Così, solo per non dimenticarlo mai:
“Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”
(Evelyn Beatrice Hall)
anche dopo l'ora di religione
Un gruppo di sacerdoti friulani e veneti (Pierluigi Di Piazza, Udine; Franco Saccavini, Udine; Mario Vatta, Trieste; Giacomo Tolot, Pordenone; Piergiorgio Rigolo, Pordenone; Alberto De Nadai, Gorizia; Andrea Bellavite, Gorizia; Luigi Fontanot, Gorizia; Albino Bizzotto, Padova; Antonio Santini, Vicenza) scrive dal 2009 una lettera di Natale che desta spesso discussioni, dibattiti, confronti. Quella di quest’anno è sulla Chiesa. Riporto qui sotto alcuni dei punti cardine, ma invito alla sua lettura integrale qui per contestualizzare meglio ogni singola frase.
Quando si parla della Chiesa, comunemente ci si riferisce alla gerarchia: papa, cardinali, vescovi, preti, diaconi… Sono solo una parte di essa, che invece è composta da tutti coloro che – grazie al Battesimo che hanno ricevuto – sono diventati in Cristo “sacerdoti, re e profeti”, segno visibile dell’amore di Dio che fa di tutti gli esseri umani il “popolo di Dio”.
Quando la Chiesa riceve dal potere – economico, politico e militare – finanziamenti, vantaggi, privilegi e onori perde la forza profetica di denunciare con libertà la corruzione, l’illegalità, l’ingiustizia, l’immoralità, le guerre, il razzismo, nella nostra Regione manifestato anche a livello politico e legislativo. Così è avvenuto e continua ad avvenire in ogni parte del mondo, con la drammatica conseguenza che il potere si sente in questo modo legittimato, difeso, compiaciuto, incoraggiato e sostenuto.
Sarebbe, a nostro avviso, importante che Stato e Chiesa riconsiderassero l’ora di religione cattolica nella scuola. In una società sempre più multietnica, multiculturale e plurireligiosa l’insegnamento della religione dovrebbe essere concepito e proposto come insegnamento del fenomeno religioso sotto tutti i suoi aspetti, come conoscenza, obbligatoria per tutti, delle diverse religioni. Risulterebbe conseguente che la scelta degli insegnanti e la loro formazione dovrebbero seguire le modalità comuni a tutti gli altri, con titoli di studio e abilitazioni professionali di competenza dello Stato, senza la necessità di “idoneità” da parte di un’autorità religiosa. Non quindi un’ora di religione cattolica che esclude e separa, ma un’ora di insegnamento delle religioni che unisce e arricchisce.
È importante anche il compito dei teologi che devono favorire l’approfondimento delle grandi questioni nel rapporto tra fede, ragione e storia; è tanto più significativo tale compito quanto più la riflessione parte dalla realtà, non quando si svolge solo in modo teorico; quando è libero nell’approfondimento e nella proposta. La teologia della liberazione resta un esempio eloquente. Avvertiamo con particolare urgenza la necessità di privilegiare la testimonianza e la coerenza rispetto all’ortodossia e alla disciplina: sempre e prima di tutto obbedienti al Vangelo.
Alla richiesta di una maggiore democrazia nella Chiesa, si risponde solitamente che la Chiesa è molto di più della democrazia, è comunione. In realtà, per esserlo, la Chiesa dovrebbe promuovere partecipazione e corresponsabilità. Di fatto la rinuncia alla prassi democratica nel confronto, nelle decisioni, nelle scelte e nell’obbedienza, riduce e spesso vanifica la comunione; essa infatti, non può essere invocata per coprire la mancanza di democrazia.
Riteniamo che si debba aprire un dialogo sereno su quelli che vengono chiamati, ormai in maniera sempre più stanca e rituale, “valori non negoziabili”: famiglia, matrimonio, concepimento, conclusione della vita… Siamo convinti che tali problemi sempre più in grado di coinvolgere profondamente la coscienza e la sensibilità delle persone non debbano mai diventare oggetto di trattativa ideologico-politica.
Crediamo la Chiesa come luogo del perdono, dedita a prendersi cura delle situazioni di difficoltà, fragilità, smarrimento, in cui ogni servizio all’uomo possa essere riconosciuto come servizio evangelico. Tra essi c’è anche il ministero sacerdotale che riteniamo possa essere svolto – con pari dignità – da uomini celibi e sposati e da donne prete; la riconsiderazione della legge del celibato potrà finalmente affermare la libertà e con una speciale attenzione valutare positivamente la disponibilità al servizio dei preti sposati che, per l’attuale disciplina, sono stati costretti a lasciare il ministero. Crediamo si debba ripensare il ruolo della donna, simile e complementare a quello dell’uomo, anche riguardo ai ministeri ordinati. Per quanto riguarda questa questione siamo convinti che non sussistano motivi biblici e teologici decisivi di contrarietà; del resto non si tratterebbe di una scontata rivendicazione di parità dei diritti, ma molto più profondamente, di coinvolgere la ricchezza e la diversità di genere, liberando così la Chiesa da un maschilismo di fatto che ha conseguenze non di poco conto nelle decisioni dottrinali ed etiche.
Riteniamo che nell’ambito della riflessione sui ministeri sia necessario considerare con particolare attenzione le dimensioni dell’affettività, dell’amore, della sessualità, anche attraverso la convocazione di un Sinodo mondiale e allo stesso tempo di incontri nelle comunità parrocchiali e nelle Diocesi, per ricostruire una vera e propria teologia dell’affettività e della sessualità, esaminando serenamente alla luce del Vangelo, e con il contributo delle donne e degli uomini di scienza e di esperienza, le diverse situazioni e implicanze.
Riteniamo che la Chiesa debba farsi carico con maggiore limpidezza e credibilità, di una più autentica e forte testimonianza del Vangelo riguardo al denaro, ai beni, alle strutture, e in genere allo stile di vita. Crediamo la Chiesa povera, umile, sobria, essenziale, libera da ogni avidità riguardo al possesso dei beni.
La Chiesa utilizzi quindi sempre con trasparenza il denaro, i beni, le strutture, rendendo conto pubblicamente di tutto. Sia sempre chiaro il fine a servizio delle comunità e della promozione della persona con una reale opzione dei poveri vicini e solo geograficamente lontani. Non ci si preoccupi, quindi, di diventare più ricchi per aiutare di più, ma ci sia l’impegno ad imparare, sull’esempio di Cristo, a stare accanto ai più piccoli anche con la propria povertà. La Chiesa quindi, paghi doverosamente le tasse riguardo a quei beni che non sono in modo chiaro ed evidente finalizzati alla solidarietà, alla promozione culturale, al bene comune.
Le donne e gli uomini che osano chiamarsi cristiani, vivano in modo dignitoso, semplice e sobrio, senza accumulare e ostentare, a cominciare dal Papa, dai vescovi, dai preti, dagli ordini religiosi maschili e femminili.
Siamo convinti che la Chiesa debba scegliere una volta per sempre di liberarsi dai ridicoli titoli nobiliari e onorifici quali Sua Santità. Eminenza, Eccellenza, Monsignore, Reverendo…, perché a questo ci richiama espressamente il Vangelo oltre che il buon senso.
Riteniamo anche che la Chiesa debba fare uno sforzo decisivo per liberarsi dai vestiti e paludamenti clericali che appartengono ad altri tempi e mentalità. Essi tendono a sottolineare distanze e dipendenze di cui non troviamo traccia nel Vangelo.
Crediamo la Chiesa dell’accoglienza, delle porte aperte, senza pregiudizio o giudizio, tanto meno rifiuto: prima l’accoglienza, l’ascolto, la comprensione, l’attenzione poi il dialogo, il confronto, il sostegno.
Crediamo la Chiesa, che accompagna negli interrogativi e nella ricerca di risposte, che sa ascoltare e imparare prima di esprimersi ed insegnare.
Crediamo la Chiesa che si apre all’incontro, al dialogo, alla conoscenza, alla preghiera, e condivide, con donne e uomini di altre fedi religiose, con tutte le donne e tutti gli uomini di buona volontà, la responsabilità per la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato.
Una Chiesa che può ispirare l’impegno politico, ma mai compromessa con il potere
Ribadiamo l’importanza della laicità della politica.
Nell’aula dei Consigli di rappresentanza (comunali, provinciali, regionali, nazionali o sovranazionali), nel partecipare ad una commissione, nel preparare una legge, nel votare una scelta, ciascuno esprimerà il suo patrimonio spirituale ed etico. Non servono dichiarazioni preventive facendone un blocco di ideologia religiosa o specularmente laicista, non è pensabile quindi un partito di cattolici. Essi si esprimano nella laicità della politica e delle istituzioni.
Sentiamo disagio per le liturgie contrassegnate dal protagonismo del clero, a cui il popolo assiste con distacco.
Se l’accoglienza è decisiva, come crediamo, per la nostra testimonianza di fede, ci permettiamo di indicare una possibilità: che ogni comunità cristiana accolga una persona, o una famiglia, con particolare attenzione a chi vive nel territorio: la disponibilità di una stanza o un appartamento per l’accoglienza di un italiano o di uno straniero, di un malato o di un ex carcerato… e questo come comunità.
Una Chiesa che preghi e operi per la giustizia. Da qui ripartiamo e qui ritorniamo.
In seconda ci stiamo confrontano sul concetto di Dio, su quelli di fede e religione, sulla differenza tra conoscere una religione ed essere credenti. Ecco che può venirci in soccorso, per capire meglio il tutto, una storiella della tradizione orientale.
Il maestro insisteva che la barriera ultima al conseguimento di Dio era la parola e il concetto “Dio”. Questo faceva talmente infuriare il prete locale che questi arrivò adirato per discutere la faccenda col maestro. “Ma la parola DIO può portarci a Dio, no?” disse il prete. “Sì” rispose calmo il maestro”. “E come può una cosa giovare ed essere una barriera?”. Il maestro rispose: “L’asino che ti porta davanti all’uscio non è il mezzo con cui entri in casa”.
Estratto del comunicato odierno di Amnesty dopo la morte di Kim Jong-il, leader della Corea del Nord. L’intero comunicato lo trovate qui.
La morte del leader nordcoreano Kim Jong-il e l’assunzione del potere da parte del figlio, Kim Jong-un, presentano un’importante opportunità per migliorare il catastrofico primato del paese in tema di diritti umani, secondo quanto dichiarato oggi da Amnesty International. ‘Kim Jong-il, come suo padre prima di lui, ha lasciato milioni di coreani intrappolati nella povertà, senza accesso a cibo sufficiente e a cure mediche, e centinaia di migliaia di persone detenute in brutali campi di prigionia’ – ha dichiarato Sam Zarifi, direttore del Programma Asia e Pacifico di Amnesty International. ‘Con questa transizione, speriamo che il nuovo governo si allontani dalle politiche orribili e fallimentari del passato’. Tuttavia, recenti denunce ricevute da Amnesty International suggeriscono che il governo nordcoreano abbia epurato centinaia di funzionari, considerati una minaccia per la successione di Kim Jong-un, mettendoli a morte o destinandoli ai campi per prigionieri politici. ‘Le informazioni che abbiamo ricevuto nell’ultimo anno lasciano intendere che Kim Jong-un e i suoi sostenitori cercheranno di consolidare il loro nuovo ruolo intensificando la repressione e stroncando ogni possibilità di dissenso’ – ha aggiunto Zarifi.
Prendo dal sito del Centro Balducci di Zugliano la riflessione di Brutas, detenuto presso la Casa Circondariale di Udine: racconta il dramma di un detenuto non più giovane ed è un messaggio rivolto ai giovani, spesso abbagliati dalla vita e dal senso di onnipotenza dell’età.
Lago di Cavazzo il 2 ottobre 2011
“Non ho più il fisico dei vent’anni, e talvolta mi scricchiola un po’ la schiena, ma ancora oggi, con l’ingombro di qualche anno di troppo sulle spalle oramai un po’ curve, devo dire, narrare, testimoniare, urlando, queste poche parole, ai tanti giovani che hanno la pazienza, la volontà ed un po’ di umiltà per ascoltare.”
Giovani e spavaldi, sicuri e baldanzosi nell’immaturità di ogni età, ignari della vita, alla ricerca di sogni mai esistiti, vanno in gruppo potenti, nelle risate sguaiate, impasticcati e bevuti di una felicità non vera, sognando una esistenza perduta. Sono stropicciati, un po’ stanchi, hanno sonno, non trovano lavoro. Hanno vent’anni, a volte trenta, vanno, si fanno e tornano sempre alla ricerca di quella vita che non li vuole o non li ha mai voluti. Ma all’origine ci deve essere qualcosa di indefinito, di sconosciuto, di arcano che attraversa subdolamente la nostra mente debole e ricettiva, procurandoci delle scosse violente che ci dispensano sicurezza, superiorità, e anche profonda sconsideratezza. Vigliacchi ci lasciamo avvolgere, perciò, dal vessillo della più assurda stupidità e presunzione di onnipotenza che ci porta quasi sempre a confondere il lecito con l’illecito e con molta leggerezza, dimentichi dei consigli di quelli che ci vogliono bene, optiamo per la strada più facile o meglio che ci sembra più facile.
Per orgoglio o spirito di emulazione verso gli amici più grandi, per voglia di soldi facili e immediati, per fare colpo su qualche ragazza, o anche solo per fare una bravata in una sera da niente, in una sera dove solo la noia è la nostra fedele compagna, ci lasciamo tentare dal fascino dell’avventura proibita, vogliamo essere il protagonista, il primo attore e come in un film alla televisione entrare sulla scena del crimine, gioiamo nel sentire l’adrenalina scorrere e pulsare nelle vene, pronti a scattare, pronti a giocarci la vita in una sfida stupida e assurda con gli “sbirri” che, informati, nel buio ci attendono, pronti a fregarci.
Tentiamo sempre di tenerci aggrappati con salda sicurezza alla convinzione che possiamo smettere in qualsiasi momento, non siamo ancora “criminine-dipendenti”, purtroppo però questa nostra certezza non è stata comunicata anche alla nostra debole volontà e quindi il pensiero “posso smettere quando voglio” rimane solo un mero pensiero che usiamo come corazza per trovare la forza, la voglia di sopravvivere e dimostrare a noi stessi, prima che agli altri, che siamo i più forti.
Ma quasi sempre queste avventure, queste bravate, finiscono più o meno tragicamente, sicuramente non come avremmo voluto, sognato e sperato, e ci troviamo increduli e spauriti in una cella squallida e scialba, ancora prima che la sentenza di un processo ci condanni. Si spacca il cielo, urla il mio cuore, inorridisce il pensiero, piange la terra… bestemmia la vita. Abituato alla libertà, al cielo intero, al sole caldo, alla pioggia, alla nebbia delle sere autunnali, ai pianti, ai sorrisi delle persone che mi passano accanto, all’improvviso tutto questo non c’è più e mi sento precipitare in una cella piccola con le sbarre murate ed i letti a castello, in un silenzio irreale interrotto solo dai rumori metallici e anonimi dei blindo e dei carrelli che attraversano i corridoi per dispensare un po’ di cibo agli affamati. Occupiamo celle affollate che gli altri chiamano camere, e nella tristezza abbassiamo lo sguardo, abbassiamo la voce, abbassiamo la vita, e ci consegniamo ad un’altra notte che, per chi dorme, fuori da qui, forse vuol dire sognare, per noi invece, che inchiodati dalla disperazione rimaniamo svegli, macerarsi nell’angoscia e nel tormento cercando un nascondiglio, un rifugio dove poter leggere lo sgomento dell’anima.
C’è il silenzio della noia attorno a me, e pur con la finestra aperta, manca l’aria, l’ossigeno, la voglia, l’entusiasmo, la forza. L’ozio è difficile da sopportare, i ricordi, quando riusciamo a trovarli, sono pesanti fardelli, ma ci tengono ancorati a questo qualcosa che gli altri chiamano vita. L’assurdo è l’unico protagonista dei silenzi notturni, delle giornate vuote, delle speranze cancellate, della rabbia, del rancore e di questa esistenza sballata. Siamo rinchiusi clandestini di una vita sbagliata, siamo ombre ingombranti, ombre pesanti, come pacchi, posati, stivati, spostati. Siamo sempre osservati a distanza, nessuno ci chiede, nessuno ci domanda, nessuno s’informa, siamo in tanti ma non c’è allegria, non c’è festa, ognuno resta solo con il suo silenzio.
Siamo prigionieri in cortile, circondato da cemento, nel cemento, a girare intorno, come fiere braccate, per quell’ora d’aria che ci viene regalata. Qua, tra rabbia, disperazione, odio e rancore, anche i sogni diventano aceto, e la noia mortifica gli occhi, un po’ per non guardarci, un po’ per non essere visti. Consumiamo il tempo che passa inutilmente, bruciando sterili ore, ingabbiati, fumiamo e dormiamo, dormiamo fumiamo. Questo soggiorno obbligato in una gabbia che non è ancora dorata solo l’ozio e il nulla ci appartengono.
Stanchi arriviamo a sera, per un vagare incessante, in questa esistenza spenta, alla ricerca di un qualcosa che ci dia la forza per sopravvivere un altro giorno ancora, allo sconforto, all’ansia, all’angoscia, alla tristezza, al dolore, a questa non vita. Non ci sono più stelle, per noi nel cielo nero della notte, anche se talvolta vediamo la luna ballare il tango. Non c’è più speranza, non c’è domani, con il terrore di perdere anche gli affetti, l’amore, mentre l’amicizia se n’è già andata.
Consumiamo i giorni, le notti, il tempo nel grigiore opaco di una vita che stupidamente si è sbriciolata tra le dita, in una sera qualunque di insensata incoscienza per vincere una partita che alla fine non ci vede mai vincitori. Ne valeva la pena? Per un attimo di esaltazione, per pochi spiccioli di grandezza, per un orgoglio mal posto, per una sensazione di potere, ridicola, per sentirci qualcuno, ora sono qui, in mezzo ad altri ma sempre solo con la mia disperazione ed il rimorso che mi tormenta. Vorrei essere libero, vorrei non aver mai giocato questa partita. Vorrei avere più tempo, più luce più spazio, più sorrisi e non immalinconire alle prime ombre della sera, rimpiangendo di aver buttato un altro giorno di questa vita che inesorabilmente passa e mai ritorna. Vorrei ancora vedere la festa di un tramonto infuocato sopra i monti lontani. Vorrei fottere l’angoscia, la malinconia, la noia, vorrei tornare indietro nel tempo, e assieme a quelli come me, cantare quello che ci resta, lacrime e graffi nella voce, e smettere di giocarci ogni giorno la vita a dadi e l’indomani a tre sette.
Corrono i ricordi, volevo essere di più e prima un uomo, per giocarmi meglio questi anni ballerini, prendere, fare, andare, tornare, avere niente e poi magari avere tutto. Vorrei non avere più paure, per questo e per quello, per lui o per l’altro, cacciarle, eliminarle.
Ed oggi, per riprendermi questa vita che mi appartiene, vorrei il suono di una tromba in fondo al cuore, per assaporare, di nuovo quanto di straordinario ci possa essere in un’ora di vita, spesa per bene, senza ansia, senza fughe, senza paure, magari con la testa all’insù e guardare ancora il cielo tutto intero.
Brutas
Padre Max è un padre passionista che ha il pallino della musica e dell’informatica. Lo seguo tramite internet da qualche anno. Ultimamente sul suo blog L’arena dei rumori ha riportato il breve racconto della nascita di Gesù secondo sua nipote Erika.
“Giuseppe e Maria – che poverina era pure incinta e stava morendo di partorire – andarono a Betlemme per la ricreazione (il censimento). Poi arrivarono i Magi e loro sì che i soldi ce li avevano! Maria accettò volentieri i doni dei Magi, visto che i pastori non le avevano portato un granché… Le portarono l’oro che rappresenta Gesù Re, l’incenso che rappresenta Gesù Divo e la mirra, un prodotto che si può trovare anche in profumeria”.
Stupendi bambini!
Sono reduce da due giornate di Scuola Aperta: tantissime persone, molto spesso figli accompagnati da entrambi i genitori, a informarsi sugli indirizzi presenti nel nostro liceo, a capire gli sbocchi, a vedere l’ambiente… Non li aspetta un momento facile, perché scegliere il proprio futuro non è mai facile, ma certo è un momento accattivante, intrigante, in cui fare i conti con se stessi per capire aspettative, predisposizioni, talenti, carenze, desideri. Intanto, poco prima, sabato mattina, c’era stata la consegna dei diplomi ai ragazzi che a giugno hanno sostenuto l’esame di stato. Li ho visti purtroppo velocemente, ma li ho visti sorridenti, felici di essere lì e contenti di raccontarmi cosa avevano scelto di fare: erano bellissimi. Ecco, i due avvenimenti del week-end mi hanno fatto venire in mente il saluto che ogni anno lascio alle quinte. Una delle ultime frasi è “Vi ho conosciuto gavanelli e vi lascio donne e uomini, frecce scoccate verso domani, pronti a spiccare il volo”. Penso sia quello che succede nei cinque anni di liceo, la trasformazione da quattordicenne che si affaccia al mondo della responsabilità a cittadino a pieno titolo consapevole di diritti e doveri. In bocca al lupo a entrambi.
“Movimento terra nei cantieri. Spaccio di cocaina. Gestione dell’ortofrutta. Night Club. Diversificare sembra la priorità della ‘ndrangheta in Lombardia, che ha visto chiudersi con oltre 100 anni di condanne il suo processo lombardo, “Infinito”. Tra tutte le attività, una di quelle prevalenti è il movimento terra per lavori pubblici e privati.” Questa è l’introduzione de Linkiesta a un articolo di Giovanni Tizian sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta a Milano. L’articolo è lunghetto ma serve quantomeno a farsi un’idea…
Ieri sera sono stato nel Salone d’Onore del Municipio di Palmanova a sentire la storia di Eugenio. Eugenio è il papà di una mia compagna di squadra ed è allenatore di pallavolo. L’anno scorso, insieme alla moglie Tiziana e a due amici Anna e Mario con il piccolo Matty, ha fatto un viaggio in Uganda. Lì ha conosciuto molte realtà locali fuori dalle rotte tradizionali del turismo. Una di queste è stata Kisenyi, un villaggio sul lago Edward. Qui ha visitato la locale scuola e si è innamorato degli occhi dei bambini, del loro sorriso, delle loro smorfie, delle loro lacrime, che parlano e fanno riflettere. Ha visto le condizioni della scuola, ha parlato con i maestri e una volta tornato in Italia ha pensato di fare qualcosa di concreto per aiutare Kisenyi. Eugenio è appassionato di fotografia; ha quindi creato un semplice book fotografico che ora sta presentando per il Friuli e ha fondato una Onlus per raccogliere fondi e ristrutturare quattro aule della scuola. Qui trovate maggiori notizie www.onluskisenyi.com. Appena ci organizziamo un attimo lo invito a scuola per farvi conoscere una persona normalissima che ha deciso di fare qualcosa di speciale… Dice Eugenio: “Sarà una goccia nell’immenso lago Edward ma vi assicuro che ne basta una per veder sorridere chi non ha nulla… e nonostante tutto ci sorride!”.
Leggo un articolo su Linkiesta sul gambling, il gioco d’azzardo: esso vale in Italia ormai 70 miliardi, oltre il 4% del Pil (è ben più della manovra Salvaitalia). Si potrebbe esultare per la nostra economia, ma il dato parallelo è che gli ammalati di gioco sono almeno 700 mila persone, il doppio di quanti sono seguiti dai Sert per dipendenza da droghe o alcol. La dipendenza da gioco non è inserita nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario Nazionale: chi ci finisce coinvolto ha molte difficoltà per le cure. E il trand del gioco è in crescita: agli italiani viene più voglia di giocare? O si tratta di un bisogno indotto? Rispondo solo con un breve elenco i provvedimenti, a voi la risposta:
– 1997: introduzione della doppia giocata di Lotto e Superenalotto e delle sale scommesse;
– 1999: nasce il Bingo;
– 2003: la Finanziaria apre alla diffusione nei pubblici esercizi delle slot machine
– 2005: la Finanziaria introduce la terza giocata del Lotto, le scommesse Big Match, le scommesse online;
– 2006: nascita di decine di migliaia nuovi corner e punti gioco per le scommesse; con il Decreto Bersani (la legge 248/2006) la proposta di giochi aumenta ulteriormente: 16 mila 300 nuovi punti per il gioco d’azzardo;
– 2009: Decreto sugli Abruzzi, altri giochi (Win for Life), nuovi gratta e vinci, sostanziale liberalizzazione dei giochi on-line;
– 2011: nel decreto legge n. 98 del 6 luglio, all’art. 24, troviamo 42 commi che promuovono nuove regolamentazioni per i giochi e l’introduzione di una serie di nuove proposte di gioco d’azzardo.
Mumble mumble…
Domani a scuola ricevimento generale. E’ per me il giorno dell’ “Almeno lei” dettomi da mamme e papà degli studenti che zoppicano un po’: “Almeno lei mi dica qualcosa di positivo, mi tiri su il morale: l’ho lasciata per ultimo apposta!”. Daniel Pennac scrive: “I nostri studenti che “vanno male” (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Difficile spiegarlo, ma spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto, fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare quegli animi, collocarli in un presente rigorosamente indicativo. Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo. Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori. Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell’indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e quelle ragazzine, nel senso botanico del termine, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti. Certo, non saremo gli unici a scavare quei cunicoli o a non riuscire a colmarli, ma quelle donne e quegli uomini avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di fronte a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora: è l’eternità in un barattolo.”
“Monaci ammanettati, trascinati via con la forza da poliziotti in tenuta anti-sommossa. E poi i cartelli appesi al collo, con sopra scritto nome e “crimine”: sono questi i metodi che il governo comunista cinese utilizza per cercare di fiaccare lo spirito di coloro che resistono all’invasione culturale del Tibet da parte del regime di Pechino.” E’ un estratto dell’articolo di Asianews, con relativo reportage fotografico. Ecco il link
Stamattina in quinta è emerso un argomento su cui torneremo più avanti nell’anno. La certezza e il dubbio nella fede. Offro qui un ulteriore spunto con un breve ragionamento di Fernando Camon, preso dal libro “Tenebre su tenebre”:
“Se difendo la tua libertà di pensiero, ammetto che io potrei essere in errore. Se ti permetto la tua religione, ammetto che la mia potrebbe essere falsa. Se credo nel mio Dio, ti permetto di credere nel tuo. Se sono sicuro del mio, non posso permettere che tu creda nel tuo, perché ti farei del male”.
Mio nipote ha scoperto che Babbo Natale non esiste: mi spiace rovinare la giornata ai lettori di questo blog che ancora non lo sapessero :’-( Ora spetta allo zio Simo spiegargli con questo video che ha semplicemente creduto nel Babbo Natale sbagliato…
Rubo le ultime due battute dell’intervista di Christian Zingales ad Adriano Celentano pubblicata su XL di dicembre:
“Hai sempre avuto un forte credo in Dio, cosa diresti a chi non ha questa fede? Niente. Gli comprerei un cappotto, per ripararsi dal vento…
Il tuo credo si è sempre combinato allo sguardo venato di utopia, a partire dalle battaglie per l’ecosistema. Il problema di oggi è proprio che manca chi insegna un’utopia. Questo momento di crisi totale sarà superato in tal senso? Il mondo oggi è così malandato che solo l’utopia lo può salvare. E utopia per me significa: rifare il mondo da capo… non è difficile. Ma l’uomo è indolente: “Perché ridare il mondo, solo perché l’abbiamo abbruttito?”. Non sa invece che il primo ad essere tremendamente abbruttito è proprio lui.”
Sudavo. Appoggiata di schiena mi tenevo il pancione con due mani per aiutare le mosse del bambino. L’incoraggiavo a bassa voce, col respiro corto. Lo chiamavo. Le bestie alle spalle mi davano forza. Le gambe mi facevano male per la posizione. Mi inginocchiai per farle riposare. «Affacciati bimbo mio, vienimi incontro, mamma tua è pronta a prenderti al volo appena spunta la tua testolina. I muscoli del ventre andavano dietro al respiro, una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta. Quando lo strappo era più forte mi mordevo il labbro per non far scappare il grido. Josef era di sicuro davanti alla porta, di guardia. Ho tagliato il cordone, un solo taglio, ho fatto il nodo del sarto e ho strofinato il suo corpo in acqua e sale. Eccolo finalmente. L’ho palpato da tutte le parti fino ai piedi. L’ho annusato e per conferma gli ho dato una leccatina. ‘Sei proprio un dattero, sei più frutto che figlio’. Ho messo l’orecchio sul suo cuore, batteva svelto, colpi di chi ha corso a perdifiato. Al poco lume della stella l’ho guardato, impastato di sangue mio e di perfezione. «Somigli a Josef». Così ho voluto vederlo. «Tuo padre in terra è un uomo coraggioso, tu gli assomiglierai». Mi sono stesa sotto la coperta di pelle e l’ho attaccato al seno. Il bue ha muggito piano, l’asina ha sbatacchiato forte le orecchie. È stato un applauso di bestie il primo benvenuto al mondo di Jeshu, figlio mio. Non ho chiamato Josef. Gli avevo promesso un figlio all’alba ed era ancora notte. Fino alla prima luce Jeshu è solamente mio. È solamente mio: voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Signore del mondo, benedetto, ascolta la preghiera della tua serva che adesso è tua madre. Quando nasce un bambino la famiglia si augura che diventi qualcuno, intelligente, si distingua dagli altri. Fa’ che non sia così. Fa’ che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal Futuro sia lontano da lui. Lo chiamo Jeshu come vuoi tu, ma non lo reclamare per qualche tua missione. Fa’ che sia un cucciolo qualunque, anche un poco stupido, svogliato, senza studio, un figlio che si mette a bottega da suo padre, impara il mestiere, lo prosegue.
Che vuoto mi hai lasciato, che spazio inutile dentro di me deve imparare a chiudersi. Il mio corpo ha perso il centro, da adesso in poi noi siamo due staccati, che possono abbracciarsi e mai tornare una persona sola.
(Erri De Luca)
Prendo da Avvenire un articolo di Roberto I. Zanini su san Francesco e santa Chiara.
Chiara e Francesco? Molto diversi da come li presenta la vulgata che si è affermata con film, libri, fiction e canzoni. Se proprio abbiamo bisogno di immagini è «meglio affidarsi all’iconografia giottesca di Assisi». Nei fatti, sottolinea la medievista Chiara Frugoni, autrice per Einaudi, del libro Storia di Chiara e Francesco «sono due persone che hanno avuto una vita piena di sofferenze, di incomprensioni. Vivono per un progetto che riescono a realizzare solo in parte. Il Francesco degli ultimi anni, cieco, provato dalle malattie» sfigurato nel volto, quantunque trasfigurato dalle stimmate, «è lontano dal santino sorridente che solitamente ci si immagina. Comincia in maniera gioiosa con l’idea di mettere in pratica il Vangelo, insieme ai compagni di sempre, gente entusiasta e di alto livello. Poi arriva il successo, il numero dei frati aumenta a dismisura e il livello di spiritualità e volontà di sacrificio si abbassa, iniziano le divergenze e le divisioni».
Vuole dire che il “francescanesimo” pensato da Francesco non è quello che si realizza? «Per esempio, nella prima regola (quella non approvata) si afferma, lo ricordo a senso: “Coloro che per divina ispirazione vogliono andare a vivere fra i saraceni o altri infedeli vadano, e il superiore non li fermi”. Nella regola del ’23 (quella approvata), è il contrario: possono andare solo coloro che il superiore (ministro) pensa siano adatti. E non c’è più il concetto del “vivere fra i saraceni”».
Un’idea tanto innovativa da riemergere solo con personaggi come Charles de Focauld, sette secoli dopo. «Francesco pensa a una vita fra i musulmani in reciproco rispetto. Se poi piace a Dio, allora si parli di Dio. Per lui è l’esempio nella carità che diventa lievito. E aveva stima degli islamici, tanto che nella lettera ai Reggitori di popoli, di ritorno dall’Egitto, promuove l’istituzione di persone che dai campanili delle chiese, come dai minareti, invitino la gente alla preghiera».
Gli ultimi sono anni difficili, ma sono anche quelli delle stimmate. «Era disperato, solo, con poca stima dei compagni. Le stimmate ricevute alla Verna, secondo Tommaso da Celano, il primo biografo, costituiscono per lui l’estrema pacificazione: capisce di dover accettare la volontà del Padre come Cristo nel Getsemani».
È il racconto famoso del Santo che per tre volte apre il Vangelo. «In realtà i racconti sono due. Secondo Tommaso da Celano per tre volte lo apre alla pagina del Getsemani a conferma di dover bere al calice della volontà di Dio, che si materializzano nelle stimmate. Anni dopo, Bonaventura da Bagnoregio racconta il medesimo episodio, ma la pagina del Vangelo diventa quella del Golgota, e attraverso le stimmate il sacrificio di Francesco viene accomunato a quello di Cristo».
Diceva di una vita piena di sconfitte. «Dal punto di vista dello storico certamente. Una vita triste, piena di ostacoli. Quattro anni prima di morire Francesco è costretto a dare le dimissioni dal vertice dei frati minori. Chiara vede approvata la sua regola solo il giorno prima di morire e non è la stessa che lei voleva… È la grande spiritualità dei due santi a volgere tutto in gioia».
Che rapporti c’erano fra i due? «Una profonda intesa spirituale. Chiara giovinetta vede in Francesco l’immagine stessa del suo futuro. E colpisce la sua capacità, a 18 anni, di fare una scelta radicale senza più tornare indietro. Resiste alle pressioni di Gregorio IX. Dopo la morte di Francesco si affida a frate Elia che però si schiera con Federico II e viene scomunicato. Trova appoggio nella principessa Agnese di Boemia divenuta monaca, ma il Papa obbliga Agnese a non seguire Chiara. Alla fine diventa la prima donna a scrivere una regola solo per le donne. Anche se dopo la sua morte Urbano IV la modifica ammorbidendola, così che ancora oggi le Clarisse hanno due regole possibili: Monache Clarisse e Clarisse Urbaniste».
Francesco e Chiara avevano un’idea comune della vita religiosa? «Identica. Francesco pensa a un progetto aperto a uomini e donne: Fratres minores e Sorores minores. Gli uni indipendenti dalle altre, ma con la stessa regola. Un progetto uguale e parallelo che fonda sulla grande stima di Francesco per le donne. Poi Francesco, angosciato dalle difficoltà per l’approvazione della regola, visti gli ostacoli posti dalla gerarchia e dai confratelli è costretto a stralciare la posizione del ramo femminile. Però non abbandona mai Chiara alla sua sorte. E mai Chiara si sente abbandonata».
Poi, anche lei trova enormi difficoltà. «Non voleva la clausura, che per molti secoli ancora sarà l’unico modo di concepire la vita religiosa al femminile. Aveva un’idea modernissima di suore che si alternano nella vita contemplativa e in quella attiva fra la gente».
È l’attualità che permea l’idea originaria di Francesco. «Tornando al dialogo con le religioni, invita a cercare i punti che avvicinano, non quelli che allontanano. Ai musulmani, come a tutti, chiede di fare frutti degni di penitenza, intesa nell’accezione evangelica di conversione, perché solo ripensando le proprie scelte si possono trovare punti di contatto. Fa conoscere i concetti di solidarietà e di ascolto, con l’idea di dare la giusta importanza al punto di vista dell’altro».
Due cose totalmente mutuate dai Vangeli. «La vera modernità è nel Vangelo. Francesco e Chiara non fanno altro che metterlo in pratica in maniera radicale».
“Le ragioni ideologiche, antireligiose e pseudoscientifiche, non hanno osservato che il trascendente è semplicemente ciò che è oltre il mio pensiero, oltre la conoscenza, oltre i raggiungimenti intellettuali – non ci sarebbe nemmeno progresso nelle scienze senza porci davanti all’ignoto. […] La ragione che ammette nel suo ambito l’irrazionale è più equilibrata e più strettamente “ragione” di quella che cerca di trarre dalla propria esperienza mentale ideologie e teorie del reale.”
Franco Loi
Domani, in seno all’Induismo, ricorre la festa di Dattatreya, una divinità che comprende in sé la Trimurti Brahma (il Creatore), Vishnu (il Preservatore) e Shiva (il Distruttore). Viene raffigurata come un asceta con le tre teste di Brahma, Vishnu e Shiva in compagnia di quattro cani che rappresentano i quattro Veda. Ha nelle mani alcuni oggetti di significato spirituale: la kamandal (brocca d’acqua); il japa mala (rosario); il damru (tamburo); il trisul (tridente); la shankar (conchiglia); il sudarshan (disco). Il damru e il trisul sono associati a Shiva, il disco e la conchiglia sono associati a Vishnu. La brocca per l’acqua ed il rosario sono i pochi averi di un asceta. I genitori di Dattatreya erano una coppia molto devota e praticavano molti tapasya (austerità) per ottenere un figlio tanto desiderato. La madre voleva intensamente che suo figlio fosse l’incarnazione del Nirguna Parabrahman (il Brahman Supremo privo di forma). Ma data l’impossibilità che il senza-forma prendesse una forma, Brahma, Vishnu e Shiva le accordarono che il bambino sarebbe stato loro figlio incarnando tutte e tre le divinità. Dattatreya è considerato la più alta espressione dell’asceta, del rinunciante, poiché ha saputo trarre da ogni cosa lo spunto per le più profonde meditazioni. Anche una cosa considerata da tutti insignificante o negativa può insegnarci molto.
Da mezzogiorno è in rete il nuovo video della canzone Ora di Jovanotti. Non mi soffermo su di esso, una sorta di 3D senza occhialini…, ma sul testo. Lorenzo prende alcune verità o presunte verità, le elenco in ordine di apparizione:
– quando si muore poi non ci si vede più
– ogni grande amore naufraga la sera davanti alla tv
– ad ogni speranza corrisponde stessa quantità di delusione
– quando si nasce sta già tutto scritto dentro ad uno schema
– c’è solo un modo per risolvere un problema
– ad ogni entusiasmo corrisponde stessa quantità di frustrazione
– ogni sognatore diventerà cinico invecchiando
– noi siamo fermi è il panorama che si sta muovendo
– per ogni slancio tornerà una mortificazione
La mia sensazione è che Jovanotti si chieda: ma siete proprio sicuri che le cose debbano andare in questa maniera? Non c’è proprio alternativa? “dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione per non farlo più”… Ah, ma allora c’è una possibilità, c’è la speranza di far andare le cose diversamente. Quando? “ora”! La spinta decisiva, chiara, inconfutabile arriva dall’inciso “non c’è montagna più alta di quella che non scalerò, non c’è scommessa più persa di quella che non giocherò”. Mi ricorda molto quel che dice Bill Parrish a sua figlia Susan in elicottero nel film “Vi presento Joe Black”: “Perché la verità, tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo. Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente equivale a non vivere… ma devi tentare perché se non hai tentato non hai mai vissuto”.