Ne stiamo discutendo o ne abbiamo discusso in quarta. Oggi ho trovato queste parole nel libro che sto terminando di leggere: “… ma credo che sia un errore perdere il senso della morte, persino la paura. La morte non costituisce proprio il limite di cui abbiamo bisogno? Non ti sembra che dia una consistenza preziosa alla vita, un senso di chiarezza? Bisogna chiedere a se stessi se tutto ciò che si fa in questa vita avrebbe le stesse caratteristiche di bellezza e significanza senza la consapevolezza che si tende a una linea finale, a un confine, a un limite” (Rumore bianco, Don DeLillo). Certo altri interrogativi attraversano la nostra mente quando l’esperienza della morte è vissuta da vicino, in particolar modo quando tocca vite giovani ancora in attesa di essere vissute nelle loro piene potenzialità…
Quale stagione?
Pubblico un articolo molto interessante di Luca Geronico. Rivolgendo uno sguardo al recente passato della cosiddetta primavera araba, e in particolare all’Egitto, il giornalista prova a gettare una fugace occhiata all’immediato futuro.
“«L’islam è la soluzione». «Al-islam huwa al-hall». Come un mantra per i Fratelli Musulmani d’Egitto che dal 1928, anno della loro fondazione a Ismailiyya, è stato ripetuto quasi compulsivamente dal Nilo a Sinai: mormorato negli anni della repressione sotto Nasser, sussurrato in quelli di ambiguo fiancheggiamento a Sadat come nell’ultimo trentennio sotto Mubarak, l’ultimo faraone. Parola d’ordine, e per questo semplificazione brutale, della lunga dissidenza della rinascita islamica contro i regimi autocratici di tutto il Medio Oriente. Tuttavia la folla oceanica di piazza Tahrir (Libertà), icona di una rivolta popolare repentina quanto imprevista, resta ancora tutta da decifrare. Chi erano quelle centinaia di migliaia che l’11 febbraio del 2011 festeggiarono fra canti e balli la caduta di Mubarak? Chi erano, invece, quelle centinaia di migliaia che alla fine di giugno del 2013 ottennero, spalleggiati dall’esercito, la deposizione di Mohamed Morsi, il primo presidente della fratellanza? Sedici mesi che hanno sconvolto l’Egitto e fatto carta straccia delle più recenti “dottrine del mondo arabo”.
La prima piazza Tahrir, quella contro Mubarak, venne frettolosamente salutata come l’imprevista vittoria di una società post-islamica al grido di slogan secolari, «pane, libertà, giustizia», agitati dai social network. Quella piazza sancì la crisi del modello che «aveva consentito ai regimi in carica» alleati e sorretti dall’Occidente, «di sopravvivere oltre la fine della guerra fredda e degli anni dell’emergenza della lotta al terrorismo
transnazionale», afferma Giovanni Sale in Islam contro islam (Jaca Book, pp. 166, euro 14). Rivolta prettamente politica dunque, e non solo “del pane”, nata da un moto laico e spontaneo. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, l’islam politico, inizialmente defilato ma ben radicato nel profondo Egitto, ritornò prepotentemente sulla scena: i Fratelli Musulmani vinsero le prime elezioni libere, come in Tunisia il partito islamico di al-Nahda guidò il dopo Ben Alì. Ma nel giro di pochi mesi, cogliendo ancora di sorpresa le opinioni pubbliche occidentali, l’Egitto che aveva scacciato l’ultimo faraone, liquidava pure Mohamed Morsi: 22 milioni di firme e una piazza Tahrir nuovamente straripante determinarono il 3 luglio di quest’anno un rocambolesco avvicendamento al vertice dello Stato, con l’esercito, di nuovo, nel ruolo di garante. Per alcuni un intervento di salvaguardia contro il tentativo di instaurare uno stato basato sulla sharia; un vero colpo di Stato consumato nel silenzio di Usa e Ue, per altri. Di certo un guado pericolosissimo, che l’Egitto, con il resto del mondo arabo, non ha ancora attraversato.
Ma è corretto decretare, con il fallimento di Morsi anche quello dell’islam politico? Più in generale: una religione dal valore anche politico come l’islam può rapportarsi alla democrazia nata in Occidente? Nell’agile miscellanea L’autunno delle primavere arabe a cura di Roberto Tottoli (La scuola, pp. 90, euro 8,50) Massimo Campanini, molto esperto della fratellanza, ribadisce che nel pensiero politico islamico contemporaneo esistono «tentativi di elaborazione dottrinale che potrebbero individuare un comune terreno con la democrazia». Il dibattito sui concetti di shura (consultazione) e di dawla madaniyya (stato civile) potrebbe giungere alla legittimazione dal basso del potere sovrano. Concetti, osserva Campanini, ancora «incerti e imprecisi» mentre i Fratelli Musulmani nel biennio 2012-’13 si sono trasformati da movimento a partito politico. La sfida e l’opportunità è di giungere a un partito islamico moderno superando l’automatismo dogmatico per cui «La soluzione è l’islam» e accettando il dibattito con le forze liberali e laiche. Se questo è il tormento dell’Egitto, stato simbolo del mondo arabo, nell’Africa subsahariana (in Mali e Nigeria in particolare) il vuoto di potere e le ripercussioni della guerra di Libia hanno dato nuova linfa a uno jihadismo fondamentalista di recente costituzione in quelle terre tribali e desertiche. Un’emergenza che rimanda all’altro buco nero mediorientale: la tragedia della Siria già destabilizzante per Iraq e Libano. Una situazione che sta trasformando la tradizionale condizione di dhimmitudine (sottomissione) della minoranza cristiana in Medio Oriente in impossibilità di sopravvivenza. Nuovi equilibri e sistemi politici da sperimentare, ma che saranno tanto più nefasti se alla fine – dopo tanta “brezza di primavera” e tanto dolore innocente di popoli – si constaterà il fallimento di qualsiasi esperimento democratico. Per questo Giovanni Sale addita come fondamentali per l’evoluzione di tutta la sponda sud del Mediterraneo le elezioni politiche del marzo 2014 annunciate pochi giorni fa dal governo ad interim del Cairo. Lo spettro, ammonisce Sale, è una nuova guerra civile come in Algeria nel 1991-92: in tal caso un nuovo inverno arabo avrà soppiantato il dilemma se il presente sia una primavera non sbocciata o un lungo autunno che non finisce mai.”
Pesci sugli alberi
Portateli altrove (!)
In quel tempo, furono portati a Gesù dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano.
Gesù però disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli”. E dopo avere imposto loro le mani, se ne partì. (Mt 19, 13-15)
Lunga è la strada… (scatto fatto a Torino sulla porta della chiesa di San Filippo Neri)
Dove ha inizio l’infinito?
Trovo molta soddisfazione nel leggere le parole di Roberto Cotroneo sul settimanale inserto del Corriere della Sera: arricchisce, stimola, provoca, fa pensare. Cosa chiedere di più?
“Ma oggi lo sgomento arriva perché, come dice un grande fisico come David Deutsch non sappiamo più dove ha inizio l’infinito. Un tempo l’inizio dell’infinito lo si conosceva assai bene. Pensare l’infinito, che è un po’ la banda larga su cui viaggia l’idea di futuro, è fondamentale. L’infinito è un’idea che portiamo addosso da sempre. La finitezza delle esistenze terrene si fa sopportabile perché è compensata da un’idea di infinito. La domanda classica è sempre stata: se state scrivendo un romanzo, o dipingendo un quadro e vi dicono che un meteorite cadrà sulla terra distruggendo ogni forma di vita, continuereste? Chi risponde sì a questa domanda dichiara il falso. Nessuno può continuare. Ogni opera umana è collegata all’idea che l’infinito ha un inizio. E’ quella spinta iniziale che ci porta a pensare alle cose: a procreare come a generare futuro. Solo che un tempo l’inizio dell’infinito era visibile a tutti. Era una nave di emigranti che approdavano in America. E tra loro ci sarebbero stati milionari. Era il primo metro di rotaia che sarebbe arrivato fino in Siberia, dopo migliaia di chilometri. Era la lente ottica più grande che spostava un po’ più in là la nitidezza dell’universo che ci era concesso di vedere. Oggi gli inizi sono confusi, nebulosi incerti. La circolarità non permette di capire dove è il principio del nostro infinito e come guardarlo. Da quando sappiamo sempre meglio come è l’universo in cui pensiamo e ci muoviamo, la parola futuro ci accompagna come un’esigenza nevrotica e astratta. Da quando sappiamo immaginare tutto,non siamo più capaci di immaginare niente. Da quando non sappiamo più dove inizia l’infinito non riusciamo più a capire dove andare a ritrovarlo.”
Primo amore
“Prof, ma lei che ascoltava e ascolta musica heavy metal, cosa ci trova?”
Oggi ho trovato una citazione che risponde perfettamente a questa domanda. Max compra i suoi primi dischi, ma non avendo il giradischi va da un amico: “La sera ero da lui, a centellinarmi goccia dopo goccia quell’assalto frontale. Brividi lungo la schiena, caldo sul viso, negli occhi. Le mani strette alle cuffie. Quella sì che era vita. Altro che mio cugino Filippo. Altro che disco-dance. Heavy rombante che ti penetrava i timpani e si distribuiva nel tuo sangue, nelle tue ossa. Sentivi le corde delle chitarre che ti strappavano dentro, ti arrivavano ai nervi… Era roba magica. Da quel momento fu metal” (P. Wolf, C’era una volta il metal).
Avevo 18 anni, e rompevo i timpani dei miei genitori con i miei idoli, loro:
Uno dei momenti migliori della giornata? La notte, sveglio ad ascoltare la loro musica nelle cassette che giravano nel walkman (quello in foto è proprio lui), con volume al massimo e bassi regolati giusti giusti per non far gracchiare gli auricolari… Poi sono arrivate le Sennheiser a salvarmi l’udito… “Mi spiace mamma, ma il metal non si può ascoltare a basso volume…”
Panorami
Ho fatto questo scatto a giugno. Ieri è riemerso dall’hard-disk e mi ha portato a fare una riflessione sul mio lavoro. Nella foto ci sono il mio caro amico Carlo insieme al suo piccolo Pietro: un padre e un figlio. Non mi soffermo su questa relazione, perché al momento potrei raccontare per esperienza diretta solo il punto di vista di figlio. Guardando l’immagine, però, mi è venuta alla mente l’idea che sta dietro a quello che, secondo me, dovrebbe essere un insegnante: qualcuno che ti mette davanti a un panorama, a una vastità, a uno spettacolo, a tante possibili strade da poter percorrere, a una molteplicità di scelte da poter esercitare. L’insegnante è chi ti ha portato lì e ti lascia valutare quel paesaggio da solo, senza starti davanti impedendo una parte della visuale o, ancora peggio, facendo la strada al posto tuo. Però è lì dietro, e se hai una domanda da fare o un pensiero da condividere, sai che puoi girarti e chiedere, parlare, confrontarti, crescere.
E lo stile del papà di Pietro è anche quello di Eva, la sua mamma…

Lo straniero e le religioni
António Guterres, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), un anno fa, aveva chiesto ai capi religiosi presenti a un dialogo su “Fede e protezione”, un “Codice di condotta per capi religiosi”. Questa settimana, a pochi chilometri da qui, a Vienna si sta riunendo l’assemblea di Religions for Peace, all’interno della quale è stato reso noto un documento alla cui stesura, tra gli altri hanno collaborato il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, Islamic Relief Worldwide, la Federazione mondiale luterana e l’Unione mondiale evangelica, il Centro di studi hindu di Oxford e il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima parte del documento, che allego in pdf, riporta gli impegni dei capi religiosi, mentre la seconda mostra l’importanza, nelle diverse religioni, dell’accoglienza dello straniero.
La notizia l’ho tratta da un aticolo di Roberta Leone su Vatican Insider.
Remi sulla testa
“La maestrina mi chiede cos’ha esattamente Andrea. Ascolta molto colpita. Mi dice che il buon dio ci mette alla prova.
– Come se dio fosse un ingegnere dei materiali? Per capire se abbiamo dei difetti nascosti o un punto di rottura? -.
Annuisce.
Capisco che ognuno di noi, per navigare nel flusso della vita, si costruisce come può dei remi e l’unica cosa davvero importante sarebbe non sbatterci quei remi sulla testa l’uno con l’altro” (F. Ervas, “Se ti abbraccio non aver paura”).
Qualcosa dietro
Ecco il post sul passato, un tempo andato che ha i suoi riflessi nel presente e rende memoria futura la presenza di chi non c’è più. Quelle che seguono sono le parole di Ray Bradbury in “Fahrenheit 451”, libro che amo e da cui è stato tratto anche un ottimo film grazie a François Truffaut (per una volta un film all’altezza del libro). “Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualcosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta la vita”. Sono parole che mi fanno sempre pensare a quelle di Alessandro, un amico morto di tumore a 22 anni, che ha voluto lasciare un messaggio ai giovani: “Siate utili, lasciate traccia”.
Poco nitido
E’ un articolo molto interessante quello pubblicato da Roberto Cotroneo su “Sette” il 31 ottobre. Lo riporto qui e lo commento sotto.
“Prima o poi dovremo fare i conti con quello che ci è rimasto dell’assenza. E prima o poi capiremo quali danni possono fare i social e il web 2.0 sulla nostra vita. L’essere sempre connessi infatti non è soltanto un modo di stare nel mondo, non è solo la meravigliosa sensazione di raggiungere chi vogliamo, sempre e comunque, ma è la cancellazione dei tempi verbali della nostra vita: tutti, eccetto il presente. Voglio dire che ormai non viviamo più con i passati remoti o con i futuri anteriori. Non c’è un luogo della memoria da riempire con immaginazione e verità, non c’è un presente che sfuma verso un passato lentamente fino quasi a lasciare solo piccoli puntini lontani. E non c’è neppure l’attesa del futuro, perché il futuro o si fa presente oppure non esiste. Cosa voglio dire. Voglio dire che i nativi social, che sono una categoria ancora diversa dai nativi digitali, quelli che sono cresciuti usando facebook sin da bambini, quelli abituati a esserci sempre e comunque, hanno un problema con il distacco dalle cose. Hanno un problema con il tempo. Tutto quello che è accaduto nella loro vita, dalle grandi alle piccole cose, non smette di essere, come non si smette di esistere nelle bacheche e nelle timeline. Sta tutto lì. Hai voglia a cancellare, a togliere, a limare. Il passato viene di continuo rovesciato sul presente come fossero detriti e calcinacci che occupano lo spazio della nostra vita, e con cui si deve fare i conti. C’è una vecchia storia, di quando i social non esistevano, che Umberto Eco racconta nel suo Secondo Diario Minimo: «Salvatore lascia all’età di vent’anni il paese natio per emigrare in Australia, dove vive in esilio per quarant’anni. Poi, sessantenne, raccolti i suoi risparmi, torna a casa. E mentre il treno si avvicina alla stazione, Salvatore fantastica: ritroverà i compagni, gli amici di un tempo, nel bar della sua gioventù? Lo riconosceranno? Gli faranno delle feste, gli chiederanno di raccontare le sue avventure tra i canguri e aborigeni, avidi di curiosità? E quella ragazza che…? E il droghiere dell’angolo? E cosi via… Il treno entra nella stazione deserta, Salvatore scende sul marciapiede battuto dal gran sole meridiano. Lontano, ecco un omino curvo, inserviente delle ferrovie. Salvatore lo guarda meglio, riconosce quella figura malgrado le spalle ingobbite, il viso segnato da quarant’anni di rughe: ma certo, è Giovanni, l’antico compagno di scuola! Gli fa un segno, si avvicina trepidante, indica con la mano tremante il proprio volto come per dire: “Sono io”. Giovanni lo guarda, sembra non riconoscerlo, poi alza il mento in un gesto di saluto: “Ehi, Salvatore! Che fai, parti?”». Salvatore era partito, scomparso, e nessuno si era accorto della sua assenza. Forse Salvatore non era un tipo capace di farsi notare. Ma oggi queste considerazioni, l’idea di partire e tornare, la speranza di essere riconosciuti ma in modo nuovo, con il tempo che ci ha attraversato, con il passato che racconta di noi, è impossibile. Oggi Salvatore sarebbe là, come sempre, dall’Australia come dall’Italia. Sarebbe là a twittare o a postare fotografie, a scrivere sui social o a raccontarsi. Come sempre, con le foto che aggiornano il suo volto, che lo mostrano visibile e sempre uguale. Se oggi tornasse ritroverebbe Giovanni, vecchio compagno di scuola, con una battuta, tipo: belle le foto dei canguri. Oppure: ma quanto sono cresciuti i tuoi figli! E se il tempo e la memoria non contano, non conta neppure la nostalgia: non esiste il prima e il dopo, e non esiste il passato, il passato è soltanto un presente rinnovato, riciclato in un certo senso. Niente si chiude, niente si compie in modo definitivo. Tutto resta per tornare. Ex mariti ed ex mogli, fidanzate dimenticate, amici di un tempo, colleghi, e poi compagni di scuola, commilitoni, parenti lontani. Restano tutti lì, aggiornati all’oggi, nitidi, come se non fossero mai usciti da un orizzonte ingombrante di cui non si sente il bisogno. Un tempo lo slogan era: cerca su facebook le persone della tua vita. Ma senza l’assenza il tempo non passa. Senza perdere qualcosa il ritrovare è un concetto vuoto.”
Ho letto queste parole in treno, più di 15 giorni fa, mentre andavo a Torino con Sara; lungo il viaggio tempo e spazio passavano accanto a me e dentro di me, in piena sintonia con le parole del pezzo. Eppure sentivo in me qualcosa di dissonante. L’esperienza diretta dei social mi porta a pensare che le parole di Cotroneo possano valere per una persona totalmente assorbita da essi, una sorta di isolato sociale che abbia solo quella possibilità di socializzazione. Un po’ come quando mi succede di leggere delle nuove generazioni che vivono rapporti falsi, fittizi ed esclusivamente virtuali a causa dei social. Quel che mi capita di vedere e ascoltare in classe è che la maggior parte dei ragazzi coltivano e approfondiscono su internet rapporti già esistenti nella realtà e che le due cose si integrino tra loro. La nitidezza di questo mondo che si sta costruendo è, a mio avviso, molto meno chiara di quanto si possa pensare, ed è in continua evoluzione, come se ci fosse un velo di foschia a non rendere chiari i contorni delle cose. Sarà stato forse per questo, quasi per reazione, che il 7 novembre scrivevo le parole di Pasolini: “Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto”. E sono uno che il passato lo pensa, lo rievoca, lo elabora, lo ama per meglio cogliere il futuro (a esemplificazione di ciò il prossimo post…).
Nuovo blog
Svanimento cerebrale
Parlare del tempo, inteso come meteo, è sempre stato per me un po’ più di un passatempo (mi si perdoni il giochino di parole). La previsione non mi basta, mi interessa capire, osservare, crearmi delle aspettative; forse anche per quei due anni passati a Scienze geologiche, in cui i temi della climatologia e della circolazione atmosferica erano tra quelli che maggiormente mi coinvolgevano. Il 12 novembre il Corriere della Sera apriva la sua homepage con un “Gelo ovunque” che mi ha fatto molto sorridere: non c’era traccia di nevicate a bassa quota, né di temperature generalmente sotto lo 0. Ciò mi ha fatto pensare a quanto spesso ormai il meteo occupi i primi posti tra le notizie importanti di telegiornali e quotidiani, spesso senza giustificazione. Abbiamo smesso di dare nomi (idioti, mi si conceda) alle perturbazioni, però si è iniziato a numerarle ed è sempre forte il tam tam sull’arrivo di un nuovo fronte atlantico o artico o africano… in caso di emergenze partono dirette di ore e ore… i film di genere catastrofico (tempeste, uragani, tifoni, allagamenti, esondazioni, ma anche terremoti, incendi ed eruzioni… a quando il film su Fukushima?) hanno sempre una buona resa al botteghino. Tutto questo mi è venuto in mente mentre leggevo un passo di Rumore bianco di Don DeLillo:
“Quindi gli parlai della recente serata a base di lava, fango e infuriare d’acqua, che i ragazzini e io avevamo trovato tanto emozionante.
– Ne volevamo ancora, sempre di più.
– E’ naturale, è normale, – rispose lui, con un rassicurante cenno del capo. – Succede a tutti.
– Perché?
– Perché soffriamo di svanimento cerebrale. Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l’incessante bombardamento dell’informazione.
…
– Il flusso è costante, – riprese Alfonse. – Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché capitino da un’altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California. Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri perché nell’intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a condannarli.
…
Il Giappone è una buona fonte di documentari sui disastri. L’India invece rimane largamente poco sfruttata, pur disponendo di un potenziale tremendo con le sue carestie, i monsoni, i conflitti religiosi, le catastrofi ferroviarie, gli affondamenti di imbarcazioni, eccetera. Ma sono disastri che tendono a non venire riferiti. Tre righe di giornale. Niente documentari fotografici, niente collegamenti via satellite. Ecco perché la California è così importante. Non soltanto godiamo di vederli puniti per il loro stile di vita sibarita e le idee sociali progressiste, ma sappiamo anche che non ci perdiamo niente. Le telecamere sono lì, sul posto. Nulla di terribile sfugge al loro esame.”
Un dato e una domanda. Il dato: il libro è del 1985! La domanda: qual è la nostra California?
Un altro binario
“Basta un attimo”. Quante volte l’ho sentito dire, l’ho detto, l’ho pensato in tutti i contesti possibili, positivi o negativi. A volte frutto di libera scelta, magari ponderata e valutata; altre volte pura casualità, e ognuno decida poi di chiamarla a modo suo, destino, caso, dio, fortuna, sfiga… Così descrive la situazione Stefano Benni: “Magari qualcosa, una moneta che cade, un piccolo braccialetto che si impiglia alla maglia di qualcuno, uno scontrino che scivola via, cambia il destino di una persona. E quella persona, per un piccolo, banalissimo gesto, non farà più le stesse cose che avrebbe fatto invece se quel gesto non si fosse verificato. E la sua vita prende un altro binario. Magari per sempre. Magari per un po’ soltanto. Chissà.” Quanti binari percorriamo? Quanti scambi? Quanti stazioni attraversiamo? Scendiamo? Restiamo su? I passaggi a livello sono custoditi? Saliamo sempre sullo stesso treno? Possiamo stendere binari là dove ancora non ci sono?
Vivere il presente
Dal PIL alla FNL
In quinta stiamo parlando di globalizzazione. Sono emerse varie ipotesi e possibilità riguardo allo sviluppo economico: crescita, decrescita, pausa… Pubblico un articolo di Vandana Shiva, preso da questo sito e originariamente comparso su The Guardian.
“La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (PIL), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il PIL si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita”, misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.
Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate.
L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene
fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una carestia d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 km, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.
Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica, produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprare di più ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori é aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.
La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.
Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per casa. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, essa riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Essa era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.
Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.
L’aumento del flusso di denaro attraverso il PIL si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete conduce essi all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno riconosciuto che il PIL non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la felicità nazionale lorda al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il PIL, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.”
Per amore e per forza
«Si spreme il vino dai grappoli, ma quanto più bello di una vasca piena di vino è il vigneto con la sua terra grezza che non si mangia né si beve, e i pali di legno morto in lunghe file baluginanti! “Insomma, il creato-egli pensò – non è sorto grazie a una teoria, bensì … ” e voleva dire per forza, ma s’intromise un’altra parola che egli non s’aspettava e il suo pensiero si concluse così: ” … per amore e per forza, e la congiunzione disgiuntiva fra queste due parole è sbagliata!”» (R. MUSIL, L’uomo senza qualità, tr. it. di Anita Rho, Einaudi, Torino 1985 (ed. or. 1930-1943), vol. I, p. 574.)





