Un interessante articolo de Il Post, pubblicato l’11 marzo.
“Tra gli oltre 7 milioni di utenti di TikTok in Cambogia c’è una piccola nicchia, quella dei monaci buddisti, che lo usano perlopiù per diffondere i principi del buddismo theravada, la scuola più antica e prevalente nel paese. Il problema è che il codice monastico ha regole molto rigide, pensate per evitare che i monaci attirino l’attenzione su di sé: una cosa che contrasta nettamente con il modo in cui funziona TikTok e con il senso stesso dei social network. Per questi motivi, come ha raccontato il sito di news internazionali Rest of World, di recente fra i religiosi è nato un dibattito che riguarda proprio l’utilizzo di TikTok: c’è chi lo ritiene un canale utile per coinvolgere più fedeli, e chi invece lo reputa uno strumento controverso e da usare con grande cautela, se non da evitare. Tra i monaci buddisti cambogiani che hanno un account su TikTok ci sono Bo Pisey e Hak Sienghai: entrambi vivono in un monastero a Battambang, nel nord-ovest del paese, e hanno rispettivamente più di 132mila e 550mila follower. Nella gran parte dei casi sia loro sia gli altri monaci postano foto di momenti di preghiera o video in cui parlano degli insegnamenti del Buddha e del percorso che i buddisti dovrebbero seguire per metterli in atto (Dharma). Ogni tanto però condividono anche video che vanno al di là della religione, per esempio quelli in cui incontrano i turisti o in cui si riprendono assieme agli animali. In certi casi poi gli account TikTok dei monaci, soprattutto quelli dei novizi, sono molto simili a quelli delle altre persone adolescenti: ci sono selfie, video spiritosi e foto che in qualche caso sembrano voler attirare attenzioni non esattamente religiose, per esempio mostrando i monaci a petto nudo. In Cambogia più di un terzo della popolazione usa TikTok. Da tempo i monaci usavano social network come Facebook e YouTube per diffondere i loro insegnamenti e condividere video in cui parlavano di temi vari. Con TikTok, che si basa prevalentemente sui contenuti che sono di moda e diventano facilmente virali, la loro posizione però è un po’ più scomoda. Le violazioni del codice monastico adottato dai monaci buddisti nel Sud-est asiatico infatti possono comportare punizioni che vanno dai blandi richiami fino all’espulsione dall’ordine. I principi del buddismo theravada prevedono tra le altre cose che i monaci non possano fare sesso, non debbano uccidere né rubare; anche i novizi sono poi tenuti a seguire altri precetti, tra cui non danzare, non cantare e in generale mantenere un comportamento estremamente sobrio e rispettoso. Come ha spiegato a Rest of World Yon Seng Yeath, vice rettore di un’università buddista di Phnom Penh, la capitale del paese, almeno la metà di queste regole è pensata per fare in modo che i monaci non attirino l’attenzione su di sé: un principio che sembra essere molto difficile da rispettare su un social network in cui è facile raggiungere rapidamente un pubblico molto ampio, al di là delle intenzioni del singolo. Bo Pisey sostiene di voler solo diffondere il Dharma e di non voler ricavare nient’altro dal suo profilo di TikTok, che ritiene un buono strumento per interagire con le persone, se usato bene. Hak Sienghai dice che è naturale utilizzare TikTok, in un mondo in cui la tecnologia ha rivoluzionato il modo di comunicare con le persone: sostiene di volersi avvicinare ai follower ma non troppo, e spiega di voler essere un esempio per giovani monaci che potrebbero non usare i social nella maniera più opportuna. Altri monaci sostengono invece che mettersi in mostra su TikTok sia contrario ai valori buddisti, e che soprattutto i novizi non dovrebbero usarlo per non distrarsi dallo studio degli insegnamenti. C’è poi chi propone di introdurre un codice di condotta, come il monaco San Pisith, che al momento studia in Estonia: San Pisith non si dice in favore di un divieto totale, ma per esempio suggerisce che i contenuti condivisi siano esclusivamente didattici. Seng Yeath fa anche parte dell’autorità regionale dei monaci, che ha il compito di vigilare sul loro comportamento in 4 delle 25 province della Cambogia e stabilire eventuali punizioni in caso di infrazioni. Finora non ci sono state grosse punizioni contro i monaci che condividevano contenuti su TikTok, ha spiegato: sono state osservate solo piccole violazioni, come aver cantato o ballato, che di norma sono state punite solo con l’obbligo di chiedere scusa al tempio. Alcuni gesti, conclude, sono considerati comunque meno gravi se fatti dai giovani.”
“Come gemma ho deciso di portare una canzone che ho iniziato ad ascoltare da un po’ di mesi. Già dal mio primo ascolto ciò che mi ha colpita sono state le parole usate e il loro forte significato. Il fatto che sia una canzone che parla di una cosa a me così vicina è stata una delle cose che mi ha fatto avvicinare sempre di più, capendo piano piano che cosa davvero volesse dire. Questa canzone mi ricorda tante cose, come il fatto che la diversità non è qualcosa da nascondere, piuttosto qualcosa da celebrare” (P. classe terza).
“Il paradosso, il vostro paradosso, è che vi dedicate alla ricerca della verità, ma non sopportate la vista di ciò che scoprite” (I. Yalom, Le lacrime di Nietzsche, pag. 360).
Nei miei taccuini, su cui appunto le citazioni dei libri che leggo, questa è la numero 3086. Ha molteplici campi di applicazione, ma questo pomeriggio ne ha una particolare. Ho passato un po’ di tempo, troppo poco in realtà (ma la campanella è tiranna), a raccogliere le parole e gli sfoghi di alcune alunne. Oggetto dell’arrabbiatura: l’incapacità relazionale di molti adulti, in particolare degli insegnanti, nei confronti degli studenti. Non sbagliano. Credo sia un effettivo problema, un tempo più nascosto, più sottotraccia, soprattutto perché era un tempo diverso, abitato, in particolare, da studenti diversi. Vanno fatte delle considerazioni, vanno condotte delle riflessioni che possano tradursi in atti, modi, comportamenti; ma senza il coraggio, la voglia e l’onestà di vedere la verità dentro di sé, dentro i propri atti, modi e comportamenti, non si arriva a nulla. Diventa una ricerca di verità vana e sterile, volta a trovare quel che si fa finta di cercare. Penso sia la base se vogliamo essere degli adulti, e soprattutto degli insegnanti, significativi.
“1° Settembre, 2022 h. 22.30 Quando manca una persona a noi cara cerchiamo immediatamente di raccogliere ogni cosa possa rammentarcela. Una frase, un oggetto, un ricordo qualunque, come se avessimo paura che con la morte fisica, quella persona non esistesse più, si cancellasse dalla nostra mente. La verità è che, nonostante i ricordi sbiadiscano, l’essenza dell’anima è immortale. Quella persona vive in noi, è nei nostri modi di dire, nelle nostre azioni quotidiane, è legata a noi per sempre in una maniera che non potremo percepire finché non la riabbracceremo. Le anime si ritrovano sempre.” (B. classe quinta).
“Premessa: non sono una persona che ama fare vedere le proprie debolezze e i propri problemi. Anzi, cerco di evitarli per illudermi di stare bene. Allora voglio usare la mia gemma per liberarmi da pesi che porto dentro e che raramente riesco a buttare fuori e spero di potervi regalare un po’ di speranza con il mio discorso. Allora ho deciso di parlarvi di mio papà che è venuto a mancare 2 anni fa. Oggi vi volevo leggere la lettera di addio che ho scritto e letto al suo funerale. Nota: in accordo con C. la lettera resta tra i muri dell’aula. Ora ho scritto un pensiero per tutti quelli che hanno perso qualcuno, che sia un amico, un papà, una mamma, uno zio, un gatto, un cane, oppure che hanno rischiato di perdere qualcuno a cui volevano bene o ancora a chi ha perso se stesso. Non c’è vita senza morte. E non c’è morte senza vita. Sta a noi decidere se vivere senza vivere e attendere la morte o se vivere tutto ciò che capita di bello o brutto che sia, assaporando ogni secondo che abbiamo per poi poter dire “ho vissuto”. Un giorno tutt’a un tratto, purtroppo, ci viene tolta la possibilità di creare nuovi ricordi, nuove risate, nuove chiacchiere con le persone a cui teniamo e pensiamo di non poter fare a meno di quel qualcuno. È vero che parte di noi muore con la morte di una persona a noi cara ed è giusto sentirsi sperduti e pieni di dolore. Ma, oltre alla parte di noi che se ne va, ne abbiamo un’altra che resta. E sta a noi decidere se abbandonarci al dolore o cercare di salvarci aggrappandoci a quelle cose che nella vita valgono la pena di essere vissute. Quindi vi chiedo di vivere. È molto più facile a dirsi che a farsi, è vero. Ma il tempo corre, modifica le nostre vite, le prende e le spiaccica al muro come un foglio in piena bora triestina. Prendete voi in mano le vostre vite e piangete, disperatevi, urlate ma non dimenticatevi che il tempo che passate a torturare voi stessi è meno tempo per essere felici. Godetevi ogni istante, dalle feste con gli amici fino alle sere più noiose a cena con la famiglia, nulla è eterno tutto può distruggersi in un nanosecondo, ma voi dovete vedere il sole non solo dopo la tempesta ma anche prima. La vita è vostra e per quanto possa fare spesso schifo, ci sarà sempre quel qualcosa o quel qualcuno che vi farà dire “cavolo, meno male che sono qui e sto vivendo”. (C. classe quarta).
“I nonni sono una delle cose più preziose che esistano, un dono che purtroppo non tutti sono così fortunati da ricevere. Io sono stata la bambina più fortunata del mondo, non solo ho conosciuto i miei nonni, ma anche i bisnonni. Purtroppo però, non c’è cosa peggiore che vedere giorno dopo giorno questo dono stupendo sgretolarsi. Mi ricordo quando giocavo a carte con il bisnonno , tutti i pomeriggi. Lui entrava in casa e appoggiava il suo cappello sullo scalino, sempre lo stesso, mi guardava con i suoi occhi blu dolcissimi e mi chiedeva in friulano: “hai fatto la pipì nel letto stanotte?”. E io ridevo, ridevo tantissimo. Ridevo quando non mi faceva mai vincere ai giochi di carte, quando faceva delle sciocche battute e quando faceva le sue solite espressioni o boccacce sceme. Ma poi, tutto un tratto, i suoi occhi sono diventati assenti e io un ricordo vago nella sua mente, non ero più la sua nipotina che faceva la pipì nel letto e che rideva con lui, ero solo un ricordo sbiadito, un’immagine sfocata e poi più nulla. Così anche per nonna, che sta convivendo ora con l’Alzheimer e che ogni tanto mi chiede se sono la sua vicina di casa venuta dalla Francia e io le devo ricordare che sono io, sua nipote e che Daniele, il mio papà, è suo figlio e lei risponde che c’è sempre una prima volta per conoscerlo. Inizialmente mi faceva sorridere il fatto che mi chiedesse 50 volte se volessi l’insalata o quando perdeva le cose e le ritrovava solo mesi dopo tra grandi risate, ma ora è lei ad essersi persa. Anche il nonno sta girovagando tra gli ospedali, il Parkinson è una brutta bestia. Nonostante ciò ho ancora quasi tutti i miei nonni e continuo a ridere e sorridere insieme a loro e mi reputo fortunata anche solo ad averli conosciuti, ma vederli andare via o essere per loro solamente un’immagine indefinita, mi ferisce”. (S. classe quinta).
Come ogni anno, è arrivato il momento di portare la mia gemma e condividere coi miei compagni qualcosa a cui sono legata o che reputo importante. A differenza dell’anno scorso, quest’anno ho una gemma ben precisa che in realtà porta con sé molte persone, ricordi ed emozioni (quindi tutte le persone, discorsi e cantanti vari di cui parlerò fanno parte della gemma). Quest’anno ho deciso di portare una canzone che si chiama Thing called love di un artista americano che si chiama NF. Inizialmente non sapevo dell’esistenza di questo rapper fino a quando una certa persona, consigliandomi delle canzoni, mi ha fatto ascoltare altre sue canzoni e mi è piaciuto fin da subito. Il vero motivo per cui ho scelto la canzone è un altro: due anni fa ho conosciuto un’altra persona con cui fin da subito sono andata un sacco d’accordo perché avevamo molte cose in comune e mi trovavo a mio agio, cosa che mi è difficile con delle persone che conosco da poco. Io e questa persona abbiamo fatto il centro estivo assieme e questo vuol dire stare assieme tutto il giorno, tutti giorni per circa 3 settimane. La sera quando ognuno era a casa sua facevamo sempre chiamate che andavano avanti fino a tardi dove giocavamo assieme, ascoltavamo musica, ci raccontavamo i traumi a vicenda :)). Poi, soprattutto d’estate, arriva quel momento in cui è notte fonda e ti ritrovi a fare dei discorsi un sacco profondi e filosofici; ecco, mi ricordo perfettamente, era fine giugno ed ero in chiamata, ad un certo punto tra varie altre domande questa persona rimane in silenzio e dal nulla se ne esce con “Ma per te A. che cos’è l’amore?”. Lì per lì la domanda mi ha spiazzata anche perché venivamo entrambi da una giornata piena di bambini urlanti e irritanti, erano tipo le 3 di mattina e sinceramente non ero psicologicamente pronta per una domanda del genere, siamo passati da ‘per te cosa c’è al centro dell’universo (nell’ipotesi che sia finito)’, a ‘che tipo di film ti piacevano da piccola’ a questo. Inizialmente sono rimasta in silenzio poi all’unisono abbiamo detto “L’amore è letteralmente tutto”. Prima ci siamo messi a ridere perché è stato un coro strano, poi abbiamo discusso un po’ su questa cosa ed è venuto fuori che l’amore è un qualcosa di troppo grande per poterlo definire con una parola sola e che molte persone della nostra età danno per scontato o considerano quasi “dovuto”. L’amore è amicizia, paura, odio, passione, responsabilità, spontaneità, ma soprattutto rispetto e solidarietà. Poi io ho voluto aprire una parentesi facendo una citazione di un film che considero uno dei miei preferiti che è “Vi presento Joe Black”.
Tutto questo lunghissimo discorso per ricollegarmi con la canzone che ho scelto. Il giorno dopo questa chiamata stavo ascoltando musica in riproduzione casuale su spotify ed è lì che ho trovato questa canzone. In realtà l’ho scelta principalmente per il testo più che per la canzone di per sé. Mi ha particolarmente colpita e ho deciso di portarla come gemma perché NF dà esattamente la sua visione dell’amore e di come ci si senta ad essere innamorati di qualcuno. Non sto dicendo che sia un segno del destino o cose simili perché onestamente ci credo fino a un certo punto; mi ha semplicemente fatto molto ridere il fatto che, dopo aver tirato fuori il discorso la sera prima in chiamata, mi sia imbattuta in quella determinata canzone che all’epoca manco conoscevo. L’ho scelta perché mi è capitato di riascoltarla in quest’ultimo periodo e ciò mi ha sbloccato tutti questi ricordi. Visto che quell’estate è stata una delle più belle mai trascorse, è stato bello rivivere certi stati d’animo, ma come si sa le cose belle durano sempre troppo poco: a volte sono solo istanti, a volte possono durare anche qualche anno o, come nel mio caso, durano solo 3 mesi.” (A. classe quinta).
“Per la mia gemma ho deciso di portare una foto ed una canzone che scatenano in me emozioni opposte tra loro. La foto, infatti, l’ho scattata quest’estate in un momento in cui ero veramente felice: stavo facendo da capo animatore e capo squadra ad un centro estivo e per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo veramente voluta bene. Adoravo far ridere i bambini, prenderli in braccio e farli giocare. Adoravo sentire loro vocine che mi dicevano “Maestra ti ho fatto un braccialetto!”, “Maestra guarda che bel fiore!”, “Maestra sai che oggi faccio 7 anni?” e poi vederli fare un 5 con le dita. Adoravo sentirmi utile ma soprattutto adoravo non sentirmi sola. Eppure, nonostante questi ricordi, questa è stata la peggiore estate della mia vita: sono successe varie cose e mi sono sentita abbandonata. Non per forza lo ero ma la mia testa mi convinceva che io non meritassi nulla di buono, che io non mi meritassi di essere ascoltata o che qualcuno potesse volermi davvero bene. Spesso è ancora così. Mi sono sentita sola anche se magari non lo ero. Molte persone se ne sono andate dalla mia vita, anche persone con cui avevo pensato mille idee che avremmo dovuto mettere in pratica proprio quest’estate. Per questo, oltre alla foto, ho scelto di portare la canzone All I Want dei Kodaline.
Per molti questa canzone parla di una storia d’amore finita ma per me parla di un qualsiasi tipo di rapporto che si è concluso per un qualsiasi motivo. A volte non riesco a fermare i pensieri e la mia mente inizia ad andare a 100km/h senza lasciarmi il tempo di respirare ed è esattamente in quei momenti che mi sento totalmente sola: non trovo infatti la forza o il coraggio di chiedere aiuto, non perché io pensi di essere invincibile ma perché non credo di meritare il tempo di nessuno. Questa canzone la dedico anche un po’ a me stessa perché un giorno vorrei poter rivedere il mio sorriso senza che nella mia mente compaia il pensiero “Mi merito davvero di star sorridendo? Mi merito davvero di essere felice?”. Tutto ciò che vorrei è riuscire a ritrovare me stessa e di conseguenza, a non sentirmi più così sola ma, guardando questa foto, ogni tanto mi ricordo che anche io ho qualcosa di buono dentro di me” (S. classe quarta).
“Nel video motivazionale che io e il mio compagno D. abbiamo deciso di portare come gemma, vediamo un omino apparentemente insoddisfatto della sua vita, prigioniero delle sue stesse cattive abitudini. Questo omino viene posto davanti a una scelta, prendere la pillola blu o la pillola rossa. La pillola blu rappresenta il bene e il successo, mentre la pillola rossa rappresenta la miseria e la mediocrità. Scegliendo la pillola blu, l’omino sarebbe in grado di cambiare la sua vita seguendo gli esempi di tutte le persone che vengono rappresentate durante il video, arrivando a sentirsi soddisfatto della vita che sta vivendo e orgoglioso degli obiettivi che ha raggiunto o che sta raggiungendo. Scegliendo la pillola rossa invece, l’omino continuerebbe a vivere la vita insoddisfatta che fin a questo momento aveva vissuto, permettendo alle cattive abitudini e ai propri vizi di prendere il controllo della sua vita, rendendolo triste e insoddisfatto. A febbraio del 2022, io e il mio amico D. abbiamo deciso di intraprendere un percorso insieme in palestra, che durante il passare del tempo si è rivelata essere una nostra passione, nonché ormai una nostra attività quotidiana. Parlando e confrontandoci, ci siamo resi conto di esserci sentiti entrambi come l’omino all’inizio del video, ma ci siamo resi conto anche di quanto siamo migliorati entrambi grazie all’aiuto dell’altro. Ogni giorno cerchiamo di spronare l’altro a migliorare ed è anche per questo che ci siamo sentiti rappresentati da questo video, ogni giorno ci sentiamo come se dovessimo prendere una decisione importante, prendere la pillola blu e dare il meglio di noi stessi per poter migliorare, oppure prendere la pillola rossa e continuare a essere le persone che siamo ogni giorno.” (V. e D. classe quarta).
“Come gemma ho deciso di portare il DUM (Dinsi une man), l’esperienza che ho avuto il piacere di ripetere per la terza volta questa estate. Nell’anno che è passato tra i due turni ho capito quanto questo volontariato sia importante per me e riflettendo ho compreso che è grazie a questa esperienza che poi ho deciso di voler intraprendere medicina come studi universitari per aiutare le persone. È difficile spiegare cosa renda così speciale questa settimana di volontariato semplicemente perché è un’esperienza che si comprende quando si vive; il dum per me è come una famiglia ormai ed è un posto dove provo una felicità pura e sincera che non trovo da nessuna parte. La foto che ho scelto ha un significato specifico, siamo io e una delle persone che mi erano state affidate, G.. G. non è una persona che parla molto o che abbia voglia di socializzare, lui sta nel suo e non partecipa spesso alle attività che organizzavamo; accettare questa cosa per me era difficile nei primi giorni, cercavo ripetutamente di coinvolgerlo e al suo rifiuto nella mia testa era come se stavo fallendo nel mio compito di volontario. Con il passare dei giorni ho capito che è normale che lui non abbia voluto partecipare e che era fatto così. Una cosa che non ho menzionato è che G. odia le foto, non penso ci sia cosa che odi di più nell’intero soggiorno e, quando era tempo della giornata della fotografia, lui, nella foto di gruppo non ha voluto partecipare nonostante la mia insistenza e mentre gli altri ragazzi stavano facendo un lavoro in cui modificavano le foto G. era seduto su una panchina a controllare il telefono. Ad un certo punto mi chiamano e mi dicono che G. vuole una foto con me io ho risposto “no non le vuole non fa mai foto non insistete”, ma mi hanno risposto che ha chiesto specificatamente una foto con me e in quel momento mi sono come illuminato e dopo aver fatto la foto mi ricordo che gliel’ho data e lui l’ha conservata nel suo marsupio ed ero estremamente contento perché era come se le cose che facevo come volontario avessero avuto un riscontro e una ricompensa. Non dimenticherò mai a cena quando mi mostrava sul telefono gli articoli che Google consigliava e mi ha parlato di come i nidi di vespa siano pericolosi e quali fossero i modi di mandarli via oppure quando gli scrivevano lettere e sorrideva mentre le leggeva. Questi sono i ricordi che terrò stretto sempre a me fino alla morte e questa è anche la magia del volontariato: connettersi con altre realtà che sembrano distanti ma in realtà sono più vicine a noi di quanto pensiamo.” (E. classe quinta).
Riporto il caldo saluto che don Agostino Petriciello rivolge oggi, sulle pagine di Avvenire, a fatel Biagio Conte, scomparso a Palermo in questi giorni a causa di una malattia.
“Fratel Biagio è morto? No, questa è una menzogna. Fratel Biagio è vivo, più vivo che mai, adesso che è volato via da questo mondo. Lo incontrai, ci incontrammo. Insieme ci calammo nelle acque pure del Vangelo e della preghiera per tentare di dissetare l’arsura che ci portiamo dentro. Quel giorno, come sempre, avevo pregato: «Manda, Signore, un angelo sul mio cammino». E l’angelo, ancora una volta, arrivò. Aveva un volto pulito, incorniciato da una barba incolta che gli dava l’aspetto di un antico patriarca; un sorriso largo, sereno, leggero. E degli occhi stupendamente verdi. «Come sono belli gli angeli», pensai. E mi misi alla tua scuola. L’angelo non va ostacolato, ma ascoltato, seguito. Quante volte ero stato ad Assisi? Quante volte avevo desiderato di poter essere stato contemporaneo di Francesco? Quante volte avevo sostato e sognato davanti al suo saio, ormai quasi ridotto in polvere? Un giorno lo incontrai sul mio cammino, Francesco. Si chiamava Riccardo. Chiedeva la carità di un passaggio in auto. Incuriosito, mi fermai. Mi riportò alla fede. Poi, come un’aquila alla quale va stretto il nido, volò verso un Paese da cui tanti fratelli scappano. A servire un popolo che tanti potenti affliggono. A farsi povero per loro e con loro. Oggi lo vedo poco. La Tanzania è lontana. Rimane l’affetto, la riconoscenza, la collaborazione, la nostalgia. Il desiderio e il bisogno di essere scandalizzato ancora dalla radicalità dei coraggiosi. E arrivasti tu, Biagio. A ricordare a me, alla Chiesa, al mondo, che l’amore vero non conosce le mezze misure; che gli innamorati sanno osare, rischiare, mettersi in gioco, sfidare il destino. Sempre eccessivi, sempre presenti. Sei stato un ingordo, frate. Hai affollato quella schiera di uomini e donne che non si accontenta mai. Che guarda continuamente oltre l’orizzonte. Che non ha paura di niente, nemmeno del peccato. Che non si ferma nemmeno davanti all’evidenza. Milioni di persone muoiono di fame. Avresti voluto sfamarle tutte, ma non ti era possibile. Non ti sei arreso. Hai dato da mangiare ai poveri di Palermo. Confidando in Dio. Fidandoti della Provvidenza. Ai poveri di pane si aggiunsero i poveri di cuore, i poveri di spirito, i poveri di vita. Non ti sei scagliato con rabbia contro i rapinatori dei forni altrui, li hai cercati, li hai trovati, li hai aiutati a non perdere la speranza, la dignità, la fede. Sei stato, Biagio, un calcio negli stinchi per tanti tiepidi come me. Il Francesco di Assisi siciliano del nostro tempo. Com’è bella la nostra santa madre Chiesa, frate. Questa grande famiglia dove c’è posto per tutti, santi e peccatori e peccatori trasformati in santi. Così simili, così diversi, così normali, così strani, così originali. Sei volato via a pochi giorni di distanza da papa Benedetto. Le differenze tra te e lui, tra la tua vita e la sua, saltano agli occhi. Eppure quanto vi somigliate. Con strumenti diversi e diverse voci, insieme avete cantato la serenata a chi vi aveva rapito il cuore. Che state facendo, adesso? Quale inenarrabile Mistero stanno contemplando i vostri occhi? Biagio, Benedetto, fratelli di tutti, pregate per noi. Alla Sicilia, cui la mafia stupida e assassina, ha fatto tanto male, ha strappato tante vite, il Signore ha voluto regalare un uomo buono, semplice, spoglio, indifeso, ricco della sua sola povertà. Un uomo con le braccia larghe, lo sguardo lungo, il cuore senza confini. Non hai disprezzato niente dei doni che Dio ha dato agli uomini. Hai voluto condividerli con i poveri. In fondo – permettimi – sei stato lo scaltro del vangelo. Hai capito che la gioia non viene dal possesso e dal potere, ma dal servizio che si rende alle persone, soprattutto quelle che sanno gioire per le piccole cose. Quanto pane hai spezzato agli affamati? « Entra, benedetto dal Padre». A quanti ignudi hai offerto un mantello e un tetto perché non morissero di freddo e di vergogna? « Entra, benedetto dal Padre» Fratel Biagio, Pino Puglisi, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Doni immensi della Sicilia del nostro tempo alla Chiesa e al mondo. Prega per noi, frate. Continua ad essere l’angelo che ognuno desidera incontrare. Grazie per averci ricordato che «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». Ottienici il dono della perseveranza, perché, come te, non ci stanchiamo di fare sempre e solamente il bene.”
L’anno scorso, guardando la serie di Netflix Élite, sono rimasto colpito da una canzone spagnola. Si tratta di un vivace brano scritto originariamente dal gruppo Dúo Dinámico nel 1988 e che è stato scelto da un collettivo di cantanti (tra cui Álvaro Soler) per supportare il popolo spagnolo durante il periodo della pandemia. La versione contenuta nella serie tv (qui sotto) è musicalmente molto diversa e molto più intima. Il testo parla della capacità di resistere e di reggersi in piedi davanti alle difficoltà, anche nei momenti in cui pare non esserci alcuna via d’uscita. Quando anche il silenzio fa paura e neppure i ricordi sono di conforto, quando il futuro è precluso e noi stessi diventiamo i nostri nemici, insomma, quando il vento si fa molto forte abbiamo comunque la possibilità di fare come i giunchi che si piegano, assecondano l’aria, ma non staccano i piedi dal suolo. Resisterò per continuare a vivere, Sopporterò i colpi e non mi arrenderò mai E anche se i sogni mi si romperanno in mille pezzi Resisterò, resisterò.
“La mia gemma sono le mie amiche, le mie più care amiche. Sono tra le persone più importanti della mia vita. Amo ognuna di loro. Ognuna mi ha cambiato la vita, in qualche modo. Penso spesso a cosa sarebbe successo, se fossi finita in un’altra classe. Potrei non averle mai conosciute, ma mi piace pensare il contrario. Voglio credere che non sia stato solo il caso a farmele conoscere e, soprattutto, a farmi legare così tanto con loro. Mi piace credere che nonostante tutto, sarebbero comunque entrate a far parte della mia vita. Lo sono state per già più di 1 anno, più di 365 giorni di puro supporto e sopportazione. Sono quel tipo di persone che spero che ognuno possa conoscere, perché sono quelle amiche che ti reggono i capelli quando vomiti, che ti danno una spalla su cui piangere, che ti danno consigli anche se consapevoli che non li seguirai e che farai comunque di testa tua; soprattutto però, ci sono quando ne hai davvero bisogno. Loro 5 sono le persone che più mi fanno ridere in tutto il mondo, ogni giorno mi ritrovo le lacrime scorrermi sul viso per qualcosa di così stupido che a nessun altro farebbe ridere, se non a noi. Sono state così tanto parte della mia vita che non riuscirei a viverla senza la loro presenza. Siamo già a metà del nostro percorso scolastico e ogni tanto mi capita di pensare e temere una nostra possibile separazione in futuro. Ma se c’è una cosa che queste splendide ragazze mi hanno insegnato è che devo imparare a vivere nel presente. Godermi il momento. Abbiamo ancora 2 anni e mezzo da vivere insieme; almeno spero. So poco di cosa accadrà in quel lasso di tempo, l’unica cosa certa è che non smetteremo mai di ridere insieme.” (E. classe terza).
“Ho scelto di portare come gemma un libriccino che mi è stato regalato dalla mia maestra dell’asilo alla fine dei 3 anni. Il libro si chiama Tu sei speciale di Max Lucado. La storia parla del piccolo popolo di Wemmicks (degli omini in legno, creati da un falegname di nome Eli). Gli Wemmicks passano il tempo a scegliere chi di loro meriti una stella o un pallino grigio in base alle loro capacità e in base al loro aspetto fisico. Un giorno Pulcinello incontra una Wemmick senza stelle e senza pallini e ciò lo spinge a capire come questo sia possibile. Egli aveva sempre ricevuto solo pallini e per questo motivo pensava di non meritare una stella, e decise di andare a parlare col suo falegname per poi scoprire che le stelle e i pallini stanno attaccati e hanno un valore soltanto se siamo noi a darglielo. Ciascuno di noi può ritrovarsi nel protagonista della storia perché proprio come lui molto spesso non ci sentiamo adeguati in un mondo che ci guarda con indifferenza o ci giudica solo per come appariamo e non per come siamo dentro. Anche se forse ero troppo piccola per capirne a pieno il significato, ogni tanto mi capita di rileggere questo libro e capire che anche se può sembrare una storia per bambini, in realtà racchiude un significato molto profondo, ossia non fermarsi alle apparenze e non farsi limitare dal giudizio altrui” (S. classe quarta).
“È da qualche anno che vado dalla psicologa e una volta era venuto fuori il discorso della felicità. Lì per lì non sapevo molto bene che cosa risponderle, perché effettivamente non sapevo cosa mi rendesse davvero felice. Questa estate per caso, ho iniziato a scrivere nelle note del mio cellulare una sorta di rubrica in cui scrivevo “cose che gli sconosciuti fanno che mi rendono felice”. Diciamo che sono molte le cose che sono state scritte:
1. “La signora che incontro sempre dopo scuola quando vado a prendere il bubble tea che mi sorride sempre”. L’anno scorso finivamo scuola a mezzogiorno e quaranta e per questo motivo, finita scuola, tornavo subito a casa per pranzare e tornavo subito ad uscire per prendermi il bubble tea prima di iniziare a fare i compiti. Mi capitava tutti i giorni di incontrare questa signora; io non conosco lei come penso lei non conosca me, eppure mi sorrideva sempre. Questa cosa era in grado di cambiarmi totalmente l’umore e migliorarmi la giornata.
2. Un’altra volta mi trovavo a Lignano perché c’era una mia amica che faceva stagione. Ero con mia mamma ferma ad aspettare questa mia amica, quando è passata una famiglia su un risciò: erano una mamma, un papà, un ragazzo che penso avesse la mia età e presumo il suo fratellino più piccolo. Ad un certo punto, dopo svariate volte che avevano fatto su e giù, i genitori si sono fermati davanti a me e mi hanno detto “sai siamo ripassati davanti a te perché sei proprio carina”. Questa cosa mi ha davvero migliorato la giornata.
3. Mi trovavo al ristorante di mio papà e in qualche tavolo più in là, c’era una signora che penso abbia avuto 70 anni. Stava cercando di aprire una bottiglia d’acqua, non riuscendoci. Così mio papà le aveva chiesto se avesse bisogno di una mano e lei disse di sì. Subito dopo la sentii sussurrare “ogni tanto abbiamo bisogno degli uomini, TERRIBILE”. Questa frase è stata in grado di cambiarmi la giornata.
Scrivo oggi, quindi non è più una notizia. Da mesi non guardo la TV (l’antenna non funziona e l’interesse per ripararla è molto basso) e mi informo tramite podcast e versione web dei giornali. Il tempo è poco, quindi non ho letto molto. Sono rimasto colpito per i tanti titoli acchiappa clic, i clickbait, e le tante esternazioni scomposte e sguaiate. Allora ho deciso di raccogliere qui, in unico post, due articoli (non divulgativi) di Avvenire e il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco alle esequie di ieri.
L’eloquenza delle mani di Pierangelo Sequeri Non è il fantasma di un grande teologo che rimane sospeso sul nostro capo, quasi per prendersi la rivincita su di noi, come ha sospirato qualche incauto commentatore (magari di alto bordo ecclesiastico, ma di piccola statura ecclesiale). È la bianca figura di un grande teologo donato al ministero petrino, quella che rimane. Un ministero che il teologo Joseph Ratzinger ha personalmente onorato in favore della Chiesa per tutto il tempo della consegna ricevuta dal Signore. E che ha personalmente restituito alla Chiesa, nel tempo in cui il Signore l’ha ispirato a riconsegnarlo per il bene della Chiesa. Misteriosa la consegna, non meno misterioso il congedo: lo Spirito di Dio sa quello che fa. Oseremo noi intrometterci, nella nostra sentenziosa estraneità, nel rapporto speciale fra il Signore e Pietro, che in ogni Papa si rinnova? Ora, «l’umile servitore della vigna del Signore» ha consegnato anche il suo spirito. E proprio di qui, giustamente, il papa Francesco, ha invitato ad aprire il cuore di tutti, nella meditazione evangelica e nella preghiera riconoscente. Come il Signore, la vita di quest’uomo di Dio fu «un continuo consegnarsi nelle mani del Padre». Non ci sono retroscena da evocare, più incisivi di questo. Non ci sono paragoni da eccitare, più pregnanti di questo. «Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore». Questo è forse il passaggio più commovente – e commosso – dell’intensa omelia di Francesco nella Messa esequiale in piazza San Pietro. L’immagine-chiave è quella delle mani. Francesco cita l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Messa crismale del 2006, iscrivendo nell’immagine delle mani il suo speciale legame con il Signore: «Tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue». L’eloquenza delle mani di Benedetto XVI è di dominio pubblico. Il suo modo di aprire e stringere le dita, con le braccia protese davanti a sé, così teneramente infantile, rimarrà nei nostri occhi. E chi l’ha conosciuto da vicino riconosce nella sua personale stretta di mano, che stringeva senza stringere, un delicato passaggio di benedizione e di rispetto, più che un saluto. La benedizione della mano era il tocco leggero della dedizione del cuore. « Fecondità invisibile e inafferrabile – prosegue Francesco, citando 2Tim 1,12 – che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia». La dedizione, che mai si inorgoglisce del dono, rifiuta di requisirlo come privilegio personale e di convertirlo in prebenda clientelare. Una simile limpidezza interiore del cuore, unita al tratto di uno spirito gentile – commenta Francesco – espone alla stanchezza dell’intercessione, al logoramento dell’unzione: mette alla prova di una bontà che deve lottare con la malizia, e di una fraternità ferita dalla mancanza di dignità. La prova non fu risparmiata al Signore. Non verrà risparmiata ai suoi Discepoli. Pietro per primo. Il Signore provvede, generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e affidarsi al di là delle incomprensioni. E lo Spirito della ricerca appassionata e della gioiosa bellezza del Vangelo, ispira ogni volta la decisione opportuna, procura ogni volta la consolazione necessaria. Dovremo congedarci il più rapidamente possibile dall’aneddotica delle immagini di scena e delle indiscrezioni di retroscena. E incominciare a leggere e a rileggere il prodigioso lascito di testi nei quali il teologo Joseph Ratzinger ha finemente cesellato, in favore della fede e della testimonianza, la sapienza nella quale egli ha saputo filtrare come illuminazione e restituire in benedizione la sua lotta con l’Angelo. La profondità e la potenza della sua passione per l’intelligenza che orienta la fede ha occupato interamente anche il ministero del pontefice Benedetto XVI. È questa la speciale qualità della sua eredità, destinata a durare nel tempo, come il tesoro dello scriba che si fa discepolo del regno di Dio: dal quale trarre con grata ammirazione cose antiche e cose nuove (Mt 13, 52). « Deus caritas est», ha scritto papa Benedetto. « L’amore non si perde», ha concluso papa Francesco. Nostro, rimane il lieto compito di essere «profumo della gratitudine e unguento della speranza», che conferma la preziosa eredità ricevuta. E così sia, « Benedetto, fedele amico dello Sposo».
Omelia di Papa Francesco «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro – potremmo dire –, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli. Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso (Gv 20,27), e lo dice ad ognuno di noi: “Guarda le mie mani”. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso (cfr 1 Gv 4,16). [1] «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio (cfr Is 29,16) il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù (cfr Fil 2,5). Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”. [2] È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo, corpo che si offre per voi (cfr Lc 22,19). La synkatabasis totale di Dio. Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare (cfr 1 Pt 1,6-7) e l’invito fiducioso a pascere il gregge (cfr Gv 21,17). Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità (cfr Eb 5,7-9). In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia (cfr 2 Tim 1,12). Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio (cfr Gv 21,18): «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza». [3] E anche dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate 57), nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre (cfr Lc 1,54-55). Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr Mt 25,6-7). San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato. [4] È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”. Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce! [1] Cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1. [2] Cfr Id., Omelia nella Messa Crismale, 13 aprile 2006. [3] Id., Omelia nella Messa di inizio del pontificato, 24 aprile 2005. [4] Cfr ibid.
Libertà, scienza, ragione «debole»: Ratzinger al cuore del secolarismo di Vittorio Possenti Con la scomparsa di Benedetto XVI idee e ricordi emergono dallo scrigno della memoria, evocando il lungo dialogo (a distanza e talvolta di persona), iniziato prima del 1980, che ebbi con il cardinale Joseph Ratzinger. Sul piano teologico e sapienziale Benedetto è stato un grande Maestro di scrittura e di parola, il cui insegnamento nella comunicazione della fede non tramonterà. Oggi sento la responsabilità di condensare in breve spazio un discorso immenso concernente il lascito teologico e intellettuale del Papa emerito: quale eredità per la Chiesa che verrà! Uno dei massimi compiti di Ratzinger fu di porre costantemente in dialogo fede e ragione perché si riconoscessero e potessero compiere almeno in parte un cammino comune. È la prospettiva dell’enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II (1998) e preparata da una commissione presieduta da Ratzinger stesso. La Fides et ratio sembra oggi, dopo qualche attenzione iniziale, un documento dimenticato. La restrizione della ragione umana entro i limiti dello scientismo e del libertismo, e gli eccessi della ragione debole hanno contribuito a metterla da parte. In merito, ficcanti sono le diagnosi di Ratzinger a Subiaco (1° aprile 2005), in cui egli descrive acutamente la cultura illuminista: «Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha finalmente completa coscienza di sé stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi come compiuta in sé stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso altri fattori culturali». È come se tale cultura dicesse: abbiamo la ragione, la scienza e la tecnica dalla nostra e questo costituisce il massimo, né vi è bisogno di altri apporti. Ratzinger solleva poi la questione se le «moderne filosofie illuministe, complessivamente considerate, si possano ritenere l’ultima parola della ragione comune a tutti gli uomini. Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che alla fine Dio non può avere in esse alcun posto. Esse sono basate su una autolimitazione della ragione positiva, che è adeguata all’ambito tecnico, ma che, laddove viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo». La quaestio de veritate, coniugare fede e ragione in modo che entrambe dialoghino e si innalzino, fu segno distintivo della teologia di Ratzinger, dove non ha parte la ratio a una sola dimensione che soffoca lo slancio naturale della mente verso il vero, nel cui ambito rientrava per lui, come per Paolo VI e Giovanni Paolo II, la verità sull’uomo. Il primo annunciava l’hominem integrum e l’altro racchiudeva in una nitida formula la missione della Chiesa: «La verità che dobbiamo all’uomo è soprattutto una verità sull’uomo». Nel campo teologico-politico, in una solida vasta consapevolezza del ruolo globale della Chiesa universale, fu primario per Ratzinger-Benedetto XVI il Problema Europa cui dedicò un’attenzione partecipe e critica, ben avvertendo la crisi spirituale e la devastazione della secolarizzazione. Molti grandi discorsi di Benedetto (Parigi, Londra, Berlino, Ratisbona, etc.) toccano questi nuclei, in cui emergono i temi dei diritti e doveri umani e della libertà. I diritti sono finalizzati solo alla libertà di scelta dell’io isolato e non inserito entro la società? Esistono diritti primari che non siano diritti di libertà? Il discorso di Subiaco, ma anche quello all’Onu (2008), hanno richiamato l’indebita preminenza dei soli diritti di libertà nelle culture illuministiche: «Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta in dubbio proprio questo canone». La concezione libertaria o libertista dei diritti ha impregnato profondamente di sé la cultura e i popoli occidentali, sino al punto che capi di Stato auspicano che il diritto all’aborto sia scritto a chiare lettere nella Carta europea. Se così dovesse accadere, il tradimento della Dichiarazione universale del 1948 sarebbe alle porte: l’occidentalismo libertario sta mettendo a serio rischio il tessuto stesso di tale Dichiarazione. La questione da sollevare una volta di più non riguarda se occorra ampliare o restringere l’area della libertà, tema che rimane generico, ma come educare a un’idea di libertà più vera e ricca di quella che ne vede l’unica manifestazione nell’autodeterminazione e nel servizio alla libertà del singolo, che nega o comprime le relazioni sociali e il riconoscimento dell’altro. Ciò porta a lasciare da parte il compito dell’edificazione morale dell’uomo e del cittadino. Ratzinger solleva la questione se le moderne filosofie antropocentriche e succubi del mito del progresso non abbiano perso il senso del limite umano, che in civiltà diverse da quella occidentale è invece rimasto come monito contro l’hybris. Negli antichi vi era reverentia e non superbia verso il divino, e si era consapevoli della propria finitudine. Oggi è diverso: l’ala marciante del pensiero occidentale profondamente secolaristico ha messo da parte il principio di realtà e procede guidato dalla volontà di potenza. Vuole costruire l’uomo nuovo non più con la rivoluzione politica ma con quella tecnologica. Non siamo perciò usciti dall’antropocentrismo moderno, che anzi si prolunga nella postmodernità in maniera estesa e con nuovi miti. Chi offendiamo menzionando Dio anche in pubblico? Il secolarismo europeo accampa l’assunto che offenderemmo gli appartenenti alle altre religioni. Ratzinger osserva: «non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio». La lezione teologico-politica di Benedetto XVI sulla presenza dei cristiani nella società secolarizzata punta sulla necessità di minoranze creative o profetiche. Il suo sguardo va, oltre che ai cristiani, verso i fedeli della religione ebraica. Si esprime in un invito discreto all’ebraismo, alle sue minoranze creative, a cooperare affinché la luce divina non scompaia dalla storia universale e il mondo non entri nel buio della mancanza di senso. Su questo nucleo è importante il suo Discorso alla Sinagoga di Roma, durante la visita del 17 gennaio del 2010. «Come insegna Mosè nello Shemà e Gesù riafferma nel Vangelo, tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi… Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza». Il Papa si trovò in sintonia con il grande Rabbino di Londra Jonathan Sacks che, ponendo il problema della famiglia in dissoluzione, osservava con forza che gli europei sono troppo egoisti per avere figli, e che tale egoismo stava uccidendo l’Europa secolarizzata. La decostruzione della famiglia all’insegna del libertismo e del ricorso manipolante alle tecnologie è tuttora una piaga aperta. Nel testamento spirituale del 29 agosto 2006, reso noto alla morte del Papa emerito, Benedetto si rivolge al popolo di Dio, esortando a rimanere saldi nella fede, a non farsi confondere da discorsi provenienti dalle scienze naturali e dalle scienze storiche che sembrano in contrasto con la fede ma che poi esse stesse abbandonano, lasciando viva la pretesa di ragionevolezza della fede. Benedetto, invitando a non perdere l’orizzonte secondo cui Cristo è la via, la verità, la vita, ricordava una bella frase di Tertulliano: «Cristo non ha detto di essere l’abitudine, bensì la verità».
“Parto con una premessa: ho pensato per tanto tempo a questa gemma perché sapevo che sarebbe stata l’ultima, quindi volevo fosse qualcosa di veramente importante per me. Lei si chiama S., non è una mia amica, non è la mia migliore amica, non è quel tipo di amica che si dice spesso “è come una sorella per me”. S. è la mia fidanzata, ed è la mia gemma da ormai 2 anni e mezzo. Ora, chiamatemi prevedibile, sentimentale, monotona, ma dopo averci pensato a lungo, la gemma che mi sono sentita in dovere di portare è S., perché tutto questo tempo mi ha accompagnata ogni giorno, mi ha tenuto compagnia e non mi ha fatta sentire sola. A me piace tanto stare da sola, in pace, ma ho paura di sentirmi sola e rimanerci effettivamente. E soprattutto nel 2020, nei mesi del lockdown, rimanevo sempre sola. Poi a maggio ho conosciuto S., che mi ha scritto su tiktok dopo una live di una ragazza americana dove aveva letto i miei commenti. Sofia non abita qui a Udine, lei vive a Catania. Mi ha scritto perché, nei commenti della live, le avevo risposto che anche io ero nata a Catania. Ho portato S. come mia gemma perché voglio ringraziarla per tante cose. Scrivendoci e parlando per tutte le nostre giornate è stato veramente facile innamorarsi, il problema era prendere coraggio per ammetterlo. Voglio ringraziare S. innanzitutto per avermi fatto conoscere e accettare una grande parte di me che tendevo ad opprimere, mentre anche lei stava conoscendo sé stessa. La ringrazio perché è sempre stata in grado di consolarmi quando le cose a casa non andavano bene, e capitava (e capita) molto spesso. La ringrazio perché è paziente e, con me, ce ne vuole tanta di pazienza. La ringrazio perché nonostante prima di metterci insieme mi avesse detto che non voleva relazioni a distanza, mi aspetta sempre e sta ancora aspettando che io torni da lei definitivamente quest’estate. La ringrazio perché metterà da parte il suo terrore per gli aerei, e per mia madre, per venire a trovarmi per il mio compleanno. Ma soprattutto la ringrazio perché mi ha insegnato che non devo vergognarmi, né cercare di nascondermi quando siamo fuori, circondate da persone che non conosco. Mi ha insegnato a sentirmi tranquilla e spensierata com’è giusto che sia, ignorando possibili occhiate o commenti da parte di persone che, nella mia vita, non avranno mai più importanza della mia libertà e felicità. Voglio concludere leggendo dei versi di Catullo, che penso si colleghino alla perfezione con questo e che sono abbastanza autoesplicativi: “Viviamo, mia Lesbia, ed amiamoci E i brontolii dei vecchi austeri Valutiamoli tutti insieme due soldi. Il sole può tramontare e tornare Ma noi, quando è terminata la nostra breve luce Dormiremo una sola notte perpetua. Dammi mille baci, e poi cento Poi dammene altri mille e altri cento E poi ancora mille e altri cento. Quando ne avremo fatte molte migliaia Li confonderemo per non sapere il loro numero, Affinché nessuno possa farci il malocchio Sapendo un numero così enorme di baci.” -Carme V, Catullo
“L’idea di portare questa gemma mi è venuta in mente passeggiando per le strade decorate di Udine ed ho pensato subito al fatto che si stia avvicinando il Natale, e che io non me ne stia quasi accorgendo. Mi sono ritornati in mente tutti i Natali trascorsi, soprattutto quelli di quando ero più piccola. Era davvero un periodo bellissimo perché l’atmosfera, la musica mi facevano stare bene ed ero molto felice. Mi sono sempre piaciuti di più i giorni precedenti piuttosto che il giorno in sé, anche se lo passavo con la mia famiglia, perché quella giornata sembrava che durasse davvero poco. Ora che ci penso mi dispiace di non riuscire più a sentire questa atmosfera come una volta, e al contrario di quando ero bambina, non sono più felice spontaneamente in questo periodo che mi fa pensare troppo a tutto. Vorrei riuscire a vivere a pieno ogni momento, perché anche se non lo rivivremo mai più, diventerà un bellissimo ricordo” (S. classe terza).
“Come gemma ho deciso di portare dei collage della mia estate, ovviamente non possono esserci tutte le foto ma ho inserito solamente le esperienze e i luoghi del cuore che sono stati fondamentali nella mia estate. Quest’anno è stata molto importante, direi un periodo di ripresa non solo a livello mentale ma anche a livello fisico. Dopo la fine della scuola mi trovavo sfinita, senza energia, dimagrita e avevo bisogno di rallentare, di prendermi dei momenti per me stessa e cercare di recuperare, di essere felice e di non far preoccupare le persone che mi circondano. Ho potuto collezionare nuove esperienze come si può vedere nel primo collage, ho partecipato ai miei due primi concerti ma ovviamente sono contate anche le amicizie che ho cercato di mantenere durante questi mesi. Un’altra esperienza è stata proprio la visita al museo della Ferrari a Maranello, essendo una grande tifosa. Ho ricominciato a disegnare sperimentando nuove tecniche e nuovi materiali. Ho approfittato per ricominciare a viaggiare insieme alla mia famiglia, per rigenerarci e prendere una boccata d’aria. Altri luoghi del cuore sono il Tagliamento, mi trasmette sempre serenità, tranquillità sentendo lo scorrere dell’acqua ma anche la località Valinis, questa montagna conosciuta per essere il punto di partenza dei parapendii. Quando ci vado provo un grande senso di libertà e spensieratezza di fronte alla vista dell’intera pianura friulana. Infine c’è la Toscana, il luogo dove sono felice, mi rilasso e mi rigenero, la mia seconda casa con la mia seconda famiglia. Ho voluto aggiungere anche le foto del cibo perché dopo aver consumato molte energie durante l’anno scolastico dovevo riprendere un po’ di sostanza persa” (A. classe quarta).
“Il circo, la mia vita. Il mio bisnonno paterno L. P. Z., cinese da Hong Kong, inizia a girare il mondo come attore e acrobata del teatro cantonese, arriva in Europa e conosce la sua futura moglie E. C., di origine nativa americana, con la quale avrà 5 figli. Insieme iniziano una vita da nomadi girando per i circhi europei. È una vita bellissima: costumi, trucco, parrucco, monta e smonta, i luoghi che si visitano, gli animali esotici che si vedono, una vera avventura! Poi però mio nonno conosce R. L., la mia nonnina italiana, lei è giostraia, suo papà è il fondatore della piazza mercato dedicata al Luna Park Adriatico a Bibione. Allora tutta la famiglia si stanzia lì, abbandona la vita del circo ma intraprende quella delle giostre o come diremmo noi in greco “il mestiere”. Poco è cambiato, E. ogni mattina si trucca ancora come se dovesse scendere in pista, e la sua scimmietta corre per la casa con indosso i suoi tacchi. Solo che pian piano i fratelli W., D. e Q. crescono e il mondo cambia, così, ormai stanchi dei viaggi vendono anche le loro giostre. Io, E., e mia sorella S. decidiamo di riprendere la tradizione circense della famiglia e ci trasferiamo a Verona all’Accademia d’arte circense. Viviamo lì in convitto per quattro anni e una volta diplomate torniamo a casa. L’accademia è un posto magico. Fondata nel 1988 dal grande Egidio Palmiri, un uomo severo ma dedito al mondo del circo, a tal punto da realizzare un progetto mai visto in Italia e che pochi in tutta Europa siano mai riusciti ad eguagliare. Lo scopo è dare ai giovani artisti, circensi di famiglia o anche solo appassionati, una formazione professionale, certificazioni e slanci sul lavoro post-diploma di quattro anni, ma soprattutto l’opportunità non poco scontata di poter studiare in modo continuo nelle scuole pubbliche. Vivere in accademia è proprio come vivere in una famiglia circense, le nostre giornate iniziano presto la mattina perché tutti grandi e piccini dobbiamo andare a scuola, poi quando torniamo si pranza in sala mensa, veloci eh! Perché poi il pomeriggio abbiamo poco tempo per fare tutti i nostri compiti. Dalle 16:00 alle 19:30 ci si allena, il primo anno corso base dove si prova un po’ di tutto e poi la specializzazione di tre anni. Le discipline insegnate sono: cerchio/tessuto/cinghie aeree, trapezio, trampolino, giocoleria, verticali, giochi icariani, mano a mano contorsione, rullo, antipodismo. Finito l’allenamento si corre a fare la doccia, è una gara perché proprio come nel circo l’acqua calda finisce presto e le camere più sfortunate sono da tre, quindi ci si deve sbrigare sennò acqua fredda! Parliamo delle camere: sono i classici container 4×4, sapete quelli in cui andate a fare i tamponi del Covid, ecco esatto, quelli. Grigi, piccoli, un letto a castello e uno singolo, due armadi e il bagno, finito il tour. Divertente no? Una simulazione, sembra divergent! Ma è tutto vero. Dopo la cena noi ragazzi abbiamo un’ora e mezza di tempo in cui possiamo rilassarci e in cui ci vengono consegnati i cellulari per chiamare casa, eeee già, niente telefoni li ragazzi! Poi alle 22:00 tutti a nanna e alle 22:30 guai se ci sono ancora luci accese, non si scappa, alle porte ci sono gli allarmi. Io e mia sorella siamo le L. S., ci siamo specializzate in realtà fin da subito nelle specialità Hand to Hand: consiste in prese e verticali a due, poi singolarmente facciamo anche, io, dancing trapeze (una particolare tipo di trapezio) e mia sorella S. il cerchio aereo grande. Amiamo la vita del circo, non vediamo l’ora di aver finito gli studi per iniziare a lavorare!” (E. classe quarta).