Ho trovato su Jesus questo articolo di Barbara Schiavulli con la collaborazione di Cristiano Bendinelli. E’ molto interessante e descrive, soprattutto da un punto di vista prettamente femminile, il mondo dell’ortodossia ebraica, dell’ultraordossia, di quel mondo che sembra distante centinaia d’anni dalla nostra realtà. Buona lettura!
“Sono voci difficile da ascoltare. Storie nascoste anche se non così lontane. L’ultimo Festival del cinema di Venezia, ha aperto uno spiraglio. Hadas Yaron ha vinto il titolo di miglior attrice, nel film israeliano Fill the void che racconta la storia di una famiglia ebrea ultraortodossa di Tel Aviv. Ci si immerge in quel mondo dove ogni decisione viene presa in base alle regole religiose. Una ragazza e la convinzione dei genitori che debba sposare il marito della sorella morta durante il parto. «Che cosa ha di speciale questo mondo? Questa mistura di gioia, dolore e tristezza che sa tenere assieme, senza scomporsi», spiega la regista Rama Burshtein. Uno spioncino su un mondo difficile da penetrare perché le donne ultraortodosse vivono separate. Lontano da sguardi indiscreti. A distanza dal rischio di poter essere anche solo sfiorate per sbaglio da un uomo. È questo il posto delle donne. In fondo agli autobus ben separate dai maschi. E anche se ancora guadagnano il 40 per cento in meno di un uomo, lavorano per mantenere la famiglia perché un buon marito possa passare la vita a studiare. Devono fare più figli possibile perché, per quanti interessi possano avere, le donne si realizzano solo procreando. Non devono parlare in pubblico, non devono cantare di fronte agli uomini. Non devono indossare jeans o abiti succinti, meglio non far uso di trucco. Non è bene che si facciano fotografare, non è bello vedere l’immagine di una donna su una pubblicità, e uomini e donne dovrebbero avere marciapiedi diversi su cui passeggiare. Devono essere sempre e soprattutto modeste. Non devono guardare gli uomini negli occhi, devono ubbidire al marito, al quale spetta l’ultima decisione. O al padre che, con la madre e l’aiuto di un rabbino specializzato combinano il loro matrimonio. Devono studiare, ma quanto basta per poter trovare un lavoro. Ragazzi e ragazze non possono leggere libri non autorizzati, non possono guardare la tv e neppure sfogliare riviste di musica.
Potrebbe sembrare il profondo Afghanistan o l’Arabia Saudita, invece è l’anima nascosta di Israele. Nel Paese dove le differenze tra uomini e donne sono bandite per legge, dove le ragazze fanno il militare, scalano le vette politiche e professionali, una parte della società – circa un milione di persone tra ortodosse e ultraortodosse – vive imprigionata dalle regole, dalla paura di integrarsi, dal desiderio di chiudersi nella propria comunità e non lasciar trapassare niente che possa scuotere le fondamenta del proprio dogmatismo. Sono gli haredim, «coloro che tremano», i «timorati di Dio». In contrasto con lo Stato che spesso non riconoscono, ma completamente dipendenti da esso per sopravvivere. Un mondo frammentato, diverso a seconda dell’opinione di chi interpreta le regole, che cambiano rispetto al quartiere o al gruppo, o alla scuola a cui si appartiene. In questo milione di persone ci sono gli ortodossi, gli ultraortodossi e gli estremisti. Ci sono quelli che non si curano di nulla se non della propria famiglia e quelli che vorrebbero che tutto quello che li circonda fosse come desiderano loro. E la visione non è sempre edificante per le donne. «Indossa una gonna lunga fino alle caviglie, una maglia con le maniche lunghe e il collo abbastanza alto, altrimenti nessuno ti parlerà. Ricordati: niente deve essere scoperto al di sotto del collo, del gomito e al di sopra del ginocchio. E fai molta attenzione, sono abbastanza aggressivi con gli estranei», mi dice il rabbino quando parcheggiamo nel cuore di Mea Shearim, un quartiere di ebrei ultraortodossi a Gerusalemme. Un cartello sovrasta un palazzone decrepito. I caratteri grandi sono in nero e in rosso: «Gli stranieri non sono i benvenuti». E poi un altro: «Le donne devono vestirsi modestamente».
Dieci anni fa Gerusalemme era una città ben divisa: la città vecchia e quella nuova, da una parte gli arabi e dall’altra gli ebrei. All’interno di quest’ultima, i confini tra israeliani moderni e gli ortodossi erano distinti. Nessuno oltrepassava le linee. Ora non è più così. Con una media di due e tre figli per i moderni, e 8 o 9 per i religiosi, questi ultimi stanno crescendo notevolmente. E si stanno allargando oltre ai confini delle loro zone. Ora non è insolito camminare per la lunga Jaffa Street e vedere turisti in canotta e pantaloncini traboccanti di sacchetti di souvenir e madri ortodosse che trascinano nugoli di bambini vestite come 300 anni fa nell’Est dell’Europa. Nessuno si guarda. Nessuno si dice niente. È come se due mondi paralleli si sfiorassero senza incontrarsi mai. Da una parte le donne che vogliono fare la differenza, e dall’altra quelle che sono contente e realizzate nel ruolo di madre e di moglie. E alcune sembrano davvero felici. Felici nel loro mondo strutturato. Molte vengono dal Canada e dagli Stati Uniti, sono figlie di immigrati o si sono sposate e hanno affrontato una nuova vita credendoci. Ma chi non riesce a inserirsi non ha scampo. «Sicuramente ci sono delle situazioni estreme, e ci sono delle persone malvagie, ma non ci sentiamo segregate, non ci sentiamo bisognose di aiuto e salvezza. Io per prima preferisco salire in fondo all’autobus perché non voglio neanche per sbaglio essere toccata da un uomo che non sia mio marito. È questione di comodità e sicurezza, mi sento più a mio agio tra donne. Potrebbero anche essere gli uomini a stare dietro e noi davanti, ma poi ci guarderebbero e neanche quello mi piacerebbe, siamo donne modeste», ci racconta Rivka Segal, 46 anni, sei figli, insegnante giunta da Baltimora sette anni fa. Ma la modestia è un modo di vestirsi o un modo di comportarsi? «Un modo di comportarsi naturalmente, ma gli uomini sono deboli e non devono essere tentati. Qui per noi la vita è molto più facile rispetto all’America, abbiamo centri sanitari per noi, negozi, luoghi di ritrovo, la gente sa come ci si deve comportare. So che ci sono stati atti di estremismo, ma non è una caratteristica della nostra comunità. Sfortunatamente veniamo giudicati dalle azioni di queste persone che hanno problemi che riguardano la polizia, non la religione». Rivka allude a quegli uomini ortodossi che solo qualche settimana prima hanno insultato e sputato addosso a una bambina religiosa di otto anni mentre andava a scuola nella cittadina di Beit Shemesh, colpevole di aver la gonna della divisa scolastica, secondo loro, troppo corta. O quei due ragazzini arrestati perché pagati da un ragazzo più grande ultraortodosso per urlare con un megafono davanti a una delle porte della città vecchia di Gerusalemme che le donne devono sedersi in fondo. O quella ragazza che in un supermercato ortodosso è andata in jeans ed è stata costretta a scappare per gli insulti. O quell’altra religiosa, trasferitasi con due bambini nel quartiere di Mahane che ha ricevuto una lettera minatoria che le intimava di andarsene perché indossava dei pantaloni, considerati immodesti, firmata dai «Guardiani della Modestia», un gruppo di facinorosi che non disdegna la violenza quando vuole ottenere qualcosa. O le decine di telefonate che arrivano ai centri antiviolenza, che spesso possono solo ascoltare, perché anche se le strade non hanno cancelli, raramente si riesce a penetrare la comunità ultraortodossa per aiutare chi lo chiede. «Noi amiamo il nostro modo di vivere, pensiamo sia il percorso giusto», dice Rivka con convinzione e con uno sguardo affascinante che neanche il suo vestito largo e l’assenza di trucco, può cancellare. «Pensiamo di dover trasmettere questo ai nostri figli, e anche se a volte le tensioni sono fortissime, noi crediamo in Dio e la sua è l’ultima parola». È americana ma sembra venire da un altro mondo. Non ha la televisione, anche se usa internet, è ragionevole e disposta a discutere, ma è ferma sulle sue idee. Le risposte alle sue domande sono nella Torah, le altre non sembrano contare.
«Il nostro stile di vita si basa sulla Torah (i primi cinque libri della Bibbia, ndr) e sulle leggi e regole ebraiche che ne discendono», ci spiega Joseph Friedman, un ricco uomo di affari ortodosso. «L’uomo comanda sulle donne, ma non è una maledizione, deve comportarsi bene e fare del suo meglio. Sfortunatamente, i movimenti di liberazione delle donne stanno creando problemi che non ci sono stati per secoli. Ora le donne lavorano, studiano, e va bene, si chiede loro solo ubbidienza. E le donne lo sanno, lo vogliono. Gli ortodossi stanno aumentando perché la gente ha bisogno di dare un significato più religioso alla vita. La religione è certezza, la logica no».
Il quartiere di Mea Shearim è molto povero. Le case sono fatiscenti, i fili elettrici sono scoperti e rincorrono le mura degli edifici. Le donne sono guardinghe ma curiose, teste coperte spuntano dalle porte, osservano gli sconosciuti, si sentono mormorii. Alcune non parlano neanche l’ebraico, ma l’antico Yiddish. Altre – quelle più giovani, spesso incinte – lo hanno imparato a scuola. Generalmente sono più istruite degli uomini, che si dedicano solo agli studi religiosi. Sarah ha 40 anni, cinque figli, un fisico minuto che si perde in un brutto vestito pesante, nonostante nell’aria ci siano non meno di 35 gradi. Indossa dei collant spessi nel suo negozio di cose per la casa. «Lavoro, bado alla casa, tiro su i miei figli, mentre mio marito studia tutto il giorno. È sua l’ultima parola per qualsiasi questione, ma discutiamo». La strada verso casa sua è un labirinto, chiama il marito che acconsente ad avere ospiti, cammina in fretta per non dare nell’occhio. Il marito Avram Rassad è gentile, quasi contento di avere degli «alieni» in casa sua, saluta la moglie con uno sguardo. Sarah ha voglia di raccontare: «Ballo, canto, esco, faccio tutto quello che fai tu, solo con le donne: non è bene che uomini e donne stiano insieme. Il mio sogno? Che i miei figli siano persone perbene. Non voglio più di quello che ho. Non ho bisogno della tv o della lavatrice. Sono soddisfatta della mia vita, è piena dei sorrisi dei miei bambini».
Non lontano c’è una libreria, sulla vetrina ci sono ancora i segni della vernice che i vandali gli hanno tirato perché vendevano anche libri di autori non religiosi, scrittori stranieri, classici vietati. Moshe Heimlich è un vicino di Sarah, vuole che conosciamo la sua famiglia che sta per andare al mare a Tel Aviv in una spiaggia rigorosamente per donne e separata da tutti gli altri. Ha cinque figli e due occhi vivaci. Ha visto sua moglie una volta sola prima di sposarla, ma si ritiene moderno perché sua figlia ha già incontrato tre volte il suo futuro marito. La loro casa è modesta, camere da letto con letti separati, pochi mobili tranne per una credenza che contiene tutti gli oggetti che servono per le varie ricorrenze e i libri rigorosamente religiosi. Nella stanza delle figlie c’è un tocco di rosa, ma niente che fa pensare al nido di ragazze adolescenti.
«A Beit Shemesh non scendere neanche dall’auto, non far vedere che avete una macchina fotografica», suggerisce il rabbino che ci accompagna. A un’ora e mezzo da Gerusalemme, tra le colline, in un paesaggio che sembra lontanissimo dalla brulicante Città Santa, sorge una cittadina moderna di più o meno 70 mila abitanti, oggi per lo più ortodossi. C’è un intollerabile silenzio. Perfino i bambini che tornano da scuola sono quieti. «Sono andata in un nuovo supermercato che si diceva avesse ottimi prezzi», racconta Sonia, una residente di Beit Shemesh. «Quando sono arrivata un dipendente mi ha passato una gonna lunga e uno scialle chiedendomi di indossarli perché avevo i pantaloni. Mi sono rifiutata». Poi ha visto un’insegna che diceva che le donne dovevano vestirsi modestamente, mentre facevano la spesa. Qui hanno aggredito una bambina di otto anni e chiesto alle donne di andare su un marciapiede diverso da quello dei maschi. Chi non è religioso in questa città è esasperato. Chi lo è, si barcamena tra il voler essere lasciato in pace e la brutta immagine che provocano gli estremisti.
Non poco tempo fa a Gerusalemme durante un congresso di ginecologia, alle donne medico non è stato consentito di parlare in pubblico. Alcuni medici per protesta hanno abbandonato l’incontro, ma il congresso è andato avanti. Aumentano le occasioni in cui donne e uomini sono divisi, ma l’hadarat nashim, la segregazione femminile, non preoccupa le religiose, anzi le stimola. Il dibattito esiste. E quelle che lavorano hanno una buona carta in mano. Non sembrano così indifese e organizzano convegni e fiere per sole donne. L’ultimo, solo qualche settimana fa, dove le donne ortodosse imprenditrici si sono incontrate e conosciute in modo da potersi aiutare nel mondo del lavoro. C’erano traduttrici, artiste, donne d’affari. La maggior parte lavora da casa, anche perché sarebbe impossibile gestire tutti i figli. «Io ne ho 16», mi dice un’orgogliosa signora sulla sessantina con una bella parrucca importante. Le donne sposate non devono mostrare i capelli ad altri uomini che non siano i rispettivi mariti. Il business delle parrucche è fiorente più che mai. «Ci sono parrucche che vanno dai 10 dollari ai 2.000, dalle sintetiche a quelle con i capelli veri, ci sono per ogni occasione», ci spiega Aline Smadja. «Di solito se ne ha una per ogni giorno e una per gli eventi». Leah Eharoni ha una ditta di traduzioni, 36 anni, sei figli: «Io lavoro a casa, mio marito lavora fuori, e penso che non siamo diversi dalle altre famiglie, vogliamo tutti la stessa cosa, stare bene, solo che per noi significa seguire un’autostrada che porta verso Dio. Ci sono tante ramificazioni, tanti percorsi, ma alla fine tutti vogliono arrivare nello stesso posto. Non vogliamo essere liberate. E c’è una gran confusione in giro. Per quel che mi riguarda, devo essere molto organizzata, tra lavoro, famiglia e me stessa, ma ce la faccio. Per molti la carriera è importante, ma prova a pensare, quando sarai vecchia che cosa ti riempirà di più: le soddisfazioni che ti ha dato la carriera o quelle dei tuoi figli?».
Leah ha le idee chiare, le hanno tutte quelle che vivono questa vita, forse è rassicurante non avere dubbi e avere tante regole. Ha vissuto in Russia, in America, ma Israele è la sua casa, perché qui nessuno la giudica. «Abbiamo bisogno di muri alti per proteggerci», pensa Leah. Come anche Marci Rapp, che ha 4 bambini che cerca di proteggere dalle influenze esterne. Produce costumi da bagno «modesti», delle specie di mute da indossare al mare. «Mio marito è un compagno, e il matrimonio è un laboratorio per sviluppare una famiglia». Ma non tutte sono felici, soddisfatte e realizzate. E per queste non c’è scampo, i muri che costruiscono per difendersi dall’esterno sono invalicabili per chi non ce la fa a stare dentro.
Elisheva (non è il suo vero nome), ha 37 anni e cinque figli. Lavora come commessa in una gioielleria e sogna di fuggire dal marito dal giorno che l’ha sposato. È bellissima con i suoi grandi occhi azzurri, la parrucca alla moda e una gonna jeans che arriva poco sotto al ginocchio. «Credevo di aver sposato un principe, invece è un incubo. Mi alzo ogni giorno alle 5, vado a lavorare alle 6.30 e lui mi perseguita, mi segue, mi controlla, dice che sono una stupida, è geloso da morire e ha mandato i miei figli a una scuola ultrareligiosa, tanto che un giorno hanno mandato a casa la mia bimba di 3 anni perché aveva le maniche corte d’estate. È orribile. Ma non posso andarmene, come manterrei da sola 5 figli? Lasciarli col padre e scappare? Non potrei mai».”