Gemma n° 2238

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare la gratitudine verso il mio cambiamento positivo.
L’anno scorso stavo passando un brutto periodo della mia vita: mi sentivo sola, senza nessun obiettivo e senza quella motivazione che ero solita avere, ma cercavo di nasconderlo. Facendo un giro in libreria, trovai questa raccolta di poesie di Franco Arminio, Studi sull’amore. Lessi tutte le poesie in un giorno ed evidenziai quelle che in quel periodo mi sembravano stupende.
Una di queste si chiama “Sono due giorni che soffro”:

Sono due giorni che soffro
per paura. E ho sofferto
per tutto il tempo che ho vissuto,
e qui nel petto un vago allarme,
un cuore che mi punta
e io scappo dal mio sangue,
mi faccio aria, mi nascondo
in tutte le parole che dico,
non c’è più nessun me
a cui posso appigliarmi,
c’è solo un cenno antico,
un cenno d’infanzia
fatto di neve e del petto di mia madre.
Ti prego, tienimi in vita,
stendimi al sole,
prestami un respiro.

Recentemente ho riletto il libro, per curiosità, e mi sono accorta di come tutto sia cambiato nel giro di pochi mesi. Ora sono grata per come la mia vita sia e per i miei obiettivi che sono riuscita a portare a termine anche se con molta difficoltà. Ma soprattutto sono grata per chi ho vicino: ho amici che mi supportano sempre, una famiglia che mi accetta per come sono e una persona che mi ama nonostante i miei difetti.
Come poesia di questo periodo ho scelto “Contro la morte esiste solo l’amore”:

Contro la morte esiste solo l’amore.
Le donne lo sanno meglio degli uomini,
meglio delle donne lo sa la luna,
meglio della luna lo sa il vento.
Lascia correre il tuo amore,
dentro di te e dentro gli altri.
Chi ama non esce mai di scena,
siamo tutti qui,
sangue della stessa vena.

(B. classe quarta).

Gemma n° 2227

“Come Gemma quest’anno, ho deciso di portare 4 brevi video presi dal film Collateral Beauty. Collateral Beauty, il film diretto da David Frankel, vede protagonista Howard Inlet (Will Smith), direttore di un azienda pubblicitaria, profondamente depresso a causa della perdita prematura di sua figlia. Whit (Edward Norton), Claire (Kate Winslet) e Simon (Michael Peña), suoi amici e collaboratori capiscono che il suo stato d’animo sta diventando un problema per l’azienda: dopo aver perso sua figlia, a Howard non importa perdere tutto il resto. Gli amici per questo, assumono un’investigatrice privata per capire cosa l’amico stia passando e cercare di aiutarlo.
Quest’ultima, Sally scopre che l’uomo invia strane lettere indirizzate ad “Amore”, “Tempo” e “Morte”. Superato lo sconcerto, decidono di assumere attori che incarnano questi stati d’animo per organizzare incontri con Howard e rispondere agli interrogativi presenti nelle sue lettere.

Intanto Howard decide di frequentare un gruppo di sostegno e conosce Madeleine (Naomie Harris) che ha perso anche lei la figlia. Si susseguono gli incontri organizzati dai suoi colleghi, fin quando “Amore” riesce a far capire ad Howard che deve permettere all’amore di essere ancora presente nella sua esistenza, in quanto elemento fondamentale per continuare a vivere.
I video che ho scelto sono rispettivamente il suo incontro con la Morte, con il Tempo e con l’Amore. Queste conversazioni sono ricche di elementi che fanno riflettere sulla vita e sul suo fine. Quando ho visto il film per la prima volta sono rimasta impressionata da questo espediente usato dal regista per analizzare profondamente gli stati d’animo del protagonista.
Dopo che l’ho visto, ho riflettuto a lungo su questi tre temi che caratterizzano la nostra vita, che noi ce ne rendiamo conto o meno. La morte la colleghiamo al dolore ed alla sofferenza ma se scaviamo a fondo, ci insegna sempre qualcosa della vita e ci fa guardare dentro in maniera diversa. Il tempo ci insegue ma come anche noi inseguiamo lui. Spesso e volentieri siamo arrabbiati con lui ma in realtà non è colpa sua. Siamo noi autori della nostra vita e siamo noi gestori di come lo spendiamo e con chi. L’amore è ciò che ci scalda, ma è anche ciò che ci fa raggelare. L’amore è un contrasto, fa sorridere e fa piangere, ci aiuta a rialzarci ma ci fa anche cadere. Tuttavia, senza amore non vivremmo. Non è solo amore in termini di relazioni ma anche l’amore dei genitori, dei nonni e degli amici. L’amore che noi riserviamo per queste persone ci fa andare avanti. L’amore è una sicurezza che noi lo vogliamo ammettere o meno.”
(G. classe quarta).

Gemma n° 2223

“Per la mia gemma ho deciso di portare una foto ed una canzone che scatenano in me emozioni opposte tra loro.
La foto, infatti, l’ho scattata quest’estate in un momento in cui ero veramente felice: stavo facendo da capo animatore e capo squadra ad un centro estivo e per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo veramente voluta bene. Adoravo far ridere i bambini, prenderli in braccio e farli giocare. Adoravo sentire loro vocine che mi dicevano “Maestra ti ho fatto un braccialetto!”, “Maestra guarda che bel fiore!”, “Maestra sai che oggi faccio 7 anni?” e poi vederli fare un 5 con le dita. Adoravo sentirmi utile ma soprattutto adoravo non sentirmi sola.
Eppure, nonostante questi ricordi, questa è stata la peggiore estate della mia vita: sono successe varie cose e mi sono sentita abbandonata. Non per forza lo ero ma la mia testa mi convinceva che io non meritassi nulla di buono, che io non mi meritassi di essere ascoltata o che qualcuno potesse volermi davvero bene. Spesso è ancora così.
Mi sono sentita sola anche se magari non lo ero.
Molte persone se ne sono andate dalla mia vita, anche persone con cui avevo pensato mille idee che avremmo dovuto mettere in pratica proprio quest’estate.
Per questo, oltre alla foto, ho scelto di portare la canzone All I Want dei Kodaline.

Per molti questa canzone parla di una storia d’amore finita ma per me parla di un qualsiasi tipo di rapporto che si è concluso per un qualsiasi motivo.
A volte non riesco a fermare i pensieri e la mia mente inizia ad andare a 100km/h senza lasciarmi il tempo di respirare ed è esattamente in quei momenti che mi sento totalmente sola: non trovo infatti la forza o il coraggio di chiedere aiuto, non perché io pensi di essere invincibile ma perché non credo di meritare il tempo di nessuno.
Questa canzone la dedico anche un po’ a me stessa perché un giorno vorrei poter rivedere il mio sorriso senza che nella mia mente compaia il pensiero “Mi merito davvero di star sorridendo? Mi merito davvero di essere felice?”.
Tutto ciò che vorrei è riuscire a ritrovare me stessa e di conseguenza, a non sentirmi più così sola ma, guardando questa foto, ogni tanto mi ricordo che anche io ho qualcosa di buono dentro di me” (S. classe quarta).

Gemma n° 2195

“La canzone La volta buona per me è importante. È l’ultima canzone che il duo hip-hop italiano composto da Stokka e MadBuddy ha realizzato assieme, perché poi si è sciolto.
L’ho scoperta pochissimi mesi dopo la sua uscita, verso la fine della terza media, e mi accompagna da allora.
Le medie per me non sono state un periodo molto facile per via del bullismo che ho subito sia da parte di certi compagni di classe sia da parte di un professore, e gli strascichi di esso sono ancora annidati dentro di me, spuntano pure fuori talvolta e mi donano emozioni spiacevoli.
Del ritornello, quando la ascoltai per la prima volta, mi colpì una frase
“Questa è la volta buona per guarire”
C’è da dire che gli artisti hanno lasciato libera interpretazione del testo della canzone. I fan più affezionati del gruppo lo vedono come uno scritto in onore della loro carriera giunta al termine, altri invece lo vedono come un invito a rialzarsi dalle avversità o a fare pace con i momenti bui del proprio passato.
Per me questa canzone rappresenta il cercare di andare avanti nonostante le vicissitudini avverse dal punto di vista psicologico che mi sono capitate in passato e che talvolta si riaffacciano nel mio animo.
Guarirò anche io.
Tornerò a stare bene.
Guarirò.”
(A. classe quarta).

Gemma n° 2146

“Ero molto indecisa su cosa portare oggi. Alla fine ho deciso di parlare di una cosa che ho tanto a cuore di cui però faccio molta fatica a parlare. La mia migliore amica il 9 agosto dell’anno scorso è venuta a mancare a causa di un malore improvviso. È stato il giorno più straziante della mia vita. L’ultimo ricordo che ho di lei era del venerdì della settimana prima: eravamo a Grado dove passavamo insieme tutte le estati, ci siamo salutate e abbracciate perché quel weekend sarei andata a Lignano. All’ora di pranzo di quel lunedì mia mamma mi raccontò cosa era successo quella mattina. La mia migliore amica se n’era andata nel giro di 5 minuti davanti agli occhi di sua sorella minore. G. non era solo la mia migliore amica, era la mia compagna di vita ed eravamo come sorelle. Siamo cresciute insieme e abbiamo vissuto insieme tante delle esperienze della nostra vita. Ci siamo conosciute a 2 anni all’asilo e siamo andate a scuola assieme da allora. È una delle cose più difficili che affronterò nella vita perché avevamo un rapporto davvero indescrivibile. Ero così felice di rivederla quel giorno che da allora sono ancora in shock. Sento come se ci fosse un grande vuoto dentro di me e ogni giorno mi manca tantissimo. Sento di aver ancora bisogno di lei e la vorrei qui con me. Non riesco ancora a realizzare tutto ciò infatti la sto aspettando come se fosse andata in viaggio. Adesso tutto quello che facevamo insieme lo devo fare anche per lei, ma è una cosa durissima. Il fatto che lei non sia qui con me mi spaventa. Io ho ancora tanto bisogno di lei e nessuno la rimpiazzerà mai. Le voglio tanto bene e rimarrà per sempre nel mio cuore. Non dimenticherò mai l’affetto che ci univa e i bellissimi momenti e ricordi che avevamo condiviso. Non avrei mai pensato di dirle addio così presto. Mi manca tantissimo e vorrei tornare indietro solo per abbracciarla un’altra volta e dirle quanto le voglia bene. Lei era come famiglia per me, infatti il dolore è talmente forte e lacerante che è come se avessi vissuto un trauma. Credevo che il giorno peggiore sarebbe stato quello in cui G. se n’è andata oppure il giorno del suo funerale ma in realtà erano una passeggiata a confronto con il resto. Durante  quella settimana avevo sempre persone attorno che avevano paura a lasciarmi da sola, qualcuno che mi chiedeva come stessi e a cui potevo risospendere sinceramente; il peggio è iniziato dopo, quando non c’era più niente, solo silenzio. Il mio piccolo angelo che mi protegge da lassù è volato via, all’improvviso, andandosene per sempre” (N. classe prima).

Gemma n° 2145

“Eh sì, è arrivato il fatidico momento. Come l’anno scorso, per me scegliere cosa condividere con voi è molto difficile, ho sempre preso molto seriamente questo “lavoro”, eh si, perché per molti potrà sembrare un semplice momento di svago della lezione dove si condivide di solito un momento bello della propria vita perché, diciamocelo, nessuno ha voglia di portare negatività in classe, si ha sempre un po’ paura di confidarsi e si finisce per scartare l’opzione di raccontarsi in modo molto profondo. Eppure io oggi voglio fare proprio questo. Non ho mai criticato chi ha deciso di portare come gemma una semplice foto che ricordasse un bel momento, o un portafortuna etc…etc…, anzi mi rende felice il fatto che la gente condivida un bel momento, però per me non è abbastanza, è come se mi sentissi in dovere di raccontarmi, di farmi conoscere, e dunque sono sempre indeciso su cosa portare. La gemma… che bell’opportunità. Ebbene, all’inizio non l’ho mai colta bene, sia per pigrizia perché chi ha voglia con tutti i problemi che ci affliggono di spendere tempo su di essa (la gemma) e in più anche per timidezza perché non avevo voglia di condividere la mia vita. Dall’anno scorso invece ho capito il vero valore di questo compito, questo perché col tempo sono maturato e ho capito che magari raccontarmi può servire a qualcuno e la gente può riflettere attraverso i miei pensieri, anche se questa cosa fino ad ora non mi è mai accaduta, o meglio, io non l’ho mai notata perché nessuno mi ha mai detto qualcosa dopo che io mi sono confidato, e questa cosa mi fa molto arrabbiare perché poi ci chiediamo “che senso ha fare tutto ciò se poi agli altri APPARENTEMENTE non sembra importare qualcosa? Forse vogliamo solo liberarci?” Allora avrebbe senso scriverle queste cose e basta. Non lo so, sono molto confusionario, non riesco a darmi delle risposte. Ma giuro che dopo ci ritorno su questo discorso (del fatto che mi arrabbio). Concludo questa prima parte riprendendo l’importanza di questa gemma, ribadendo quanto per me sia un momento importante e forse liberatorio e di cui ho capito l’importanza solamente crescendo e maturando e forse mi renderò ancora di più conto di questa importanza della gemma solo più avanti e non potrò mai ringraziare il prof. Del Mondo.
MUSICA E GLI ALTRI
Che titolo strano ahahah… lo sto scrivendo senza pensarci troppo eppure mi suona così bene. La musica per me ha sempre rappresentato il mio specchio, la mia ancora, il luogo dove rifugiarmi e dove elaborare i miei pensieri; per me rispecchiarmi nella musica e nel pensiero degli altri è molto importante perché la maggior parte delle volte mi ci ritrovo in questi pensieri. Avrei dovuto spiegare il significato della musica per me già l’anno scorso, ma preso dall’emozione in classe non l’ho fatto e allora lo farò oggi portando 2 canzoni molto importanti per me che hanno dei testi molto profondi: uno parla della mia generazione, come la canzone e il video che ho portato l’anno scorso e di cui vorrei menzionare una citazione: “la vita va di corsa, la vita non aspetta, ma già la vita è corta, tu vuoi la vita stretta” SalmoLunedì. Ho quasi sempre i brividi quando ascolto questa frase perché in fondo la vita è già piena di problemi, abbiamo mille cose a cui pensare, ci sono 70000 problemi che ci circondano eppure non ci interessa, quello che ci interessa è apparire agli altri… che cazzata! E vorrei lasciare appunto un immagine del video che ho portato l’anno scorso e che può far capire molto meglio cosa intendo.

Penso non ci sia altro da aggiungere. In più l’anno scorso ho portato il significato dell’amicizia molto importante per me e non avevo ancora trovato qualcuno con cui confidarmi. Quest’anno, invece, fino ad una settimana fa sì, pensavo di aver trovato la mia copia perfetta di amico che mi potesse capire e supportare e invece così non sembra essere…che vita beffarda. Sto trovando però supporto da una ragazza che non ho mai voluto far scompensare perché non ho mai voluto condividere i miei problemi; infatti io e lei parliamo maggiormente di scuola e ci divertiamo molto… il che sembra banale, invece il distrarsi e scacciare via i cattivi pensieri è molto importante! Lei si chiama G. e la devo ringraziare molto perché mi aiuta e cerca di farmi vedere il lato positivo delle cose in quanto io sono molto negativo e testardo; questo è veramente bello, lei è veramente profonda e matura. Infine sempre l’anno scorso ho portato l’intro dell’album di Rkomi, artista molto profondo che sembra la mia copia, e definisce la vita come una corsa, come una macchina dove lui deve guidare e ispirare gli altri e con me lo sta facendo tutt’ora. Per me la macchina è una metafora molto importante, per “macchina” intendo proprio l’auto. La vita è una corsa in macchina, essa è la nostra bolla dove ci rifugiamo quando piove, a volte rallentiamo perché tutto va male, altre volte acceleriamo perché pensiamo di essere al sicuro e vogliamo raggiungere subito quella cosa (l’amore nel mio caso, che è il secondo argomento di oggi) e poi ci andiamo a schiantare. Dopo esserci schiantati l’auto va cambiata (la persona amata va lasciata perdere) e non abbiamo sempre i soldi per cambiarla, non vorremmo cambiarla, andiamo sempre alla ricerca dello stesso modello e il punto più difficile è proprio l’andare avanti; non vogliamo renderci conto che stare senza quella determinata persona è la cosa più giusta da fare. Voglio citare un’altra canzone di Rkomi e poi giuro che inizio con la mia gemma odierna. La canzone si chiama Più lei che noi in quanto noi diamo importanza molte volte all’amore e lasciamo perdere stupidamente le amicizie. Nella canzone lui dice: “presi in tempo quel volo però persi un amico”. Appena ci capita una ragazza davanti a noi, cerchiamo sempre di non farcela scappare dando ascolto solo a lei e non ai nostri amici, qualcuno questo giustamente non lo accetta e se ne va. Finisco col dire che l’indecisione quest’anno era tanta; volevo portare il significato di che cos’è una famiglia e raccontare le mie esperienza e tante altre cose e alla fine ho optato per raccontare di me attraverso 2 canzoni che parlano della mia generazione, di me stesso e dell’amore.
Non vivo più sulla terra

Vorrei riflettere su alcuni punti significativi.
Il primo è il titolo; non vivo più sulla terra. È proprio nella parte strumentale finale della canzone che non vivo più sulla terra in quanto inizio a pensare e realizzare tutta la mia vita, come sono cresciuto, i miei problemi, come sarà il mio futuro, mi lascio trasportare senza pensarci troppo.
Ora mi soffermo su alcune frasi
Sei ricco quando te ne accorgi
La verità è che stare immobili serve con le api, d’accordo.
Beh qua è molto difficile rendersi conto delle persone che abbiamo accanto, pensiamo sempre di essere ricchi ma alla fine queste persone ci tradiscono e la verità è che stare immobili serve con le api che sennò ci pungono e non con gli altri: BISOGNA ANDARE AVANTI, FREGARSENE E PENSARE A SE STESSI.
Mi hanno detto: “Farai strada, ma chi ami poi dovrà piangerti
Chiamami quando passi”
Mi ritengo una bella persona e molto matura e poi quando la gente mi perde capisce veramente cosa ha perso e piange, cerca di chiamarmi ma io non rispondo, mi è successo poco tempo fa…
Un bimbo mi ha detto, “Non si è mai troppo grandi”
Un vecchio invece che non lo sei mai abbastanza
Questo sono io del passato, io piccolo che dico a me del futuro che non si è mai troppo grandi, non si smetterà mai di crescere, mentre un vecchio, ovvero l’io grande, ripensa a quello che si è detto da piccolo e pensa di aver detto una stupidaggine perché pensa ormai di essere uomo e di aver affrontato tutto della vita e così non è, non si smette mai di diventare grandi.
Non vivo più sulla terra
Vuoto, mi bussi alla porta
Vuoi che mi abbandoni all’aria?
Cielo, facci strada
Diecimila voci e tu mi dici di calmarmi
Dovrei prendere esempio da te
Che non hai ancora mai perso il controllo
La monotonia è uno dei problemi più grandi che mi perfora dentro e non mi lascia mai stare. Il vuoto mi bussa alla porta, ci sono dei pomeriggi in cui nulla sembra avere un senso, guardo il vuoto e cerco di non pensare, non riesco a fare nulla.
Volete che mi abbandoni all’aria? Che il cielo, DIO, mi faccia strada? Non credo, in questo periodo della vita la religione rappresenta un problema, ha sempre rappresentato un problema, non riesco a capirla, se Dio esiste veramente perché la vita di molti va male, NON ESISTE COMPASSIONE, IO NON CREDO CHE DIO VOGLIA IL MALE, lui l’ha creato però secondo me è la tentazione il male che ha creato, i vari peccati che tutt’ora esistono, ma non il male interiore, non penso lui voglia che la gente stia male. Massimo Pericolo in una sua canzone dice: “Se esiste Dio perché tua madre ha il cancro?” Nessuno potrà mai rispondermi e convincermi.
Poi entra in gioco l’amore e il discorso dell’arrabbiarmi : “Diecimilavoci e tu mi dici di calmarmi…
dovrei prendere esempio da te che non hai ancora mai perso il controllo.”

Quando stai male la gente inizia a darti consigli da tutte le parti, e sbaglia, non ti lascia pensare e stare da solo, pensa di aiutarti e invece…Come posso restare calmo davanti a situazioni del genere? Dovrei prendere esempio da te, persona immaginaria, che non hai ancora mai perso il controllo… E io lo perdo facilmente, ora sto raccontando tutto questo ma forse a pochi interesserà. A CHI IMPORTA CIÒ CHE STO DICENDO, CI SONO MILLE PROBLEMI però questo mi fa arrabbiare, una riflessione molto articolata e poi nulla, mi svuoto di una parte di me per poi? cosa otterrò? un confronto? non lo so. NON SONO IN GRADO DI DARMI DELLE RISPOSTE. Nella canzone poi si dice: “come fossi tu la legge per cui gira il mondo” infatti… chi sono io? chi sono io per ricevere delle attenzioni da terzi… non sono io al centro del mondo, ogni persona è afflitta da tanti problemi, non ha tempo di starmi ad ascoltare. Questa cosa mi fa arrabbiare ma devo accettarla perché è giusto così, quante volte nella vita accettiamo cose che non vorremmo? SEMPRE, digerisco anche questa volta e vado avanti. Però che fastidio, ci sono sempre per gli altri, ascolto sempre pur stando nel mio, senza costringere nessuno a raccontarmi nulla. Io fuori sono sempre stato simpatico e solare, carino, sempre fatto complimenti a tutti e gli altri a me? Mai nulla, anche per un semplice abbraccio, l’ho sempre dovuto cercare io. Io sono questo qui, quello che sto raccontando adesso, non sono sempre felice, quando sono solo di notte soprattutto dove penso e scrivo meglio, sono tutt’altra persona, la gente non lo capisce. Che bella la notte, vorrei andare di notte sopra gli autobus e ascoltare musica, mi sfogherei molto, ma non ho tempo. BASTA, PENSO SEMPRE AGLI ALTRI E MAI A ME STESSO, non sto trovando spazio per me, non faccio più quello che mi piace, non vado più in palestra… etc… vorrei riniziare a suonare il piano…
Non so cosa voglian le persone
Non so cosa si dicano la notte per farsi coraggio
La notte è un momento dove la maggior parte delle volte io sto da solo e penso, quindi non lo so cosa si dicano le persone la notte. La notte è un momento di pensiero, dove si ragiona meglio e si elaborano i pensieri più belli e concreti. Ma è anche il buio, io ho paura del buio.

Mi giro e non ci sei già più, yeah
Se fosse sempre buio
Come distingueresti il giorno?
Mi giro e non ci sei già più… pensiamo sempre di contare su di una persona, ci apriamo sin da subito e poi… il giorno dopo se ne va… cambia comportamento, tutti abbiamo una maschera e rivelare noi stessi è molto difficile.
Vorrei che fosse sempre notte, che il giorno non esistesse perché durante la notte tiro fuori la parte più intima e migliore di me, ma come distinguerei il giorno se ci fosse solo la notte? Il tempo non lo posso cambiare, il tempo cura, il tempo è l’unico maestro, l’unica forma d’amore.
So che sei da qualche parte, in un ricordo che non vedo
In un pianeta non molto lontano, le canzoni sono ciò che mi hai fatto
E ti guardo mentre scappi (Yeah), ti giri dall’altra parte (Yeah)
I tuoi problemi sono a casa e non serve che ti aspettino svegli
Ci capissi qualcosa di più di qualcosa, anche tu di’ qualcosa
Caddi così in basso, riuscivo a guardarti da sotto la gonna
È la fine del mondo o è solo il sangue che circola?
E la mia migliore emozione è una canzone che odio.
La cosa migliore è dimenticare il passato, la cosa + difficile. Io so che le persone che in passato mi hanno fatto male esistono ancora, ma per fortuna in un ricordo che non vedo, o meglio che non voglio vedere e ricordare ma inevitabilmente è dentro di me. In passato quando bisognava affrontare un problema, l’ho sempre affrontato da solo, l’altra persona durante la discussione si girava dall’altra parte e quando tornava a casa i problemi la tormentavano perché quella persona era consapevole che scappare non è mai la scelta migliore, bisogna affrontare tutto anche se a volte si sta male. Altre volte invece non capisco nulla dell’amore, vorrei sentirmi dire qualcosa dall’altra parte e l’unica cosa è il NON LO SO, lo scappare dai problemi e questo mi fa rimanere male e cadere in basso. “Le canzoni sono ciò che mi hai fatto”; io mi rispecchio molto in questa canzone perché le parole scritte in questa canzone ma anche in tutte le altre canzoni che ascolto spesso, rispecchiano qualcosa che delle persone mi hanno fatto in passato.
LA MIA MIGLIORE EMOZIONE, È UNA CANZONE CHE ODIO
Nessuno vorrebbe rispecchiarsi in queste parole, me compreso, non è bello vivere queste esperienze, ma servono a crescere, stare soli, stare in solitudine molte volte aiuta e serve, non per forza bisogna avere un costante bisogno di persone attorno a noi. Questa canzone è molto emozionante ma la odio perché non vorrei più vivere queste esperienze ma so che ritorneranno, la vita è un cerchio.
LA GENESI DEL TUO COLORE

La generazione… quella in cui l’indifferenza regna, l’unica cosa che conta è stare bene con noi stessi e farci vedere bene dagli altri. Dunque non vogliamo dimostrarci deboli eppure mostrandosi forti io dico che in realtà ci si dimostra deboli.
Il mio pensiero ruota tutto attorno a una frase di questa canzone: COLORA L’ANIMA, CON UNA LACRIMA.
È una frase corta e concisa, che ti entra dentro… PIANGERE ci fa sfogare, ci fa mostrare la parte migliore di noi, spesso associamo il piangere all’essere deboli, io penso l’esatto contrario. Noi giovani non vogliamo piangere, l’adolescenza è breve e ce la vogliamo godere, diventare grandi e pensare che non potremo più divertirci ci spaventa, non abbiamo tempo di stare male. Condividere tutte le nostre sensazioni invece è la chiave, mostrarci per come siamo. Se tutti piangessimo e condividessimo questi momenti intimi, coloreremmo l’anima della nostra generazione. Un mio difetto è quello di non riuscire a piangere in pubblico, mi è successo veramente pochissime volte, io vorrei sempre scoppiare in lacrime ma non ci riesco, al massimo mi commuovo ma non riesco. Solo quando sono a casa mia, chiuso nella mia stanza, sfogo tutto me stesso.
Non sarà la neve
A spezzare un albero
Avessi finito sarebbe stato meglio
Di averti visto piangere in uno specchio
E mi manca la tua voce ormai
Ora che, ora che, ora che sei qui
Io sono qui
Ci vestiremo di vertigini
Mentre un grido esploderà
Come la vita quando viene
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome

Avessi finito sarebbe stato meglio
Hai poco tempo ormai
Per vivere una vita che non sentirai
Chiudo il sole in un attimo

Anche se non dormirò oh
E i pensieri passano
Come eclissi resti qui
Io resto qui
E danzeremo come i brividi
Mentre la vita suonerà
Con le dita tra le veneziane

In queste righe del brano riecheggia l’essere se stessi: molte volte preferiamo fingere per non vedere gli altri piangere e stare male senza renderci conto che è meglio dire subito le cose piuttosto che far passare il tempo” (G. classe quarta).

Verso nuovi racconti

Immagine tratta da Il mio libro

E’ notte. Il rumore della lavastoviglie non copre il canto dei grilli che entra dalle finestre insieme al fresco portato da un fugace temporale serale. Mi sono appena imbattuto in un articolo di Samuele Pigoni dedicato ad un medico scomparso a gennaio e che non conoscevo, ma di cui probabilmente leggerò il libro citato: Giorgio Bert. “Ha animato la cultura italiana proponendo l’incontro tra scienze biologiche e sociali, medicina, letteratura e filosofia contribuendo al tentativo di umanizzare la cura, di superare la separazione tra scienze dure e studi umanistici, di introdurre nelle professioni d’aiuto una migliore consapevolezza del ruolo che le interazioni comunicative hanno nel destino dei processi di aiuto e guarigione.”
Scrive Pigoni: “Mi sono trovato in piena pandemia ad affrontare una serie di esperienze legate alla malattia e alla morte di affetti a me cari e a osservare in presa diretta una serie di temi al centro del pensiero e dell’impegno di Giorgio Bert.
Malattia e morte sono esperienze esistenziali centrali nella vita di tutti e nello sviluppo del pensiero umano: «Il fatto di essere mortali dà senso alla nostra esistenza. Che pensiamo o no esplicitamente alla morte, essa condiziona le nostre scelte, i nostri progetti, la nostra visione del passato e del futuro. È la morte a dare significato alla vita» (Gli uomini sono erba. Conversazioni sulla cura, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007).
Spesso però ci dimentichiamo che l’incontro con la malattia e la morte avviene attraverso la mediazione concreta dei sistemi umani che ne organizzano l’esperienza: ci troviamo all’improvviso ad attraversare le corsie degli ospedali, ad attendere lunghe ore in sale d’attesa, ad ascoltare parole più o meno comprensibili da parte del personale sanitario, a telefonare alla ricerca di informazioni sulle case di riposo, a rispondere a domande che ci vengono fatte per sapere come stiamo oppure ad attendere quelle che invece non ci verranno fatte. Incontriamo questi luoghi, fatti di assenze o presenze, frette o premure, proprio quando siamo più fragili e quando si generano nelle nostre biografie di malati o caregiver delle vere e proprie crepe che rischiano di danneggiarci con senso di privazione delle opportunità, di colpa, di perdita del controllo sulla nostra vita.
Giorgio Bert ci ha insegnato, da formatore e teorico dei princìpi della medicina narrativa e studioso della comunicazione in ambito sanitario e non solo, che una migliore consapevolezza delle interazioni comunicative può favorire il fronteggiamento delle esperienze della fragilità.”
A questo punto le parole di Pigoni ampliano il discorso e fanno risuonare in me delle corde utili a motivare il lavoro dell’anno scolastico alle porte: “Se i sistemi organizzativi sanitari – ma anche quelli scolastici, formativi, socio-assistenziali, aziendali – imparassero infatti ad accostare le persone a partire da una prospettiva sistemica e narrativa, se imparassero a percepirsi e percepire i propri membri come portatori di storie che vale la pena ascoltare e co-narratori di nuove storie da scrivere insieme, forse ridurremmo di un po’ le infiltrazioni dolorose che la vita porta con sé. Impareremmo a percepire che siamo parte di un sistema di relazioni che ci interconnette gli uni alle altre, fatti di interazioni ed equilibri in movimento e risposta a stimoli comunicativi e relazionali che influenzano decisivamente l’esito degli incontri e dunque le storie di malattie e di morte che inevitabilmente ci troviamo prima o poi ad attraversare.
In quanto umani siamo di casa nella parola e non possiamo non comunicare: ogni gesto, parola, domanda, commento può far succedere cose diverse intorno a noi. L’invito che Bert ci ha fatto nel corso della sua vita e del suo lavoro scientifico è di cambiare prospettiva, di acquisire la postura del narratore di storie tra narratori di storie, di fare come i registi, che spostano la cinepresa, cambiano la disposizione delle luci, e con questo sanno mettere in luce punti di vista diversi, tanto diversi da cambiare la direzione della storia che abbiamo da narrare, e vivere: «Le storie possono avere sviluppi e finali differenti, e in questo senso costituiscono potenti fattori di cambiamento: è il motivo per cui nelle narrazioni non conta tanto la verità dei fatti quanto il percorso e il senso che a esse dà il narratore. Le storie costruiscono significato e sono pertanto dinamiche e variabili» (da Gli uomini sono erba).”

Gemma n°2017

“Ho portato una foto di mia nonna e di mio zio. La tengo in camera perché io e mia nonna eravamo molto legati, molto vicini. Quando è morta non sono riuscito ad essere vicino a lei perché era in terapia intensiva e i bambini non potevano accedervi, quindi nei suoi ultimi due mesi di vita non sono riuscito a vederla”.

Mi affido alla spiritualità orientale per commentare la gemma di G. (classe prima): “Ogni sofferenza è un seme di buddha, perché la sofferenza spinge i mortali a cercare la saggezza” (Bodhidharma).

Gemma n° 1952

“Inizialmente avrei dovuto portare un’altra cosa, poi in questi giorni ho deciso di cambiare. Mercoledì scorso io e la mia famiglia ci siamo svegliati con una notizia che mai avremmo pensato di ricevere. Mia cugina doveva essere operata al cuore, ma l’intervento era andato male perciò avrebbero dovuto trapiantargli un altro cuore e se non lo trovavano entro 5 giorni le avrebbero staccato le macchine. Alla fine ce l’ha fatta. Quei giorni di attesa sono stati struggenti e non passavano più, volevamo solo che finissero. Credo in quei giorni di avere realmente capito quanto il tempo sia importante, e che non vada sprecato. Penso che una persona riesca a capire il valore della vita solo provando certi dolori. Tante volte, anche se non sembra, diamo per scontate tante cose, è difficile pensare che una persona un giorno c’è e il giorno dopo potrebbe non esserci più. Spesso ci perdiamo in cose che non hanno un senso quando in realtà i veri problemi sono altri. Quello che voglio dire è che è inutile sprecare il tempo dietro a  sciocchezze e dovremmo vivere con più felicità, spesso prendendo esempio dai bambini che riescono ad essere felici con le piccole cose. Per questo ho deciso di portare un disegno fatto dal figlio di mia cugina qualche giorno fa; mentre disegnava continuava a chiedere di sua mamma non sapendo che non la potrà vedere per un po’, ed è comunque riuscito ad essere felice in quel momento semplicemente disegnando. In più vorrei aggiungere che non riesco a capire perché alcune persone preferiscono investire su una guerra, come nell’attuale caso, che potrebbe essere evitata, invece di trovare cure per le malattie, stanno distruggendo intere famiglie, ma soprattutto il futuro dei bambini e dei ragazzi.”

Mi soffermo sull’attenzione che S. (classe terza) ha posto sul disegno del figlio di sua cugina e sul collegamento che ha fatto alla fine della sua gemma con l’attuale situazione. Anni fa mi è stato regalato un volume fotografico sull’attività nel mondo di Emergency: fotografie, numeri, frasi. Sfogliandolo in questi giorni ne ho sottolineate tante, ne riporto una dello storico greco Erodoto: “Nessuno è tanto privo di senno da preferire la guerra alla pace: ché in questa i figli seppelliscono i genitori, in quella i genitori i figli”. Lo stesso avviene quando si considera la vita in generale: ce ne dovremmo andare “in ordine cronologico”, soltanto una volta raggiunta una certa età… ma sappiamo bene che così non è.

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

Gemma n° 1885

“Ho portato due film come gemme.

Il primo è Noi siamo infinito, parla di un ragazzo che inizia le superiori e viene preso sotto l’ala protettrice di ragazzi più grandi e di come reagirà quando poi loro andranno al College. 

Il secondo è Le parole non dette, la storia di una ragazza molestata durante l’estate che quando entra al Liceo decide di non parlare: tutti pensano sia strana e la bullizzano quando in realtà lei ha solo paura di parlare di quanto le è successo e si chiude in se stessa”.

Quelli presentati da S. (classe seconda) sono due film che affrontano temi importanti, difficilmente sintetizzabili in poche parole o in un trailer. E non me la sento di trattarli qui ora. Hanno a che fare con vissuti importanti; tutti i vissuti ci condizionano, ma forse alcuni lo fanno più pesantemente di altri. Charlie, il protagonista di Noi siamo infinito, dice però ad un certo punto: Non possiamo scegliere da dove veniamo ma possiamo decidere dove andiamo, da lì in poi… Ecco: di certo non facile, ma è l’unica via.

Gemma n° 1841

“Volevo raccontare un aneddoto che mi è stato raccontato da mia zia. Nel 2011 è mancata la mia bisnonna materna e mia zia era con lei; è poi venuta a casa nostra per avvisare mia mamma. Ricordo che mi sono seduta vicino alla mamma e, vedendola con gli occhi lucidi, le ho chiesto se fosse triste e cosa fosse successo. Lei mi ha risposto che era mancata sua nonna, però mi ha detto che non era triste perché colpita da una cosa che le aveva raccontato sua sorella: negli attimi prima di morire la zia stava parlando con la bisnonna e si era accorta che non rispondeva più e che guardava un punto indefinito. Ha sorriso e ha chiuso gli occhi. Questa cosa mi fa sempre emozionare quando la racconto, anzi, mi fa salire un nodo alla gola perché è poetica e bellissima e, secondo me, dà alla morte un significato che nessuno riuscirebbe mai a dare. La morte spesso può essere anche liberazione: la bisnonna io non l’ho conosciuta nel pieno della sua vita, l’ho sempre vista costretta a letto a causa di una malattia. Ecco, forse più che liberazione, quella scena è la certezza che la morte non è solo paura, ma forse un abbandonarsi a una gioia, a qualcosa che vedi di più. Forse quel giorno lì lei ha sentito un grande amore, una grande gioia e ha detto “è la mia ora e io sono contenta di affidarmi a quello che viene”. Questo mi dà forza e mi aiuta a concepire la morte in maniera più serena, soprattutto in questo periodo”.
Amo leggere David Maria Turoldo, trovo così tanta affinità tra i miei pensieri e le sue parole che non di rado mi sono emozionato coi suoi versi. Tuttavia, a commento della gemma di B. (classe quarta), non pubblico una sua poesia, ma un brevissimo estratto di un’intervista del 1991: “Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia”.

Gemma n° 1824

E’ una gemma senza testo quella di G. (classe seconda), o meglio, il testo è “solo” quello della canzone Solamente unico che ha voluto proporre in classe come gemma, non ha voluto né commentarlo né dire il motivo della scelta. Ho messo le virgolette a “solo” perché basta ascoltare il pezzo per capire quanto racconti. Però mi voglio attenere al dato di fatto, non voglio immaginare o ipotizzare cosa ci sia dietro alla scelta di G. E per farlo cambio destinatario: il mio commento alle gemme è praticamente fatto tenendo in mente ragazze e ragazzi che incontro ogni giorno. Ora invece penso al mondo degli adulti e il perché è presto detto. Prima di entrare nella classe di G. stavo leggendo delle pagine del libro L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti di Matteo Lancini (2021, Raffaello Cortina Editore).

In famiglia è necessaria “una nuova propensione affettiva e relazionale, che consenta sin da bambini di esprimere fatiche e sofferenze, non chiedendo loro di farsi carico di sguardi troppo angoscianti provenienti da mamma e papà. L’inciampo e il fallimento sono parte costituente della vita, della crescita, dello sviluppo in direzione della costruzione del vero sé e di una propria identità autentica. Non si tratta certo di ricercare dolori e sofferenze nella vita, ma di evitare grandiosità e decessi che illudono sulla possibilità di essere felici senza accettazione ed elaborazione dei fallimenti e della morte come elementi fondanti della nostra esistenza”.
In adolescenza “la qualità di un ascolto identificato e la capacità di interessarsi al figlio reale, ormai divenuto altro da sé e delle proprie aspettative, rappresentano l’unica via d’accesso per lo svolgimento di un ruolo materno e di un ruolo paterno davvero autorevoli e di sostegno alla crescita. Laddove prevalgano discorsi infantilizzanti, alimentati dal rimpianto per la straordinarietà dei tratti affettivi e relazionali dell’ex bambino, e contenuti ciclici standardizzati sulla necessità di un maggiore impegno scolastico, comportamentale, etico, sacrificale, non solo il ruolo affettivo adulto non riesce a incidere, ma rischia di innalzare il livello del conflitto in atto, se non di accrescere i sentimenti di tristezza e di vergogna, già sperimentati dal figlio o dalla figlia, negli stati depressivi legati al fallimento narcisistico.
Gli adolescenti odierni hanno sensibilità non comuni, sviluppate proprio grazie alla mamma e al papà e alla trama affettiva che ha dominato la loro crescita. Solo se percepiscono una capacità di ascolto e rispecchiamento realmente identificata con le loro esigenze e difficoltà evolutive possono rivolgersi al proprio adulto di riferimento, condividere i propri stati affettivi, chiedere aiuto e conforto. Oggi i ragazzi e le ragazze non parlano con i propri genitori perché hanno paura di deluderli o di incontrare reazioni emotive materne e paterne spropositate. E i genitori temono a loro volta le paure e le sofferenze dei figli, cosa che gli adolescenti avvertono sin da quando sono nati. Madri e padri di ragazzi tristi, mutacici non dovrebbero mai temere di introdurre il tema della morte volontaria a tavola, la sera o in qualunque altra occasione di incontro possibile. Chiedere se ci si pensa e se ci si è mai pensato, nominare il suicidio senza alcun timore. Un altro luogo comune da sfatare è quello che sostiene che parlare di suicidio possa istigare, promuovere l’idea del nostro giovane interlocutore di mettere in atto il gesto insensato. E’ vero esattamente l’opposto. Parlarne consente di abbassare il rischio, di dare senso al pensiero sviluppato sulla morte volontaria, di rendere meno attrattiva l’eventuale ipotesi e intenzione suicidaria. Ovviamente, ciò che vale per l’espressione più terribile del disagio di un figlio, vale per tutti i sentimenti, le sofferenze e i dolori sperimentati. Conviene sforzarsi in questa direzione, allenarsi per essere in grado di percepire, ascoltare e sostenere l’elaborazione delle emozioni negative. Continuare ad allontanarle e rimuoverle è oggi davvero molto pericoloso”.
(estratti dalle pagg. 147-150).

Questo leggevo ieri in aula insegnanti, mi sono alzato, ho messo via il libro, ho salito le scale, sono entrato in aula e la prima cosa successa è stata ascoltare la canzone proposta da G. Di quali ulteriori segni avrei bisogno per non toccare questi temi? Cosa mi serve ancora per far sì che emergano quelle prove “del sole intorno a te”, per far sperimentare che “la luce non muore”?

Un’inesauribile ricerca di luce

Martina Spollero ha terminato il Liceo Percoto nel 2020. Poi si è iscritta a Lettere Moderne ed è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine. Insieme a Gabriele Visintin, studente di filosofia, ha scritto un articolo per Il chiasmo, magazine online edito dalla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU), in collaborazione con l’Istituto Treccani. Lo ripropongo qui molto volentieri e aggiungo ai suggerimenti di lettura dei due autori il libro di Massimo Recalcati “Il grido di Giobbe”, sempre sullo stesso tema (libro che ho appena terminato).

Il muto dialogo tra l’uomo e Dio

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Se l’esperienza del quotidiano è quella di una realtà profondamente intrisa dal male e dominata dalla sofferenza, come conciliare la constatazione del dolore con un vivo rapporto di fede? È possibile un dialogo con un Dio imperturbabile davanti alla sofferenza del frutto stesso del suo amore?
La visione della fede proposta dal filosofo danese Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855), sebbene influenzata dalla rigida educazione pietista impartitagli fin dalla giovinezza, risulta un tassello fondamentale nell’analisi dell’esperienza religiosa intesa come imprescindibile componente dell’esistenza umana. Il rapporto col divino che emerge dai suoi scritti viene rappresentato quanto mai distante dai dogmatismi interpretativi consueti mediante cui è percepita la fede. Essa risulta, infatti, caratterizzata da sentimenti radicalmente negativi quali l’angoscia e l’incomunicabilità, i quali isolano l’uomo entro i confini di una prospettiva che lo allontana dai suoi stessi simili.
Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard individua differenti stadi della vita dell’uomo. Il primo di essi è quello della vita estetica, nel quale l’uomo sceglie di non scegliere, e ricerca, in tutte le loro forme, il piacere e il godimento personale. La brama della passione – inevitabilmente e per sua stessa natura – non giunge al suo pieno soddisfacimento, conducendo inesorabilmente l’uomo verso la noia e l’indifferenza. La figura esplicativa di questo stadio è appunto quella dell’esteta, del  seduttore, alla quale si contrappone l’uomo che incarna le caratterizzanti dello stadio etico e vive conformemente a una morale, inserito in una quotidianità e in una concretezza sociale e umana.  Questo momento di vita può essere rappresentato  dal marito fedele e laborioso. Come ben evidenziato da Remo Cantoni nel suo saggio introduttivo all’opera di Kierkegaard qui presa in esame, l’aut-aut denota la scelta con cui ci si sottopone al contrasto tra il bene e il male. Non accettare questa dicotomia, pertanto, non significa necessariamente propendere verso il male, bensì verso l’indifferenza etica.
La possibile comunicazione che sussiste ancora tra vita etica e vita religiosa viene definitivamente meno nel saggio che il filosofo danese pubblicherà pochi mesi più tardi: Timore e tremore. Mediante l’esempio di Abramo, rivela come l’uomo religioso, immerso in una fede totalizzante, si trovi in aspro contrasto con le convinzioni etiche e morali comunemente accettate e condivise. Il patriarca dell’ebraismo viene messo nella posizione di doversi confrontare con una richiesta assurda e irrazionale: sacrificare suo figlio Isacco. Il nodo insolubile e controverso del rapporto tra l’uomo e la spiritualità scaturisce dalla constatazione che Colui che pretende l’immolazione dell’amato risulti il medesimo che quella prole gliel’ha donata, Dio stesso. La prospettiva, annichilente e disarmante, è quella dell’innocente che si interroga circa il fondamento di un tale abominio e la richiesta di privazione dell’unico frutto d’amore concessogli attraverso il grembo della moglie Sara, simbolo di quella vita che sopravvive – oltre le soglie della morte – sotto forma di eredità nei posteri.
Il tragico dolore che Abramo si trova ad affrontare diventa icona dell’esperienza religiosa estesa a tutti gli uomini: essa risulta sconnessa – secondo Kierkegaard – dalla ragione, dalla morale, dalla razionalità. La fede è un salto nel buio, è un cieco abbandono a una volontà che non è conforme e coincidente a quella umana, e che per questo motivo non è comunicabile agli altri individui. Ne deriva un’esperienza di fede profondamente soggettiva e assolutizzante, una frattura che allontana l’uomo dal divino, il quale vive un rapporto assoluto con l’assoluto. “Chi si trova nel mare della disperazione trova l’assoluto”, asserisce Cantoni. L’uomo, dunque, incontra Dio proprio nella sofferenza più totale.

L’esempio letterario in cui confluiscono tutte queste considerazioni è quello del romanzo Giobbe, frutto del genio e della penna di Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939). Potremmo considerare Mendel Singer (protagonista del romanzo) come il tipico uomo morale kierkegaardiano che vive nella convinzione di incarnare una fede sincera, la quale si manifesta – nei limiti dell’illusione generata dalla sua soggettività – in un rapporto diretto con Dio, dinanzi al quale si genuflette e si abbandona completamente, togliendo a se stesso qualunque prospettiva di azione, nell’attesa che si portino a compimento i piani a lui destinati (il tutto fondato su preconcetti di matrice quasi fideistica che vedono un Dio dispensatore di beni ai giusti e di dolori a coloro che non si incamminano lungo la via della rettitudine). Il suo atteggiamento nei riguardi della fede è duplice e fortemente problematico: da un lato nega la necessità di intermediari, rivendicando la possibilità di instaurare un rapporto intimo con l’Assoluto, dall’altro non cerca mai veramente un dialogo con Dio. Nel momento in cui il concatenarsi di spiacevoli eventi imprevisti lo costringe a uscire dai binari della quotidianità e a fare esperienza di un dolore che attanaglia anche le vite degli innocenti, si avvia il turbolento processo di demistificazione dei pregiudizi sui quali si fonda il suo fragile credo, e che lo porteranno via via a prendere le distanze da una fede vissuta meccanicamente, in una sua forma sterile e semplicistica.
Proprio l’esperienza diretta con il dolore lo getta nella condizione di interrogarsi sul suo sentimento religioso. Il personaggio viene portato a mettere in discussione la volontà di Dio, il suo rapporto con esso e a prendere in mano le redini di una vita sino a quel momento vissuta come passivo spettatore. Davanti alle disgrazie che lo colpiscono, il suo diviene il grido ancestrale dell’innocente che lamenta l’ingiusta punizione di cui non coglie le ragioni, che rivendica – quasi portavoce degli interrogativi di ogni uomo – il diritto alla felicità. La rabbia si tramuta in rigetto totale della fede, la quale, in quanto elemento costitutivo della sua intera esistenza, porta il personaggio in qualche misura a rinnegare sé  stesso e ad abbandonarsi in un tetro nichilismo rassegnato e rancoroso.
Se il Giobbe biblico accetta il male così come accoglie il bene, in quanto si percepisce come ente infinitesimale rispetto a ciò che lo sovrasta e non vacilla mai nei suoi intenti – poiché caratterizzato da un rapporto con Dio genuino sin da principio – il personaggio rothiano compie un’evoluzione inversa. Il suo è un percorso che va dall’illusione di una fede sincera che, messa in discussione dalle prove cui si vede suo malgrado sottoposto da Dio, approda al termine del romanzo a un rinnovato dialogo più consapevole e autentico – e dunque più sincero – con il Creatore. Nel racconto si osserva, pertanto, la fede come sentimento profondamente umano che, proprio in quanto tale, manifesta i tratti di quelle stesse debolezze e inquietudini caratteristiche dell’uomo.

La prospettiva religiosa fin qui delineata ribalta la concezione odierna della fede come palliativo verso la sofferenza. Non è grazie alla morte e alla paura verso di essa che l’uomo, anelando a un’eternità metafisica, si rifugia nell’eternità per definizione (Dio), che risulta però inconsistente illusione, inconsciamente creata dall’uomo stesso. Fu il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) a teorizzare che senza la morte come limite naturale non esisterebbero le religioni, così come Dio. La fede vista in questa prospettiva assumerebbe caratteri prettamente utilitaristici: l’individuo è costretto ad affidarsi a una figura ultraterrena e soprannaturale per sperare in una vita che possa superare la morte. Presentata in tal modo, l’adorazione religiosa è legata esclusivamente alla promessa di immortalità. Senza questa promessa, se dell’uomo, delle sue opere e del frutto delle sue fatiche nulla rimane, allora Dio non solo sarebbe “inutile”, ma non avrebbe senso neppure porsi la questione della sua esistenza. La fede esisterebbe fintanto che da essa si può ottenere un profitto reale e tangibile.
Nel suo senso antropologico, il dolore si manifesta nell’estrema concretezza di un’esperienza in grado di produrre quella discontinuità necessaria a rompere il ritmo abituale dell’esistere e a trasfigurare sotto una rinnovata luce le esperienze caratterizzanti del quotidiano. Risulta al contempo patimento e rivelazione: il suo porre inesorabilmente l’uomo dinanzi la cocente presa di consapevolezza dei suoi limiti e della sua fragilità, lo predispone all’analisi di sé e alla messa in discussione dei paradigmi interpretativi a lui consueti. Chiuso entro i confini del suo microcosmo esistenziale, l’individuo acquisisce paradossalmente una prospettiva privilegiata per meditare sulla natura e sullo scopo della sua stessa sofferenza in quanto «prezzo dell’esistenza e sapore dell’istante che passa» (Le Breton, 2007). L’impressione è quella di un patimento tutto individuale, incomunicabile agli altri e a loro incomprensibile che alimenta il ripiegamento in una dimensione inedita dell’esistenza. Il dolore può assumere un valore solo nel preciso istante in cui ad esso viene attribuito, quando diviene cioè epifania di un disegno ultimo che va al di là dei confini di quel frammento di vita che è l’uomo. Imprescindibile punto di partenza per il maturare di una fede viva e sincera è proprio l’esperienza del più profondo e totale abbandono, di quel tetro silenzio di un Dio che apparentemente tace davanti alla sofferenza umana. La visione screditante della fede come comodo palliativo non è altro che la distorsione derivante da un’interpretazione fortemente semplicistica del sentimento religioso e implica il rischio di deresponsabilizzazione dell’uomo e dell’agire: il sacrificio umano non è la sopportazione del dolore, è l’accoglienza di un messaggio di fede capace di farsi propulsore all’azione e occasione per una riscoperta sincera della presenza di un essere Altro, esterno ma allo stesso tempo componente intrinseca di sé.
Ciò che si è voluto dimostrare con quest’analisi è come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato di assolutezza divina, divenga quotidiana riscoperta del rapporto autentico con l’Assoluto attraverso l’intima esperienza del dolore. L’essenza del sentimento di fede risiede nella tensione di un’inesauribile ricerca della luce tra le pieghe in ombra dell’esistenza, nel perpetuarsi di un’insaziabile esplorazione profonda della vita interiore spinta dalla volontà di dare risposte circa il senso dello stare al mondo e di quel fine ultimo verso cui la vita dell’uomo è volta teleologicamente a tendere.

Per saperne di più:
GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Roma, Paoline Editoriale Libri, 2015.
KIERKEGAARD, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2016.
KIERKEGAARD, Timore e tremore, Milano, Mondadori, 2016.
KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio, Bologna, Il Mulino, 1997.
LE BRETON, Antropologia del dolore, Roma, Meltemi editore, 2007.
ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano, Adelphi edizioni, 2014.

L’occhio che batte

A volte capita di imbattermi in citazioni di libri che poi sento l’esigenza di fare miei. E’ il caso di Danny l’eletto di Chaim Potok del 1967. Il passo che mi ha conquistato è questo:

“Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven. Viviamo meno di quanto dura un batter d’occhio, se si commisurano le nostre vite all’eternità. Può esser lecito chiedere qual è il valore della vita umana. C’è tanta sofferenza, in questo mondo. Che significa dover tanto soffrire se le nostre vite non sono nient’altro che un batter d’occhio?”
S’interruppe di nuovo, e aveva lo sguardo velato, adesso, poi riprese: “Reuven, ho imparato molto tempo fa che un batter d’occhio è nulla, di per se stesso. Ma l’occhio che batte, quello sì che è qualcosa. Lo spazio di una vita è nulla. Ma l’uomo che la vive, lui sì che è qualcosa. Lui può colmare di significato questo spazio minuscolo, cosicché la sua qualità sia incommensurabile, sebbene la quantità possa essere irrilevante. Comprendi quel che dico? L’uomo deve colmare la sua vita di significato, il significato non viene attribuito automaticamente alla vita. E’ un compito duro, bada, e questo non credo che tu lo comprenda, per ora. Una vita colma di significato è degna di riposo”.

Mi ha fatto venire in mente la differenza tra il sapere oggettivo e il sapere soggettivo: prendiamo ad esempio il morire. Sappiamo che la morte c’è, ce ne accorgiamo continuamente, basta ascoltare o leggere le notizie di ogni giorno. Ma saperlo soggettivamente, ossia farne esperienza quando ci tocca da vicino è tutt’altra cosa. Ecco allora un’altra citazione che utilizzo nelle classi quarte. E’ di Lev Tolstoj, da La morte di Ivan Il’ic:

“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”. Per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma e il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza.
Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale? Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.”

Un’ombra scura

Dall'aurora al tramonto 003 fb

“Se anche è vero che non c’è, al momento, alcuna speranza di cura, ripugna alla coscienza che al piccolo Charlie Gard, dieci mesi, affetto da una rara e gravissima malattia genetica e dipendente da una macchina per respirare, debba venire data la morte. Ripugna perché in questo caso il paziente non può esprimere la sua volontà e, anzi, se ne esprime una, con la caparbia tenacia del suo cuore che batte, è quella di vivere. Ripugna perché coloro che hanno il diritto di esprimersi nel suo nome, suo padre e sua madre, sono disperatamente contrari a questa morte data e hanno lottato con ogni mezzo, con la testardaggine di chi non può perdere ciò che gli è più caro. Raggela anche l’unanime consenso con cui Corti britanniche e europee hanno emesso la loro sentenza. Il bambino, dicono, soffre, è attaccato a un respiratore artificiale e non ha speranza di guarire. Meglio per lui la morte. Ma quanti sono in Europa e nel mondo i malati gravi che non hanno speranza di guarire, che hanno bisogno di costose terapie quotidiane, che soffrono? Ciò che impressiona però è anche che in questo dramma si prescinda totalmente da quanto finora è stata detta essere la colonna delle norme sulla eutanasia, cioè la volontà del malato o di chi lo rappresenta. Qui non c’è alcuna domanda di morire. Qui c’è lo Stato che interviene su una determinazione di medici e sentenzia: soffri troppo, e non ti si può guarire, conviene per il tuo stesso bene che tu muoia. Sinistro, questo Stato, e poi la stessa Europa, che si ergono a giudici della liceità di una vita. Non si potrebbe almeno lasciare che la malattia del bambino segua il suo naturale decorso? No, evidentemente costa troppo. E sembra quasi una profezia, la vicenda di Londra, sulle nostre vite fra trent’anni, quando saremo vecchi, malati – e costosi. Nel caso di Eluana Englaro era il padre a domandare con insistenza la morte per la figlia, e i giudici infine gli diedero ragione. Qui, al contrario, i genitori combattono strenuamente perché il figlio sia lasciato vivere: e ugualmente invece il verdetto è che lo si abbandoni. Difficile non vedere un favor mortis dentro la logica che sorregge l’approccio di Stati e ‘tecnici’ e i pronunciamenti di certi tribunali circa la vita malata, terminale, fragile. Un favore per la morte anziché per la vita, che comunque si manifesta. O forse quel bambino ricoverato in un ospedale della vecchia Europa con la sua malattia a oggi non guaribile ci ricorda la nostra umana impotenza: testimonia come, in verità, noi tanto sapienti e orgogliosi non siamo padroni di niente. Per questo forse si preferisce ,’per il suo bene’, farlo scomparire. Una sentenza di morte per un bambino di dieci mesi. ‘Soffre, non ha speranza’. Ma di quanti di noi, pensi, un giorno, con l’avanzare degli anni e delle invalidità si potrà dire la stessa cosa. Ed è come se un’ombra oscura ti passasse davanti”.
(Marina Corradi, Avvenire)

Il prezzo

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«Il dolore […] mi ha anche insegnato che si deve poter condividere il proprio amore con tutta la creazione, con il cosmo intero. Ma in quel modo si ha anche accesso al cosmo. Però il prezzo di quel biglietto di ingresso è alto e pesante, e lo si guadagna risparmiando a lungo, con sangue e lacrime. Ma nessun dolore e lacrime sono troppo cari per questo. E tu dovrai passare attraverso le stesse cose, cominciando dal principio» 
Etty Hillesum, giugno 1942

Raffiche di bora

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Una riflessione di Giovanni Grandi, professore associato di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Padova. Molti gli interrogativi che è in grado di sollevare.

Nelle giornate invernali di maltempo, specie se sferzate dalla Bora, il Carso riesce a farsi interprete di quell’angoscia che qualcuno più di altri si porta dentro. Le raffiche che alternano sibili e ululati sembrano inseguitori che non danno tregua, come certi pensieri opprimenti che incalzano di continuo togliendo il fiato. I boschi mezzi spogli, le latifoglie nude e scheletriche – che pure rifioriranno, ma non lo danno a vedere – si fanno specchio di ogni sentimento di resa. A uno di quegli alberi, una ventina di anni fa, era appesa una persona. E quello era il mio primo intervento di ricerca disperso, appena entrato in organico del Soccorso Alpino.

Nei frangenti dell’aiuto rischioso – come l’ha chiamato Spiro Dalla Porta Xydias – prima o poi si scopre che c’è anche lo spazio per i rinvenimenti più inquietanti e drammatici: cerchi di correre per portare in salvo una vita, ma questa nel frattempo cercava e ha trovato la morte. Quell’esperienza mi è tornata ancora una volta in mente in queste ore di interrogativi sulla vicenda di Dj Fabo.

Quando una persona sceglie di morire in un luogo poco raggiungibile, dopo il ritrovamento può capitare che ci voglia del tempo prima di poter rimuovere la salma: occorre attendere il medico legale e le autorizzazioni necessarie a procedere. Quel tempo – che in qualche circostanza può essere anche di alcune ore – è densissimo, e ciascuno prova letteralmente a ingannarlo come può, perché è un tempo carico di angoscia. C’è chi pronuncia tra le labbra una preghiera, chi si allontana un po’, chi si concentra sulle procedure, chi prova a sdrammatizzare con una battuta, chi guarda senza dire nulla, mentre il nodo alla gola se lo sente addosso.

Dinanzi a chi ha scelto la morte – molto più che non dinanzi a chi “semplicemente” è morto – ciascuno è come se si sentisse obbligato a dire perché vive, con la parola o con le movenze. In quei frangenti, e da cenni minimi, intuiamo che c’è chi vive lottando con l’Assoluto, chi cercando il distacco da dolore e inquietudini, chi vive per far funzionare il mondo, chi per renderlo meno serioso… Come pure c’è chi quella domanda sul senso del vivere non riesce a deglutirla e d’altra parte neppure a evitarla, sentendola aleggiare in un silenzio interiore scomodo, importuno, non risolvibile distraendosi un po’.

La morte scelta, per chi la accosta in prima persona, si trasforma in uno specchio, in cui ognuno vede svelato (e tende a rivelare) quel che dà consistenza alla propria – improvvisamente non più ovvia – scelta di vivere. È con questo personalissimo “tesoro nascosto” di motivazioni ed energie – e non con un più o meno fornito arsenale di valori astratti – che ciascuno poi si presenta agli appuntamenti faticosi dell’esistenza. Che non sono unicamente le situazioni limite, ma tutte quelle in cui rimanere lì dove si è chiede delle risorse spirituali capaci di bilanciare la fatica e lo star male per i pesi che gravano sulle spalle.

Forse è vero che ad ogni cambio di passo nella vita la decisione è se rimanere o andarsene. L’evangelista Giovanni ce lo ha mostrato anche nella storia dei discepoli di Gesù di Nàzaret, spaventati dalla durezza delle prospettive di passione e sollecitati dal maestro a misurarsi con la loro verità interiore proprio con questa domanda: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).

Quel paio di scarpe da tennis un po’ infangate, sospese nel vuoto all’altezza degli occhi, mi interrogano ancora dopo vent’anni, e continuano a farlo non a proposito della mia libertà di andarmene – come avrei preferito allora, in quel bosco – ma della mia capacità di restare – ovunque la vita mi chieda fedeltà. L’effetto specchio, quando il contatto con la morte scelta è diretto, protegge dal farsi giudici del dramma di un’altra persona, ma allo stesso tempo espone implacabilmente all’autoanalisi. È una lezione doppia, in un’unica tessitura, che non si dimentica.

Oggi avverto con forza che anche quando discutiamo di vicende a noi distanti esistenzialmente, l’interrogativo sulla capacità di rimanere e di assorbire gli urti della vita non può essere distorto in una valutazione sulla resistenza altrui.

Non può però nemmeno esaurirsi nel dibattere della ridefinizione dei margini legislativi per andarsene.

Quell’interrogativo va onorato per quel che propriamente ci sollecita a saggiare: per che cosa scegliamo di vivere? Quanto questo “tesoro nascosto” nutre la nostra capacità di restare? Crediamo che la nostra fedeltà alle situazioni faticose – almeno fino a un certo punto – sia un bene di umanità per tutti? Abbiamo qualche possibilità per rinforzarci interiormente?

Come ogni morte scelta, anche il suicidio assistito di Fabiano Antoniani inevitabilmente ci sta provocando, ci scuote dalla nostra routine, ci mette allo specchio. Ma sapremo non disgiungere la riflessione legislativa sulla libertà di andarsene da quella esistenziale sulla (nostra, personale) capacità di restare? Credo che solo conservando intatta questa “figura di coppia” potremo evitare che la giusta riflessione sulle situazioni limite non alimenti sottotraccia una cultura ordinaria del sottrarsi e l’illusione che felicità faccia rima con facilità.

Come insegnava Maritain, l’umano si gioca più di quanto immaginiamo sulla accortezza del distinguere per unire: vale forse la pena di ricordarlo meditando e discutendo con altri dei fatti di questi giorni”.

Paradiso e miseria

oro

“Vidi un uomo che giaceva al suolo con la testa quasi sepolta nella sabbia mentre le formiche correvano tutte intorno a lui. Era una vittima della malattia del sonno che i compagni avevano abbandonato là, probabilmente qualche giorno prima, perché non potevano più fargli proseguire il viaggio. Benché respirasse ancora, non v’era più speranza. Intanto che mi occupavo di lui potevo vedere attraverso la porta della capanna le acque azzurre della baia incorniciate dagli alberi verdi, una scena di una bellezza quasi magica, che appariva ancora più incantevole inondata com’era dalla luce dorata del sole al tramonto. Vedere un tale paradiso e allo stesso tempo una miseria così spietata e senza speranza era opprimente”.
Albert Schweitzer, Dove comincia la foresta vergine, 1921

Gemme n° 455

Questo video mi ha colpito molto: cerca di trasmettere un messaggio di rinforzo e incoraggiamento per le persone che soffrono e che sono in cattiva condizione. E’ un inno alla libertà.” Così S. (classe seconda) ha presentato la sua gemma.
E’ un semplice inno alla libertà questo brano di Pharrell Williams. Cito qui il ritornello di una canzone di qualche anno fa di Fabrizio Moro: “Voglio sentirmi libero da questa onda, Libero dalla convinzione che la terra è tonda, Libero libero davvero non per fare il duro, Libero libero dalla paura del futuro, Libero perché ognuno è libero di andare, Libero da una storia che è finita male. E da uomo libero ricominciare perché la libertà è sacra come il pane.”

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