frequenta la chiesa più vicina senza domandarsi a che giurisdizione appartenga (ma i filorussi rischiano di passare per “traditori della patria!”). E, ancora, i due ci hanno confermato che, a parte contributi per mantenere o restaurare opere d’arte preziose – chiese, monasteri – non ricevono aiuti dallo Stato.
PUTIN DAL PAPA: IRRISOLTO IL NODO UCRAINO
Il 4 luglio il presidente russo Vladimir Putin è stato ricevuto in udienza (era la terza volta) dal papa. Espressa soddisfazione per lo sviluppo delle relazioni bilaterali – ha affermato poi un comunicato – «sono state affrontate alcune questioni di rilievo per la vita della Chiesa cattolica in Russia.
Ci si è poi soffermati sulla questione ecologica e su alcune tematiche dell’attualità internazionale, con particolare riferimento alla Siria, all’Ucraina e al Venezuela».
Sul Medio Oriente, i due – si è appreso – concordano nell’urgenza di difendere laggiù le minoranze cristiane, messe in pericolo da conflitti e persecuzioni da parte di gruppi estremisti islamici. Ma sull’Ucraina? Il comunicato non specifica: forse Putin e Francesco non concordano. Infatti, per la Santa Sede, la questione della Crimea, e dell’Ucraina orientale, va risolta in base al diritto internazionale; per il capo del Cremlino un ritorno della penisola all’Ucraina non è più pensabile.
E l’ipotesi di un viaggio del papa in Russia? Il Santo Sinodo russo, oggi, è contrario all’idea; e Putin, per ora (per ora!), non vuole imporsi. Il 12 febbraio 2016 si ebbe, all’Avana, il primo incontro di un papa con un patriarca di Mosca: incontro malvisto da settori importanti – come il mondo monacale – della ortodossia russa. D’altronde, alla vigilia dell’evento del 4 luglio, un portavoce del patriarcato, Vladimir Legoyda, precisava: «la Chiesa russa non ha commenti da fare sull’incontro tra i due capi di Stato». Tuttavia, aggiungeva, esso è «importante e utile dato che il Vaticano e la Russia sostengono il matrimonio tradizionale e la famiglia, e proteggono i diritti dei cristiani in regioni dove sono perseguitati».
Comunque, Francesco, sulla questione dell’ipotetico viaggio in Russia non vuole forzature, come invece fece Giovanni Paolo II. Questi, malgrado l’esplicito “no” di Aleksij II, allora patriarca di Mosca, nel giugno del 2001 visitò l’Ucraina; e, nell’incontro ecumenico con lui, chi lo salutò a nome di tutti? Il “patriarca” Filaret: uno schiaffo per i russi. Due anni dopo Wojtyla aveva progettato di andare, in agosto, a Ulan Bator, in Mongolia e, per l’occasione, contava di fare uno scalo a Kazan, nel Tatarstan – 800 km a est di Mosca – per consegnare nelle mani di Aleksij una preziosa icona, in Vaticano ritenuta l’originale scomparso da Kazan all’inizio del Novecento e, dopo varie peripezie, giunto da New York come regalo al papa polacco. Al netto rifiuto del patriarca, quel pontefice annullò l’intero viaggio.
IL CONTROCANTO DEI GRECO-CATTOLICI UCRAINI
Dopo la ouverture del vertice papa-Putin, i due giorni successivi ve ne è stato un altro in Vaticano, già preannunciato da due mesi: Francesco, con tre cardinali di Curia (Parolin, tra essi), insieme a Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc, e i membri permanenti del suo Sinodo, più i metropoliti. Scopo della riunione quello di «individuare i modi con cui la Chiesa cattolica in Ucraina, e in particolare la Chiesa greco-cattolica, sempre più efficacemente può dedicarsi alla predicazione del Vangelo, contribuire al sostegno di quanti soffrono e promuovere la pace, d’intesa, per quanto è possibile, con la Chiesa cattolica di rito latino e con le altre Chiese e comunità cristiane».
A proposito di aiuti unitari verso Kiev, va ricordato che con il progetto Il Papa per l’Ucraina, avviato nel 2016, Francesco e organismi vaticani hanno inviato là sedici milioni di euro in viveri, materiali, soccorsi vari.
A incontro avvenuto, la sera del 6 luglio, un comunicato vaticano ne riassumeva i risultati. Dopo aver detto che il papa ha molto apprezzato la fedeltà dei greco-cattolici «alla comunione con il Successore di Pietro, confermata e sigillata con il sangue dei martiri», precisava: «Particolare attenzione è stata dedicata al lavoro pastorale, all’evangelizzazione, all’ecumenismo, alla vocazione specifica della Chiesa greco-cattolica nel contesto delle sfide odierne della situazione socio-politica, in particolare della guerra e della crisi umanitaria in Ucraina».
La “guerra” in Ucraina è, dunque, nominata: ma chi l’ha provocata? Il testo non lo dice. Invece, alla vigilia dell’incontro, Shevchuk aveva dichiarato: «La guerra non può terminare con una pace a tutti i costi; sarebbe una capitolazione. È impossibile la pace senza giustizia». E il 28 gennaio 2018, al papa in visita alla basilica di Santa Sofia – a Roma il centro dei greco cattolici ucraini – aveva ricordato la “aggressione” russa contro la Crimea.
FRA RELIGIONE E POLITICA
Qualche flash storico, per capire tale atteggiamento. Alla fine del Cinquecento l’Ucraina centro-occidentale era in mano ai re polacco-lituani, cattolici, mentre la parte orientale del paese era legata agli zar, ortodossi. Nel 1595 due vescovi ucraini a Roma riconobbero l’autorità di papa Clemente VIII, e l’anno dopo al Sinodo di Brest Litovsk la maggioranza dei vescovi confermò questa scelta degli “uniati” (così gli ortodossi chiamano i greci riuniti a Roma). Nel 1946 uno pseudo-Sinodo a Leopoli, imposto da Stalin, dichiarò “nulla” l’unione del 1596: dunque i grecocattolici tornavano, per legge, ortodossi: chi non accettò, iniziando da vescovi e preti, subì persecuzione e carcere. Poi, nell’Ucraina indipendente essi furono e sono la punta di lancia per distanziare il paese dalla Russia. Shevciuk si considera di fatto “patriarca” greco-cattolico (e ha diocesi non sono solo in patria, ma anche all’estero, in particolare nelle Americhe. Nell’insieme 5 milioni di fedeli), il che indispettisce Mosca e dispiace anche a Roma.
Avrà soluzione il conflitto ecclesiale ucraino? Intanto, esso si mescola con la politica. Se l’Ucraina vuole diventare l’avamposto dell’Occidente, e la sentinella della Casa Bianca e della Nato per tenere sulla corda la Russia, tutto peggiorerà; solo un nuovo corso tra Kiev e Cremlino, e viceversa, potrebbe avviare una schiarita. E sul fronte religioso? Hilarion, in questi mesi, a Damasco, Gerusalemme e Atene ha perorato, con i rispettivi patriarchi e primati, la causa russa.
Ma l’arcivescovo ortodosso di Cipro, Chrysostomos, si dà da fare per riconciliare Kirill e Bartolomeo: impresa forse possibile, in futuro, ma non oggi: insieme a ragioni storiche e canoniche, a minare il terreno ora gravano rivalità personali e istituzionali che complicano il tutto. Kirill non accetterà mai che uno scomunicato dal Santo Sinodo sia stato da Bartolomeo riabilitato.
Fino a che un personaggio oscuro e inquietante come Filaret continua a tessere le sue trame, la soluzione del tragico conflitto intra-ortodosso sarà impossibile. Poi, per la gioia della Prima Roma, la Seconda (Costantinopoli) e la Terza (Mosca) forse – nulla, però, è scontato – troveranno pace.
L’AUTOCEFALIA UCRAINA SECONDO COSTANTINOPOLI
3 Ottobre 2019
di Luigi Sandri, redazione Confronti, e Paolo Emilio Landi, regista teatrale e giornalista, rubrica Protestantesimo RAIDUE.
Bartolomeo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, rivendica le radici antiche del suo patriarcato per sostenere il diritto a concedere l’autocefalia alle Chiesa Ucraina – che il patriarcato di Mosca considera, invece, scismatica. Solo la Chiesa greca, per ora, appoggia questa decisione. Il Fanar rifiuta l’ipotesi della “sinassi”, o di un Concilio, per risolvere il caso.
Portata da missionari e marinai bizantini, la religione cristiana nel 988 fu accolta dal principe Volodymyr (Vladimir in russo) che si fece battezzare e, di conseguenza, dalla popolazione della Rus’. Passati i secoli, con le loro mille turbinose vicende, oggi la Chiesa “figlia” della “nuova Roma” è al centro di un’asperrima disputa tra il patriarcato di Costantinopoli e quello di Mosca a causa della “autocefalia” (indipendenza) della Chiesa ortodossa in Ucraina. Per cercare di meglio capire l’intricata questione, il 7 settembre siamo andati pellegrini al Fanar – l’attuale residenza, a Istanbul, dei patriarchi ecumenici – per intervistare il suo titolare, Bartolomeo. La chiesa di san Giorgio, al Fanar, non ha certo la solennità di Santa Sofia; eppure è là che il patriarca celebra l’Eucaristia, e dove la domenica convengono alcuni greco-ortodossi di Istanbul (sono, nell’insieme, circa duemila; altri due/tremila nell’intera Turchia); e dove, in una situazione geopolitica pur diversissima dal lontano e glorioso passato, egli rivendica il suo permanente ruolo di primus inter pares (primo tra eguali) tra i gerarchi dell’Ortodossia.
BIZANTINI. OTTOMANI. IMPERO. REPUBBLICA
Verso il 330 Costantino aveva deciso di trasformare l’antica Bisanzio in Costantinopoli; perciò anche l’importanza del vescovo della “nuova Roma” crebbe in modo esponenziale, divenendo il primo, nell’ordine onorifico, tra i patriarcati orientali: Alessandria, Antiochia, e poi Gerusalemme. Proclamerà, nel 381, il Concilio di Costantinopoli I, secondo ecumenico (il primo fu a Nicea nel 325): «Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma»
[can. III]. E il Concilio di Calcedonia, del 451, nel canone XXVIII – non accolto dai papi – preciserà: «Giustamente i padri [nel 381] concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché questa città era imperiale. I padri hanno accordato uguali privilegi alla santissima sede della nuova Roma, la città onorata dalla presenza dell’imperatore e del senato». Inoltre, «i vescovi delle parti delle diocesi del Ponto, dell’Asia [in Anatolia] e della Tracia poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla Chiesa di Costantinopoli».
Costantino costruì la prima basilica di Santa Sofia; essa rovinò, come un’altra, costruita un secolo dopo. L’imperatore Giustiniano, negli anni 532-37, ne fece costruire una terza: una grandiosità senza pari, cuore religioso dei cristiani greci (là, nel luglio 1054, ci fu lo scambio di scomuniche tra il cardinale Umberto di Silva Candida, e il patriarca Michele Cerulario: l’avvio del reciproco scisma tra la Chiesa latina e quella greca) ma, anche, potente simbolo politico perché in essa venivano incoronati gli imperatori bizantini. La “sinfonia” – lo stretto intreccio tra trono e altare, non raramente in claudicante simbiosi – terminò, dopo mille anni di vita, quando il 29 maggio 1453 il capo degli ottomani Mehmet II conquistò Costantinopoli: la croce che spuntava sull’ardita cupola di Santa Sofia fu sostituita da una mezzaluna, e la basilica divenne moschea. Crollato, dopo la prima guerra mondiale, l’impero ottomano, e finito il sultanato, sulle sue ceneri nascerà la moderna Turchia, portata all’indipendenza da Mustafa Kemal, Atatürk. Il quale nel 1935 trasformò Santa Sofia in museo: da allora è rimasta così. Rispetto ai tempi ottomani, lo status giuridico del patriarcato è mutato: per molte questioni deve regolarsi come ente di diritto turco. Ma, dal punto di vista ecclesiale, il suo titolare si considera sempre primus inter pares tra i gerarchi ortodossi. Quello attuale, Bartolomeo, nato come Demetrios Archondonis nel 1940 a Imbro, un’isoletta turca del Mar Egeo, dopo i normali studi liceali entrò nella Facoltà teologica ortodossa di Halki (nel Mar di Marmara) e quindi prestò servizio militare, per due anni, nell’esercito turco. Ripresi gli studi – specializzazioni a Monaco di Baviera e al Pontificio Istituto Orientale di Roma, con laurea all’università Gregoriana – tornò a Istanbul, dove divenne prete, e poi vescovo. Nel ’91, alla morte del patriarca Demetrios, fu eletto suo successore. Ha dato molto impulso ai rapporti ecumenici e inter-religiosi; e invitato tutti a una nuova consapevolezza sulla necessità di salvaguardare la creazione.
AUTOCEFALIA UCRAINA: IL RUOLO DI BARTOLOMEO
Bartolomeo è stato più volte a Roma, incontrando i successivi papi. Conversando con noi, ha sottolineato con gioia particolare il fatto di essere stato, nella storia, l’unico patriarca di Costantinopoli presente alla “incoronazione” di un papa, quella di Francesco, il 19 marzo 2013. Poi il nostro dialogo si è addentrato nel nodo cruciale dell’Ucraina. Sul quale, per “situare” alcuni riferimenti, ricordiamo qui alcuni fatti essenziali (per approfondire, cfr.: Confronti, 7-8/19).
Con il crollo dell’Urss, la Chiesa ortodossa in Ucraina, prima esarcato del patriarcato russo, si spaccò in tre parti: Chiesa ortodossa ucraina [Cou], legata a Mosca, la maggioritaria; l’autoproclamato patriarcato di Kiev, dal 1995 guidato poi da Filaret, già membro del Santo Sinodo di Mosca, e da questo prima ridotto allo stato laicale, e poi scomunicato; la piccola Chiesa autocefala ucraina: due comunità, per il patriarcato russo, “scismatiche”.
Nel settembre 2018 Bartolomeo e il suo Sinodo, richiesti dal presidente e dal Parlamento ucraino, avviarono le procedure per concedere la “autocefalia” alle Chiese ucraine riunite: iniziativa che il patriarcato di Mosca, guidato da Kirill, considerò “anti-canonica”. Ma il 15 dicembre, nella cattedrale di Santa Sofia a Kiev, in un Concilio per la riunificazione (un “Conciliabolo”, per i russi) le due citate Chiese non moscovite hanno formato la Chiesa ortodossa d’Ucraina (Codu), autocefala, avente come primate Epifany. Il 5 gennaio 2019, al Fanar, alla presenza dell’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, e di Epifany, il patriarca ha firmato il tomos, documento che attesta l’ autocefalia; e l’indomani l’ha consegnato ai due. In giugno Filaret ha tentato di ricostituire il “patriarcato di Kiev”: ipotesi stroncata dal Sinodo della Codu. Bartolomeo, da parte sua, ha anche respinto l’idea di una “sinassi” (riunione dei capi delle Chiese autocefale).
GLI SCHIERAMENTI DELLE CHIESE ORTODOSSE
Dovendo, il titolare del Fanar, essere cittadino turco, ma essendo pochissimi gli ecclesiastici grecoortodossi nati in Turchia, sarebbe arduo avere un adeguato “corpo” elettorale per scegliere il capo della Chiesa di Costantinopoli. Ma, ci dice Bartolomeo (cfr. intervista a pag. 19), «il presidente Recep Tayyip Erdogan ci ha fatto un regalo, dando la cittadinanza turca a una trentina di nostri vescovi e metropoliti nati in Europa occidentale o nelle Americhe, e che là vivono. Alla loro cittadinanza originaria è stata, dunque, aggiunta quella turca: così l’assemblea che eleggerà il mio successore è formata, ora, da una cinquantina di persone».
E veniamo a un tema spinoso: la “sinassi”. Se si computa anche Epifany (tesi del Fanar), i primati delle Chiese autocefale sono quindici; ma se lo si rifiuta (Mosca), sono quattordici. Il patriarca romeno, Daniel, e l’arcivescovo di Tirana, Anastasios, hanno proposto una “sinassi” (o – il primate albanese – un Concilio), per affrontare la questione di Kiev. Anche altri capi hanno visto con favore l’ipotesi, che però Bartolomeo rifiuta. A proposito poi del riconoscimento, da parte del Sinodo della Chiesa ellenica, guidato dall’arcivescovo di Atene, Hieronymos II, del diritto del Fanar di concedere l’autocefalia ucraiina, esso è venuto il 28 agosto; ma non è stato – per così dire – sbandierato. Forse perché in Grecia, accanto a canonisti e teologi e concordi con tale posizione, ve ne sono di contrari. A metà settembre, infatti, è stata diffusa una lettera aperta, firmata da centosettantanove archimandriti, sacerdoti, monaci e laici, i quali ritengono del tutto illegale l’iniziativa del Fanar. E – altro quadro – in settembre anche la diaspora ortodossa russa in Francia, finora legata a Costantinopoli, è passata a Mosca.
GEOPOLITICA DELL’ORTODOSSIA
Ma – non c’entra con la “autocefalia”, però arricchisce lo scenario – il 28 giugno scorso il papa aveva consegnato, a una delegazione del Fanar, delle reliquie ritenute ossa dell’apostolo Pietro rinvenute nelle grotte vaticane. Gesto che Francesco ha spiegato in una lettera a Bartolomeo del 30 agosto; e che il patriarca ha salutato con gioiosa gratitudine. Sempre a Roma, il 16 settembre Bartolomeo si è incontrato con Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc dei greco-cattolici ucraini. Secondo agenzie di stampa, il prelato ha riconosciuto che il patriarca aveva il pieno diritto di concedere l’autocefalia alla Chiesa ucraina; e ha auspicato il rafforzamento del dialogo tra la sua Chiesa, la Codu e quella di Costantinopoli.
Infine: sulle schermaglie ecclesiali tra Costantinopoli e Mosca, gravano pesanti questioni geopolitiche di un paese – l’Ucraina – schiacciato tra l’Occidente (e la Nato) che vorrebbe inglobarlo nella sua area, e il Cremlino contrarissimo all’ipotesi. E in Ucraina orientale continua la guerra “a bassa intensità” tra le regioni separatiste di Donetsk e Lugansk, sostenute dai russi, e l’esercito di Kiev: il conflitto, dal 2014 a oggi, ha fatto più di tredicimila vittime, e ingentissimi danni materiali.
Poi c’è la questione della Crimea, annessa dei russi nel 2014. Il neopresidente ucraino Volodymyr Zelenski e Vladimir Putin hanno – finalmente! – raggiunto un accordo per lo scambio di prigionieri: riusciranno ora a stipulare la pace? Non sarà facile. Le Chiese ucraine, nel frattempo, sono dilaniate e divise dal “con chi” stare, e “come”, perdurando la guerra. E così Bartolomeo; e così Kirill.
LE DUE SANTA SOFIA
E torniamo al Fanar, il 7 settembre. Dopo l’intervista Bartolomeo ci ha affidati al suo autista che, in macchina, e avendo come cicerone uno studente statunitense di origine greca, ci ha fatto attraversare ripide stradine, arroccate attorno al patriarcato, che sarebbe stato impervio percorrere da soli. Siamo entrati nel liceo greco di Istanbul: dal suo cortile si gode uno spettacolare panorama, che spazia sull’intero Corno d’oro e sul quartiere di Galata. Poi abbiamo visitato tre “perle” straordinarie che documentano lo splendore dei mosaici bizantini, e la pietà popolare dei greci: la chiesa della Madonna Mouchliotissa (dei Mongoli), della Vergine Vlachernitissa (dei Valacchi), e di San Salvatore in Chora.
Domenica 8 abbiamo assistito a una divina liturgia celebrata in una chiesetta nel centro di Istanbul: difficile da raggiungere, perché dalla strada non si vede. Si entra in un portone – come quello di un qualsiasi condominio – e ci si trova in un giardino. Era stato Atatürk a volere che, nella “laica” Turchia, possibilmente i luoghi di culto non fossero visibili. Bartolomeo ha assistito alla liturgia da un tronetto. Poi, con la cinquantina dei presenti, nel giardino vi è stato un simpatico aperitivo. Quindi, per noi, velocissima partenza verso l’aeroporto, destinazione Roma. Dal taxi, scorgiamo un’ultima volta la cupola e i minareti del museo di Santa Sofia risplendere al sole; e il pensiero va alla decisione che, benedette da Bartolomeo, nella cattedrale di Santa Sofia a Kiev due Chiese ucraine hanno preso nel dicembre scorso. Malgrado il no di Kirill.
IL PATRIARCATO RUSSO CONTRO GLI “SCISMATICI” UCRAINI
31 Ottobre 2019
di Luigi Sandri, redazione Confronti, e Paolo Emilio Landi, regista teatrale e giornalista, rubrica Protestantesimo RAIDUE.
In un’intervista a Confronti, in settembre, il metropolita Hilarion, “ministro degli esteri” della Chiesa russa, ha ribadito che quella “autocefala” ucraina è “scismatica”. Ma, in ottobre, questa è stata riconosciuta dal primate greco; il patriarca russo Kirill, allora, ha tagliato la comunione eucaristica anche con lui.
Gospodi pomilui (Signore, pietà) canta il coro, ripetendo l’invocazione decine di volte, andando dal fortissimo al pianissimo, mentre il metropolita Hilarion di Volokolamsk innalza verso ogni punto cardinale una croce, circondata da una ghirlanda di fiori; poi si abbassa fino a prostrarsi, mentre i molti fedeli convenuti anch’essi si inginocchiano. Siamo a Mosca, nella chiesa della Madonna “consolatrice di tutti gli afflitti”, che è come la parrocchia del metropolita. È la festa dell’esaltazione della Santa Croce, che nell’Ortodossia, legata al calendario giuliano, si celebra il 26 settembre (il 14 del mese di quello gregoriano). Terminata l’affascinante cerimonia, negli uffici “parrocchiali” incontriamo il metropolita, dal 2009 presidente del Dipartimento degli affari ecclesiastici esterni del patriarcato di Mosca: il numero due di una Chiesa al cui vertice vi è il patriarca Kirill (era, a fine settembre, in visita pastorale a Samara, città sul Volga). Per situare alcuni cenni del “ministro degli esteri” del patriarcato russo, scattiamo qualche flash: per approfondimenti, si vedano recenti servizi su Confronti [7-8, e 10/19].
MOSCA, LA “TERZA ROMA”
Il Cristianesimo nella Rus’ di Kiev era entrato ufficialmente nel 988 con il battesimo del principe Vladimir; a quel tempo Mosca non esisteva – sarà fondata nel 1147. Dopo che nel 1240 i tartari assaltano la Rus’, il metropolita di Kiev troverà riparo in Russia, a Vladimir e, dal 1325, a Mosca. Dunque, la Chiesa russa è “figlia” di Kiev. Nel 1380, battendo i tartari nella piana di Kulikovo, sul Don, il principe Dmitri avvia il declino degli invasori che, infine, saranno debellati a metà Cinquecento da Ivan IV il Terribile che ormai è zar, imperatore. Su questo sfondo cresce il mito di Mosca “terza Roma”, “colonna dell’Ortodossia, che non cadrà mai” (la prima, quella sul Tevere, è caduta – questa l’accusa – nell’eresia del papismo; la seconda, Costantinopoli, è in mano turca).
Nel 1589 la Chiesa russa – con il consenso (obtorto collo?) di Costantinopoli, dal 1453 conquistata dagli ottomani – diventa patriarcato. Nel 1686 il patriarca ecumenico Dionigi IV affida a Mosca la metropolia di Kiev – “temporaneamente”, sostiene oggi il Fanar (il quartiere di Istanbul ove risiedono i suoi successori); “per sempre”, affermano invece i russi. E… saltiamo tre secoli: dopo che, nel 1991, crolla l’Urss e l’Ucraina diventa indipendente, la Chiesa ortodossa del paese, fino ad allora esarcato del patriarcato russo, si spacca in tre: Chiesa ortodossa ucraina (Cou), legata a Mosca; “Patriarcato di Kiev”, la cui anima sarà Filaret – dalla Chiesa russa nel ‘92 ridotto allo stato laicale, e nel ‘97 scomunicato; piccola Chiesa autocefala. Nel 2018 il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, favorisce la nascita della Chiesa autocefala d’Ucraina (Codu), in realtà formata solamente dalle ultime due appena nominate, e creata il 15 dicembre di quell’anno dal Concilio di Kiev (“Conciliabolo”, secondo Mosca, che considera “scismatica” la nuova Chiesa, e che taglia la comunione eucaristica con il Fanar). Il 5 gennaio ’19 Bartolomeo firma il tomos, il documento ufficiale con il quale lui e il suo Sinodo concedono la “autocefalia” alla neonata Chiesa; su novanta vescovi della Cou, solo due vi aderiscono. In giugno, a Kiev, avevamo ascoltato il punto di vista della Chiesa autocefala e di quella moscovita; il 7 settembre, a Istanbul, Bartolomeo; e, il 26 del mese, il metropolita Hilarion, a Mosca, dove ci siamo documentati sulla “rinascita” della Chiesa russa: devastata, ma non cancellata, sotto il potere sovietico, essa ora è punto di riferimento per i due terzi dei centocinquanta milioni di russi; il patriarcato di Mosca considera suo “territorio canonico”, oltre la Russia, anche le altre ex repubbliche sovietiche. Il presidente Vladimir Putin è ortodosso, e nelle feste importanti si fa vedere in chiesa; forte è l’alleanza tra lui e Kirill. Ma la secolarizzazione percorre anche la Russia: grande sfida per la sua Chiesa ortodossa è saldare l’ancoraggio al passato con la modernità che pone domande inedite e difficili.
Due settimane dopo che siamo tornati dalla Russia, a metà ottobre il primate greco Hieronymos – smentendo le speranze di Hilarion – ha riconosciuto la Codu [vedi scheda pag. 22]. Ma che ci aveva detto, in settembre, il metropolita di Volokolamsk?
HILARION: «L’EVIDENTE ERRORE DI BARTOLOMEO»
La contestazione dell’“autocefalia” non esaurisce, infatti, però, i problemi della Chiesa russa, stretta tra tradizioni del passato, modernità e incombente secolarizzazione della società. Il “ministro degli esteri” della Chiesa russa denuncia nell’intervista gli “errori” del patriarca di Costantinopoli. E affronta poi il desiderato ruolo del Cristianesimo in un’Europa che “dimentica” le sue radici e che su alcuni temi (difesa della sua eredità di fronte all’islam che avanza, famiglia, aborto), lui sottolinea, è del tutto secolarizzata.
Vostra eminenza, noi ci incontrammo per la prima volta a Harare (Zimbabwe), alla VIII Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, che molto ribadì l’impegno per l’unità visibile tra i cristiani. Come vede lei, oggi, l’ecumenismo?
Ritengo che dobbiamo essere realisti e non vivere di sogni, immaginando che si possano fare, presto, grandi passi, e soprattutto che si possa presto raggiungere l’unità eucaristica. Purtroppo, oggi siamo molto lontani da questa meta. Dobbiamo dunque misurarci serenamente con queste difficoltà e vivere in modo consapevole tale situazione. Tuttavia, esistono non pochi àmbiti dove cattolici e ortodossi, o ortodossi, cattolici e altri cristiani, possiamo collaborare: ad esempio, nel settore degli aiuti umanitari, in quelli dell’istruzione, nella difesa dei diritti dell’uomo e, ovviamente, e nella protezione di quei cristiani che in Medio Oriente, in Africa e in altre regioni del mondo subiscono emarginazione, persecuzione, o addirittura genocidio.
Tra gli eventi positivi di questi ultimi anni si potrebbe ricordare quello tra il papa e Kirill all’Avana. Lei ritiene che sia possibile un altro incontro analogo?
Non penso che il primo incontro tra Francesco e il patriarca Kirill [a Cuba, il 12 febbraio 2016] debba essere anche l’ultimo! Dunque, essi potranno ancora incontrarsi: quando le due Parti riterranno che sia arrivato il tempo e ci siano le condizioni adatte, noi lo prepareremo.
In merito alla dolorosa divisione nell’Ortodossia, a causa del contrasto in atto tra il patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli, per quali motivi voi considerate “scismatica” la neonata Chiesa ortodossa d’Ucraina?
Riassumo in due parole la storia dello scisma ucraino. Nel 1991, all’allora metropolita di Kiev, Filaret [da anni membro del Santo Sinodo di Mosca, e capo dell’esarcato ucraino legato alla Chiesa russa], fu tolta quella carica: lui però ignorò la decisione, e collaborò per la formazione di una Chiesa parallela e contrapposta a quella canonica, il cosiddetto Patriarcato di Kiev, indipendente, del quale poi divenne “patriarca”, e dunque capo degli scismatici. Egli sostenne, cioè, in senso proprio, uno scisma. Nessuna Chiesa ortodossa ha mai riconosciuto quella Chiesa come legittima. La Chiesa russa, che già nel ’92 aveva ridotto Filaret Denisenko allo stato laicale, nel ’97 lo scomunicò: decisioni riconosciute canoniche da tutte le Chiese ortodosse, inclusa la costantinopolitana. Nel 2016 si è svolto il Concilio di Creta [Confronti 7-8/16], organizzato dal patriarca Bartolomeo: a esso la Chiesa russa non partecipò, perché anche diverse altre Chiese ortodosse [antiochena, bulgara e georgiana] avevano deciso di non andare. E le decisioni riguardanti l’intera Ortodossia debbono essere prese con il consenso di tutte le sue Chiese, non solo quelle presenti in un Concilio. Dopo che la Chiesa russa fece quella scelta, il patriarca Bartolomeo ha cambiato radicalmente la sua precedente posizione sulla questione ucraina, riconoscendo la legittimità delle Chiese ucraine scismatiche. Ma l’unica Chiesa canonica a Kiev è quella ortodossa ucraina, legata al patriarcato di Mosca, ma autonoma e indipendente nelle sue decisioni; a essa appartiene l’assoluta maggioranza degli ortodossi ucraini. E né i vescovi né i semplici fedeli di questa Chiesa – l’avevamo detto a Bartolomeo! – sarebbero stati disposti a confluire nella Chiesa scismatica.
Quindi, non ci sarebbe bisogno di una Chiesa nazionale in Ucraina, perché là quella ortodossa è già tale?
La Chiesa ortodossa ucraina è una chiesa nazionale della quale fa parte il popolo ucraino e, quando l’ex presidente Poroshenko disse che si doveva formare una Chiesa nazionale ucraina, gli abbiamo risposto che già esisteva.
Questo conflitto ecclesiale è inserito in un conflitto più grande, politico, tra due parti dell’Ucraina, che storicamente appartengono a due parti dell’Europa e, per così dire a due parti del mondo. Lei che ne pensa?
La divisione ecclesiale avviata dall’ex metropolita Filaret, e poi dal potere politico ucraino, ha portato alla divisione del popolo ucraino e a una polarizzazione tra la parte orientale e quella occidentale del Paese. Non a caso la maggioranza degli scismatici si trova nella parte occidentale. Ma invece la Chiesa canonica dell’Ucraina è diffusa in tutto il Paese, soprattutto a Oriente.
Vostra eminenza, vi è un’uscita da questa situazione?
Dobbiamo avere pazienza. La soluzione non arriverà presto. L’errore compiuto da Bartolomeo è ora davanti a tutti. Del resto finora nessuna delle Chiese ortodosse ha riconosciuto la “autocefala” e, invece, riconoscono il metropolita Onufry come capo della Chiesa ortodossa ucraina – fino al 2017 riconosciutala come legittima dallo stesso patriarca di Costantinopoli.
Qual è la sua risposta all’affermazione che Bartolomeo ci fece: «Mosca può contare su potere, denaro, mentre la Chiesa di Costantinopoli può contare su un potere diverso, ecclesiale»?
Quello che Lui ha fatto in Ucraina lo ha compiuto seguendo i consigli dell’ex presidente Poroshenko, il quale pensava che ottenendo il tomos dell’autocefalia sarebbe rimasto al potere a Kiev. Ma si è sbagliato: infatti, nelle elezioni [dell’aprile 2019, vinte da Volodymyr Zelensky] ha ottenuto una percentuale molto bassa: e questo non a caso. Lui voleva una Chiesa tutta sua, che avrebbe potuto manipolare. Una Chiesa tascabile. Bartolomeo, d’altronde, si era affrettato a concedere l’autocefalia, temendo che, se Poroshenko non avesse vinto, sarebbe stato per lui molto più difficile realizzarla. E questo ha provocato un serio problema ecclesiale.
Vostra eminenza, sta forse mettendo in discussione lo status del patriarca ecumenico come primus inter pares, e quindi il suo ruolo nella creazione di Chiese nazionali ortodosse?
Noi non abbiamo mai rifiutato il ruolo del patriarca ecumenico come primus inter pares; quello che ha fatto Bartolomeo negli ultimi mesi esce, però, da questo quadro, perché ha agito da primus sine paribus (primo senza pari). Egli ha assunto quasi un ruolo di papa della Chiesa orientale: ora vogliamo ricordare che questa non ha mai avuto papa. Per i cattolici va bene avere un papa; ma non certo per noi. Il sistema papale che in Occidente ha quasi duemila anni, in questi ultimi anni si vorrebbe forse crearlo in Oriente!?
Ha parlato della delicata relazione del patriarca di Costantinopoli con Poroshenko e il suo uso della religione per avere potere politico. Qual è la sua risposta alle persone che in Ucraina dicono – cito – «la Chiesa russa sta dalla parte di Putin, quindi in un certo senso sta dalla parte della Federazione russa e non della Chiesa»?
La questione ecclesiale ucraina non ha nessun rapporto con il problema tra lo Stato della Federazione russa e quello dell’Ucraina: sono due problemi distinti. Per capire perché i credenti e i vescovi ortodossi ucraini desiderano rimanere con la Chiesa russa, bisogna chiedere a loro e non a noi. Il patriarca Bartolomeo ha sempre detto che era il patriarca Kirill che non voleva dare l’autocefalia; dunque pensò: «Preparate il documento e vedrete che tutti aderiranno alla nuova Chiesa». Ciò, però, non è avvenuto; sono rimasti solo gli scismatici con le loro strutture.
Parliamo di Europa. Qual è la sua maggiore preoccupazione per essa? Che cosa dovrebbero fare le chiese per creare un continente migliore?
Intanto, voglio fare riferimento alla dichiarazione comune del papa e del patriarca Kirill a Cuba, che ci offre una base comune per valutare il rapporto Cristianesimo- Europa. Molti paesi del continente cercano di emarginare il Cristianesimo; noi non siamo assolutamente d’accordo. Infatti, essendo l’Europa la casa di diverse Confessioni cristiane, le basi della sua identità sono cristiane. Andate in qualsiasi città europea, guardate la sua architettura, i suoi monumenti, e vedrete l’influenza cristiana.
Quando parla di Stati cristiani, sembra che Le dispiaccia che non esistano più questi Paesi in cui la religione e lo Stato erano dalla stessa parte e uniti nel potere. Forse bisognerebbe tornare indietro: Italia cattolica, Russia ortodossa, Germania protestante?
Noi diciamo che i paesi d’Europa dovrebbero custodire la loro eredità cristiana. La religione cristiana ha fondato l’identità dell’Europa. Ovviamente non richiediamo privilegi ma quando accade che, invece del Christmas si celebra il Xmas, e invece di augurarsi «Buon Natale», si dice «Buone feste» [in sostanza si usano forme più generiche che vanno bene per tutti, cristiani e non], allora non siamo d’accordo. Queste abitudini provano la marginalizzazione del Cristianesimo.
Veniamo all’etica. Ci sono valutazioni comuni tra Chiesa cattolica e Ortodossia su problemi come l’aborto, il divorzio e altri. La Chiesa dovrebbe avere un’influenza sulle leggi dello Stato circa tali questioni critiche?
Vorremmo, prima di tutto, che la voce delle Chiese fosse ascoltata quando si tratta di leggi riguardanti la vita. Noi diciamo: ogni persona ha diritto a nascere e a vivere. Siamo in linea di principio contro l’aborto, tanto più se la sua pratica è pagata dallo Stato, con i soldi di tutti. Anche in Russia esiste l’aborto legale. Io sono disposto a pagare per guarire le persone, ma no a pagare per ucciderle. L’aborto è la diretta conseguenza di una ideologia secolarizzata che ha distrutto la vera idea di famiglia. Certo, sappiamo che non sarebbe realistico pensare che tutti i paesi d’Europa siano contro l’aborto (come è accaduto in Polonia). Ma speriamo che le voci dei credenti e le posizioni delle Chiese siano ascoltate.
L’islam è il pericolo più grande per l’Europa? Magari un giorno, Notre Dame a Parigi sarà trasformata in moschea, come è successo sei secoli fa a Costantinopoli con la chiesa di Santa Sofia?
Non si può escludere l’ipotesi…, se le cose continueranno come vanno adesso! Intanto, i musulmani non vogliono in alcun modo perdere la loro religione. Guardate negli aeroporti: quando è l’ora della preghiera, essi tirano fuori il loro tappeto e pregano, pubblicamente. Ho parlato di queste cose con il cardinale Koch [presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani] quando lui non aveva ancora la porpora. Diceva: «Non dobbiamo temere un islam forte ma un cristianesimo debole».
Quali sono i punti fondamentali di cui dovrebbe occuparsi la Chiesa in Europa?
La cosa più importante è darsi da fare perché l’Europa si ricordi di chi l’ha nutrita nella sua crescita. È vero che la situazione economica in Europa è migliore di quella dell’Africa, dell’America Latina e dell’India, ma qui in Europa l’ideologia laica distrugge la comprensione della famiglia. Dicono, infatti, che la famiglia non è l’unione di un uomo e di una donna, ma può essere anche l’unione di persone dello stesso sesso. Da queste premesse deriva una crisi demografica.
“Come gemma ho voluto portare un libro che avevo in Chiesa, non tanto antico, degli anni ‘50. E’ scritto tutto in latino e ci sono le preghiere per le varie feste e celebrazioni. Nella foto c’è un canto che un tempo era molto sentito e che ora si sente poco: il Missus. Mi piacerebbe riportarlo nella nostra Parrocchia, così come le Rogazioni, i Vespri perché sono molto legato alle tradizioni. Quando vedo questo libro mi brillano gli occhi. Molti chiedono perché non studi per diventare prete: ammetto di averci pensato più di qualche volta, ma mi dicono che sarei troppo serio e il mio sogno è di diventare sacrestano. Diciamo che sono lì, a metà strada”.
Non è frequente sentire parole come quelle di D. (classe prima). Sono apparentemente pochi i giovani interessati a scoprire o approfondire radici e tradizioni dei luoghi in cui vivono; più facile che si appassionino a quelli di un’altra realtà, anche molto distante. Va trovato il canale corretto, la leva giusta per suscitare quell’interesse che non può essere anteposto al senso di comunità. Don Andrea Gallo scriveva: “La Chiesa si ostina ad anteporre la legge all’amore, e a mettere al primo posto il corpus della tradizione anziché la comunione.”
Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.
“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani. Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani. Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra. La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire. La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo. Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita. Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere. Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.
Pubblico un articolo non per studenti. E’ per addetti o appassionati. L’ha scritto Marcello Neri (professore incaricato di Teologia cattolica presso l’Università di Flensburg, Germania) e l’ho recuperato grazie a una segnalazione su Fb da Settimana News. Al centro della riflessione il rapporto tra il proemio della Veritatis Gaudium e il resto del testo.
“Il proemio di Veritatis gaudium (VG) è sicuramente ambizioso, perché non mira a una semplice riorganizzazione degli studi teologici all’interno di istituzioni legate alla Santa Sede. Ben altra è la prospettiva di queste poche pagine uscite dalla penna (o mente) di Francesco: l’orgoglio di una riattivazione dell’efficacia degli studi ecclesiastici che sia all’altezza della loro migliore tradizione, in un contesto però del tutto inedito rispetto alla storia recente della Chiesa e, quindi, mancante di referenzialità esemplari. Liberare la teologia da scorie del passato che ne impediscono il passo sciolto nel presente; rammemorarle che essa non si inventa da sé a ogni dato momento, ma che può sapientemente attingere da un’intelligenza che può essere stata magari marginalizzata, ma non si è certo affievolita; esercitare con libertà e passione una forma del sapere la cui razionalità avanza la pretesa di porre la questione della verità del Dio di Gesù senza volerla imporre come sistema dominante e sintetico di ogni umana ricerca di verità. L’ambizione dell’intento inscritto in queste poche pagine va onorata, da parte della teologia, assumendosi la responsabilità di dare forma concreta all’auspicio e al desiderio di papa Francesco. Vedremo poi come una sorta di schizofrenia del registro linguistico interno del documento rappresenti proprio l’ostacolo maggiore in vista dell’attuazione effettiva dell’idea di studi ecclesiastici e di teologia contenuta nel proemio.
Mi è stato chiesto uno sguardo su VG dalla «periferia»: non solo lontano dal centro romano delle cose e vicende ecclesiali, ma anche in una condizione di estrema marginalità del cattolicesimo e della sua teologia. Come può essere quella di insegnarla in una piccola università del profondo nord tedesco, non in una facoltà ma all’interno di un dipartimento ridotto all’essenziale (dove bisogna arrangiarsi a fare un po’ di tutto, insomma), a sua volta lontano e periferico (geograficamente) rispetto alla sede della diocesi. Da un lato, a mio avviso si tratta di condizioni ideali per guardare a VG come a qualcosa di più di un bel sogno, di un «sarebbe bello, ma…». L’estrema destrutturazione, il disincanto e il realismo cui costringe un contesto di diaspora marcata in condizione di secolarizzazione avanzata, apre praterie alla fantasia della ragione teologica (ammesso che essa ne abbia ancora un po’ in riserva, e non si sia completamente esaurita nelle estenuanti polemiche interne alla compagine ecclesiale). In questo momento, proprio leggendo il proemio di VG, essere piccoli e senza storia, essere periferici e un po’ dimenticati (da Dio, dal tempo e dall’istituzione ecclesiale), essere marginali rispetto all’impianto complessivo di una già piccola università (che non vuol dire essere irrilevanti, però), può essere un vantaggio e, quindi, compete proprio a periferie simili a questa, anche in tutt’altri contesti, farsi carico esplicito dell’impegno per una riattivazione dell’efficacia culturale degli studi ecclesiastici. D’altro lato, la periferia da cui proviene questo sguardo su VG è strana – appunto, perché rimane comunque piantata nel cuore dell’Europa sebbene sia caratterizzata da disimmetrie relazionali con il «centro» – o, almeno, con quanto prima di Bergoglio era il centro effettivo del cattolicesimo; e che con lui, a mio avviso, è stato fortemente relativizzato sebbene tutti continuino a fare come se fosse ancora tale. Tutto questo diventa evidente quando si sta davvero in una periferia, quando si abita un margine reale del cattolicesimo contemporaneo: quello che si considera il «centro», nonostante l’opera di ridislocamento in atto delle coordinate fondamentali della Chiesa cattolica, appare essere immediatamente tale solo in forma nominale. In realtà, il «centro» è solo uno dei molti margini possibili attualmente che delineano l’altrove insituabile del periferico. Questa attrazione che assorbe apparentemente su di sé l’interno è, a mio avviso, ancora la funzione virtuosa del «centro» (margine fra i margini) della Chiesa cattolica, in quanto permette ampi spazi di movimento nelle sue zone periferiche.
L’esperienza della periferia da cui si muove la mia prospettiva è come quella di chi è uscito da lungo tempo da casa e ha percorso molti sentieri non lineari (alcuni anche interrotti, come è bene che sia), e che ora – voltandosi indietro – non riesce a intravedere più o non ha alcuna memoria della porta dalla quale si è usciti. Letta a partire da questa esperienza di periferia, VG è come se si stesse ancora cercando la porta giusta da cui uscire; fino al passo decisivo che compie il proemio di Francesco di decidere che, piuttosto che continuare a tergiversare in attesa della giusta via di uscita, è molto meglio fare un bel buco nel muro (anche perché molto probabilmente quella porta non esiste affatto). Poco importa dove si faccia saltare il bastione per generare un’apertura, perché sarà sempre più fruttuoso che estenuarsi nel trovare l’uscita che non c’è. Il proemio di VG rappresenta la consapevolezza raggiunta da papa Francesco che, per quanto riguarda gli studi ecclesiastici, o si procede un po’ brutalmente in questa maniera oppure essi perderanno definitivamente il treno che potrebbe condurli nell’aperto della loro destinazione (anziché continuare a stare comodamente in pantofole nell’ambiente familiare in cui abitano oramai solo loro – e, al più, i cloni che essi auto-generano). Ma è proprio qui che la contraddizione tra proemio (ispirativo, pronto a sparigliare senza timore le carte in gioco) e il resto del documento (giuridico, preoccupato di organizzare l’esistente) si fa non solo più evidente, ma appare quasi comica. Alla fin fine, sembra di essere dentro un cartone animato di Willy il Coyote: mentre il nostro anti-eroe sfortunato ci ha messo l’anima, e ogni ingegno possibile, per aprire una breccia nel muro di cinta, il perfido Road Runner del massimalismo normativo-giuridico ha già provveduto a costruirne un altro tutt’attorno – più alto e più solido di quello così faticosamente abbattuto. L’ampliamento caparbiamente voluto dal buon Willy-Francesco è ridotto a semplice illusione ottica dall’ossessione di controllo del Road Runner vaticano di turno (in questo caso la Congregazione per l’educazione cattolica).
Qual è il testo di Veritatis gaudium?
Si pone, quindi, la questione di quale testo sia VG: il proemio o la parte normativo-canonica? O l’adesione degli studi ecclesiastici al vissuto quotidiano della fede, nel quale il «perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture» è già «messo in atto dal popolo di Dio» (VG 3), oppure l’indistinzione onnipervasiva del dettato giuridico che omologa centralmente gli studi ecclesiastici stessi? Non si tratta solo del fatto che i due testi parlano di cose diverse e inconciliabili fra di loro, ma anche che con l’attuale impianto normativo (che fa il secondo testo) degli studi ecclesiastici la figura del poliedro, così centrale nella visione ecclesiologica e culturale di Francesco, è semplicemente impossibile: per la forma canonica asserita, esso è semplicemente inconcepibile. Non solo gli studi ecclesiastici vengono considerati come una sfera indifferenziata, ma tutti i punti della superficie che la compongono sono dei cloni del centro onnipresente. Questo effetto artificiale di rispecchiamento narcisistico permette al centro di immaginarsi di poter essere efficacemente presente ovunque; ma appunto, si tratta solo di un’illusione che può essere tenuta in vita unicamente mortificando la realtà delle cose.
Dalla teologia della liberazione alla liberazione della teologia
Se e in quale misura papa Francesco sia influenzato dalla teologia della liberazione è questione che può rimanere tranquillamente aperta per quanto riguarda queste considerazioni su VG (ritengo quindi che il testo di VG sia esclusivamente il proemio). Tenendo conto di alcuni aspetti di semplice correttezza metodologica. In primo luogo, che il singolare sotto cui si sussumono tutta una serie di percorsi teologici, pastorali e personali è un raccoglitore ideal-tipico che non rende ragione alla vivacità del dibattito critico acceso da quegli stessi diversi itinerari della fede. In secondo luogo, bisognerebbe chiedersi se il termine «teologia della liberazione», così come esso viene usato nell’Occidente europeo, non sia alla fin fine una sorta di denominazione colonizzante di un pensiero non omologabile a quello del centro europeista. Fatte queste brevi premesse, mi sembra possibile affermare che VG miri esplicitamente alla liberazione della teologia da se stessa; il che vuol dire anche dall’apparato istituzionale e canonico che le sta impedendo di essere quello che Francesco si auspica che essa sia. VG non dice cosa la teologia deve essere dopo questo processo di liberazione; non lo dice perché, una volta che esso si sia effettivamente realizzato, non sarà possibile definire univocamente la teologia approdata a questo esito (se non in termini così generici e astratti da non voler dire sostanzialmente nulla). Piuttosto, VG si limita, con un gesto tipico di Francesco, a indicare un metodo procedurale che necessariamente si realizza in una multiformità di modi concreti: gli studi ecclesiastici «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo (…)» (VG 3). Se così si pratica la teologia, allora è chiaro che essa, entrando nel laboratorio della vita umana cui si destina l’evento cristiano, non sa né come ne uscirà lei, né cosa ne uscirà da questa impresa performativa della fede. Ossia, la teologia non sa mai a monte come di fatto si realizza, in un dato luogo e tempo, la realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo. E non lo sa neanche a valle, perché questa realtà è, come la sua adeguata interpretazione teologica, squisitamente performativa: ossia, si genera in atto; si dà in quanto pratica di vissuti umani contingenti.
Per una declericalizzazione degli studi ecclesiastici
Ogni possibile riattivazione degli studi ecclesiastici che voglia essere all’altezza di una destinazione che non si consuma nel proprio rispecchiamento e auto-conferma, passa attraverso la possibilità, capacità e volontà di disinnescare la simbiosi con l’itinerario di formazione al ministero ordinato, che ne ha sequestrato in toto la loro ragion d’essere. In questo momento, tale sovrapposizione non fa bene né al sapere teologico né al ministero ordinato; lasciando da parte la questione scottante del fatto che gli studi ecclesiastici sono al massimo «sopportati», ma non certo supportati, dalle istituzioni ecclesiali attuali preposte alla formazione di quello che sarà il corpo clericale della comunità cristiana (seminaristi inclusi). Nella direzione di uno scioglimento della cattiva simbiosi fra studi ecclesiastici e introduzione allo stato presbiterale della vita cristiana muove, con estrema chiarezza e lucidità, il proemio stesso di VG: «il vasto e pluriforme sistema degli studi ecclesiastici è fiorito lungo i secoli dalla sapienza del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nel dialogo e discernimento dei segni dei tempi e delle diverse espressioni culturali» (VG 1). Francesco auspica dunque una restituzione degli studi ecclesiastici al loro soggetto generatore, ossia al popolo di Dio nella sua sagacia, che nella prospettiva di Bergoglio è sicuramente una categoria non immediatamente definibile, ma plastica e storicamente determinata. La forza che istituisce questo luogo genetico degli studi ecclesiastici è quella dello Spirito Santo, attualizzazione e concretizzazione dell’evento cristiano di Dio nel distendersi della storia umana. Infine, la loro ragion d’essere è quella del discernimento dei segni dei tempi, ossia dell’attualità evangelica della storia nelle sue molte complessità, e di un’intelligenza delle esperienze culturali, cioè della pluralità e multiformità di cui deve essere capace la performatività dell’evento cristiano. Riconsegnati a questa scena originaria della loro genesi, quindi a un’attuazione non servile né funzionale, gli studi ecclesiastici nella loro riattivazione efficace faranno bene anche al momento di introduzione al ministero ordinato nella Chiesa, educato da essi a non comprendersi come corpo separato, o a sé stante, all’interno della comunità cristiana. L’ordinamento canonico che non solo garantisce, ma addirittura richiede una separazione clericale degli studi teologici risulta incompatibile non solo con questo quadro di restituzione allo spazio genetico dell’insieme degli studi ecclesiastici, ma rende di fatto impraticabile un’effettiva introduzione al criterio della «inter- e trans-disciplinarietà», da esercitare «con sapienza e creatività nella luce della rivelazione» (VG 4c), che dovrebbe organizzarne l’architettura complessiva.
Non c’è possibilità di riattivare l’efficacia storica degli studi ecclesiastici se non si lascia spazio a un «tentare» che non può controllare, né predeterminare, l’esito dell’impresa a cui si mette mano. Francesco parla esplicitamente della forma «aperta, cioè incompleta» (VG 3) del buon pensiero che scaturisce dall’intelligenza storica del vangelo di Gesù. Ancora una volta, tra il testo di VG e quello che chiamerei l’apparato canonico a lui giustapposto c’è una sostanziale contraddizione di termini – dove il secondo ha esattamente l’ossessione di non lasciare aperto alcuno spazio, né indeterminata alcuna possibilità. Senza dover scendere in questioni di merito sicuramente decisive, come quella di cosa voglia dire dal punto di vista canonistico la libertà accademica, cui a questo punto neanche gli studi ecclesiastici possono rinunciare se vogliono essere riattivati nel senso di VG, è proprio la forma mentis di base che porta all’elisione di una delle due parti del documento. Detta in altre parole: il proemio richiede in questo momento agli studi ecclesiastici uno scarto che si può realizzare solo nella forma della loro anomia, stante il quadro giuridico preposto al loro governo. Non vi è altro modo di esercitare effettivamente un pensiero incompleto, esattamente perché l’iper-tonicità del quadro giuridico-canonico mira a eliminare qualsiasi possibile incompletezza. Solo assumendo il dovere di questa anomia, gli studi ecclesiastici verranno finalmente liberati dall’ossessione di essere il tutto (del sapere) e di avere l’ultima parola da dire (sulla verità).
25 anni fa la Camorra uccise don Peppe Diana . “Nel 1991, il giorno di Natale, don Peppe Diana aveva diffuso uno scritto, letto in tutte le chiese della zona, intitolato “Per amore del mio popolo”. Era un manifesto che annunciava, a voce alta, l’impegno contro la criminalità organizzata, definita una forma di terrorismo che provava a diventare componente endemica della società. Parole ed impegno che gli sono costati cari. Il 19 marzo del 1994, giorno anche suo onomastico, Don Peppe Diana venne freddato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre stava per celebrare la messa. Il parroco morì all’istante, colpito da cinque proiettili: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo” (da Rainews24).
Con queste parole lo ricorda don Luigi Ciotti: “25 anni. Non c’è stato un giorno, in questo quarto di secolo, in cui non abbiamo sentito la presenza di don Peppe Diana attraverso l’impegno di chi, con tenacia e spesso coraggio – essendo un impegno, ahinoi, ancora troppo controcorrente – cerca non solo di “seguire” il Vangelo ma di viverlo, di tradurlo in scelte, atti e comportamenti, dentro e fuori dalla Chiesa. Ma se c’è stato un giorno in cui don Diana lo abbiamo sentito non solo presente, ma vivo, è stato il 21 marzo del 2014 nella Chiesa di San Gregorio a Roma, alla vigilia della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si svolse quell’anno a Latina. Quel giorno, a San Gregorio, Papa Francesco incontrò un migliaio di famigliari delle vittime, tra cui quelli di don Diana e don Pino Puglisi. E al momento della benedizione, appoggiai con commozione sulle spalle del Papa la stola di don Peppe. Francesco parlò ai famigliari con grande trasporto, ringraziandoli per la loro quotidiana testimonianza, per la scelta difficile di non chiudersi ma di trasformare vuoti tanto strazianti in impegno per la giustizia. E poi si rivolse a quelli che definì i “grandi assenti”, gli uomini e le donne della mafia, esortandoli “in ginocchio”, a una conversione: il potere e il denaro che accumulate è sporco di sangue, sottolineò, e non potrete portarlo nell’altra vita. Don Peppe quel giorno era vivo nelle parole e nello slancio di un Papa che incarnava la Chiesa che Peppe aveva sognato e per la quale aveva messo in gioco la sua vita, una Chiesa che non si limita appunto a predicare il Vangelo ma lo vive, facendone un concreto strumento di liberazione e di giustizia a partire da questa Terra. Ecco perché oggi, a 25 anni dal suo assassinio, è essenziale non limitarsi a ricordare: bisogna fare del ricordo un pungolo di coscienza, una memoria viva. E un grande stimolo ci viene, in questo frangente in cui la sacra parola “popolo” rischia di diventare un concetto ambiguo, strumentale, una foglia di fico alla sete di potere dei “populisti”, proprio il documento “Per amore del mio popolo non tacerò”, che don Peppe scrisse e pubblicò insieme ai sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe nel Natale del 1991, pochi mesi prima delle stragi di mafia, di quella storia di immane violenza che la mattina del 19 marzo 1994 uccise il corpo ma non lo spirito di quel giovane, scomodo prete che si apprestava a celebrare la Messa. Colpisce, di quel testo, la profezia e la profondità di sguardo. Don Peppe non si limita a denunciare il male, ma ne mette in luce il legame con un più generale vuoto di coscienza e di civiltà. C’è la descrizione puntuale della mafia camorristica, il suo evolversi già come mafia imprenditoriale, mafia non solo delle armi, ma della tangente e dell’appalto. Ci sono le responsabilità politiche, i vuoti amministrativi e istituzionali, la burocrazia, il clientelismo, il dilagare della corruzione. C’è l’invito alla Chiesa a “farsi più tagliente e meno neutrale”, più coerente con “la prima beatitudine del Vangelo che è la povertà”, in quanto “distacco dal superfluo, da ogni ambiguo compromesso e privilegio”. Ci sono insomma le indicazioni essenziali per costruire comunità in cui tutti contribuiscano alla libertà e dignità di ciascuno. Per ricordare don Diana è allora importante meditare sulle sue parole, ma occorre anche trasformare la meditazione in azione, occorre fare del suo messaggio il nostro impegno, la nostra credibile testimonianza di vita.” (Famiglia Cristiana 17/03/2019, reperito su Libera).
Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.
“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne?Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione. Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa? Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito. Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.
Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché? O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”. P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica. O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.
Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione? P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione. O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.
La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta? P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica. Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico. O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.
Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr] P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria. O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione. La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.
Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente… O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam. P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”
E’ un argomento che affrontiamo specificatamente in quinta quello della globalizzazione, dello sviluppo e delle risorse del nostro pianeta. Ma cerco di pubblicare spesso articoli sul tema, in modo che anche studenti delle altre classi possano leggere qualcosa. Oggi, su Vatican Insider, l’approfondimento de La Stampa dedicato a quanto succede intorno al pianeta-Chiesa, Iacopo Scaramuzzi ha scritto dell’incontro tra Papa Francesco e i partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals”.
“Il Papa ha messo in guardia dal «sentiero pericoloso» di ridurre lo sviluppo alla crescita del Prodotto interno lordo (PIL), una convenzione che porta a «sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani», in un discorso dedicato all’Agenda internazionale 2030 per uno sviluppo sostenibile, ricordando che, invece, è necessaria una «impostazione integrata degli obiettivi» e bisogna «rispondere adeguatamente sia al grido della terra sia al grido dei poveri». Francesco ha citato in particolare il modello delle popolazioni indigene, in vista del Sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre, mettendo in evidenza che «sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre». «Proporre un dialogo su uno sviluppo inclusivo e sostenibile richiede anche di riconoscere che “sviluppo” è un concetto complesso, spesso strumentalizzato», ha detto il Papa nell’udienza ai partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals (SDGs): Listening to the cry of the earth and of the poor” (Le religioni e gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile: ascoltare il grido della terra e del povero), organizzata da ieri a domani dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale e dal pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso. «Quando parliamo di sviluppo dobbiamo sempre chiarire: sviluppo di cosa? Sviluppo per chi? Per troppo tempo l’idea convenzionale di sviluppo è stata quasi interamente limitata alla crescita economica», ha sottolineato Francesco. «Gli indicatori di sviluppo nazionale si sono basati sugli indici del prodotto interno lordo (PIL). Ciò ha guidato il sistema economico moderno su un sentiero pericoloso, che ha valutato il progresso solo in termini di crescita materiale, per il quale siamo quasi obbligati a sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani». E invece, «come ha messo in risalto il mio predecessore San Paolo VI – ha proseguito il Pontefice – parlare di sviluppo umano significa riferirsi a tutte le persone – non solo a pochi – e all’intera persona umana – non alla sola dimensione materiale». Pertanto, «una fruttuosa discussione sullo sviluppo dovrebbe offrire modelli praticabili di integrazione sociale e di conversione ecologica, perché non possiamo svilupparci come esseri umani fomentando crescenti disuguaglianze e il degrado dell’ambiente». Papa Francesco, che ha citato ampiamente la Caritas in veritate di Benedetto XVI ed ha menzionato l’appello di Giovanni Paolo II ad una «conversione ecologica», ha notato che «l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite propone di integrare tutti gli obiettivi attraverso le “cinque P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership», una «impostazione integrata», ripresa anche dalla conferenza vaticana, che, ha proseguito Francesco citando la sua enciclica Laudato si’ «può servire anche a preservare da una concezione della prosperità basata sul mito della crescita e del consumo illimitati, per la cui sostenibilità dipenderemmo solo dal progresso tecnologico. Possiamo ancora trovare alcuni che sostengono ostinatamente questo mito, e dicono che i problemi sociali ed ecologici si risolvono semplicemente con l’applicazione di nuove tecnologie e senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo», e invece «un approccio integrale ci insegna che questo non è vero» poiché «gli obiettivi economici e politici devono essere sostenuti da obiettivi etici, che presuppongono un cambiamento di atteggiamento, la Bibbia direbbe un cambiamento di cuore». Quanto alla risposta delle «persone religiose», il Papa ha messo in evidenza, in particolare, il ruolo delle popolazioni indigene: «Sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre. Vivendo in aree quali l’Amazzonia e l’Artico, aiutano a proteggere circa l’80% della biodiversità del pianeta». Inoltre, «in un mondo fortemente secolarizzato, tali popolazioni ricordano a tutti la sacralità della nostra terra. Per questi motivi, la loro voce e le loro preoccupazioni dovrebbero essere al centro dell’attuazione dell’Agenda 2030 e al centro della ricerca di nuove strade per un futuro sostenibile. Ne discuterò anche – ha sottolineato il Papa – con i miei fratelli Vescovi al Sinodo della Regione Panamazzonica, alla fine di ottobre di quest’anno». Papa Francesco ha concluso il suo discorso evidenziando che «le sfide sono complesse e hanno molteplici cause; la risposta pertanto non può che essere a sua volta complessa e articolata, rispettosa delle diverse ricchezze culturali dei popoli. Se siamo veramente preoccupati di sviluppare un’ecologia capace di rimediare al danno che abbiamo fatto, nessuna branca delle scienze e nessuna forma di saggezza dovrebbero essere tralasciate, e ciò include le religioni e i linguaggi ad esse peculiari. Le religioni – ha detto Jorge Mario Bergoglio citando la Popolorum progressio di Paolo VI – possono aiutarci a camminare sulla via di un reale sviluppo integrale, che è il nuovo nome della pace».
“Roboetica: Persone, Macchine, Salute” è il titolo del Workshop aperto al pubblico che si è svolto il 25 e 26 febbraio 2019, all’interno dell’Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita. Papa Francesco ha ricevuto in udienza i partecipanti alla plenaria e Salvatore Cernuzio ne ha scritto su La Stampa.
“La macchina che domina l’uomo, i robot che sostituiscono la persona umana, la logica del dispositivo che soppianta la ragione umana. Il futuro distopico prefigurato da cinema e letteratura già mezzo secolo fa rischia di divenire un pericolo reale con l’avvento e l’aumento delle nuove tecnologie. Il monito non giunge da scienziati e antropologi ma da Papa Francesco, il quale […] avverte: «L’odierna evoluzione della capacità tecnica produce un incantamento pericoloso: invece di consegnare alla vita umana gli strumenti che ne migliorano la cura, si corre il rischio di consegnare la vita alla logica dei dispositivi che ne decidono il valore». Un vero e proprio «rovesciamento» che, secondo Bergoglio, è destinato a produrre «esiti nefasti: la macchina non si limita a guidarsi da sola, ma finisce per guidare l’uomo. La ragione umana viene così ridotta a una razionalità alienata degli effetti, che non può essere considerata degna dell’uomo». In questo senso va rivista la denominazione stessa di “intelligenza artificiale” che, «pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante», annota Francesco. «I termini occultano il fatto che – a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) –, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi». È del resto già reale «il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata»: lo si vede già adesso che «a “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane». Bisogna allora «comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale», dice il Pontefice. «I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana», aggiunge. «Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine» che si diffondono a vista d’occhio nel mondo e «trasformano radicalmente lo scenario della nostra esistenza». «Se sapremo far valere anche nei fatti questi riferimenti, le straordinarie potenzialità dei nuovi ritrovati potranno irradiare i loro benefici su ogni persona e sull’umanità intera», assicura il Papa. Il primo passo è ricominciare a comprendere la tecnologia non come forza «estranea e ostile» all’uomo, ma come «prodotto del suo ingegno attraverso cui provvede alle esigenze del vivere per sé e per gli altri». La tecnologia dovrebbe apparire «una modalità specificamente umana di abitare il mondo», sottolinea il Pontefice. Oggi invece si assiste ad un «drammatico paradosso»: «Proprio quando l’umanità possiede le capacità scientifiche e tecniche per ottenere un benessere equamente diffuso, secondo la consegna di Dio, osserviamo un inasprimento dei conflitti e una crescita delle disuguaglianze». Declina così «il mito illuminista del progresso» e «l’accumularsi delle potenzialità che la scienza e la tecnica ci hanno fornito non sempre ottiene i risultati sperati». Anzi, mentre da un lato «lo sviluppo tecnologico ci ha permesso di risolvere problemi fino a pochi anni fa insormontabili», dall’altro emergono «difficoltà e minacce talvolta più insidiose delle precedenti», afferma Papa Francesco. «Il “poter fare” rischia di oscurare il chi fa e il per chi si fa. Il sistema tecnocratico basato sul criterio dell’efficienza non risponde ai più profondi interrogativi che l’uomo si pone; e se da una parte non è possibile fare a meno delle sue risorse, dall’altra esso impone la sua logica a chi le usa».” Non solo. Si assiste anche ad un progressivo «logorarsi» del tessuto delle relazioni familiari e sociali e si diffonde sempre di più «una tendenza a chiudersi su di sé e sui propri interessi individuali, con gravi conseguenze sulla grande e decisiva questione dell’unità della famiglia umana e del suo futuro». E se a tutto ciò aggiungiamo anche «i gravi danni causati al pianeta, nostra casa comune, dall’impiego indiscriminato dei mezzi tecnici», risulta chiaro che le prospettive del futuro siano piuttosto negative. Il Papa esorta allora a ripristinare quel concetto di «ecologia integrale» descritto e promosso nella Laudato si’: nel mondo odierno, «segnato da una stretta interazione tra diverse culture», occorre portare lo specifico contributo dei credenti alla ricerca di «criteri operativi universalmente condivisibili, che siano punti di riferimento comuni per le scelte di chi ha la grave responsabilità di decisioni da prendere sul piano nazionale e internazionale», afferma. In quest’ottica, «l’intelligenza artificiale, la robotica e le altre innovazioni tecnologiche» vanno impiegate «al servizio dell’umanità e alla protezione della nostra casa comune invece che per l’esatto opposto, come purtroppo prevedono alcune stime», chiosa il Pontefice. «L’inerente dignità di ogni essere umano va posta tenacemente al centro della nostra riflessione e della nostra azione».”
Come ogni anno, nelle classi terze, affrontiamo l’argomento della pena di morte. In una vi siamo dentro già da un po’, nelle altre stiamo per iniziare. Poco fa è stato rilanciato dai social un brevissimo video di papa Francesco sul tema. Così ne scrive Paolo Petrini su La Stampa:
“«Ogni vita è un bene e la sua dignità deve essere custodita senza eccezioni. La pena di morte è quindi una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona». Lo afferma Papa Francesco nel videomessaggio inviato al VII Congresso mondiale contro la pena di morte, in corso al Parlamento europeo a Bruxelles fino al 1° marzo, promosso dalla Ong “Ecpm” (Together Against the Death Penalty – Insieme contro la pena di morte), in collaborazione con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte. «Vi accompagno con la mia preghiera e incoraggio il vostro lavoro e quello dei governanti e di tutti coloro che hanno responsabilità nei loro Paesi a compiere i passi necessari verso l’abolizione totale della pena di morte», dice Francesco nel filmato. «È vero che le società e le comunità umane devono affrontare spesso problemi molto gravi che minacciano il bene comune e la sicurezza delle persone, ma oggi ci sono altri mezzi per espiare il danno causato, la detenzione è sempre più efficace nel proteggere la società». «Non si può mai abbandonare la convinzione di offrire a chi si è macchiato di crimini la possibilità di pentirsi», insiste ancora il Pontefice, «nessuno può essere ucciso e privato dell’opportunità di abbracciare nuovamente la comunità che ha ferito e fatto soffrire». La pena di morte, infatti, è «una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona». «L’obiettivo dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo rappresenta una coraggiosa difesa della dignità della persona e la convinzione che l’uomo può affrontare il crimine, così come respingere il male, offrendo al condannato il possibilità e il tempo per riparare il danno commesso, pensare alla sue azione e quindi essere in grado di cambiare la vita, almeno interiormente». Nel video messaggio Francesco cita anche la recente modifica al testo del Catechismo della Chiesa cattolica relativo alla pena capitale. «La Chiesa insegna alla luce del Vangelo che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo». Per il Papa, è un fattore positivo «il fatto che sempre più Paesi scommettano sulla vita e non sulla pena di morte o addirittura l’abbiano completamente eliminata dalla loro legislazione penale». Per continuare a procedere in questa direzione, Papa Francesco esorta a «riconoscere la dignità di ogni persona» e a «lavorare in modo che non vengano eliminate altre vite, ma guadagnate per il bene della società nel suo complesso».
In questi giorni, nelle classi quinte, all’interno del percorso sulla globalizzazione stiamo affrontando il tema dell’ecologia, dell’inquinamento, dei consumi, del rispetto della natura e così via. Ho pensato di registrare un podcast sulla Laudato si’, l’enciclica sulla cura della casa comune di Francesco (così si è firmato il papa). Ieri pomeriggio, allora, mi sono messo a rileggerla a partire dalle sottolineature che avevo fatto in prima lettura; come spesso faccio, mentre lavoro sul cartaceo, tengo acceso il computer sulla pagina di Twitter e di tanto in tanto butto un’occhiata alle notizie. Così mi sono imbattuto in questo titolo: “Apre “Casacomune. Laudato si’ Laudato qui””. “Mmmmh, mi sa che la cosa mi interessa” ho pensato. Proprio così. Ecco l’articolo preso da LiberaInformazione:
Al via “Casacomune – Laudato si’ Laudato qui”, la scuola di formazione, di dialogo interculturale e incontro sociale ispirata ai principi espressi nell’enciclica di Papa Francesco, “Laudato si’”. Un canto d’amore per la terra, ma anche un monito all’uomo affinché ne abbia cura, nel segno di quella “ecologia integrale” che vede nella responsabilità verso il creato la necessaria premessa al benessere delle creature. Venerdì 15 febbraio alle 11.00, presso la Certosa 1515 di Avigliana (via Sacra di San Michele 51, Avigliana, Torino), la presentazione della Scuola e l’avvio del primo corso, intitolato “Il grido della terra, il grido dei poveri” che terminerà domenica 17 febbraio. Saranno presenti Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera e tra i fondatori di Casacomune, Luca Mercalli, presidente della Società Metereologica italiana, Cesare Lasen, geobotanico e naturalista, membro del comitato scientifico della Fondazione Dolomiti Unesco, Lucio Cavazzoni, membro della Fondazione Goodland, entrambi co-fondatori di Casacomune, lo chef Simone Salvini, Mariachiara Giorda, storica delle religioni dell’Università Roma Tre, Alex Zanotelli, missionario comboniano, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, e Silvano Petrosino, filosofo dell’Università Cattolica di Milano. Sarà anche l’occasione per l’inaugurazione dello spazio dedicato al ricordo di Gianmaria Testa.
Casacomune – con il patrocinio del Dicastero Vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale – vuole promuovere i valori e le azioni dell’ecologia integrale e della giustizia. Il calendario delle formazioni della Scuola sarà fitto. Saranno affrontati temi sociali, ambientali, storici, economici, declinando rigore scientifico e dimensione spirituale ed etica, lasciando spazio al racconto di esperienze innovative, per dare il segno di un cambiamento già iniziato. La Scuola offrirà corsi generalisti e corsi dedicati a temi specifici (cibo, aziende, formazione) aperti a tutti e di carattere prevalentemente residenziale. […] “Come ci ricorda Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ “oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con sé stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente”, spiega Luigi Ciotti, tra i fondatori di Casacomune e Presidente del Gruppo Abele e di Libera. “Oggi viviamo – continua Ciotti – in una realtà complessa e straordinariamente connessa nella quale ogni scelta – professionale o privata, di consumo o stile di vita – ha un impatto che supera di molto i confini dell’esperienza personale. Ma questo impatto facciamo fatica a misurarlo. Abbiamo spesso una visione frammentata che da un lato ci rende meno responsabili, dall’altro ci fa sentire impotenti di fronte alle grandi sfide del presente. Casacomune – conclude Luigi Ciotti- vuole essere un luogo di sosta e di pensiero, un percorso continuativo per imparare ad agire insieme a favore di quel cambiamento che non può attendere oltre”.
Per contatti, foto o info: Segreteria Casacomune tel: 011/3841049 mail: casacomune.laudatoqui@gmail.com
Il 6 febbraio 1992 si concludeva a Milano l’esperienza terrena di David Maria Turoldo, teologo, poeta, profeta friulano. La scorsa settimana, nel giorno dell’anniversario, l’Aula Magna del mio liceo ha ospitato l’Associazione culturale Padre David Maria Turoldo.
La Dirigente Gabriella Zanocco ha salutato così i presenti: “Come scuola ci sentiamo veramente e sinceramente onorati per aver potuto offrire a voi l’occasione di vivere questo incontro. Non siamo di fronte ad una conferenza tradizionale o a quelle a cui siamo tradizionalmente abituati, dove si dicono delle cose che hanno una ricaduta più o meno interessante, più o meno didattica. Il tema di questa conferenza che si incentra su un uomo particolare vuole portare tutti noi e tutti voi a una riflessione profonda, a ragionare cosa significhi l’umanità e vivere profondamente l’umanità. Sono parole che hanno un loro peso forte e io credo che oggi, in questo momento storico abbiano un peso maggiore che in altri momenti. Che cos’è l’umanità? Cosa significa? Quando andavo a scuola mi hanno insegnato che le parole accentate sono parole astratte. Umanità è una parola accentata, ma non c’è niente di più concreto, se noi guardiamo al significato di questo termine e lo rapportiamo alla storia in generale, non soltanto alla storia di oggi, ma a tutto l’arco storico dell’umanità stessa. Allora una riflessione su padre Turoldo fatta oggi, anniversario della sua morte, credo che debba essere fatta e debba essere fatta soprattutto con i ragazzi, con l’umanità del futuro, con l’umanità che viene chiamata a essere direttiva nel futuro. Dove ci portano certe scelte e quali valori devono essere per noi irrinunciabili? Grazie per le riflessioni che verranno fatte oggi ma soprattutto grazie per le riflessioni che dovremo noi tutti fare domani”.
La Direttrice del Comitato Scientifico dell’Associazione, Raffaella Beano, ha introdotto quindi la figura di padre Davide e la visione di un filmato. Ha quindi invitato a prendere la parola Ermes Ronchi, friulano, anche lui teologo dell’ordine dei Servi di Maria e amico di padre Davide.
“Sono molto emozionato di essere davanti a tanti bei volti, a tanti begli occhi perché è in questa bellezza che riposa la speranza di noi che abbiamo già navigato. Quando padre David arrivava nella mia casa natia a Racchiuso di solito era sera e arrivava sempre con degli amici, mai da solo: aveva un bisogno fisico di avere degli amici attorno. Arrivava e iniziava dal fondo del lungo cortile che porta alla casa – era già sera, i contadini vanno a letto presto, le luci spente, ma a lui non importava: quando arrivava in un posto diceva “Adesso, chi andiamo a tirar giù dal letto?” – a dire “Mariute, atu alc di mangjâ?”. Scendevano il papà e la mamma; il papà scendeva in cantina a prendere un salame perché era quello che lui desiderava e poi lui lo preparava, preparava le fette, tagliava la cipolla, il salame con l’aceto, il salam cun l’asêt, il fast-food contadino, era il nostro McDonald’s. Quando c’era urgenza, fretta, fame e voglia di stare insieme con semplicità il papà correva con i boccali del merlot dalla cantina. Ogni incontro con lui era un evento, diventava un evento di cui poi si parlava a lungo perché uscivi arricchito da ogni incontro con lui… E’ stato uno degli uomini dell’Italia di quegli anni che più è ricordato. Perché? Perché era un poeta ed un profeta, questa la sua forza: la poesia e la profezia. Apparteneva alla gente di questa nostra terra, ma aveva le finestre aperte ai grandi venti della storia. Ben radicato, amava il suo Friuli, ma aperto a tutti i movimenti. Nella sua chiesa di Fontanelle arrivava gente da tutta Europa ed era diventato il laboratorio liturgico più importante del mondo in quell’epoca del post Concilio. Non solo dall’Europa, ma da tutti i movimenti popolari, dall’America Latina, che allora gemeva sotto le dittature militari, arrivava gente perseguitata, arrivavano profughi e lui li accoglieva. La sua casa era un crogiolo di storia e di futuro. A incontrarlo ti colpiva subito, da un lato la sua forza contadina, le grandi mani, la sua imponenza e irruenza da antico guerriero vichingo (Turoldo è un nome vichingo, un nome normanno che dice e tradisce la sua origine e anche la sua fisicità), dall’altro i suoi occhi che si commuovevano, occhi infantili e chiari, contrasto tra quella voce profonda, da cattedrale o da deserto, e l’invincibile sorriso degli occhi azzurri. Figlio di questa nostra terra friulana, scriveva, “dove gli occhi di tutti diventano azzurri a forza di guardare”. Il suo nome da ragazzo era Bepo, Bepo rôs, rosso, il soprannome che gli davano i compagni per i capelli rossi, che poi con l’età sono diventati di un biondo meno inquietante. Io conservo di lui trent’anni di amicizia, trent’anni in cui è stato il mio riferimento, l’amico. Ho subito da parte sua una seduzione di lungo corso e che continua dopo tanti anni dalla morte con la brezza dell’amicizia e il vento impetuoso che scuote ancora, brezza e uragano insieme; lui era così, era dolce e combattivo. Aveva un grandissimo amore per la vita che mi colpiva sempre, era amore per l’uomo, per gli amici, per la festa, l’incantamento che provava davanti alla natura, ad un fiore sul muro, la gioia concreta del buon vino bevuto con gli amici. Ricordo le partite a scopone scientifico la domenica sera a Fontanelle, finite tutte le celebrazioni, con gli amici; erano quattro amici, sempre coppie fisse, e le risate e i pugni battuti sul tavolo per una giocata sbagliata e poi le notti a ragionare insieme di poesia e di Dio. Mi ha insegnato ad amare con la stessa intensità il cielo e la terra, questa era la sua grande caratteristica. E, come diceva la Dirigente prima, la caratteristica di Turoldo si trova nelle sue parole: “Guardate che il criterio fondamentale per decidere le vostre scelte, è questo: scegliete sempre l’umano contro il disumano”. Questo è importantissimo soprattutto oggi, in cui viene avanti il disumano ragionevole: si ammantano scelte disumane di ragionevolezza, si truccano di bene comune o di difesa del bene comune scelte disumane. Su questo è necessario per tutti noi vegliare. Che cosa lo fa essere così vivo? La poesia e la profezia, e poi questa insurrezione di libertà; ci ha contagiato di libertà, di sogni e della passione per Dio. Il mondo, per lui, si divideva non tanto fra poveri e ricchi, no, c’era qualcosa di più profondo… lui diceva “Il mondo si divide tra i sottomessi, i sotans, e i ribelli per amore”, così si chiamavano gli uomini della resistenza a Milano. Ecco, lui era, con tutto se stesso, un ribelle per amore. Aveva quella doppia beatitudine segreta, non scritta nel Vangelo, ma scritta dal dito di Dio nella vita di tanti… aveva due beatitudini: quella degli uomini liberi – beati gli uomini liberi e le donne libere, beato l’uomo e felice la donna che ha sentieri nel cuore, strade di libertà – e quella degli oppositori – beato chi sa opporsi al mare, beati coloro che hanno il coraggio dell’opposizione all’ingiustizia, all’indifferenza, allo spirito di sconfitta. Credo che questa opposizione all’ingiustizia sia estremamente importante; se vedi una situazione di ingiustizia e non ti schieri, allora tu ti metti dalla parte dell’oppressore, non ci sono alternative. Lui si opponeva per ubbidienza all’umano, e per ubbidienza alla parola di Dio. Si opponeva a tutto ciò che umilia, emargina, crocifigge, sottomette, ciò che chiude; si opponeva con la parola, con la radio, coi giornali, con i libri. In difesa dei poveri la sua voce diventava un ruggito, il ruggito di un leone. Sapendo che la caratteristica dei profeti, la garanzia della profezia è la persecuzione, lui è anche stato perseguitato. In lui c’era una sorta di spiritualità friulana, se così si può dire che consisteva in questo:
la terra: “la terra è l’immagine di mia madre” oppure “mia madre è l’immagine di questa mia terra”. “Guardavo da ragazzo il volto della Madonna addolorata e il volto di mia madre e non sapevo distinguere l’una dall’altra, si confondevano”. Tre unità fuse tra loro: la terra, la madre, la Madonna;
la gente: la sua spiritualità era quella della gente lavoratrice, povera e di cuore, gente di emigrazioni, ma anche un popolo cantore. Davide amava le villotte, quest canti popolari teneri e forti che terminano però sempre in maggiore, in speranza;
il paese: l’eredità friulana di Davide non è la città o la cittadine, ma sempre il paese, luogo di relazioni, di legami, di radici antiche. Coderno è stato l’elemento fondante della sua spiritualità friulana;
l’essenzialità: poca polvere. Quando io dovevo cominciare a predicare mio papà mi diceva “Pocjis e che si tocjin”, poche parole e concrete. E lui era così: essenziale e concreto. Tutti i profeti hanno un linguaggio franco diretto, un linguaggio che non gira attorno alle cose, che tocca anche le parole degli argomenti più difficili;
il senso di libertà: il senso di libertà e di autonomia che la nostra gente custodisce dai secoli del Patriarcato, senso di diffidenza istintiva davanti a ogni potente, davanti a ogni arroganza
Ecco, se noi potessimo cogliere ancora qualcosa di tutto questo penso che il vero conformarsi, il vero suffragio, lui scrive… “è conformare le nostre azioni ai forti esempi”. Lui è un forte esempio cui conformare le nostre azioni”.
A questo è seguita la visione di alcuni spezzoni del film “Gli ultimi” commentati da padre Ermes (sarà oggetto di un altro post…).
Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe. Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…
“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? … I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.
Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.
Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:
progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
profili organizzativi: presidi reticolari
più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.
Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano. Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose. Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi… Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota. Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità. Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.
La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”
Difficile non imbattersi in questi giorni nella notizia del viaggio di Papa Francesco negli Emirati Arabi. Oggi sono state poste delle importanti firme.
Prendo dal sito di Avvenire di oggi, a firma di Stefania Falasca.
“Abu Dhabi 4 febbraio 2019: «In nome di Dio Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Non solo. È messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze. Nero su bianco la condanna dell’estremismo e l’uso politico delle religioni, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto e il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti». E ancora: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione». È questo l’epilogo di un incontro interreligioso decisamente coraggioso in un lacerato Medio Oriente che ha visto protagonisti nel Paese-ponte del Golfo Persico papa Francesco e il Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib. Una solenne quanto impegnativa doppia firma a un documento comune sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», che sigla un’appello congiunto senza precedenti rivolto a «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Una dichiarazione non annunciata, resa pubblica solo alla fine dal Founder’s Memorial, dedicato al padre fondatore degli Emirati arabi, dove davanti ai rappresentanti delle diverse religioni il Successore di Pietro e un leader musulmano hanno sottoscritto la lista di punti “non negoziabili” e chiesto a loro stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di invertire la rotta delle violenze e «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace».
Foto tratta da Eastwest
Un gesto forte, di parole altrettanto forti, soprattutto per la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad al-Tayyib, che già nell’incontro con il Papa all’Università di al-Azhar a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita, aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione. La dichiarazione comune che muove «da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea» condanna l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – che porta a far «morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – in «un silenzio internazionale inaccettabile». Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e chiede di «smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Perché Dio «non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati» nella loro vita e nella loro esistenza», «non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Si dichiara perciò «fermamente» che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. «Queste sciagure – è scritto – sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione». Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le atre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale». Tutto questo è affermato in nome di Dio – come è ribadito – che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. In nome dunque della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali – ma che è lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato, dalle tendenze ideologiche che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome «dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità». In nome dei poveri, dei più vulnerabili. «In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre». La scossa doveva arrivare ed è arrivata. Inshallah.”
E’ stato uno di quei personaggi che hanno formato la mia adolescenza, la mia fede, il mio pensiero. Le sue pagine sono quelle da cui mi abbevero quando ho sete. Stamattina, mentre rileggevo alcune sue pagine per presentare la figura di David Maria Turoldo a due classi, mi sono ritrovato a essere commosso. Non c’è niente da fare, sento che riesce sempre a parlare al mio cuore. Le riporto qui.
Da “La mia vita per gli amici”
“Perché poi, ogni “Io” che si rispetti è irriducibile a qualsiasi definizione. Pertanto tu sei sempre quel soggetto che non sarà mai codificato, mai “cristallizzabile”: tanto provvisorio, parziale e inadeguato, può essere il giudizio o l’immagine degli altri, quanto inadeguato e insufficiente il giudizio che di volta in volta tu stesso proietti di te” (pagg 17-18).
“E Cristo, pienezza di umanità, archetipo di tutti gli uomini. Cristo, in ciò che è e in ciò che significa. Per cui possono essere vicini a Cristo quanti vivono, anche se inconsapevoli, ciò che egli significa, più di coloro che pretendono di sapere ciò che è: persuasi costoro di possederlo come loro esclusiva proprietà” (pag. 22).
“… il Crocifisso non mi rappresenta soltanto il mistero di una salvezza eterna; non è soltanto l’immagine di un Dio rifiutato; ma prima di tutto mi rappresenta l’idea di un uomo che il mondo non riesce ad accettare, e che perciò emargina e crocifigge” (pag. 26).
Poche ore fa il Presidente ucraino Petro Oleksijovyč Porošenko ha annunciato che il concilio per l’unificazione della Chiesa ortodossa autocefala dell’Ucraina si terrà il 15 dicembre. Proprio domenica mi è capitato di leggere sul numero de La Lettura del 25 novembre un articolo di Marco Ventura che trattava l’argomento. Vi sono vari passaggi che mi lasciano perplesso, ma, come ho spesso fatto, sul blog do spazio a chi fa pensare e stimola la riflessione. Ecco dunque il suo pezzo che ho reperito qui.
“Il Concilio annunciato in Ucraina rischia di determinare una rottura traumatica fra il patriarca di Costantinopoli, che ha un primato d’onore in quella confessione, e il patriarca di Mosca, che vanta il maggior numero di fedeli. La posta in palio è il diritto all’autogoverno, «autocefalia», delle autorità ecclesiastiche schierate con Kiev. È annunciato per le prossime settimane il Sobor, il santo Concilio che cercherà di dare all’Ucraina un’unica Chiesa ortodossa. Competono le tre maggiori Chiese del Paese. Quella fedele al Patriarcato di Mosca, circa il 20 per cento dei credenti sul totale, e le due vicine al governo ucraino presiedute rispettivamente dal patriarca di Kiev Filarete e dal metropolita Macario. La tensione ha raggiunto livelli clamorosi dopo che l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, primo tra pari tra i patriarchi del mondo ortodosso, ha ammesso Filarete e Macario alla comunione con le altre Chiese. Tecnicamente non è il «riconoscimento» delle due Chiese di cui ha parlato la stampa internazionale. Costantinopoli ha invece preannunciato in un comunicato del 19 novembre il rilascio del tomos, il documento specifico con cui si riconoscerà il diritto all’autogoverno, l’«autocefalia» ortodossa, della Chiesa che nascerà dal Concilio. Il passo è grave per il Patriarcato di Mosca, che si sente debole nel processo verso un’unica Chiesa autocefala ucraina. «È stata attraversata la linea rossa», ha dichiarato il portavoce del patriarca Kirill, che ha anche parlato di «catastrofe»e di rischio che si interrompa la comunione eucaristica tra Mosca e Costantinopoli. Il conflitto ucraino ha gli ingredienti delle grandi storie di religione e potere. I protagonisti si sfidano in ambizione e avidità: ricattano e comprano,sussurrano e gridano, trattano e sparano. Tutti vanno a letto con tutti; tutti avvelenano tutti. Il copione potrebbe funzionare sempre, ovunque. In questo inizio di terzo millennio, tra Kiev, Mosca e Istanbul, esso prende una forma peculiare. Lo spazio è decisivo. Il controllo del territorio attribuisce proprietà e finanze, popolazione e cariche, ricchezza economica e politica. Nel mondo ortodosso la questione è particolarmente cruciale. Dalla sua ridotta di Istanbul, il patriarca di Costantinopoli ha un primato di onore e non di giurisdizione. Le Chiese sono autocefale, hanno ciascuna un proprio vertice, un capo. Lo spazio dell’ortodossia è concepito come diviso infette controllate dall’una o dall’altra Chiesa. Il territorio canonico è un sofisticato congegno teologico e giuridico il cui funzionamento implica una feroce lotta contro ogni rivale interno al mondo ortodosso ed esterno ad esso,specie cattolici e musulmani. La coesistenza nello stesso territorio di più di una Chiesa, e di più di un capo, è una patologia. L’unità del potere politico segue il medesimo principio: un sovrano, una Chiesa, un territorio. Le condizioni in cui nei secoli si sono trovati a vivere gli ortodossi hanno spesso contraddetto il principio. Nell’Impero ottomano, gli ortodossi arabi e serbi, greci e bulgari hanno formato comunità mobili e sparse, sotto governanti musulmani. Nel corso delle guerre russo-polacche, l’Ucraina è stata fatta a pezzi tra cattolici e ortodossi. Mentre il puzzle si disfaceva e si ricomponeva, ogni volta in modo nuovo, ogni volta in riferimento a un mitico passato, mentre nell’era della comunicazione digitale il territorio si disperdeva online, l’unità di potere politico ed ecclesiastico sul territorio canonico diveniva tanto più ambita quanto più lontana dalla realtà. Dopo il crollo del comunismo, gli ortodossi si sono dovuti impegnare soprattutto contro i nemici atei e musulmani. Al centro della battaglia, il patriarca di Belgrado resisteva sotto le bombe degli occidentali secolarizzati e dava battaglia in Bosnia contro i mujaheddin venuti dall’Afghanistan, dalKashmir e dall’Algeria. Lo schema dello scontro mondiale tra cristiani e musulmani ha dominato negli ultimi trent’anni la percezione del ruolo geopolitico degli ortodossi. È stato il caso delle Chiese ortodosse che non accettano il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), gli armeni sotto costante minaccia azera e turca, e i copti egiziani. È stato il caso dei russi che,dalla guerra contro i musulmani ceceni e dal controllo dei musulmani nelle proprie frontiere, il 10 per cento del totale della popolazione russa, hanno tratto le risorse per la strategia di influenza sul mondo islamico culminata con l’intervento in Siria. Il grande scontro con l’islam di cui sono stati protagonisti gli ortodossi ha lasciato in secondo piano altre tensioni. Dei 25 mila morti in Croazia tra il 1991 e il 1995, dei 55 mila caduti in Bosnia tra il 1992 e il 1995, delle centinaia di morti della guerra in Georgia, Ossezia del Sud e Abcasia tra 1988 e 1993 non si è parlato in termini di vittime di una guerra tra cristiani.Invece lo erano. Nel caso della Croazia e almeno in parte della Bosnia, le violenze ebbero luogo tra cristiani di diversa confessione, cattolici e ortodossi. In Georgia, ortodossi uccisero ortodossi. La pace intervenuta successivamente,negli stessi mesi degli accordi che misero fine al conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti, rese le violenze tra cristiani ancor più invisibili.Se c’erano state, e se anche si fossero davvero potute catalogare come«violenze tra cristiani», il loro tempo era finito. A vent’anni di distanza, l’esplosione della guerra del Donbass nell’Ucraina orientale, ha nuovamente sfidato la convinzione che la violenza religiosa contemporanea abbia soltanto a che fare con l’islam. Come in Georgia negli anni Novanta, e con una magnitudine enormemente maggiore, cristiani hanno ucciso cristiani; addirittura, cristiani ortodossi hanno ucciso cristiani ortodossi. E continuano a farlo. Il conflitto tra patriarchi e Chiese ortodosse in Ucraina mette allora davanti a un bivio. Lo scontro può essere visto e gustato quale lotta di potere politico ed economico, come fa la maggior parte degli osservatori. Si inseguono le sfumature, si pesano le mosse, si stringe il microscopio sugli attori locali, si allarga il campo a Kirill e a Bartolomeo. Ecco irrompere gli alleati: gli ortodossi americani in gran parte vicini a Costantinopoli, i serbi tradizionalmente amici di Mosca. Ecco i governi mettere mano al portafoglio: a Kiev per strappare qualche vescovo al Patriarcato di Mosca o per far sedere i dignitari filorussi al tavolo del Consiglio interreligioso; a Mosca per boicottare l’imminente Concilio. Ecco pesare gli interessi economici, i gasdotti, le risorse naturali e la diplomazia internazionale, l’Unione Europea, la Nato. Solletica, questo modo di leggere la crisi ecclesiastica ucraina, ma resta in superfice e induce a sbagliare sui dettagli. La grande stampa internazionale lo fa proprio: perciò commette l’errore di annunciare un inesistente«riconoscimento» delle Chiese ucraine da parte del patriarca di Costantinopoli e trascura la posta in palio nel prossimo Concilio. Appiattiti su polemiche e trame, si resta ciechi davanti alla grande questione per i cristiani in Ucraina, dove dal 2014 sono morti in quasi 10 mila, e le violenze continuano. S’ignora cioè il nesso tra la crisi delle Chiese e questi morti, le migliaia di feriti, gli sfollati: i cristiani ucraini e russi, greci e serbi, appaiono privi di responsabilità, impotenti; in balia della politica e dell’economia,locali e globali. Ecco il punto. Il processo che condurrà al Concilio sarà il test della capacità degli ortodossi, in Ucraina e altrove, di essere plurali e uniti, senza violenze. Sbaglierebbe, in proposito, chi snobbasse la vicenda come solo ortodossa. L’onda delle decisioni delle prossime settimane a Kiev, Mosca e Istanbul investirà in pieno tutti i cristiani che in Europa e in America, in Asia e in Africa, cercano il proprio posto nel futuro.”
Due giorni fa sul sito della Pastorale giovanile della Diocesi di Udine è stato pubblicato l’annuncio dell’iniziativa per la prossima estate. Eccone un estratto:
Nell’anno del Sinodo sui giovani e della Giornata Mondiale della Gioventù di Panama, l’esperienza estiva proposta dalla Pastorale Giovanile diocesana non poteva non volgersi a una figura che ha messo i giovani al centro di tutta la sua vita: parliamo di San Giovanni Bosco, il sacerdote piemontese che nella seconda metà del XIX secolo ha dato vita a una vera e propria rivoluzione educativa e sociale nella Chiesa e nella comunità civile dell’epoca.
Da lunedì 29 luglio fino a domenica 4 agosto 2019, tutti i gruppi di adolescenti e giovani della nostra Arcidiocesi sono invitati a vivere questa forte esperienza di fede sui luoghi di don Bosco e di tante altre figure di santità di cui pullulava la Torino di fine ottocento: Madre Mazzarello, don Cafasso, don Murialdo, San Cottolengo, Beato Frassati, ecc. Sono i cosiddetti “Santi sociali”, ossia coloro che – dalla Chiesa – si sono volti a vari ambiti del mondo con spirito di missione e di promozione della persona. La città di Torino, inoltre, propone ancora oggi realtà dalla forte valenza educativa, una su tutte è il Sermig.
Il comunicato sottolinea alcuni aspetti:
la preziosità di una esperienza che raramente si ha l’occasione di vivere. Camminare sui luoghi di don Bosco e dei santi sociali, respirare il loro pensiero e calarlo nell’epoca odierna è un passo che non tutti hanno la possibilità di compiere;
l’esperienza estiva diocesana dà la possibilità di vivere una “settimana di Chiesa locale”: giovani di diverse Parrocchie, con cammini diversi ma con molti punti d’incontro, hanno la possibilità di conoscersi, confrontarsi, condividere i propri percorsi. La vera “collaborazione pastorale” avviene nell’ottica della condivisione fraterna e reciproca. La proposta estiva è una opportunità che viaggia anche in questa direzione;
questa opportunità offre specialmente ai gruppi più piccoli, dalle Parrocchie apparentemente più povere, la possibilità di conoscere un lato di Chiesa giovane spesso relegato nella sfera dei sogni o del “sarebbe bello”;
si tratta di esperienze forti, impegnative, profonde, che interrogano ciascun giovane nelle sue corde di sensibilità spirituale. Il giusto mix tra divertimento e catechesi, tra svago e preghiera, tra lavori di gruppo e momenti personali, aiuta a coltivare una profondità spirituale con metodi educativi adatti all’età dei partecipanti.
Per tutti questi motivi, l’Ufficio di Pastorale Giovanile offre la possibilità di accompagnare anche i micro-gruppi di adolescenti e giovani che – per ragioni varie – non avessero la disponibilità del loro catechista o animatore di riferimento.
Papa Francesco tiene il suo discorso al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Qui faccio un tuffo nel passato, a quando ho dato l’esame di Ecumenismo col prof. Ermanno Lizzi. L’articolo che pubblico è per appassionati di dialogo religioso (ma non è eccessivamente tecnico); è il resoconto della visita di papa Francesco al CEC (la dicitura inglese è WCC, World Council of Churches, ma nella mia memoria di studente è CEC). Le parole sono di Brunetto Salvarani, contenute nel suo articolo di ieri su Settimananews.
“Un viaggio verso l’unità, aveva detto papa Francesco salutando i giornalisti in aereo, in volo verso Ginevra, abbinando felicemente l’idea di un tragitto geografico con quella di un itinerario ecumenico in atto.
Nel parlare di ecumenismo, ci siamo ormai assuefatti a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le Chiese. Così, negli anni subito dopo il concilio prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione – in effetti diffusa in molti ambienti – che il tempo si stesse mettendo al bello; mentre nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), si è fatto luogo comune il riferimento a un autunno, o addirittura ad un inverno, ecumenico, ben distante dal clima conciliare. Peraltro, ora, è legittimo pensare che, quanto meno, stia chiudendosi l’inverno più cupo, e si vada aprendo una stagione primaverile ricca di potenziali ulteriori sviluppi.
Il pellegrinaggio ecumenico di papa Francesco, svoltosi giovedì 21 giugno nella città di Giovanni Calvino, va in effetti in tale direzione, contribuendo a porre al cuore delle identità delle Chiese la loro relazione fraterna. I 70 anni del CEC
L’occasione dell’evento erano le celebrazioni per il 70° anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC, o WCC dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di Chiese cristiane su scala mondiale (la Chiesa cattolica, è noto, vi partecipa da osservatrice), apertesi, sempre a Ginevra, nello scorso febbraio. Si tratta dell’organismo più ampio e inclusivo tra le diverse organizzazioni del movimento ecumenico moderno, fondato ad Amsterdam il 22 agosto del 1948 e formato oggi da 348 Chiese membro in 110 paesi del mondo, in rappresentanza di oltre 560 milioni di cristiani.
Esso comprende la maggior parte delle Chiese ortodosse, numerose Chiese protestanti storiche (anglicane, battiste, luterane, metodiste, riformate) e diverse Chiese indipendenti: una comunione di Chiese riunite per promuovere il dialogo e la riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane.
Si noti: i suoi membri fondatori provengono principalmente dall’Europa e dal Nord America, ma oggi la maggior parte dei membri si trova in Africa, Asia, Caraibi, America Latina, Medio Oriente e Oceania.
Per statuto, lo scopo primario del CEC è «chiamarsi gli uni gli altri all’unità visibile in un’unica fede e in un’unica comunione eucaristica». Il CEC è per i suoi membri uno spazio di riflessione, azione, preghiera e impegno comune.
La sua 10ª assemblea si è svolta a Busan, seconda città della Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre 2013, con il motto Dio della vita, guidaci alla pace e alla giustizia: si trattò di un’occasione preziosa per misurare il ruolo cruciale dell’Asia nel panorama geopolitico, in chiave sia economica sia religiosa: si pensi, ad esempio, alla notevole tenuta delle grandi tradizioni spirituali di marca asiatica ma anche all’emergere della terza Chiesa nel quadro di un cristianesimo ormai globale. Una visita non di cortesia
Ora, la scelta di papa Francesco di recarsi in Svizzera per rendere omaggio al lavoro ecumenico del CEC non è stata senza significati, tutt’altro, rappresentando un riconoscimento al contributo unico che tale organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico.
Già il 2 marzo, durante una conferenza stampa congiunta in Vaticano, alla presenza del cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, il reverendo Olav Fykse Tveit, pastore luterano e segretario generale del CEC, aveva detto che «la notizia della visita del papa è un segno di come le Chiese cristiane possano affermare la nostra chiamata e missione comune di servire insieme Dio».
E se – come si diceva – fino a pochi anni fa eravamo rassegnati all’inverno ecumenico, lo stesso Tveit, che viene dalla Norvegia, ama dire che nell’inverno non c’è nulla di sbagliato: c’è soltanto bisogno di guanti e vestiti che tengano caldo. E che con Bergoglio e le sue iniziative sta arrivando una nuova primavera (fino a riferirvisi come a «una pietra miliare storica nella ricerca dell’unità dei cristiani e della cooperazione tra le Chiese per un mondo di giustizia e di pace»).
La sua partecipazione, a Lund, alla preghiera per la celebrazione del 5° centenario della Riforma (31 ottobre – 1° novembre 2016) ha molto incoraggiato il movimento ecumenico diffuso: in quel frangente il motto delle celebrazioni, Dal conflitto alla comunione, si è fatto vita.
Certo, recandosi a Ginevra, Bergoglio ha seguito le orme di due suoi predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984). Tuttavia, non si è trattato di un appuntamento di pura cortesia, bensì del frutto dell’impegno personale del papa per raggiungere l’obiettivo dell’unità dei cristiani. Mentre i viaggi precedenti dei due papi erano stati dedicati anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di Stato, Francesco – scegliendo di non visitare alcuna delle agenzie internazionali che vi hanno sede – vi si è recato prima di tutto come capo della Chiesa cattolica, vescovo di Roma e successore di Pietro. Camminare pregare e lavorare insieme
Papa Francesco partecipa alla preghiera ecumenica al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Il motto della giornata è stato Camminare pregare e lavorare insieme, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del CEC; ma anche slogan particolarmente caro a Francesco – camminare insieme – che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che, a suo parere, è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. E che ha trovato a Ginevra un’altra tappa, per nulla secondaria: come è apparso evidente sin dal discorso papale della mattina, nella cappella nella sede del CEC, destinato a diventare una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico.
Francesco ha recitato la preghiera di pentimento e ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati.
Ed è proprio sulla scorta della situazione dei Galati descritta da Paolo, i quali «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che il papa ha preso la parola per una puntuale meditazione, indicando cosa significasse per l’apostolo camminare insieme secondo lo Spirito, rigettare la mondanità, scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono.
A suo parere, l’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale. In effetti, nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», facendo prevalere i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo». Sì, «stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».
In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane».
Camminare secondo lo Spirito – ha dunque ripetuto – significa perciò scegliere con santa ostinazione la via del vangelo, e rifiutare le scorciatoie del mondo. Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi lavorare in perdita, non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o ad orientamenti consolidati, siano essi maggiormente conservatori o progressisti». È necessario invece «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché se stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica».
La meta è l’unità, mentre la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni, oltre a danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del vangelo a ogni creatura».
E «le distanze che esistono non siano scuse – ha concluso con risolutezza Bergoglio –, perché è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!». Il diritto di sperare per tutti
Nel pomeriggio, ci si è spostati nella Visser’t Hooft Hall. Qui Tveit ha sottolineato che, per arrivare a questo giorno, molte persone in tutto il mondo hanno pregato e che, con questa visita, è palpabile la dimostrazione che è possibile superare le divisioni e le distanze, così come i profondi conflitti causati dalle diverse tradizioni e convinzioni di fede: «Il mondo in cui viviamo ha un disperato bisogno di segni che ci permettono di riconciliarci e di vivere insieme come un’unica umanità, preoccupata per la vita dell’unica terra, la nostra casa comune. Vediamo così tante cose che potrebbero dividerci, che creano conflitti, violenza e guerre. Anche la religione viene usata in modo improprio per questi scopi. I divari tra ricchi e poveri, tra popoli di gruppi e razze diverse, permangono e addirittura aumentano. Il nostro pianeta viene continuamente sfruttato e distrutto, e la dignità degli esseri umani costantemente attaccata, minando i loro diritti e le loro possibilità di sperare in un futuro migliore insieme in questo mondo. Dobbiamo essere uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso per tutti. Abbiamo tutti il diritto di sperare».
Per poi concludere che «non ci fermeremo qui. Continueremo, potremo fare molto di più insieme per coloro che hanno bisogno di noi. Visto che oggi noi condividiamo sempre di più, facciamo in modo che le prossime generazioni possano creare nuove espressioni di unità, giustizia e pace!».
È toccato alla moderatrice del CEC, la teologa anglicana, originaria del Kenya, Agnes Abuom, portare un saluto particolare all’illustre ospite: «Lei è venuto da Roma a Ginevra – ha detto – e ci auguriamo di poter proseguire la nostra strada insieme a lei come compagni di pellegrinaggio: portando conforto a chi soffre, celebrando il dono della vita di Dio e impegnandosi insieme in azioni trasformative che migliorino la vita delle persone ovunque vi sia bisogno di giustizia e di pace». Per poterlo fare davvero, è indispensabile che le Chiese del CEC e la Chiesa cattolica lavorino bene insieme a livello internazionale e locale.
Nel suo discorso la teologa ha ripercorso l’impegno delle Chiese nei vari Paesi del mondo: «Speriamo – ha concluso – che la sua visita segni davvero una nuova fase di cooperazione e di unità cristiana». Cosa possiamo fare insieme?
Ha ripreso quindi la parola il papa, nel suo secondo discorso, pure assai denso: «Il CEC è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro?».
Tracciando un bilancio dei settant’anni del CEC, Francesco ha espresso un vivo ringraziamento per l’impegno che viene profuso per l’unità, ma anche una preoccupazione derivante dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine (il riferimento implicito era al Congresso missionario di Edimburgo del 1910, considerato unanimemente l’atto d’avvio del movimento ecumenico).
Infatti, il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato: ne va della nostra identità, e l’annuncio del vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certo, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda di tempi e luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione, e non per le nostre idee, strategie o programmi.
Un «nuovo slancio evangelizzatore»: è questo, per il papa, «il tesoro che noi, fragili vasi di creta, dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi».
«Camminare pregare, lavorare insieme». Nella parte centrale del suo secondo discorso ginevrino, Francesco si è soffermato sui tre verbi contenuti nel motto della giornata.
«Camminare in entrata», ha spiegato, rilanciando temi che gli sono particolarmente cari, «per dirigerci costantemente al centro», che è Gesù, e «in uscita», cioè «verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del vangelo all’umanità sofferente».
Anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli», ecco il secondo imperativo, «perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano». «Quando diciamo Padre nostro risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli», l’esempio scelto dal papa: «La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti». «Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri?», l’esortazione in chiave ecumenica: «Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?».
Infine, «lavorare insieme», ha raccomandato Francesco. «La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti».
È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, il fatto che i deboli siano sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi: «Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione», perché «il programma del cristiano è un cuore che vede»: «Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?». In relazione all’altro
Al termine della densa giornata ginevrina, conclusasi con una festosa eucaristia celebrata per la Chiesa locale ma anche occasione per toccare con mano la perdurante divisione dei cristiani in tale ambito cruciale e i passi avanti ancora da compiere, non pochi sono apparsi i motivi di consolazione per il popolo del dialogo.
Lo si è colto bene, infatti: procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani possono apprezzare al meglio il loro patrimonio comune, e farsi più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potranno affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Un dialogo la cui prospettiva sembrerebbe risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare un linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità.
Per papa Francesco, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle Chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi.
E di una strada – come Francesco ha detto e mostrato concretamente una volta ancora a Ginevra – oggi non è più possibile prescindere.”