Gemma n° 2510

“Questa è l’ultima gemma e questo mi dispiace molto in quanto pensare che l’anno prossimo non avrò più un momento così bello, intimo e profondo mi rattrista parecchio e quindi voglio subito lasciare un messaggio a chi leggerà questa gemma: godetevi ogni anno questo momento e portate veramente qualcosa di significativo per voi perché è veramente un bel momento, non sprecatelo.
Questa gemma è iniziata molto tempo fa, l’ho iniziata a scrivere a luglio del 2023, prima del concerto di Blanco del 20 luglio, poi l’ho lasciata in sospeso per un po’, l’ho ripresa a scrivere verso fine agosto e poi l’ho conclusa pochi giorni prima di presentarla in classe.
I temi erano vari e non sapevo di cosa parlare, se della mia famiglia, se dell’amore e dell’amicizia, se del valore della vita o dei problemi di essa… alla fine ho deciso di parlare un po’ di me stesso con l’intento di lasciarvi un messaggio e ho deciso di portare 2 canzoni, con la speranza attraverso questa gemma di lasciare un messaggio almeno a qualcuno e di far riflettere.
La prima si intitola Mezz’ora di sole di Blanco e riporterò qua di seguito una parte del testo, non tutto, che poi commenterò.

“Mi sento rinato
Sono figlio del tempo
Sono in quel parco, nel 2018
Sporco di fango, mi volevo ammazzare”
Mi sento rinato nel senso che in questo percorso delle superiori mi sento cresciuto e maturato e mi reputo una persona migliore, soprattutto rispetto al 2018 che Blanco cita, anno in cui i miei genitori si sono lasciati ed è stato un periodo veramente brutto per me, in cui ho pensato veramente di volermi ammazzare in quanto ero piccolo e pensavo di essere io il problema. Alla fine però questa separazione è servita in quanto ora sia i miei genitori che io stiamo bene. Inoltre Blanco si definisce figlio del tempo, e in un certo senso anche io. C’è un aspetto positivo ossia il fatto che mi lascio trasportare dal tempo e mi vivo la vita così come va (Blanco in una sua canzone dice “Vada come vada, la vita è un’autostrada”), invece l’aspetto negativo è che il tempo scorre e non me ne rendo conto. Questo lasciar trascorrere ti porta sempre a non preoccuparti, a dire che c’è tempo, che sono giovane e ho una vita davanti (grande cazzata). La vita è molto breve e non si può sempre rimandare e lasciarsi trasportare.
“E ti porto con me
Dove il cielo si fa buio
Dove BLANCO è poi cresciuto
Dove tutto è maledetto, eh, eh
E ti porto con me
Perché ho paura da solo
Perché violenti il mio sfogo
Però ne ho troppo bisogno, oh”
Questo pezzo di canzone è dedicato alla gemma, nel senso che attraverso essa vi porto con me, nella mia parte più intima e personale “dove il cielo si fa buio e dove sono cresciuto” e inoltre la gemma “violenta il mio sfogo” anche se poi mi rendo conto che forse esporre questi problemi non serve a nulla se non a sfogarmi, serve appunto a liberarmi per quella “mezz’ora” in classe però poi una volta finito tutto devo fare i conti con me stesso e rendermi conto che questi problemi ci sono ancora.
“Dammi mezz’ora di sole
A peso morto nel mare, tra le, tra le onde
Mezz’ora di sole, chiuso in questa prigione
Da-dammi libertà, ah”
Questa canzone è una richiesta di libertà, che io al momento, nonostante sia maggiorenne e dunque certe scelte possa compierle da solo, non mi sento di avere; non mi sento libero da me stesso e dalle scelte che faccio e dunque mi sento chiuso come in una prigione.
“Ho toccato il fondale
Senza mai respirare
Strillando in labiale mentre andavo giù
Fanculo a questo dolore
La gente non lo capisce”
Questo ultimo pezzo della canzone invece è sempre collegato all’episodio che ho raccontato all’inizio, ed è vero che la gente non capisce ancora il dolore che ho provato e quanto io “abbia toccato il fondale” più volte nel corso della mia vita, ma questo è anche dovuto al fatto che sono una persona molto riservata, che non condivide molto della sua vita e mi faccio conoscere veramente solo da poche persone.
Infine trovo il video della canzone molto simbolico in quanto vedo il faro del video come una prigione, da dove lui è scappato per avere solo mezz’ora di sole, per sentirsi un momento libero, però poi ci rendiamo conto che non si può scappare dai nostri problemi e bisogna affrontarli e risolverli e dunque verso la fine del video torna verso la prigione per probabilmente chiudere i conti con se stesso e con il passato.

Poi ho deciso di portare una seconda canzone che si intitola Essere me ed è di Villabanks e Tananai.

Prima di analizzare parte del testo (non tutto)  ci tenevo solo a dire che per me questa canzone è qualcosa di veramente speciale e profondo, con un testo molto bello e maturo che fa riflettere e piangere.
“Perché stare qua mi chiedevo a cosa serve
Sicuramente a un cazzo se scordo le cose belle”
Spesso tendiamo a trascurare i momenti belli della vita, soprattutto quando abbiamo dei momenti no, ma è proprio in quei momenti che dobbiamo avere la forza, in mezzo a tutto quel nero, di tirare fuori le cose belle che ci circondano per uscirne fuori e stare meglio. Credo che i momenti no ci servano a crescere e a maturare come persone, però non si può sempre stare male e come dice Villa, non serve a nulla chiedersi a cosa serve la vita se ci dimentichiamo il vero valore di essa e le cose belle.
“Ho dato un senso alla mia vita, miro a qualcosa d’eterno
Me ne fotto d’avere un Range Rover
E spero mi capisca almeno la mia generazione
Credo lo vogliano anche loro un mondo migliore
E se lo creano con ogni singola azione
Molti sono persi
È facile farsi tentare dal male”
Questa parte di testo forse è un po’ scollegata dal resto della canzone e dal suo significato principale e anche dal tema un po’ variegato che io vorrei portare con questa gemma, però come ho detto all’inizio, mi sento di dover dare un messaggio alla mia generazione e vorrei dirvi di costruirvi da soli il vostro futuro, con le vostre mani, anche se cadrete e vi farete male, alzatevi e andate avanti mirando a qualcosa che possa durare in eterno, lo so che è difficile. Createvi il vostro mondo con ogni singola azione e non fatevi tentare da ciò che vi potrebbe allontanare dal vostro obiettivo principale. Infine mirate a qualcosa di veramente significativo e non a un semplice “Range Rover” che è qualcosa di effimero, che non vi serve, ed è solo uno strumento per apparire e per farvi vedere, ma così farete vedere quello che non siete veramente, farete vedere la vostra maschera e non il vostro “io interiore”.
“Quando ero piccolo non sapevi chi ero
Perso nel sentiero perché in fondo anch’io non lo sapevo
Non mi sono permesso di essere fragile, vulnerabile
Di essere me”
Spesso quando siamo piccoli siamo immaturi e non ci rendiamo conto di chi eravamo. Io a 14 anni ero perso nel sentiero e ora che ci ripenso mi sentivo piccolo, non capivo molte cose. Però allo stesso tempo sono stato sempre me stesso, nonostante tutto, sia per le cose giuste che per quelle sbagliate.
“Non cercarti mai dentro gli occhi che
Che non sono i tuoi, non cercarti in me
Ci vedremo poi dentro ville che
Sognavamo che avremmo avuto da grandi
E so che ce le avremo (te lo giuro)
Quelle certezze che avrebbero reso la vita più facile
Meno piena di domande (perché?)Un giorno ce ne andremo (lontano)
E lasceremo dietro solo tante pagine
Di testi che fan piangere (no)
Ringrazio il cielo (il cielo)
Che fai parte della mia esistenza
Non so stare in tua assenza
Anche se in fondo è quello il senso
Dare tutto, tutto se stesso”
Questa è la parte finale della canzone ed è anche quella più triste, più malinconica, che fa piangere.
Parte dicendo che non bisogna mai cercarsi dentro gli occhi degli altri, perché sì, nella vita non si può stare soli ed è vero, abbiamo bisogno per forza di qualcuno al nostro fianco, che sia un amico o fidanzato… ma bisogna sempre avere le spalle larghe perché nella vita ho imparato che non si sa mai… e i miei genitori ne sono stati la prova… alla fine non esiste un per sempre e quindi non bisogna mai fare affidamento sugli altri al 100%, ma bisogna anche imparare ad essere forti da soli ove dovesse andare male e ci dovessimo ritrovare a rialzarci da soli senza nessuno. Infine credo che le ultime frasi non abbiano bisogno di spiegazione… la vita non è sempre facile e a tutti farebbe comodo avere quelle certezze soprattutto sul futuro che ci renderebbero tutto più facile, però la vita è una sfida e va vissuta e ci sono momenti sì e momenti no.
Per concludere volevo ringraziare il prof. Del Mondo per avermi dato durante questi 5 anni l’opportunità di aprirmi in questa maniera così profonda con la classe e con “gli altri” che leggono.
Porterò sempre con me questo bel ricordo della gemma che mi ha fatto in un certo senso riflettere molto su vari aspetti della vita e di me stesso e posso dire di essere cresciuto anche grazie ad essa”.
(G. classe quinta).

Gemma n° 2443

“L’11 dicembre 2023 mi sono state dette quelle parole che un atleta non vorrebbe mai sentirsi dire da un medico: “il tuo crociato è rotto, la tua stagione è finita”. Non so neanche io bene come, ma non appena mi sono state pronunciate quelle parole sono riuscita a trattenere le lacrime, forse perché sotto sotto lo sapevo o forse solo perché volevo sembrare forte. Eppure questo infortunio mi ha portato un grande vuoto dentro.
Era da mesi che combattevo contro un dolore al ginocchio senza che si riuscisse a capire bene che cosa io avessi.
A giugno 2023 durante un allenamento è suonato quel primo campanello d’allarme, quel CRACK che a ripensarci mi vengono ancora i brividi.
Durante l’estate si sono susseguite una serie di visite, ma nessuna risposta concreta, finché a settembre l’ortopedico che mi ha visitata mi ha detto che sarei potuta tornare a giocare. Ero contentissima, ma dentro di me sapevo che c’era qualcosa che non andava.
Ho ripreso gli allenamenti e piano piano ho ritrovato la sicurezza che avevo perso a causa dell’infortunio.
Fino a quando, SBAM, un’altra porta in faccia, un’altra ricaduta. Mi cede il ginocchio durante una partita.
Non c’era più nulla da fare, avevo lottato fino a quel momento, ma la paura era riemersa.
Decido di farmi visitare da un altro ortopedico il quale pronunciò quelle fatidiche parole.
Nella mia testa, prima di quella visita, c’era ancora quella piccola speranza di poter tornare a giocare e di nascondere quella che sapevo fosse la verità, ma la verità ha avuto la meglio su quel piccolo spiraglio di luce.
Nonostante il dolore e le lacrime sono grata a questo infortunio perché mi ha fatto capire che ci sono persone che ci tengono tanto a me, quanto io sia fortunata ad avere una squadra che mi supporta in questo momento difficile e degli allenatori che ci tengono veramente al fatto che io stia bene. Spero di non deluderli e di tornare più forte di prima. Non so cosa mi riserverà il futuro o se ritornerò a giocare, ma ciò di cui sono certa è che uscirò da questi 6 mesi un po’ più consapevole e sicura delle mie capacità”.
(G. classe quarta).

Gemma n° 2374

“Quest’anno voglio dedicare la mia gemma ad una persona per me molto importante, che però non è più qui.
Prima che te ne andassi, non avevo mai ragionato su quanto la morte di una persona cara potesse essere difficile da affrontare: quando te ne sei andata, ho sentito come se il mondo mi fosse caduto addosso tutto ad un tratto.
Alle volte mi sembra che il mio cervello si autoconvinca che tu sia ancora qui, magari mentre mi domando se anche quest’anno tu passerai il capodanno con la mia famiglia.
Poi però, come una ventata gelida, arriva la realizzazione che tu non ci sei più.
D., tu per me non sei solo un’amica di famiglia, ma quella zia “cool” che non ho mai avuto, quella persona a cui potevo raccontare dei guai che facevo senza che i miei genitori lo sapessero.
Non so cosa penseresti se scoprissi che ho dedicato questa gemma a te, non so neanche io perché lo stia facendo, forse per cercare di superare questo lutto così improvviso e doloroso.
Non mi resta dunque che aggrapparmi ai ricordi felici che ho di te, per cercare di andare avanti.
Ti voglio bene D., grazie per tutto.
(E. classe quarta)

Gemma n° 2358

Twice.
Quest’anno come gemma, ho deciso di portare un gruppo veramente importante per me.
Ma perché è così tanto importante?
Nel 2020 non mi sarei mai aspettata che questo gruppo sarebbe diventato la mia terapia per tutte le medie e oltre.
Le medie sono un periodo che vorrei cancellare dal mio archivio.
Ogni scusa era buona per buttarmi giù: i vestiti di marca, perché non avevo l’ultimo modello di scarpe o non indossavo dei vestiti di un costo maggiore ai 70 euro, perché ero sempre pronta ad aiutare, perché ascoltavo il K-pop, perché ero diversa.
In quel periodo mi passavano continuamente pensieri oscuri e drastici.
Nessuno mi aiutava e nessuno mi capiva, il mondo lo vedevo grigio scuro e incolore.
Nell’agosto del 2020, dopo molto tempo che ne avevo sentito parlare, conobbi le Twice, un gruppo femminile coreano nato nel 2015 composto da 9 ragazze.
Non so né come né perché ma quelle ragazze riportarono nel mondo… i colori che alle elementari vedevo e tutt’oggi sono tornata a vedere.
Nel 2021 le Twice pubblicarono la canzone che, ancora oggi, è la mia preferita: Alcohol-Free la canzone dell’estate 2021 per eccellenza. Ricordo ancora la faccia di mia madre quando dicevo i nomi dei cocktail presenti nel testo della canzone e cantavo in una lingua straniera… CHE SICURAMENTE NON ERA COREANO!

E come in una relazione sana, il nostro rapporto era benevolo e non ero una di quei fan tossici e possessivi, anzi volevo condividere questo mio amore con qualcuno.
Nel 2022 il mio bellissimo mondo colorato stava perdendo di nuovo colore, la terza media è stato un periodo di bullismo che non scorderò mai, sono stata più di qualche volta ferita e… in quel periodo la musica, ma in particolare modo le Twice con i loro time to twice (i loro vlog), mi hanno veramente salvato la vita.
Ed è grazie a loro e ad alcune persone, amici e famiglia, se oggi sono qui, in classe a raccontarvi di come 5 ragazze coreane, 3 giapponesi e una taiwanese hanno impedito atti estremi, improvvisi e disperati.
Il 2023 è agli sgoccioli e anche quest’anno, anche se ascoltate di meno, le Twice con il loro album Ready to be mi hanno dato la forza e la gioia.
Loro non mi hanno solo donato la felicità che oggi tutti vedono, ma mi hanno anche regalato un sogno, la danza, il salire sul palco e rendere le persone felici e in pace.
Spero tanto di vederle dal vivo un giorno, se in Italia o all’estero non mi interessa, spero al prossimo tour mondiale di esserci.
Quindi si, amo le Twice, il K-pop e dopo molto tempo posso affermare apertamente che non me ne vergogno… d’altronde ognuno ha i propri gusti!”
(E. classe seconda).

Gemma n° 2338

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare una persona e quindi una parte della mia vita, mia mamma. Mia mamma è una persona buona, sempre presente con tutti e molto profonda. Mia mamma ha 48 anni e da 18 si prende cura di me e mia sorella, facendoci sentire protette. Quello da cui non ci poteva proteggere erano però le cose incontrollabili, il destino, il corso della natura. Mia mamma da 3 anni e mezzo ha un tumore maligno ai polmoni al quarto stadio, con metastasi alla colonna vertebrale. Per fortuna (e so che non si può definire così) è un cancro particolare, non una massa come si è soliti pensare, bensì uno strato di cellule che coprono l’intera superficie. Di conseguenza la cura non prevede chemio ma terapie staminali mirate ad una determinata zona. Tante volte mi sono chiesta perché a lei, tante volte ho pensato che avrei preferito averlo io pur di non vederla soffrire e non nego che ho la costante paura di non poter fare più le cose quotidiane che faccio con lei. Questa malattia per quanto sia disgustosa mi ha fatto maturare e capire che la vita è da vivere al 100%. Mi ha insegnato che probabilmente chiunque potrebbe combattere una guerra che tiene nascosta. Io l’ho fatto: per molto tempo ho tenuto nascosto una cosa più grande di me, forse perché dicendolo si sarebbe concretizzato o forse perché non volevo (e non voglio) essere trattata in modo diverso. Questa malattia mi ha insegnato ad essere forte, a combattere per quello che voglio, a stringere i denti e ad andare avanti, a proteggere gli altri prima di proteggere me stessa. Mi ha insegnato che la vita è fatta da alti e bassi e che se voglio davvero qualcosa non devo aspettare il momento giusto.
Questa gemma ha un unico scopo ossia di farvi capire quello che un cancro ha fatto capire a me. La vita corre più veloce di quanto si pensi e non aspetta che tu prenda il treno giusto. Potresti riuscire a beccare quella coincidenza che tanto aspettavi, ma potresti benissimo aspettare le due ore di ritardo prima del prossimo treno. Ma quando lo aspetti, ricordati che a destinazione ci sono l’amore, la fiducia, la speranza: c’è semplicemente l’aria.
Per rappresentare questo messaggio che spero vi arrivi con tutto il cuore, porto una canzone di Ligabue Certe Notti. Mia mamma e mio papà la cantavano nei sedili anteriori della macchina ma io non l’ho mai apprezzata. Ora mi ritrovo a cantare la stessa canzone, sempre in macchina, con il mio ragazzo che guida.”
(B. classe quinta).

Gemma n° 2327

The wound is where the light enters you
Come gemma ho deciso di portare questa frase che ho trovato poco tempo fa, di cui non conosco l’autore, ma che mi ha colpito molto e che vuol dire “la ferita è il luogo dove entra la luce”.
L’interpretazione delle ferite come fessure dentro le quali possono entrare la luce e la speranza mi è rimasta particolarmente impressa. Essendo normale raccogliere ferite nel corso della propria vita, perché percorso inevitabile dell’uomo, questa visione alquanto speranzosa del dolore mi ha ispirato molto. Facendomi riflettere sul fatto che sebbene alcune ferite non si possano chiudere mai, ce ne sono alcune che ci aiutano a comprendere meglio gli altri e a cercare di diffondere più luce possibile affinché possano penetrare nelle ferite degli altri. Penso che il dolore ci faccia capire l’importanza dei momenti di luce e ce li faccia apprezzare maggiormente. Più numerose sono le ferite, più una persona può capire quanto sia importante fare star bene gli altri.”
(M. classe quinta).

Gemma n° 2238

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare la gratitudine verso il mio cambiamento positivo.
L’anno scorso stavo passando un brutto periodo della mia vita: mi sentivo sola, senza nessun obiettivo e senza quella motivazione che ero solita avere, ma cercavo di nasconderlo. Facendo un giro in libreria, trovai questa raccolta di poesie di Franco Arminio, Studi sull’amore. Lessi tutte le poesie in un giorno ed evidenziai quelle che in quel periodo mi sembravano stupende.
Una di queste si chiama “Sono due giorni che soffro”:

Sono due giorni che soffro
per paura. E ho sofferto
per tutto il tempo che ho vissuto,
e qui nel petto un vago allarme,
un cuore che mi punta
e io scappo dal mio sangue,
mi faccio aria, mi nascondo
in tutte le parole che dico,
non c’è più nessun me
a cui posso appigliarmi,
c’è solo un cenno antico,
un cenno d’infanzia
fatto di neve e del petto di mia madre.
Ti prego, tienimi in vita,
stendimi al sole,
prestami un respiro.

Recentemente ho riletto il libro, per curiosità, e mi sono accorta di come tutto sia cambiato nel giro di pochi mesi. Ora sono grata per come la mia vita sia e per i miei obiettivi che sono riuscita a portare a termine anche se con molta difficoltà. Ma soprattutto sono grata per chi ho vicino: ho amici che mi supportano sempre, una famiglia che mi accetta per come sono e una persona che mi ama nonostante i miei difetti.
Come poesia di questo periodo ho scelto “Contro la morte esiste solo l’amore”:

Contro la morte esiste solo l’amore.
Le donne lo sanno meglio degli uomini,
meglio delle donne lo sa la luna,
meglio della luna lo sa il vento.
Lascia correre il tuo amore,
dentro di te e dentro gli altri.
Chi ama non esce mai di scena,
siamo tutti qui,
sangue della stessa vena.

(B. classe quarta).

Gemma n° 2227

“Come Gemma quest’anno, ho deciso di portare 4 brevi video presi dal film Collateral Beauty. Collateral Beauty, il film diretto da David Frankel, vede protagonista Howard Inlet (Will Smith), direttore di un azienda pubblicitaria, profondamente depresso a causa della perdita prematura di sua figlia. Whit (Edward Norton), Claire (Kate Winslet) e Simon (Michael Peña), suoi amici e collaboratori capiscono che il suo stato d’animo sta diventando un problema per l’azienda: dopo aver perso sua figlia, a Howard non importa perdere tutto il resto. Gli amici per questo, assumono un’investigatrice privata per capire cosa l’amico stia passando e cercare di aiutarlo.
Quest’ultima, Sally scopre che l’uomo invia strane lettere indirizzate ad “Amore”, “Tempo” e “Morte”. Superato lo sconcerto, decidono di assumere attori che incarnano questi stati d’animo per organizzare incontri con Howard e rispondere agli interrogativi presenti nelle sue lettere.

Intanto Howard decide di frequentare un gruppo di sostegno e conosce Madeleine (Naomie Harris) che ha perso anche lei la figlia. Si susseguono gli incontri organizzati dai suoi colleghi, fin quando “Amore” riesce a far capire ad Howard che deve permettere all’amore di essere ancora presente nella sua esistenza, in quanto elemento fondamentale per continuare a vivere.
I video che ho scelto sono rispettivamente il suo incontro con la Morte, con il Tempo e con l’Amore. Queste conversazioni sono ricche di elementi che fanno riflettere sulla vita e sul suo fine. Quando ho visto il film per la prima volta sono rimasta impressionata da questo espediente usato dal regista per analizzare profondamente gli stati d’animo del protagonista.
Dopo che l’ho visto, ho riflettuto a lungo su questi tre temi che caratterizzano la nostra vita, che noi ce ne rendiamo conto o meno. La morte la colleghiamo al dolore ed alla sofferenza ma se scaviamo a fondo, ci insegna sempre qualcosa della vita e ci fa guardare dentro in maniera diversa. Il tempo ci insegue ma come anche noi inseguiamo lui. Spesso e volentieri siamo arrabbiati con lui ma in realtà non è colpa sua. Siamo noi autori della nostra vita e siamo noi gestori di come lo spendiamo e con chi. L’amore è ciò che ci scalda, ma è anche ciò che ci fa raggelare. L’amore è un contrasto, fa sorridere e fa piangere, ci aiuta a rialzarci ma ci fa anche cadere. Tuttavia, senza amore non vivremmo. Non è solo amore in termini di relazioni ma anche l’amore dei genitori, dei nonni e degli amici. L’amore che noi riserviamo per queste persone ci fa andare avanti. L’amore è una sicurezza che noi lo vogliamo ammettere o meno.”
(G. classe quarta).

Gemma n° 2223

“Per la mia gemma ho deciso di portare una foto ed una canzone che scatenano in me emozioni opposte tra loro.
La foto, infatti, l’ho scattata quest’estate in un momento in cui ero veramente felice: stavo facendo da capo animatore e capo squadra ad un centro estivo e per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo veramente voluta bene. Adoravo far ridere i bambini, prenderli in braccio e farli giocare. Adoravo sentire loro vocine che mi dicevano “Maestra ti ho fatto un braccialetto!”, “Maestra guarda che bel fiore!”, “Maestra sai che oggi faccio 7 anni?” e poi vederli fare un 5 con le dita. Adoravo sentirmi utile ma soprattutto adoravo non sentirmi sola.
Eppure, nonostante questi ricordi, questa è stata la peggiore estate della mia vita: sono successe varie cose e mi sono sentita abbandonata. Non per forza lo ero ma la mia testa mi convinceva che io non meritassi nulla di buono, che io non mi meritassi di essere ascoltata o che qualcuno potesse volermi davvero bene. Spesso è ancora così.
Mi sono sentita sola anche se magari non lo ero.
Molte persone se ne sono andate dalla mia vita, anche persone con cui avevo pensato mille idee che avremmo dovuto mettere in pratica proprio quest’estate.
Per questo, oltre alla foto, ho scelto di portare la canzone All I Want dei Kodaline.

Per molti questa canzone parla di una storia d’amore finita ma per me parla di un qualsiasi tipo di rapporto che si è concluso per un qualsiasi motivo.
A volte non riesco a fermare i pensieri e la mia mente inizia ad andare a 100km/h senza lasciarmi il tempo di respirare ed è esattamente in quei momenti che mi sento totalmente sola: non trovo infatti la forza o il coraggio di chiedere aiuto, non perché io pensi di essere invincibile ma perché non credo di meritare il tempo di nessuno.
Questa canzone la dedico anche un po’ a me stessa perché un giorno vorrei poter rivedere il mio sorriso senza che nella mia mente compaia il pensiero “Mi merito davvero di star sorridendo? Mi merito davvero di essere felice?”.
Tutto ciò che vorrei è riuscire a ritrovare me stessa e di conseguenza, a non sentirmi più così sola ma, guardando questa foto, ogni tanto mi ricordo che anche io ho qualcosa di buono dentro di me” (S. classe quarta).

Gemma n° 2195

“La canzone La volta buona per me è importante. È l’ultima canzone che il duo hip-hop italiano composto da Stokka e MadBuddy ha realizzato assieme, perché poi si è sciolto.
L’ho scoperta pochissimi mesi dopo la sua uscita, verso la fine della terza media, e mi accompagna da allora.
Le medie per me non sono state un periodo molto facile per via del bullismo che ho subito sia da parte di certi compagni di classe sia da parte di un professore, e gli strascichi di esso sono ancora annidati dentro di me, spuntano pure fuori talvolta e mi donano emozioni spiacevoli.
Del ritornello, quando la ascoltai per la prima volta, mi colpì una frase
“Questa è la volta buona per guarire”
C’è da dire che gli artisti hanno lasciato libera interpretazione del testo della canzone. I fan più affezionati del gruppo lo vedono come uno scritto in onore della loro carriera giunta al termine, altri invece lo vedono come un invito a rialzarsi dalle avversità o a fare pace con i momenti bui del proprio passato.
Per me questa canzone rappresenta il cercare di andare avanti nonostante le vicissitudini avverse dal punto di vista psicologico che mi sono capitate in passato e che talvolta si riaffacciano nel mio animo.
Guarirò anche io.
Tornerò a stare bene.
Guarirò.”
(A. classe quarta).

Gemma n° 2146

“Ero molto indecisa su cosa portare oggi. Alla fine ho deciso di parlare di una cosa che ho tanto a cuore di cui però faccio molta fatica a parlare. La mia migliore amica il 9 agosto dell’anno scorso è venuta a mancare a causa di un malore improvviso. È stato il giorno più straziante della mia vita. L’ultimo ricordo che ho di lei era del venerdì della settimana prima: eravamo a Grado dove passavamo insieme tutte le estati, ci siamo salutate e abbracciate perché quel weekend sarei andata a Lignano. All’ora di pranzo di quel lunedì mia mamma mi raccontò cosa era successo quella mattina. La mia migliore amica se n’era andata nel giro di 5 minuti davanti agli occhi di sua sorella minore. G. non era solo la mia migliore amica, era la mia compagna di vita ed eravamo come sorelle. Siamo cresciute insieme e abbiamo vissuto insieme tante delle esperienze della nostra vita. Ci siamo conosciute a 2 anni all’asilo e siamo andate a scuola assieme da allora. È una delle cose più difficili che affronterò nella vita perché avevamo un rapporto davvero indescrivibile. Ero così felice di rivederla quel giorno che da allora sono ancora in shock. Sento come se ci fosse un grande vuoto dentro di me e ogni giorno mi manca tantissimo. Sento di aver ancora bisogno di lei e la vorrei qui con me. Non riesco ancora a realizzare tutto ciò infatti la sto aspettando come se fosse andata in viaggio. Adesso tutto quello che facevamo insieme lo devo fare anche per lei, ma è una cosa durissima. Il fatto che lei non sia qui con me mi spaventa. Io ho ancora tanto bisogno di lei e nessuno la rimpiazzerà mai. Le voglio tanto bene e rimarrà per sempre nel mio cuore. Non dimenticherò mai l’affetto che ci univa e i bellissimi momenti e ricordi che avevamo condiviso. Non avrei mai pensato di dirle addio così presto. Mi manca tantissimo e vorrei tornare indietro solo per abbracciarla un’altra volta e dirle quanto le voglia bene. Lei era come famiglia per me, infatti il dolore è talmente forte e lacerante che è come se avessi vissuto un trauma. Credevo che il giorno peggiore sarebbe stato quello in cui G. se n’è andata oppure il giorno del suo funerale ma in realtà erano una passeggiata a confronto con il resto. Durante  quella settimana avevo sempre persone attorno che avevano paura a lasciarmi da sola, qualcuno che mi chiedeva come stessi e a cui potevo risospendere sinceramente; il peggio è iniziato dopo, quando non c’era più niente, solo silenzio. Il mio piccolo angelo che mi protegge da lassù è volato via, all’improvviso, andandosene per sempre” (N. classe prima).

Gemma n° 2145

“Eh sì, è arrivato il fatidico momento. Come l’anno scorso, per me scegliere cosa condividere con voi è molto difficile, ho sempre preso molto seriamente questo “lavoro”, eh si, perché per molti potrà sembrare un semplice momento di svago della lezione dove si condivide di solito un momento bello della propria vita perché, diciamocelo, nessuno ha voglia di portare negatività in classe, si ha sempre un po’ paura di confidarsi e si finisce per scartare l’opzione di raccontarsi in modo molto profondo. Eppure io oggi voglio fare proprio questo. Non ho mai criticato chi ha deciso di portare come gemma una semplice foto che ricordasse un bel momento, o un portafortuna etc…etc…, anzi mi rende felice il fatto che la gente condivida un bel momento, però per me non è abbastanza, è come se mi sentissi in dovere di raccontarmi, di farmi conoscere, e dunque sono sempre indeciso su cosa portare. La gemma… che bell’opportunità. Ebbene, all’inizio non l’ho mai colta bene, sia per pigrizia perché chi ha voglia con tutti i problemi che ci affliggono di spendere tempo su di essa (la gemma) e in più anche per timidezza perché non avevo voglia di condividere la mia vita. Dall’anno scorso invece ho capito il vero valore di questo compito, questo perché col tempo sono maturato e ho capito che magari raccontarmi può servire a qualcuno e la gente può riflettere attraverso i miei pensieri, anche se questa cosa fino ad ora non mi è mai accaduta, o meglio, io non l’ho mai notata perché nessuno mi ha mai detto qualcosa dopo che io mi sono confidato, e questa cosa mi fa molto arrabbiare perché poi ci chiediamo “che senso ha fare tutto ciò se poi agli altri APPARENTEMENTE non sembra importare qualcosa? Forse vogliamo solo liberarci?” Allora avrebbe senso scriverle queste cose e basta. Non lo so, sono molto confusionario, non riesco a darmi delle risposte. Ma giuro che dopo ci ritorno su questo discorso (del fatto che mi arrabbio). Concludo questa prima parte riprendendo l’importanza di questa gemma, ribadendo quanto per me sia un momento importante e forse liberatorio e di cui ho capito l’importanza solamente crescendo e maturando e forse mi renderò ancora di più conto di questa importanza della gemma solo più avanti e non potrò mai ringraziare il prof. Del Mondo.
MUSICA E GLI ALTRI
Che titolo strano ahahah… lo sto scrivendo senza pensarci troppo eppure mi suona così bene. La musica per me ha sempre rappresentato il mio specchio, la mia ancora, il luogo dove rifugiarmi e dove elaborare i miei pensieri; per me rispecchiarmi nella musica e nel pensiero degli altri è molto importante perché la maggior parte delle volte mi ci ritrovo in questi pensieri. Avrei dovuto spiegare il significato della musica per me già l’anno scorso, ma preso dall’emozione in classe non l’ho fatto e allora lo farò oggi portando 2 canzoni molto importanti per me che hanno dei testi molto profondi: uno parla della mia generazione, come la canzone e il video che ho portato l’anno scorso e di cui vorrei menzionare una citazione: “la vita va di corsa, la vita non aspetta, ma già la vita è corta, tu vuoi la vita stretta” SalmoLunedì. Ho quasi sempre i brividi quando ascolto questa frase perché in fondo la vita è già piena di problemi, abbiamo mille cose a cui pensare, ci sono 70000 problemi che ci circondano eppure non ci interessa, quello che ci interessa è apparire agli altri… che cazzata! E vorrei lasciare appunto un immagine del video che ho portato l’anno scorso e che può far capire molto meglio cosa intendo.

Penso non ci sia altro da aggiungere. In più l’anno scorso ho portato il significato dell’amicizia molto importante per me e non avevo ancora trovato qualcuno con cui confidarmi. Quest’anno, invece, fino ad una settimana fa sì, pensavo di aver trovato la mia copia perfetta di amico che mi potesse capire e supportare e invece così non sembra essere…che vita beffarda. Sto trovando però supporto da una ragazza che non ho mai voluto far scompensare perché non ho mai voluto condividere i miei problemi; infatti io e lei parliamo maggiormente di scuola e ci divertiamo molto… il che sembra banale, invece il distrarsi e scacciare via i cattivi pensieri è molto importante! Lei si chiama G. e la devo ringraziare molto perché mi aiuta e cerca di farmi vedere il lato positivo delle cose in quanto io sono molto negativo e testardo; questo è veramente bello, lei è veramente profonda e matura. Infine sempre l’anno scorso ho portato l’intro dell’album di Rkomi, artista molto profondo che sembra la mia copia, e definisce la vita come una corsa, come una macchina dove lui deve guidare e ispirare gli altri e con me lo sta facendo tutt’ora. Per me la macchina è una metafora molto importante, per “macchina” intendo proprio l’auto. La vita è una corsa in macchina, essa è la nostra bolla dove ci rifugiamo quando piove, a volte rallentiamo perché tutto va male, altre volte acceleriamo perché pensiamo di essere al sicuro e vogliamo raggiungere subito quella cosa (l’amore nel mio caso, che è il secondo argomento di oggi) e poi ci andiamo a schiantare. Dopo esserci schiantati l’auto va cambiata (la persona amata va lasciata perdere) e non abbiamo sempre i soldi per cambiarla, non vorremmo cambiarla, andiamo sempre alla ricerca dello stesso modello e il punto più difficile è proprio l’andare avanti; non vogliamo renderci conto che stare senza quella determinata persona è la cosa più giusta da fare. Voglio citare un’altra canzone di Rkomi e poi giuro che inizio con la mia gemma odierna. La canzone si chiama Più lei che noi in quanto noi diamo importanza molte volte all’amore e lasciamo perdere stupidamente le amicizie. Nella canzone lui dice: “presi in tempo quel volo però persi un amico”. Appena ci capita una ragazza davanti a noi, cerchiamo sempre di non farcela scappare dando ascolto solo a lei e non ai nostri amici, qualcuno questo giustamente non lo accetta e se ne va. Finisco col dire che l’indecisione quest’anno era tanta; volevo portare il significato di che cos’è una famiglia e raccontare le mie esperienza e tante altre cose e alla fine ho optato per raccontare di me attraverso 2 canzoni che parlano della mia generazione, di me stesso e dell’amore.
Non vivo più sulla terra

Vorrei riflettere su alcuni punti significativi.
Il primo è il titolo; non vivo più sulla terra. È proprio nella parte strumentale finale della canzone che non vivo più sulla terra in quanto inizio a pensare e realizzare tutta la mia vita, come sono cresciuto, i miei problemi, come sarà il mio futuro, mi lascio trasportare senza pensarci troppo.
Ora mi soffermo su alcune frasi
Sei ricco quando te ne accorgi
La verità è che stare immobili serve con le api, d’accordo.
Beh qua è molto difficile rendersi conto delle persone che abbiamo accanto, pensiamo sempre di essere ricchi ma alla fine queste persone ci tradiscono e la verità è che stare immobili serve con le api che sennò ci pungono e non con gli altri: BISOGNA ANDARE AVANTI, FREGARSENE E PENSARE A SE STESSI.
Mi hanno detto: “Farai strada, ma chi ami poi dovrà piangerti
Chiamami quando passi”
Mi ritengo una bella persona e molto matura e poi quando la gente mi perde capisce veramente cosa ha perso e piange, cerca di chiamarmi ma io non rispondo, mi è successo poco tempo fa…
Un bimbo mi ha detto, “Non si è mai troppo grandi”
Un vecchio invece che non lo sei mai abbastanza
Questo sono io del passato, io piccolo che dico a me del futuro che non si è mai troppo grandi, non si smetterà mai di crescere, mentre un vecchio, ovvero l’io grande, ripensa a quello che si è detto da piccolo e pensa di aver detto una stupidaggine perché pensa ormai di essere uomo e di aver affrontato tutto della vita e così non è, non si smette mai di diventare grandi.
Non vivo più sulla terra
Vuoto, mi bussi alla porta
Vuoi che mi abbandoni all’aria?
Cielo, facci strada
Diecimila voci e tu mi dici di calmarmi
Dovrei prendere esempio da te
Che non hai ancora mai perso il controllo
La monotonia è uno dei problemi più grandi che mi perfora dentro e non mi lascia mai stare. Il vuoto mi bussa alla porta, ci sono dei pomeriggi in cui nulla sembra avere un senso, guardo il vuoto e cerco di non pensare, non riesco a fare nulla.
Volete che mi abbandoni all’aria? Che il cielo, DIO, mi faccia strada? Non credo, in questo periodo della vita la religione rappresenta un problema, ha sempre rappresentato un problema, non riesco a capirla, se Dio esiste veramente perché la vita di molti va male, NON ESISTE COMPASSIONE, IO NON CREDO CHE DIO VOGLIA IL MALE, lui l’ha creato però secondo me è la tentazione il male che ha creato, i vari peccati che tutt’ora esistono, ma non il male interiore, non penso lui voglia che la gente stia male. Massimo Pericolo in una sua canzone dice: “Se esiste Dio perché tua madre ha il cancro?” Nessuno potrà mai rispondermi e convincermi.
Poi entra in gioco l’amore e il discorso dell’arrabbiarmi : “Diecimilavoci e tu mi dici di calmarmi…
dovrei prendere esempio da te che non hai ancora mai perso il controllo.”

Quando stai male la gente inizia a darti consigli da tutte le parti, e sbaglia, non ti lascia pensare e stare da solo, pensa di aiutarti e invece…Come posso restare calmo davanti a situazioni del genere? Dovrei prendere esempio da te, persona immaginaria, che non hai ancora mai perso il controllo… E io lo perdo facilmente, ora sto raccontando tutto questo ma forse a pochi interesserà. A CHI IMPORTA CIÒ CHE STO DICENDO, CI SONO MILLE PROBLEMI però questo mi fa arrabbiare, una riflessione molto articolata e poi nulla, mi svuoto di una parte di me per poi? cosa otterrò? un confronto? non lo so. NON SONO IN GRADO DI DARMI DELLE RISPOSTE. Nella canzone poi si dice: “come fossi tu la legge per cui gira il mondo” infatti… chi sono io? chi sono io per ricevere delle attenzioni da terzi… non sono io al centro del mondo, ogni persona è afflitta da tanti problemi, non ha tempo di starmi ad ascoltare. Questa cosa mi fa arrabbiare ma devo accettarla perché è giusto così, quante volte nella vita accettiamo cose che non vorremmo? SEMPRE, digerisco anche questa volta e vado avanti. Però che fastidio, ci sono sempre per gli altri, ascolto sempre pur stando nel mio, senza costringere nessuno a raccontarmi nulla. Io fuori sono sempre stato simpatico e solare, carino, sempre fatto complimenti a tutti e gli altri a me? Mai nulla, anche per un semplice abbraccio, l’ho sempre dovuto cercare io. Io sono questo qui, quello che sto raccontando adesso, non sono sempre felice, quando sono solo di notte soprattutto dove penso e scrivo meglio, sono tutt’altra persona, la gente non lo capisce. Che bella la notte, vorrei andare di notte sopra gli autobus e ascoltare musica, mi sfogherei molto, ma non ho tempo. BASTA, PENSO SEMPRE AGLI ALTRI E MAI A ME STESSO, non sto trovando spazio per me, non faccio più quello che mi piace, non vado più in palestra… etc… vorrei riniziare a suonare il piano…
Non so cosa voglian le persone
Non so cosa si dicano la notte per farsi coraggio
La notte è un momento dove la maggior parte delle volte io sto da solo e penso, quindi non lo so cosa si dicano le persone la notte. La notte è un momento di pensiero, dove si ragiona meglio e si elaborano i pensieri più belli e concreti. Ma è anche il buio, io ho paura del buio.

Mi giro e non ci sei già più, yeah
Se fosse sempre buio
Come distingueresti il giorno?
Mi giro e non ci sei già più… pensiamo sempre di contare su di una persona, ci apriamo sin da subito e poi… il giorno dopo se ne va… cambia comportamento, tutti abbiamo una maschera e rivelare noi stessi è molto difficile.
Vorrei che fosse sempre notte, che il giorno non esistesse perché durante la notte tiro fuori la parte più intima e migliore di me, ma come distinguerei il giorno se ci fosse solo la notte? Il tempo non lo posso cambiare, il tempo cura, il tempo è l’unico maestro, l’unica forma d’amore.
So che sei da qualche parte, in un ricordo che non vedo
In un pianeta non molto lontano, le canzoni sono ciò che mi hai fatto
E ti guardo mentre scappi (Yeah), ti giri dall’altra parte (Yeah)
I tuoi problemi sono a casa e non serve che ti aspettino svegli
Ci capissi qualcosa di più di qualcosa, anche tu di’ qualcosa
Caddi così in basso, riuscivo a guardarti da sotto la gonna
È la fine del mondo o è solo il sangue che circola?
E la mia migliore emozione è una canzone che odio.
La cosa migliore è dimenticare il passato, la cosa + difficile. Io so che le persone che in passato mi hanno fatto male esistono ancora, ma per fortuna in un ricordo che non vedo, o meglio che non voglio vedere e ricordare ma inevitabilmente è dentro di me. In passato quando bisognava affrontare un problema, l’ho sempre affrontato da solo, l’altra persona durante la discussione si girava dall’altra parte e quando tornava a casa i problemi la tormentavano perché quella persona era consapevole che scappare non è mai la scelta migliore, bisogna affrontare tutto anche se a volte si sta male. Altre volte invece non capisco nulla dell’amore, vorrei sentirmi dire qualcosa dall’altra parte e l’unica cosa è il NON LO SO, lo scappare dai problemi e questo mi fa rimanere male e cadere in basso. “Le canzoni sono ciò che mi hai fatto”; io mi rispecchio molto in questa canzone perché le parole scritte in questa canzone ma anche in tutte le altre canzoni che ascolto spesso, rispecchiano qualcosa che delle persone mi hanno fatto in passato.
LA MIA MIGLIORE EMOZIONE, È UNA CANZONE CHE ODIO
Nessuno vorrebbe rispecchiarsi in queste parole, me compreso, non è bello vivere queste esperienze, ma servono a crescere, stare soli, stare in solitudine molte volte aiuta e serve, non per forza bisogna avere un costante bisogno di persone attorno a noi. Questa canzone è molto emozionante ma la odio perché non vorrei più vivere queste esperienze ma so che ritorneranno, la vita è un cerchio.
LA GENESI DEL TUO COLORE

La generazione… quella in cui l’indifferenza regna, l’unica cosa che conta è stare bene con noi stessi e farci vedere bene dagli altri. Dunque non vogliamo dimostrarci deboli eppure mostrandosi forti io dico che in realtà ci si dimostra deboli.
Il mio pensiero ruota tutto attorno a una frase di questa canzone: COLORA L’ANIMA, CON UNA LACRIMA.
È una frase corta e concisa, che ti entra dentro… PIANGERE ci fa sfogare, ci fa mostrare la parte migliore di noi, spesso associamo il piangere all’essere deboli, io penso l’esatto contrario. Noi giovani non vogliamo piangere, l’adolescenza è breve e ce la vogliamo godere, diventare grandi e pensare che non potremo più divertirci ci spaventa, non abbiamo tempo di stare male. Condividere tutte le nostre sensazioni invece è la chiave, mostrarci per come siamo. Se tutti piangessimo e condividessimo questi momenti intimi, coloreremmo l’anima della nostra generazione. Un mio difetto è quello di non riuscire a piangere in pubblico, mi è successo veramente pochissime volte, io vorrei sempre scoppiare in lacrime ma non ci riesco, al massimo mi commuovo ma non riesco. Solo quando sono a casa mia, chiuso nella mia stanza, sfogo tutto me stesso.
Non sarà la neve
A spezzare un albero
Avessi finito sarebbe stato meglio
Di averti visto piangere in uno specchio
E mi manca la tua voce ormai
Ora che, ora che, ora che sei qui
Io sono qui
Ci vestiremo di vertigini
Mentre un grido esploderà
Come la vita quando viene
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome

Avessi finito sarebbe stato meglio
Hai poco tempo ormai
Per vivere una vita che non sentirai
Chiudo il sole in un attimo

Anche se non dormirò oh
E i pensieri passano
Come eclissi resti qui
Io resto qui
E danzeremo come i brividi
Mentre la vita suonerà
Con le dita tra le veneziane

In queste righe del brano riecheggia l’essere se stessi: molte volte preferiamo fingere per non vedere gli altri piangere e stare male senza renderci conto che è meglio dire subito le cose piuttosto che far passare il tempo” (G. classe quarta).

Verso nuovi racconti

Immagine tratta da Il mio libro

E’ notte. Il rumore della lavastoviglie non copre il canto dei grilli che entra dalle finestre insieme al fresco portato da un fugace temporale serale. Mi sono appena imbattuto in un articolo di Samuele Pigoni dedicato ad un medico scomparso a gennaio e che non conoscevo, ma di cui probabilmente leggerò il libro citato: Giorgio Bert. “Ha animato la cultura italiana proponendo l’incontro tra scienze biologiche e sociali, medicina, letteratura e filosofia contribuendo al tentativo di umanizzare la cura, di superare la separazione tra scienze dure e studi umanistici, di introdurre nelle professioni d’aiuto una migliore consapevolezza del ruolo che le interazioni comunicative hanno nel destino dei processi di aiuto e guarigione.”
Scrive Pigoni: “Mi sono trovato in piena pandemia ad affrontare una serie di esperienze legate alla malattia e alla morte di affetti a me cari e a osservare in presa diretta una serie di temi al centro del pensiero e dell’impegno di Giorgio Bert.
Malattia e morte sono esperienze esistenziali centrali nella vita di tutti e nello sviluppo del pensiero umano: «Il fatto di essere mortali dà senso alla nostra esistenza. Che pensiamo o no esplicitamente alla morte, essa condiziona le nostre scelte, i nostri progetti, la nostra visione del passato e del futuro. È la morte a dare significato alla vita» (Gli uomini sono erba. Conversazioni sulla cura, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007).
Spesso però ci dimentichiamo che l’incontro con la malattia e la morte avviene attraverso la mediazione concreta dei sistemi umani che ne organizzano l’esperienza: ci troviamo all’improvviso ad attraversare le corsie degli ospedali, ad attendere lunghe ore in sale d’attesa, ad ascoltare parole più o meno comprensibili da parte del personale sanitario, a telefonare alla ricerca di informazioni sulle case di riposo, a rispondere a domande che ci vengono fatte per sapere come stiamo oppure ad attendere quelle che invece non ci verranno fatte. Incontriamo questi luoghi, fatti di assenze o presenze, frette o premure, proprio quando siamo più fragili e quando si generano nelle nostre biografie di malati o caregiver delle vere e proprie crepe che rischiano di danneggiarci con senso di privazione delle opportunità, di colpa, di perdita del controllo sulla nostra vita.
Giorgio Bert ci ha insegnato, da formatore e teorico dei princìpi della medicina narrativa e studioso della comunicazione in ambito sanitario e non solo, che una migliore consapevolezza delle interazioni comunicative può favorire il fronteggiamento delle esperienze della fragilità.”
A questo punto le parole di Pigoni ampliano il discorso e fanno risuonare in me delle corde utili a motivare il lavoro dell’anno scolastico alle porte: “Se i sistemi organizzativi sanitari – ma anche quelli scolastici, formativi, socio-assistenziali, aziendali – imparassero infatti ad accostare le persone a partire da una prospettiva sistemica e narrativa, se imparassero a percepirsi e percepire i propri membri come portatori di storie che vale la pena ascoltare e co-narratori di nuove storie da scrivere insieme, forse ridurremmo di un po’ le infiltrazioni dolorose che la vita porta con sé. Impareremmo a percepire che siamo parte di un sistema di relazioni che ci interconnette gli uni alle altre, fatti di interazioni ed equilibri in movimento e risposta a stimoli comunicativi e relazionali che influenzano decisivamente l’esito degli incontri e dunque le storie di malattie e di morte che inevitabilmente ci troviamo prima o poi ad attraversare.
In quanto umani siamo di casa nella parola e non possiamo non comunicare: ogni gesto, parola, domanda, commento può far succedere cose diverse intorno a noi. L’invito che Bert ci ha fatto nel corso della sua vita e del suo lavoro scientifico è di cambiare prospettiva, di acquisire la postura del narratore di storie tra narratori di storie, di fare come i registi, che spostano la cinepresa, cambiano la disposizione delle luci, e con questo sanno mettere in luce punti di vista diversi, tanto diversi da cambiare la direzione della storia che abbiamo da narrare, e vivere: «Le storie possono avere sviluppi e finali differenti, e in questo senso costituiscono potenti fattori di cambiamento: è il motivo per cui nelle narrazioni non conta tanto la verità dei fatti quanto il percorso e il senso che a esse dà il narratore. Le storie costruiscono significato e sono pertanto dinamiche e variabili» (da Gli uomini sono erba).”

Gemma n°2017

“Ho portato una foto di mia nonna e di mio zio. La tengo in camera perché io e mia nonna eravamo molto legati, molto vicini. Quando è morta non sono riuscito ad essere vicino a lei perché era in terapia intensiva e i bambini non potevano accedervi, quindi nei suoi ultimi due mesi di vita non sono riuscito a vederla”.

Mi affido alla spiritualità orientale per commentare la gemma di G. (classe prima): “Ogni sofferenza è un seme di buddha, perché la sofferenza spinge i mortali a cercare la saggezza” (Bodhidharma).

Gemma n° 1952

“Inizialmente avrei dovuto portare un’altra cosa, poi in questi giorni ho deciso di cambiare. Mercoledì scorso io e la mia famiglia ci siamo svegliati con una notizia che mai avremmo pensato di ricevere. Mia cugina doveva essere operata al cuore, ma l’intervento era andato male perciò avrebbero dovuto trapiantargli un altro cuore e se non lo trovavano entro 5 giorni le avrebbero staccato le macchine. Alla fine ce l’ha fatta. Quei giorni di attesa sono stati struggenti e non passavano più, volevamo solo che finissero. Credo in quei giorni di avere realmente capito quanto il tempo sia importante, e che non vada sprecato. Penso che una persona riesca a capire il valore della vita solo provando certi dolori. Tante volte, anche se non sembra, diamo per scontate tante cose, è difficile pensare che una persona un giorno c’è e il giorno dopo potrebbe non esserci più. Spesso ci perdiamo in cose che non hanno un senso quando in realtà i veri problemi sono altri. Quello che voglio dire è che è inutile sprecare il tempo dietro a  sciocchezze e dovremmo vivere con più felicità, spesso prendendo esempio dai bambini che riescono ad essere felici con le piccole cose. Per questo ho deciso di portare un disegno fatto dal figlio di mia cugina qualche giorno fa; mentre disegnava continuava a chiedere di sua mamma non sapendo che non la potrà vedere per un po’, ed è comunque riuscito ad essere felice in quel momento semplicemente disegnando. In più vorrei aggiungere che non riesco a capire perché alcune persone preferiscono investire su una guerra, come nell’attuale caso, che potrebbe essere evitata, invece di trovare cure per le malattie, stanno distruggendo intere famiglie, ma soprattutto il futuro dei bambini e dei ragazzi.”

Mi soffermo sull’attenzione che S. (classe terza) ha posto sul disegno del figlio di sua cugina e sul collegamento che ha fatto alla fine della sua gemma con l’attuale situazione. Anni fa mi è stato regalato un volume fotografico sull’attività nel mondo di Emergency: fotografie, numeri, frasi. Sfogliandolo in questi giorni ne ho sottolineate tante, ne riporto una dello storico greco Erodoto: “Nessuno è tanto privo di senno da preferire la guerra alla pace: ché in questa i figli seppelliscono i genitori, in quella i genitori i figli”. Lo stesso avviene quando si considera la vita in generale: ce ne dovremmo andare “in ordine cronologico”, soltanto una volta raggiunta una certa età… ma sappiamo bene che così non è.

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

Gemma n° 1885

“Ho portato due film come gemme.

Il primo è Noi siamo infinito, parla di un ragazzo che inizia le superiori e viene preso sotto l’ala protettrice di ragazzi più grandi e di come reagirà quando poi loro andranno al College. 

Il secondo è Le parole non dette, la storia di una ragazza molestata durante l’estate che quando entra al Liceo decide di non parlare: tutti pensano sia strana e la bullizzano quando in realtà lei ha solo paura di parlare di quanto le è successo e si chiude in se stessa”.

Quelli presentati da S. (classe seconda) sono due film che affrontano temi importanti, difficilmente sintetizzabili in poche parole o in un trailer. E non me la sento di trattarli qui ora. Hanno a che fare con vissuti importanti; tutti i vissuti ci condizionano, ma forse alcuni lo fanno più pesantemente di altri. Charlie, il protagonista di Noi siamo infinito, dice però ad un certo punto: Non possiamo scegliere da dove veniamo ma possiamo decidere dove andiamo, da lì in poi… Ecco: di certo non facile, ma è l’unica via.

Gemma n° 1841

“Volevo raccontare un aneddoto che mi è stato raccontato da mia zia. Nel 2011 è mancata la mia bisnonna materna e mia zia era con lei; è poi venuta a casa nostra per avvisare mia mamma. Ricordo che mi sono seduta vicino alla mamma e, vedendola con gli occhi lucidi, le ho chiesto se fosse triste e cosa fosse successo. Lei mi ha risposto che era mancata sua nonna, però mi ha detto che non era triste perché colpita da una cosa che le aveva raccontato sua sorella: negli attimi prima di morire la zia stava parlando con la bisnonna e si era accorta che non rispondeva più e che guardava un punto indefinito. Ha sorriso e ha chiuso gli occhi. Questa cosa mi fa sempre emozionare quando la racconto, anzi, mi fa salire un nodo alla gola perché è poetica e bellissima e, secondo me, dà alla morte un significato che nessuno riuscirebbe mai a dare. La morte spesso può essere anche liberazione: la bisnonna io non l’ho conosciuta nel pieno della sua vita, l’ho sempre vista costretta a letto a causa di una malattia. Ecco, forse più che liberazione, quella scena è la certezza che la morte non è solo paura, ma forse un abbandonarsi a una gioia, a qualcosa che vedi di più. Forse quel giorno lì lei ha sentito un grande amore, una grande gioia e ha detto “è la mia ora e io sono contenta di affidarmi a quello che viene”. Questo mi dà forza e mi aiuta a concepire la morte in maniera più serena, soprattutto in questo periodo”.
Amo leggere David Maria Turoldo, trovo così tanta affinità tra i miei pensieri e le sue parole che non di rado mi sono emozionato coi suoi versi. Tuttavia, a commento della gemma di B. (classe quarta), non pubblico una sua poesia, ma un brevissimo estratto di un’intervista del 1991: “Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia”.

Gemma n° 1824

E’ una gemma senza testo quella di G. (classe seconda), o meglio, il testo è “solo” quello della canzone Solamente unico che ha voluto proporre in classe come gemma, non ha voluto né commentarlo né dire il motivo della scelta. Ho messo le virgolette a “solo” perché basta ascoltare il pezzo per capire quanto racconti. Però mi voglio attenere al dato di fatto, non voglio immaginare o ipotizzare cosa ci sia dietro alla scelta di G. E per farlo cambio destinatario: il mio commento alle gemme è praticamente fatto tenendo in mente ragazze e ragazzi che incontro ogni giorno. Ora invece penso al mondo degli adulti e il perché è presto detto. Prima di entrare nella classe di G. stavo leggendo delle pagine del libro L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti di Matteo Lancini (2021, Raffaello Cortina Editore).

In famiglia è necessaria “una nuova propensione affettiva e relazionale, che consenta sin da bambini di esprimere fatiche e sofferenze, non chiedendo loro di farsi carico di sguardi troppo angoscianti provenienti da mamma e papà. L’inciampo e il fallimento sono parte costituente della vita, della crescita, dello sviluppo in direzione della costruzione del vero sé e di una propria identità autentica. Non si tratta certo di ricercare dolori e sofferenze nella vita, ma di evitare grandiosità e decessi che illudono sulla possibilità di essere felici senza accettazione ed elaborazione dei fallimenti e della morte come elementi fondanti della nostra esistenza”.
In adolescenza “la qualità di un ascolto identificato e la capacità di interessarsi al figlio reale, ormai divenuto altro da sé e delle proprie aspettative, rappresentano l’unica via d’accesso per lo svolgimento di un ruolo materno e di un ruolo paterno davvero autorevoli e di sostegno alla crescita. Laddove prevalgano discorsi infantilizzanti, alimentati dal rimpianto per la straordinarietà dei tratti affettivi e relazionali dell’ex bambino, e contenuti ciclici standardizzati sulla necessità di un maggiore impegno scolastico, comportamentale, etico, sacrificale, non solo il ruolo affettivo adulto non riesce a incidere, ma rischia di innalzare il livello del conflitto in atto, se non di accrescere i sentimenti di tristezza e di vergogna, già sperimentati dal figlio o dalla figlia, negli stati depressivi legati al fallimento narcisistico.
Gli adolescenti odierni hanno sensibilità non comuni, sviluppate proprio grazie alla mamma e al papà e alla trama affettiva che ha dominato la loro crescita. Solo se percepiscono una capacità di ascolto e rispecchiamento realmente identificata con le loro esigenze e difficoltà evolutive possono rivolgersi al proprio adulto di riferimento, condividere i propri stati affettivi, chiedere aiuto e conforto. Oggi i ragazzi e le ragazze non parlano con i propri genitori perché hanno paura di deluderli o di incontrare reazioni emotive materne e paterne spropositate. E i genitori temono a loro volta le paure e le sofferenze dei figli, cosa che gli adolescenti avvertono sin da quando sono nati. Madri e padri di ragazzi tristi, mutacici non dovrebbero mai temere di introdurre il tema della morte volontaria a tavola, la sera o in qualunque altra occasione di incontro possibile. Chiedere se ci si pensa e se ci si è mai pensato, nominare il suicidio senza alcun timore. Un altro luogo comune da sfatare è quello che sostiene che parlare di suicidio possa istigare, promuovere l’idea del nostro giovane interlocutore di mettere in atto il gesto insensato. E’ vero esattamente l’opposto. Parlarne consente di abbassare il rischio, di dare senso al pensiero sviluppato sulla morte volontaria, di rendere meno attrattiva l’eventuale ipotesi e intenzione suicidaria. Ovviamente, ciò che vale per l’espressione più terribile del disagio di un figlio, vale per tutti i sentimenti, le sofferenze e i dolori sperimentati. Conviene sforzarsi in questa direzione, allenarsi per essere in grado di percepire, ascoltare e sostenere l’elaborazione delle emozioni negative. Continuare ad allontanarle e rimuoverle è oggi davvero molto pericoloso”.
(estratti dalle pagg. 147-150).

Questo leggevo ieri in aula insegnanti, mi sono alzato, ho messo via il libro, ho salito le scale, sono entrato in aula e la prima cosa successa è stata ascoltare la canzone proposta da G. Di quali ulteriori segni avrei bisogno per non toccare questi temi? Cosa mi serve ancora per far sì che emergano quelle prove “del sole intorno a te”, per far sperimentare che “la luce non muore”?

Un’inesauribile ricerca di luce

Martina Spollero ha terminato il Liceo Percoto nel 2020. Poi si è iscritta a Lettere Moderne ed è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine. Insieme a Gabriele Visintin, studente di filosofia, ha scritto un articolo per Il chiasmo, magazine online edito dalla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU), in collaborazione con l’Istituto Treccani. Lo ripropongo qui molto volentieri e aggiungo ai suggerimenti di lettura dei due autori il libro di Massimo Recalcati “Il grido di Giobbe”, sempre sullo stesso tema (libro che ho appena terminato).

Il muto dialogo tra l’uomo e Dio

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Se l’esperienza del quotidiano è quella di una realtà profondamente intrisa dal male e dominata dalla sofferenza, come conciliare la constatazione del dolore con un vivo rapporto di fede? È possibile un dialogo con un Dio imperturbabile davanti alla sofferenza del frutto stesso del suo amore?
La visione della fede proposta dal filosofo danese Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855), sebbene influenzata dalla rigida educazione pietista impartitagli fin dalla giovinezza, risulta un tassello fondamentale nell’analisi dell’esperienza religiosa intesa come imprescindibile componente dell’esistenza umana. Il rapporto col divino che emerge dai suoi scritti viene rappresentato quanto mai distante dai dogmatismi interpretativi consueti mediante cui è percepita la fede. Essa risulta, infatti, caratterizzata da sentimenti radicalmente negativi quali l’angoscia e l’incomunicabilità, i quali isolano l’uomo entro i confini di una prospettiva che lo allontana dai suoi stessi simili.
Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard individua differenti stadi della vita dell’uomo. Il primo di essi è quello della vita estetica, nel quale l’uomo sceglie di non scegliere, e ricerca, in tutte le loro forme, il piacere e il godimento personale. La brama della passione – inevitabilmente e per sua stessa natura – non giunge al suo pieno soddisfacimento, conducendo inesorabilmente l’uomo verso la noia e l’indifferenza. La figura esplicativa di questo stadio è appunto quella dell’esteta, del  seduttore, alla quale si contrappone l’uomo che incarna le caratterizzanti dello stadio etico e vive conformemente a una morale, inserito in una quotidianità e in una concretezza sociale e umana.  Questo momento di vita può essere rappresentato  dal marito fedele e laborioso. Come ben evidenziato da Remo Cantoni nel suo saggio introduttivo all’opera di Kierkegaard qui presa in esame, l’aut-aut denota la scelta con cui ci si sottopone al contrasto tra il bene e il male. Non accettare questa dicotomia, pertanto, non significa necessariamente propendere verso il male, bensì verso l’indifferenza etica.
La possibile comunicazione che sussiste ancora tra vita etica e vita religiosa viene definitivamente meno nel saggio che il filosofo danese pubblicherà pochi mesi più tardi: Timore e tremore. Mediante l’esempio di Abramo, rivela come l’uomo religioso, immerso in una fede totalizzante, si trovi in aspro contrasto con le convinzioni etiche e morali comunemente accettate e condivise. Il patriarca dell’ebraismo viene messo nella posizione di doversi confrontare con una richiesta assurda e irrazionale: sacrificare suo figlio Isacco. Il nodo insolubile e controverso del rapporto tra l’uomo e la spiritualità scaturisce dalla constatazione che Colui che pretende l’immolazione dell’amato risulti il medesimo che quella prole gliel’ha donata, Dio stesso. La prospettiva, annichilente e disarmante, è quella dell’innocente che si interroga circa il fondamento di un tale abominio e la richiesta di privazione dell’unico frutto d’amore concessogli attraverso il grembo della moglie Sara, simbolo di quella vita che sopravvive – oltre le soglie della morte – sotto forma di eredità nei posteri.
Il tragico dolore che Abramo si trova ad affrontare diventa icona dell’esperienza religiosa estesa a tutti gli uomini: essa risulta sconnessa – secondo Kierkegaard – dalla ragione, dalla morale, dalla razionalità. La fede è un salto nel buio, è un cieco abbandono a una volontà che non è conforme e coincidente a quella umana, e che per questo motivo non è comunicabile agli altri individui. Ne deriva un’esperienza di fede profondamente soggettiva e assolutizzante, una frattura che allontana l’uomo dal divino, il quale vive un rapporto assoluto con l’assoluto. “Chi si trova nel mare della disperazione trova l’assoluto”, asserisce Cantoni. L’uomo, dunque, incontra Dio proprio nella sofferenza più totale.

L’esempio letterario in cui confluiscono tutte queste considerazioni è quello del romanzo Giobbe, frutto del genio e della penna di Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939). Potremmo considerare Mendel Singer (protagonista del romanzo) come il tipico uomo morale kierkegaardiano che vive nella convinzione di incarnare una fede sincera, la quale si manifesta – nei limiti dell’illusione generata dalla sua soggettività – in un rapporto diretto con Dio, dinanzi al quale si genuflette e si abbandona completamente, togliendo a se stesso qualunque prospettiva di azione, nell’attesa che si portino a compimento i piani a lui destinati (il tutto fondato su preconcetti di matrice quasi fideistica che vedono un Dio dispensatore di beni ai giusti e di dolori a coloro che non si incamminano lungo la via della rettitudine). Il suo atteggiamento nei riguardi della fede è duplice e fortemente problematico: da un lato nega la necessità di intermediari, rivendicando la possibilità di instaurare un rapporto intimo con l’Assoluto, dall’altro non cerca mai veramente un dialogo con Dio. Nel momento in cui il concatenarsi di spiacevoli eventi imprevisti lo costringe a uscire dai binari della quotidianità e a fare esperienza di un dolore che attanaglia anche le vite degli innocenti, si avvia il turbolento processo di demistificazione dei pregiudizi sui quali si fonda il suo fragile credo, e che lo porteranno via via a prendere le distanze da una fede vissuta meccanicamente, in una sua forma sterile e semplicistica.
Proprio l’esperienza diretta con il dolore lo getta nella condizione di interrogarsi sul suo sentimento religioso. Il personaggio viene portato a mettere in discussione la volontà di Dio, il suo rapporto con esso e a prendere in mano le redini di una vita sino a quel momento vissuta come passivo spettatore. Davanti alle disgrazie che lo colpiscono, il suo diviene il grido ancestrale dell’innocente che lamenta l’ingiusta punizione di cui non coglie le ragioni, che rivendica – quasi portavoce degli interrogativi di ogni uomo – il diritto alla felicità. La rabbia si tramuta in rigetto totale della fede, la quale, in quanto elemento costitutivo della sua intera esistenza, porta il personaggio in qualche misura a rinnegare sé  stesso e ad abbandonarsi in un tetro nichilismo rassegnato e rancoroso.
Se il Giobbe biblico accetta il male così come accoglie il bene, in quanto si percepisce come ente infinitesimale rispetto a ciò che lo sovrasta e non vacilla mai nei suoi intenti – poiché caratterizzato da un rapporto con Dio genuino sin da principio – il personaggio rothiano compie un’evoluzione inversa. Il suo è un percorso che va dall’illusione di una fede sincera che, messa in discussione dalle prove cui si vede suo malgrado sottoposto da Dio, approda al termine del romanzo a un rinnovato dialogo più consapevole e autentico – e dunque più sincero – con il Creatore. Nel racconto si osserva, pertanto, la fede come sentimento profondamente umano che, proprio in quanto tale, manifesta i tratti di quelle stesse debolezze e inquietudini caratteristiche dell’uomo.

La prospettiva religiosa fin qui delineata ribalta la concezione odierna della fede come palliativo verso la sofferenza. Non è grazie alla morte e alla paura verso di essa che l’uomo, anelando a un’eternità metafisica, si rifugia nell’eternità per definizione (Dio), che risulta però inconsistente illusione, inconsciamente creata dall’uomo stesso. Fu il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) a teorizzare che senza la morte come limite naturale non esisterebbero le religioni, così come Dio. La fede vista in questa prospettiva assumerebbe caratteri prettamente utilitaristici: l’individuo è costretto ad affidarsi a una figura ultraterrena e soprannaturale per sperare in una vita che possa superare la morte. Presentata in tal modo, l’adorazione religiosa è legata esclusivamente alla promessa di immortalità. Senza questa promessa, se dell’uomo, delle sue opere e del frutto delle sue fatiche nulla rimane, allora Dio non solo sarebbe “inutile”, ma non avrebbe senso neppure porsi la questione della sua esistenza. La fede esisterebbe fintanto che da essa si può ottenere un profitto reale e tangibile.
Nel suo senso antropologico, il dolore si manifesta nell’estrema concretezza di un’esperienza in grado di produrre quella discontinuità necessaria a rompere il ritmo abituale dell’esistere e a trasfigurare sotto una rinnovata luce le esperienze caratterizzanti del quotidiano. Risulta al contempo patimento e rivelazione: il suo porre inesorabilmente l’uomo dinanzi la cocente presa di consapevolezza dei suoi limiti e della sua fragilità, lo predispone all’analisi di sé e alla messa in discussione dei paradigmi interpretativi a lui consueti. Chiuso entro i confini del suo microcosmo esistenziale, l’individuo acquisisce paradossalmente una prospettiva privilegiata per meditare sulla natura e sullo scopo della sua stessa sofferenza in quanto «prezzo dell’esistenza e sapore dell’istante che passa» (Le Breton, 2007). L’impressione è quella di un patimento tutto individuale, incomunicabile agli altri e a loro incomprensibile che alimenta il ripiegamento in una dimensione inedita dell’esistenza. Il dolore può assumere un valore solo nel preciso istante in cui ad esso viene attribuito, quando diviene cioè epifania di un disegno ultimo che va al di là dei confini di quel frammento di vita che è l’uomo. Imprescindibile punto di partenza per il maturare di una fede viva e sincera è proprio l’esperienza del più profondo e totale abbandono, di quel tetro silenzio di un Dio che apparentemente tace davanti alla sofferenza umana. La visione screditante della fede come comodo palliativo non è altro che la distorsione derivante da un’interpretazione fortemente semplicistica del sentimento religioso e implica il rischio di deresponsabilizzazione dell’uomo e dell’agire: il sacrificio umano non è la sopportazione del dolore, è l’accoglienza di un messaggio di fede capace di farsi propulsore all’azione e occasione per una riscoperta sincera della presenza di un essere Altro, esterno ma allo stesso tempo componente intrinseca di sé.
Ciò che si è voluto dimostrare con quest’analisi è come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato di assolutezza divina, divenga quotidiana riscoperta del rapporto autentico con l’Assoluto attraverso l’intima esperienza del dolore. L’essenza del sentimento di fede risiede nella tensione di un’inesauribile ricerca della luce tra le pieghe in ombra dell’esistenza, nel perpetuarsi di un’insaziabile esplorazione profonda della vita interiore spinta dalla volontà di dare risposte circa il senso dello stare al mondo e di quel fine ultimo verso cui la vita dell’uomo è volta teleologicamente a tendere.

Per saperne di più:
GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Roma, Paoline Editoriale Libri, 2015.
KIERKEGAARD, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2016.
KIERKEGAARD, Timore e tremore, Milano, Mondadori, 2016.
KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio, Bologna, Il Mulino, 1997.
LE BRETON, Antropologia del dolore, Roma, Meltemi editore, 2007.
ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano, Adelphi edizioni, 2014.