Gemma n° 2225

“Come gemma ho deciso di portare quella che all’apparenza potrebbe sembrare una semplice maglietta verde rovinata da segni di pennarello indelebile, una canzone e un video di quest’estate.
Questa maglietta non è così semplice; si tratta, in realtà, di un bellissimo ricordo che conservo gelosamente da questa estate. Come ogni anno, partecipo ad un centro estivo: il grest di Tarcento. Qui ho vissuto importanti esperienze, sono cresciuta e ho imparato molto. Quest’anno sono riuscita a vivere appieno l’estate, cosa che non sono mai stata in grado di apprezzare nemmeno durante la mia infanzia. Questa maglietta porta con sé l’odore delle calde giornate estive passate sotto al sole, senza cellulare e circondata da persone diverse e meravigliose, le quali mi hanno lasciato (ognuna a modo suo) qualcosa di importante: ricordi. Questa maglietta mi ha accompagnato per tutto il mese di luglio e mi ha permesso di conoscere un lato di me stessa di cui non ero a conoscenza, un lato attivo ed estroverso, pieno di sicurezza e voglia di vivere, voglia di sperimentare cose nuove e senza alcuna paura o ansia. Ho iniziato questo percorso con molti dubbi e tante incertezze, e ne sono uscita profondamente cambiata, mi sono sentita libera e fiera di ciò che sono riuscita a costruire in un solo mese, il mese di luglio. Sono molte le date a cui continuo a pensare sperando di poterle così assaporare ancora un’ultima volta. È stata l’estate migliore di tutta la mia vita, e non sto esagerando. Questa maglietta mi ricorda di tanti bambini e tanti cari amici che, in occasione dell’ultima giornata hanno firmato questa maglietta riempiendola di dediche e tanto tantissimo affetto.
Ho deciso anche di portare una canzone, la quale rappresenta un importante pezzo della mia estate, il mese di agosto, passato con la mia famiglia e in compagnia di cari amici: Buon viaggio (Share the love di Cesare Cremonini” (C. classe terza).

Gemma n° 2223

“Per la mia gemma ho deciso di portare una foto ed una canzone che scatenano in me emozioni opposte tra loro.
La foto, infatti, l’ho scattata quest’estate in un momento in cui ero veramente felice: stavo facendo da capo animatore e capo squadra ad un centro estivo e per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo veramente voluta bene. Adoravo far ridere i bambini, prenderli in braccio e farli giocare. Adoravo sentire loro vocine che mi dicevano “Maestra ti ho fatto un braccialetto!”, “Maestra guarda che bel fiore!”, “Maestra sai che oggi faccio 7 anni?” e poi vederli fare un 5 con le dita. Adoravo sentirmi utile ma soprattutto adoravo non sentirmi sola.
Eppure, nonostante questi ricordi, questa è stata la peggiore estate della mia vita: sono successe varie cose e mi sono sentita abbandonata. Non per forza lo ero ma la mia testa mi convinceva che io non meritassi nulla di buono, che io non mi meritassi di essere ascoltata o che qualcuno potesse volermi davvero bene. Spesso è ancora così.
Mi sono sentita sola anche se magari non lo ero.
Molte persone se ne sono andate dalla mia vita, anche persone con cui avevo pensato mille idee che avremmo dovuto mettere in pratica proprio quest’estate.
Per questo, oltre alla foto, ho scelto di portare la canzone All I Want dei Kodaline.

Per molti questa canzone parla di una storia d’amore finita ma per me parla di un qualsiasi tipo di rapporto che si è concluso per un qualsiasi motivo.
A volte non riesco a fermare i pensieri e la mia mente inizia ad andare a 100km/h senza lasciarmi il tempo di respirare ed è esattamente in quei momenti che mi sento totalmente sola: non trovo infatti la forza o il coraggio di chiedere aiuto, non perché io pensi di essere invincibile ma perché non credo di meritare il tempo di nessuno.
Questa canzone la dedico anche un po’ a me stessa perché un giorno vorrei poter rivedere il mio sorriso senza che nella mia mente compaia il pensiero “Mi merito davvero di star sorridendo? Mi merito davvero di essere felice?”.
Tutto ciò che vorrei è riuscire a ritrovare me stessa e di conseguenza, a non sentirmi più così sola ma, guardando questa foto, ogni tanto mi ricordo che anche io ho qualcosa di buono dentro di me” (S. classe quarta).

Gemma n° 2167

“Ho scelto di portare questo braccialetto come gemma perché mi è stato regalato quest’estate da una bambina che frequentava l’oratorio estivo in cui sono animatrice ed è diventato molto importante per me. Mi ricorda l’estate e il tempo passato con i bambini e i miei amici” (M. classe terza).

Gemma n° 2137

“Io, G., come gemma ho deciso di portare questo quadro che mi ha disegnato mio nonno. Sono io, da piccola, seduta sulla scacchiera mentre gioco con i pezzi degli scacchi. Ne ha disegnato uno simile con mio fratello quando lui era piccolino: ha iniziato il mio nello stesso modo ma ha dovuto fermarsi per problemi di salute. Infatti ha finito di disegnarlo quando io avevo circa 11 anni e appena mi ha mostrato il quadro finito sono scoppiata in lacrime di gioia. Adesso questo quadro è appeso in soggiorno, insieme a quello di mio fratello. In questo momento mio nonno è in una situazione difficile ed è bloccato in ospedale, ma lui e questo quadro hanno un posto speciale nel mio cuore” (G. classe terza).

Gemma n° 2083

“Ho portato questo disegno perché è stato fatto da una bambina dell’asilo che alleno come regalo per Natale e da quel giorno l’ho sempre tenuto all’interno della mia cover del telefono per portarlo sempre con me. In quel periodo stavo poco bene e questo regalo mi ha resa felice e mi ha fatto capire quanto sono fortunata a stare con quei bambini. Quando ho iniziato questo percorso avevo molta paura di non fare le cose giuste e di non piacere ai bambini, ma col passare del tempo ho ricevuto sempre più amore da parte di tutti e continuano a riempirmi di regali, letterine e caramelle. Ogni giorno mi insegnano qualcosa di nuovo sia le bambine dell’asilo ma soprattutto le ragazze grandi. Per me ha un valore enorme e leggere ogni giorno quel “CARA MAESTRA…” mi emoziona tantissimo” (I. classe quarta).

Gemma n° 1952

“Inizialmente avrei dovuto portare un’altra cosa, poi in questi giorni ho deciso di cambiare. Mercoledì scorso io e la mia famiglia ci siamo svegliati con una notizia che mai avremmo pensato di ricevere. Mia cugina doveva essere operata al cuore, ma l’intervento era andato male perciò avrebbero dovuto trapiantargli un altro cuore e se non lo trovavano entro 5 giorni le avrebbero staccato le macchine. Alla fine ce l’ha fatta. Quei giorni di attesa sono stati struggenti e non passavano più, volevamo solo che finissero. Credo in quei giorni di avere realmente capito quanto il tempo sia importante, e che non vada sprecato. Penso che una persona riesca a capire il valore della vita solo provando certi dolori. Tante volte, anche se non sembra, diamo per scontate tante cose, è difficile pensare che una persona un giorno c’è e il giorno dopo potrebbe non esserci più. Spesso ci perdiamo in cose che non hanno un senso quando in realtà i veri problemi sono altri. Quello che voglio dire è che è inutile sprecare il tempo dietro a  sciocchezze e dovremmo vivere con più felicità, spesso prendendo esempio dai bambini che riescono ad essere felici con le piccole cose. Per questo ho deciso di portare un disegno fatto dal figlio di mia cugina qualche giorno fa; mentre disegnava continuava a chiedere di sua mamma non sapendo che non la potrà vedere per un po’, ed è comunque riuscito ad essere felice in quel momento semplicemente disegnando. In più vorrei aggiungere che non riesco a capire perché alcune persone preferiscono investire su una guerra, come nell’attuale caso, che potrebbe essere evitata, invece di trovare cure per le malattie, stanno distruggendo intere famiglie, ma soprattutto il futuro dei bambini e dei ragazzi.”

Mi soffermo sull’attenzione che S. (classe terza) ha posto sul disegno del figlio di sua cugina e sul collegamento che ha fatto alla fine della sua gemma con l’attuale situazione. Anni fa mi è stato regalato un volume fotografico sull’attività nel mondo di Emergency: fotografie, numeri, frasi. Sfogliandolo in questi giorni ne ho sottolineate tante, ne riporto una dello storico greco Erodoto: “Nessuno è tanto privo di senno da preferire la guerra alla pace: ché in questa i figli seppelliscono i genitori, in quella i genitori i figli”. Lo stesso avviene quando si considera la vita in generale: ce ne dovremmo andare “in ordine cronologico”, soltanto una volta raggiunta una certa età… ma sappiamo bene che così non è.

Gemma n° 1803

Fonte immagine

“Da gennaio sono diventata zia e come gemma ho portato un po’ di foto della mia nipotina. Da piccola avrei sempre voluto avere una sorellina, invece ho avuto due fratelli parecchio più grandi di me e non ho cugini o cugine della mia età di età inferiore. Adesso è come se fosse arrivata… Penso che si creerà un bel rapporto: spesso con me si calma e si rilassa quando la tengo in braccio. Devo anche confessare che all’inizio ero un po’ gelosa perché sono sempre stata molto attaccata a mio fratello e lei ha un po’ preso il mio posto”.

Ecco la gemma di S. (classe quinta). Penso che Vincent Van Gogh abbia ben espresso la beatitudine dell’infanzia e il senso di incommensurabile che da lì si sprigiona: “Io penso di vedere qualcosa di più profondo, più infinito, più eterno dell’oceano nell’espressione degli occhi di un bambino piccolo quando si sveglia alla mattina e mormora o ride perché vede il sole splendere sulla sua culla”.

4. Proteggi i bambini e gli anziani

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi.
Il quarto è esplicato da Francesca Balocco, docente di teologia sistematica a Forlì, appartenente alla Congregazione delle suore Dorotee. Lo si può trovare a questo link.

“Ricordo un proverbio: il vino buono sta nella botte piccola. Un proverbio usato, a volte, non per esaltare il vino ma per giustificare la piccolezza, come se non fosse abbastanza degna di essere vissuta o abbastanza bella per essere guardata e avessimo bisogno di riempirla con qualcosa di molto buono, per superare il disagio che il piccolo porta in sé. Dovrebbe essere naturale custodire il bambino, così come naturale dovrebbe essere la premura nei confronti dell’anziano, fasi della vita che sono la manifestazione di ciò che è piccolo, precario, debole, vulnerabile…, ma forse non è più così naturale se abbiamo bisogno di un «comandamento» per tutelare l’essere umano nel suo affacciarsi alla vita e nel suo congedarsi da essa. L’inizio e la fine della vita sono l’esposizione, senza filtri, dell’estrema debolezza che caratterizza la nostra umanità. Si nasce e si muore nel segno della fragilità del limite, in quegli istanti indisponibili della nostra vita che ne delimitano il corso nel tempo. Ecco perché i bambini così come gli anziani mettono alla prova la nostra com-passione, la nostra capacità di accogliere ed entrare in un mondo che lascia con forza emergere i bisogni. Il piccolo – di qualunque età – chiede e ci interpella ponendoci davanti al dramma di una decisione: rispondere o ignorare la sua voce. I piccoli dicono, a noi e a loro stessi, la loro esistenza attraverso la fame, la sete, il pianto… restando poi in attesa di qualcuno capace di rispondere a questo grido che in alcuni casi tradisce l’aridità degli affetti.
La custodia dell’indisponibile passa anche dalla capacità di cura di ciò che è piccolo in noi nella nostra vita, in ciò che appartiene alla nostra storia, in ciò che ha una prospettiva di crescita o in ciò che a poco a poco stiamo perdendo. Ma la custodia nei confronti di coloro che necessitano di tutela non può essere semplicemente imposta: è necessario riscoprire la possibilità di chinarci sul loro mondo e guardare la realtà dal loro punto di vista, liberandoci dall’inganno che ci porta a credere che il limite non appartenga alla nostra esperienza di pienezza di umanità. L’infanzia negata o la tarda età denigrata esprimono la violenza che si genera dall’incapacità di riconoscere la dignità del limite e della debolezza. Custodire l’indisponibile significa proteggere la vulnerabilità tanto del bambino quanto dell’anziano,  riappropriarci della possibilità di essere traccia luminosa capace di custodire affettuosamente ed efficacemente la fragilità degli estremi della vita umana.” 

Lui chiamare me fratello

“laggiù dove le montagne si tuffano nel mare e la gente non ha mai sentito parlare della guerra e del fratello che uccide il fratello…”
Utilizzo Twitter in maniera poco social: praticamente non ho interazioni. Ogni tanto pubblico qualcosa, la maggior parte delle volte lo uso come strumento di scoperta. Come in questo caso… Grazie a un articolo di Maria Elena Murdaca su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa ho scoperto il libro Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso di Anatolij Pristavkin, la storia di due orfani russi che si ritrovano coinvolti nelle tragiche vicende del 1944 conseguenti alla deportazione forzata dei ceceni ad opera di Stalin.

“… è un romanzo di recupero della memoria, ambientato all’epoca di una delle pagine più nere della storia dell’Unione Sovietica: le deportazioni staliniane durante la Seconda guerra mondiale. Gli spostamenti obbligati di intere popolazioni, ancora oggi, rimangono un evento poco conosciuto dal grande pubblico. L’opera, ricca di spunti autobiografici, racconta l’esodo di massa dal punto di vista di una categoria particolare di deportati: i russi. Le varie etnie caucasiche tramandano l’epopea di generazione in generazione, alimentandone il ricordo: ogni nazionalità ha il proprio giorno della memoria (il 23 febbraio per i ceceni, l’8 marzo per i balkari).
Diversamente, il trasferimento forzato, o quantomeno fortemente incentivato, dei russi non è rimasto impresso nella memoria nazionale collettiva, né gode della considerazione di tragedia. Ciò non cambia il fatto che lo fu. A essere trasferiti nel Caucaso, per modificarne la composizione etnica, dopo lo sradicamento delle popolazioni autoctone, furono gli indifesi. Sfilano, nella narrazione, orfani, vedove, mutilati, invalidi, persone sole, ognuna di loro con una storia di miseria e solitudine, come l’educatrice Regina Petrovna:
“Le mogli degli aviatori rientrati a casa dovevano andare dalle famiglie di quelli che non erano tornati. Era la regola. La cosa più terribile era entrare in una casa, dove ancora non sapevano niente, e far finta di esserci capitate per caso. […] E le mogli degli altri piloti vennero da me […] I tedeschi si avvicinavano: il nostro villaggio di aviatori fu trasferito. Non avevo nessun motivo per seguire gli altri. Ero vedova e per di più con la responsabilità dei due piccoli… Sono andata all’orfanotrofio, dove i miei bambini sarebbero stati insieme a quelli degli altri, e io me la sarei cavata più facilmente. Si faceva la fame! Poi ho deciso di venire quaggiù… pensando che sarebbe stato un po’ più semplice”
O, ancora, Demjan, un altro diseredato:
“Si ricordava del giorno in cui, ricoverato in un ospedale militare nei dintorni di Bijsk, una città della regione dell’Altaj, era andato al fiume con l’intenzione di annegarsi: aveva ricevuto una lettera dove gli comunicavano che sua moglie e i suoi figli erano stati bruciati vivi dai nazisti nella loro isba… E lui era storpio e ormai non serviva più a nessuno […] Ad un tratto la dottoressa disse che nel Caucaso c’erano terre fertili e disabitate. Aspettavano gente che le lavorasse. Perché non provare!…”
Attraverso le rocambolesche avventure dei gemelli Saška e Kol’ka Kuz’min, due scavezzacollo russi spediti in Caucaso alla colonia, Pristavkin rielabora e ripropone la propria esperienza.
“Naturalmente i Kuz’min non sapevano che gli organi regionali avevano avuto la bella idea di decongestionare gli orfanotrofi dei dintorni di Mosca – nella primavera del ’44 ce n’era un centinaio sparso per la regione. A questi ragazzi andavano aggiunti i besprizornye, che vivevano alla bell’e meglio dove capitava.”
I Kuz’min, Saška e Kol’ka, pur essendo identici, indistinguibili e inseparabili, non conoscono il significato del termine “famiglia”, che a loro risulta sempre ostile. In compenso, tutto il loro notevole ingegno è teso al procacciamento di generi alimentari allo scopo di non morire di inedia, tanto a Tomilino, nei dintorni di Mosca, quanto nel fertile e ricco Caucaso. Per questo motivo le loro trovate e la loro inventiva non suscitano il riso: la morte per fame incombe ad ogni momento su di loro, e per il lettore è impossibile dimenticarsene.
Con l’intento di recuperare un tassello, Pristavkin sottolinea vigorosamente come la sofferenza e le prevaricazioni subite da russi e ceceni siano parallele e di eguale intensità. Il “gemellaggio” fra russi e ceceni, entrambi vittime del medesimo tiranno, è incarnato dal personaggio di Alchuzur, giovane ceceno, orfano a causa dei soldati russi, che subentra a Saška, a sua volta vittima della crudele rappresaglia cecena, fino ad assumerne la funzione di “gemello” e persino il nome, al fianco del superstite Kol’ka.
“Nel nostro dormitorio c’erano anche due fratelli, i Kuz’min, che noi chiamavamo i gemelli Kuz’min. E benchè non si somigliassero affatto: uno era un vero russo, biondo col naso all’insù, l’altro era scuro e aveva i capelli neri, corti, gli occhi neri e spiccicava soltanto qualche parola in russo… ma i gemelli Kuz’min affermavano, anche se nessuno glielo chiedeva, di essere fratelli di sangue!”
Lo struggente sodalizio fra Kol’ka e Alchuzur-Saška, in uno scenario desolato e dolente, è il mezzo che assicura a entrambi la sopravvivenza, in una realtà di guerra, in cui essere bambini e innocenti non offre alcuna garanzia, e russi e ceceni possono essere egualmente crudeli.
“- Giù! – gridò forte l’uomo. O sparo!
Puntò nuovamente il fucile su Kol’ka e Kol’ka si distese a faccia in giù. Rimase immobile e sentiva urlare l’uomo e Alchuzur. Ma Alchuzur gridava forte nella sua lingua e l’uomo rispondeva in russo, sicuramente perché voleva che anche Kol’ka sentisse. Perché gli fosse chiaro che adesso l’avrebbe ucciso. […]- Ma tochna cumna!- gridava Alchuzur. -Non ucciderlo! Lui salvato me da soldati… Lui chiamare me fratello…”

Scene oniriche e di fantasia intridono tutta la narrazione, che ha un tono malinconico e nostalgico: mentre la nostalgia del ceceno Alchuzur ha per oggetto la famiglia e il villaggio, distrutti dalla guerra, quella di Saška e Kol’ka è universale, per una condizione umana da paradiso perduto in cui tutti gli uomini sono fratelli:
“- Ho fatto amicizia con Alchuzur – avrebbe detto Kol’ka.- Anche lui è nostro fratello!
– Penso che tutti gli uomini siano fratelli – avrebbe risposto Saška, e loro sarebbero andati lontano lontano, laggiù dove le montagne si tuffano nel mare e la gente non ha mai sentito parlare della guerra e del fratello che uccide il fratello”

A.A.A.

Da un po’ di tempo seguo volentieri le attività del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media all’Informazione e alla Tecnologia. Ho seguito alcuni Mooc da loro proposti e sono sempre stati corrispondenti alle mie alte aspettative. Due giorni fa Michele Marangi ha scritto un pezzo a proposito della rapida trasformazione che si sta verificando nel rapporto tra bambini e digitale. Penso che offra molti stimoli interessanti.

“… Anche alla luce delle ricerche e delle esperienze formative e didattiche svolte sul campo come CREMIT in questi ultimi anni, appare evidente che se da un lato le 3 A proposte da Tisseron – Accompagnamento, Alternanza, Autoregolazione – restino ancora dei riferimenti irrinunciabili, d’altro canto sembra sempre più  necessario considerare alcuni aspetti chiave per ripensare in modo non scontato il rapporto tra digitale e infanzia. Utilizziamo proprio le 3 A per identificarne tre principali, che vanno intrecciati tra loro.
Il tema dell’accompagnamento è spesso banalizzato in una prospettiva di pura presenza fisica dei genitori. In realtà ciò che manca è la capacità o la possibilità degli adulti di creare un confronto costante e condiviso con i figli sul senso e sui modi di utilizzo del digitale. Non si tratta solo di definire limiti orari e regole d’uso, ma di passare dal quantitativo al qualitativo, permettendo ai più piccoli di contestualizzare e situare le mille forme del digitale che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana. Non solo a parole ovviamente, ma nella prassi di ogni giorno. Ma quanto gli adulti si rendono conto e si interrogano sul loro utilizzo intensivo e pervasivo degli stessi device che vorrebbero far gestire ai propri figli?
Strettamente legato a questo aspetto c’è il tema del flusso continuo di stimoli, informazioni, occasioni e desideri che il digitale propone senza soluzione di continuità. L’alternanza appare sempre più difficile in un universo in cui il concetto stesso di alternativa sembra sempre incluso nei dispositivi e nelle strutture produttive che li definiscono. Negli ultimi cinque anni, per riprendere il lasso di tempo trascorso dall’uscita del libro di Tisseron, sono emblematiche le trasformazioni avvenute nel campo dello streaming e del gioco online. Il fenomeno dei contenuti sempre disponibili in buona qualità anche sul cellulare,da Netflix in giù, o le modalità di gioco in Battle Royale, per cui sono effettivamente online con persone vere che giocano contro di me, tendono a stimolare posture immersive da cui non è semplice “riemergere”. In questo caso, oltre al ruolo degli adulti, va considerata la praticabilità di spazi e di tempi alternativi che siano a misura dei bambini e che offrano stimoli e soddisfazioni paragonabili a quelle digitali. Ma quanti ce ne sono e che tipo di accessibilità hanno?
Infine il tema chiave che già per Tisseron era l’obiettivo più ambizioso, ovvero la capacità di autoregolarsi ,raggiungendo una piena consapevolezza sulle proprie esigenze e consumi digitali. In un mercato sempre più pervasivo che sta iniziando a mettere in produzione applicazioni domotiche ed esempi sparsi di intelligenza artificiale applicata alla quotidianità, il concetto stesso di regolazione sembra fuori luogo, se lo si declina ancora nella definizione di un semplice inizio e fine dell’utilizzo. Forse va ripensato agendo più sul concetto della capacità di previsione, che Rivoltella (2014) pone al centro dei processi di apprendimento all’interno di sistemi complessi. In questa prospettiva è giunta l’ora di non pensare più al digitale come una protesi, ma piuttosto come un elemento strutturale o addirittura una matrice di buona parte dei gesti che compiamo ogni giorno.
Probabilmente la prospettiva più strategica non sta tanto nella ricerca di regole da far rispettare (agli altri…), ma nella capacità di praticare strategie di adattamento continuo, in senso evolutivo. Possibilmente non a senso unico, ma cercando di fare in modo che i saperi pedagogici e le prassi educative trasformino le posture tecnologiche e il senso del digitale. Ogni giorno, senza fare troppo rumore.

Gemme n° 470

Questa è la gemma di S. (classe terza): “Ho scelto questa canzone non per un suo significato particolare (parla del fatto di lasciar andare il passato perché inevitabile), ma perché le sono da poco legata. Qualche tempo fa ero in cantina, dove io e mio papà facciamo un po’ di ginnastica. Di solito ascoltiamo Ligabue, il preferito di mio padre, ma alla fine del cd abbiamo messo su le canzoni che ho sul pc. Mio padre ha detto che questa gli piaceva un sacco e mi ha proposto di fare una gara di addominali sulle sue note. Era tanto che non “giocavamo” insieme come quando ero piccola: ecco perché questa canzone significa tanto”.
Neruda scrive che “Il bambino che non gioca non è un bambino, ma l’adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che ha dentro di sé”. Auguro a S. e al suo papà tante gare di addominali 😀

Gemme n° 464

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La mia gemma sembra una bolletta, ma non lo è: in realtà si tratta di un traguardo per me molto importante. Ho partecipato ad un concorso per fare volontariato in Congo. Mi hanno presa, partirò a fine luglio e starò via un mese in un ospedale pediatrico che ospita bimbi affetti da sla, aids, malaria o diversamente abili. Sono ospitati circa 800 bambini. Non so ancora bene di preciso cosa dovrò fare, probabilmente un po’ di animazione o insegnamento di grammatica basilare francese. Per me è un sogno che si avvera, sono molto contenta ed emozionata per le incognite che mi aspettano. L’idea del volontariato è qualcosa che noi tutti dovremmo perseguire nel nostro piccolo.” Questa è stata la gemma di M. (classe quinta).
Questa gemma mi è risuonata nel cuore durante questo fine settimana in cui si è celebrato a Roma il Giubileo dei Ragazzi. Riporto un brevissimo passo delle parole del papa: “… solo con scelte coraggiose e forti si realizzano i sogni più grandi, quelli per cui vale la pena di spendere la vita. Non accontentatevi della mediocrità, di “vivacchiare” stando comodi e seduti; non fidatevi di chi vi distrae dalla vera ricchezza, che siete voi, dicendovi che la vita è bella solo se si hanno molte cose; diffidate di chi vuol farvi credere che valete quando vi mascherate da forti, come gli eroi dei film, o quando portate abiti all’ultima moda. La vostra felicità non ha prezzo e non si commercia; non è una “app” che si scarica sul telefonino: nemmeno la versione più aggiornata potrà aiutarvi a diventare liberi e grandi nell’amore”.

Gemme n° 450

The Migrant Journey Through The Eyes Of An Eight Year Old Syrian Girl
Shaharzad Hassan mostra un suo disegno, fotografato nel campo profughi di Idomeni, Grecia, 18 marzo 2016 (Matt Cardy/Getty Images)

La mia gemma consiste in alcune foto dei disegni fatti da Shaharzad Hassan, una bambina di Idomeni, campo profughi in Grecia. Lei è siriana, ha 8 anni e così sta raccontando l’esperienza della diaspora siriana. Sono rimasta colpita perché i disegni raccontano la storia di questi profughi attraverso i suoi occhi. Da un lato emerge la tenerezza, dall’altro quanto loro capiscano la situazione. Penso sia una visione molto realistica dei fatti.” Questa è stata la gemma di G. (classe quinta).
Magnus Wennman è un fotoreporter svedese. In un’intervista alla CNN, presentando il proprio lavoro “Where The Children Sleep” che potete vedere qui, ha detto: “Il conflitto e la crisi possono anche essere difficili da capire , ma non è difficile capire che questi bambini hanno bisogno di un posto sicuro per dormire. Questo è facile da comprendere. Hanno perso la speranza, e ci vuole molto perché un bambino smetta di essere tale e smetta di essere felice, anche nei posti veramente brutti”.

Gemme n° 427

sahrawi

Ho portato una foto della scorsa estate, quando ho fatto l’animatrice in parrocchia durante il campeggio estivo con i ragazzi delle medie. Un giorno abbiamo avuto in visita dei bambini del Sahrawi. Non parlavano l’italiano, ma abbiamo giocato molto. Mi ha colpito la loro meraviglia nel fare giochi con l’acqua. Siamo stati felici con poco”. Questa la gemma di V. (classe quinta).
Lasciati guidare dal bambino che sei stato”, scrive Josè Saramago. Ricordarsi di esserlo stati, recuperare quella purezza di sguardo, rivivere quello stupore, quello delle prime volte.

Gemme n° 419

Ho cambiato idea in merito alla gemma da portare in classe e ho optato per qualcosa di cui recentemente si è parlato in abbondanza. Questo video parla dell’utero in affitto (non solo in riferimento all’omosessualità). Ho portato questo video perché molti non sanno come sia questo traffico di vite.

Aggiungo che a preoccuparmi è anche il fatto che ci debba essere sempre un monopolio o delle imprese che gestiscano tutto, compresa la vita. Perché creare artificialmente bambini “perfetti” su cataloghi quando ce ne sono tanti in orfanotrofio che hanno bisogno di qualcuno che li adotti? Penso che dovremmo essere meno egoisti e cercare di lottare per le persone o i bambini che hanno bisogno d’amore.” Questa è stata la gemma di D. (classe quinta).
Sono argomenti delicatissimi che non mi piace affrontare in modo superficiale o per slogan. Ho amiche e amici che hanno affrontato e stanno affrontando percorsi molto diversificati per arrivare alla maternità e alla paternità, chi attraverso la nascita di un figlio loro, chi attraverso l’adozione di un figlio che diventerà loro. Ma il concetto di maternità surrogata è troppo distante dal mio senso etico.

Gemme n° 384

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La mia gemma è un lavoretto di carta datomi sabato scorso da un bimbo di 10 anni a cui faccio catechismo: si è instaurato un rapporto profondo e mi colpisce la sua gentilezza nei confronti degli altri, cosa che non riscontro frequentemente in altre persone”. Questa è stata la gemma di C. (classe quarta).
Mi sento di dare ragione a C. riguardo alla scarsa presenza della gentilezza nella società contemporanea, tuttavia voglio riportare qui le frasi di due grandi rappresentanti religiosi contemporanei:
Tre parole chiave: chiediamo “permesso” per non essere invadenti;
diciamo “grazie” per l’amore, quante volte al giorno dici grazie a tua moglie e tu a tuo marito, quanti giorni passano senza dire grazie;
e l’ultima, “scusa”: tutti sbagliamo e a volte qualcuno si offende nella famiglia e nel matrimonio, e alcune volte volano i piatti, si dicono parole forti, ma il mio consiglio è non finire la giornata senza fare la pace, la pace si rifà ogni giorno in famiglia, e chiedendo scusa si ricomincia di nuovo.
Permesso, grazie, scusa” (papa Francesco)
La felicità non può nascere dalla rabbia o dall’odio. Nessuno dice: “Oggi sono felice perché stamattina mi sono arrabbiato assai”. Al contrario, la gente si sente a disagio e dice: “Oggi non sono contento perché stamattina ho perso le staffe”. Tramite la gentilezza, tanto al livello personale, quanto a livello nazionale e internazionale, col rispetto reciproco e la reciproca comprensione, otterremo la pace, unitamente a una genuina soddisfazione.” (Tenzin Gyatzo, XIV Dalai Lama)

Gemme n° 377

bimbi

Ogni estate, nel paese in cui abito, c’è il centro estivo; dopo averlo frequentato da utente, da un po’ di anni sono animatrice. Ho così scoperto che si può avere un buon rapporto con i bambini e che è bello quando vengono ad abbracciarti. Allora ho deciso di portare alcuni disegni che mi hanno fatto quest’anno che penso sarà anche l’ultimo per me”. Così M. (classe quarta) ha presentato la sua gemma.
Madre Teresa diceva “Non è tanto quello che facciamo, ma quanto amore mettiamo nel farlo. Non è tanto quello che diamo, ma quando amore mettiamo nel dare.” I bambini sanno leggerlo benissimo.

Gemme n° 375

cormor

Ho portato la foto scattata al Parco del Cormor degli assistenti del centro estivo della parrocchia. E’ stata per me un’esperienza molto forte: dopo due giorni avevamo già legato coi bambini. Alla fine dell’esperienza si sente la mancanza dell’essere impegnati tutto il giorno. Inoltre, ancora oggi dei bambini mi sono molto affezionati e quando mi vedono per strada mi salutano e mi saltano addosso.” Ecco la gemma di A. (classe seconda).
Christian Bobin afferma che “L’infanzia è come un cuore: i suoi battiti troppo veloci ci spaventano. Facciamo di tutto perché il cuore s’infranga. Il miracolo è che sopravvive a tutto.” Bello quando un “grande” riesce andare al ritmo di quei battiti, i bambini se ne accorgono subito e lo portano a volare con loro 😀

Gemma n° 351

La mia gemma è composta di due parti diverse. Prima un video legato ai fatti di Parigi: mi ha colpito la consapevolezza del bimbo che ci siano persone cattive, benché il papà lo rassicuri dicendogli che basta poco per potersi proteggere. Rispondere con la guerra non penso sia il modo giusto.
La seconda parte invece è una cosa personale: un mese fa ho visto una foto, ci sono stata male, poi una persona mi ha mandato un messaggio inaspettato che mi ha colpito molto per l’amicizia dimostratami.” Questa è stata la duplice gemma di M. (classe quinta).
Non mi sento di commentare un video come quello del bambino che racconta la sua paura. Ricordo che alcuni anni fa ho letto un libro sui bambini nelle guerre e sul tentativo di raccontarsi attraverso dei disegni. Non ho parole.

bambini guerra

Gemme n° 303

don't grow up

Don’t grow up, it’s a trap! Questa frase è la mia gemma. Mi rappresenta perché i bambini sono persone che ancora riescono a sognare; da adulti ci sono preoccupazione e problemi. Loro poi sono sinceri e riescono a dire le cose in faccia senza nasconderle come invece fanno certi adulti. Anche l’amicizia tra bambini è molto più sincera e forte.” Così si è espressa A. (classe seconda).
Desidero citare una canzone di Claudio Baglioni che secondo me ha un testo bellissimo. In uno dei passi canta: “io non chiedo un poco più di pane ma che tu lo mangi insieme a me e non credo che ci sia una pace mai se la pace non è dentro te e così crescendo e cercando via altrove e come e quando troveremo infine chissà la via della felicità, ogni dì crescendo e cercando sì ma dove domani o quando prenderemo insieme la scia nel tempo della fantasia”.

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