Sull’errore

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“Nella mia carriera ho sbagliato più di 9000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. 26 volte mi è stato affidato il compito di tirare il canestro decisivo e ho fallito. Ho fallito più e più volte nella mia vita. Ed è per questo che ho vinto”. Inizia con queste parole di Michael Jordan l’ultima mail delle newsletter del giornalista Mario Calabresi. Mi passano davanti agli occhi tutte le studentesse e gli studenti che fanno fatica a gestire un insuccesso, mi passa davanti agli occhi la difficoltà di Mariasole ad ammettere un errore, mi viene in mente Pietro mortificato dopo il canto del gallo. Analizzo quanta fatica faccia io stesso nella mia relazione con gli sbagli che commetto. Mi consolo con il resto del testo e ci rifletto su.

“Ogni mattina Renzo Piano, mentre va a piedi nel suo studio a Parigi, si ferma a salutare il Beaubourg, il grande centro culturale che ha progettato quando aveva solo 34 anni. Ne vede uno scorcio da lontano, al fondo di una via, ma il successo di quell’immenso edificio colorato, che rivoluzionò i cardini dell’architettura, gli ricorda che nella vita bisogna avere il coraggio di osare. Non se lo è mai dimenticato e lo preoccupa vedere che oggi «i ragazzi hanno paura di gettarsi e di sbagliare». Per questo, nel corso che tiene ogni anno a un gruppo di studenti di architettura al Politecnico di Milano, li invita a studiare i suoi grandi progetti, a trovare errori e a fare proposte per correggerli o migliorarli. «Per riuscire a volare – ripete con convinzione – non bisogna avere troppa paura dell’errore».
Quando entro in quella nave che è la Fondazione Renzo Piano al Polimi, con i muri coperti dai suoi disegni di aeroporti, musei, grattacieli, ponti e università, capisco la potenza del messaggio che trasmette nel suo corso “L’arte del costruire”. Nel momento in cui chiede agli studenti di intervenire sui suoi progetti, evidenziando difetti, mancanze, lacune o problemi, sta dicendo loro che tutti possiamo sbagliare e che questo non è un dramma.
Per questo quando ho pensato a una serie podcast sull’errore non potevo non partire da lui.
E poi l’idea è nata proprio al Politecnico in un dialogo con Donatella Sciuto, la Rettrice, che mi raccontava della preoccupazione per la crescita delle ansie in una società iper-performante e competitiva come quella in cui viviamo.
I numeri dicono che circa un terzo degli studenti e delle studentesse universitarie in Italia ha disturbi di ansia, e che più di uno su quattro soffre di depressione. La paura di sbagliare, di non essere abbastanza, di deludere, è un peso che attraversa le generazioni, ma che oggi sembra avere un’intensità nuova.
Così abbiamo immaginato di fare un viaggio per provare a sdrammatizzare il fallimento, aiutare i giovani ad accettare l’errore, a elaborarlo e a superarlo. Questo viaggio è una serie podcast che si intitola “Sull’errore”, in cui intervisto psicologi, scienziati, manager, scrittori per dare la giusta dimensione ai nostri sbagli.
La prima a mettersi in gioco è stata proprio la Rettrice che mi ha raccontato di essere stata bocciata al suo primo esame di Ingegneria, ma che suo padre si mise a ridere e questo impedì a quella caduta di diventare una crisi e di fermare il suo percorso. «Quando io ero studente – racconta Donatella Sciuto – ho avuto tanti compagni che sono stati bocciati cinque o sei volte in esami come Analisi 1, ma questo non li ha frenati dal continuare a studiare e alla fine sono diventati ingegneri».
La Rettrice, che sente l’urgenza di offrire strumenti ai più giovani perché non si scoraggino e non si perdano di fronte alle difficoltà, nella prima puntata riflette sul contesto culturale che spinge a immaginare percorsi perfetti e senza sbavature.
Ma per andare alla radice del problema ho incontrato Sandra Sassaroli, psichiatra e psicoterapeuta, che nel suo lavoro si è occupata molto dell’errore, dello sbaglio e del rimuginio, quella forma di pensiero negativo e ripetitivo che ci porta a soffermarci sugli errori commessi, piuttosto che superarli cogliendone anche i lati positivi.
La sua analisi è sorprendente e sposta l’attenzione sul rapporto che i figli oggi hanno con i genitori, sulle aspettative e sulla paura di deludere.
«Se io sono così protettiva con mio figlio che non può prendersi a pugni, non può sbucciarsi un ginocchio e io vado a difenderlo se sta litigando con qualcuno, allora – sottolinea – non gli insegno a rialzarsi. Se ci pensa bene, in questa iperprotezione si trasmette ai figli un’idea di fragilità. Dovremmo cominciare a insegnare ai genitori ad essere meno protettivi e ad avere più coraggio di lasciarli liberi di sbagliare».
Il lungo dialogo che ho fatto con Sandra Sassaroli è stato uno degli incontri più utili e fertili che abbia avuto su questo tempo di ansie e paure. Su cosa fare o non fare con i nostri figli e su come affrontare i nostri fallimenti.
«C’è una grande differenza tra elaborare e rimuginare. Rimuginare vuol dire continuare a pensare, dopo una caduta, che tutto andrà male, ed è un pensiero ripetitivo, ansioso e negativo. Elaborare vuol dire, invece, accettare il dolore e trovare una soluzione creativa. O se quella soluzione non esiste, spostarsi su un altro problema».
Anche lei ricorda una dolorosa bocciatura, all’esame di Anatomia, con il pianto sui gradini della Sapienza a Roma, la sensazione di fallimento ma anche il percorso di riprendere in mano migliaia di pagine e ricominciare a studiare. Oggi pensa che quella bocciatura sia stata molto salutare: «Non sbagliare mai un esame, prendere tutti trenta e lode, non è sempre un segno di benessere psicologico. È molto meglio ogni tanto farsi un brutto esame e rialzarsi anche piangendo un po’».

Non chiamateci guerrieri

Me l’ero segnato da qualche parte questo monologo di Geppi Cucciari con l’accompagnamento di Paolo Fresu. Si parla di cancro. Ho scoperto poi che il testo originale è del giornalista Pierluigi Battista, pubblicato sull’Huffington Post. Riguarda un tema di cui mi è capitato di parlare in classe, ma anche con qualche genitore, durante uno di quei colloqui che diventano parole scambiate da cuore a cuore: la retorica che colpevolizza chi è ammalato. Ecco anche la trascrizione del testo.

“Non chiamateci guerrieri, non abusate della magniloquenza del ‘sta lottando come un leone’, non gonfiate il petto con il ‘non arrendersi mai’, rivolto a chi si aggrappa con tutte le sue forze alla speranza che il cancro non prenda il sopravvento. Così, bellicosi come apparite, non ci fate del bene, non ci incoraggiate, anzi, aggiungete angoscia ad angoscia. Morire sarebbe una resa? Soccombere significa non aver guerreggiato bene? Dove si sbaglia? Che tattica avremmo dovuto usare? Forse al dolore bisogna aggiungere l’umiliazione di una battaglia campale condotta male?
Sappiate che soffrire per scacciare l’ospite indesiderato, come lo chiamava con una sensibilità che ancora mi commuove Gianluca Vialli, non è come ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman dove Max von Sydow gioca a scacchi con la morte. E, se sbagli la mossa del cavallo, allora meriti la sconfitta definitiva? Il cancro ha fatto scacco matto. La ‘guerra’ contro il cancro è, piuttosto, una sequenza di notti insonni, di paura quando entri nel tubo della risonanza magnetica o della tac, del terrore di guardare negli occhi chi ti ha appena fatto un esame, di gioia se quegli occhi esprimono soddisfazione. Un altro ostacolo superato, tra un po’ ne arriverà un altro. Una ‘guerra’ fatta di attese, sofferenze – sono i farmaci – debolezza, dove sai che la tua volontà è importante, ma non è l’arma determinante, e che invece degli squilli di tromba di chi ti esorta a fare il gladiatore, chi si sta impegnando allo spasimo per uscirne vivo avrebbe bisogno di affetto, di vicinanza, di attenzione, di ascolto, di non essere lasciato solo, di vita, e ha bisogno di oncologi che sono sempre più bravi, della scienza che continua a mettere appunto cure sempre più efficaci e plurali. La ‘guerra’ la fa la ricerca condotta da eroi e spesso trascurata da chi ha le redini dell’autorità pubblica. Lo dico per fatto personale. Scusate l’impudicizia, ma non ne potevo più”.

Rischio narco-Stato in Europa

Il porto di Anversa (fonte)

Oggi condivido una notizia che arriva dal Belgio e che parla di criminalità. Un giudice istruttore di Anversa, in una lettera aperta pubblicata anonimamente sul sito del tribunale, ha denunciato l’infiltrazione crescente della criminalità organizzata e la corruzione sistemica legata al traffico di droga nel Paese. Prendo la notizia da L’Opinione delle libertà.

“Per fare un narcotraffico ci vuole un narco-Stato. Che è quello che rischia diventare il Belgio, secondo una lettera aperta, pubblicata il 27 ottobre sul sito dei cours et tribunaux, di una dei 17 giudici istruttori di Anversa. Che ha scelto l’anonimato per lanciare un avvertimento che non è passato inosservato al ministero federale della giustizia.
“Siamo di fronte a una minaccia organizzata che sta minando le nostre istituzioni”, ha scritto la donna. Nella sua lettera aperta, il magistrato fa sapere di aver condotto diverse indagini negli ultimi anni, che hanno portato all’arresto di dipendenti del porto di Anversa, funzionari doganali, agenti di polizia, funzionari amministrativi di diverse città e comuni, agenti penitenziari e funzionari assegnati al tribunale di Anversa. Secondo il giudice, tutti questi individui avevano legami con organizzazioni criminali attive nel traffico di droga. La donna sostiene che “vaste strutture mafiose hanno messo radici”, sono “diventate una forza parallela che sfida non solo la polizia, ma anche il sistema giudiziario”. Da qui la domanda: “Stiamo diventando un narco-Stato?”. Secondo lei e i suoi colleghi, “questa evoluzione è iniziata”.
Un’evoluzione che la funzionaria dimostra con i criteri e lo scrupolo propri dell’inquirente. Cosa definisce un narco-Stato? Economia illegale, corruzione e violenza. Il Belgio, secondo la lettera, soddisfa tutte e tre queste caratteristiche. L’inchiesta denominata Sky Ecc, ricorda il magistrato, ha rivelato l’esistenza di una “economia parallela multimiliardaria” nel porto di Anversa. Il “denaro nero si sta infiltrando nel settore immobiliare, facendo salire i prezzi per i cittadini comuni”, sottolinea. Si tratta di circuiti che rimangono ancora “intoccabili”. E così anche la corruzione non può che essere “diffusa”. Le organizzazioni criminali, infatti, “corrompono o minacciano di corrompere i dipendenti portuali”. Spostare un container, “un compito che richiede 10 minuti, fa guadagnare al lavoratore corrotto 100mila euro”, afferma la magistrata. Anche per contrabbandare una semplice borsa sportiva, si osserva, i narcotrafficanti sarebbero disposti a pagare decine di migliaia di euro. Di fronte a tale realtà, il terzo “pilastro” della violenza appare quasi una conseguenza naturale.
“Queste organizzazioni criminali ricorrono alla violenza a comando”, afferma il giudice istruttore, citando “omicidi, torture, rapimenti, minacce o attacchi, a volte contro civili innocenti, utilizzati per mantenere il potere ed eliminare i rivali”. Anche la magistratura, secondo la denuncia, “sta subendo minacce e intimidazioni”. L’inquirente dice di aver dovuto trascorrere diversi mesi in una casa di sicurezza a causa di minacce contro di lei e la sua famiglia. Diversi altri giudici inquirenti sono sotto protezione giudiziaria. Ciò nonostante, “nessun governo ci contatta, nessuno ci offre attivamente supporto, non c’è alcun risarcimento”.
Più di una volta, continua, “ci viene chiesto: ‘Perché lo fai?’ o, come mi ha chiesto un politico, sei un nobile cavaliere dello Stato di diritto o Don Chisciotte? Perché? Beh, condividiamo un impegno, una convinzione nell’importanza delle conquiste del nostro Stato di diritto. Ci rifiutiamo di arrenderci”. Se “il sistema giudiziario inizia a funzionare male, si tratta di un pericoloso attacco alla nostra democrazia”, osserva, non fosse altro perché “sta già diventando difficile trovare giudici disposti a pronunciarsi su casi del genere”.
La lettera non si limita alla denuncia, ma dà spazio ad alcune proposte per combattere il traffico di droga. Il magistrato propone un emendamento legislativo che consenta ai giudici inquirenti di lavorare in forma anonima, e chiede inoltre la creazione di un punto di contatto all’interno dei ministeri dell’interno e della giustizia, un’assicurazione per i danni subiti dai magistrati e dalle loro famiglie e l’occultamento degli indirizzi dei magistrati in banche dati come il registro nazionale. Il giudice istruttore ritiene inoltre che sia necessario istituire un sistema per impedire la comunicazione tra i membri delle reti criminali nelle carceri belghe.
“Le nostre indagini − rileva − sono compromesse dall’invio di copie dei nostri fascicoli a Dubai e in Turchia, e dalle carceri continuano a essere orchestrate massicce importazioni di cocaina”. Lo Stato di diritto, osserva, “non è un concetto astratto”, ma “si basa su persone come giudici, agenti di polizia e guardie carcerarie, che svolgono il loro lavoro con convinzione, ma che meritano anche un governo che li sostenga”. Non si tratta, dunque, di stabilire “se lo Stato di diritto sia minacciato”, perché “lo è già”, ma di capire “come si difenderà”.
La politica federale ha preso molto sul serio la denuncia. Il ministro della giustizia Annelies Verlinden considera le minacce contro i giudici e il personale penitenziario “gravi e preoccupanti”, perché si tratta di persone che “sono ogni giorno in prima linea per il nostro Stato di diritto”, riporta il sito 7sur7. “È inaccettabile che siano il bersaglio di reti criminali, anche all’interno del carcere”. La lettera anonima è servita ad annunciare alcune misure: “Stiamo rafforzando la sicurezza nei tribunali, raddoppiando il numero di varchi di sicurezza all’ingresso e garantendo maggiore sorveglianza da parte della polizia. Stiamo lavorando per rendere anonimi i dati personali nei documenti giudiziari in modo che magistrati e personale siano meno esposti a intimidazioni”. Verranno poi installati dei disturbatori di frequenza (jammer) per bloccare le comunicazioni Gsm nelle carceri. Il ministero promette anche investimenti per carceri “più sicure e meglio protette” per i criminali più pericolosi, “ai quali potrebbe essere imposto un regime più severo”.”

La perseveranza nella possibilità

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Una decina di giorni fa avevo pubblicato il primo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire. Qualche giorno fa è uscito il secondo dedicato a Marie Curie.

“Marie Curie non aveva tempo per i dogmi. Non amava i riti, non cercava consolazioni nei libri sacri. Eppure la sua vita è una delle testimonianze più radicali di cosa significhi credere in qualcosa che non si vede. Non pregava, ma vegliava per notti intere sopra un forno improvvisato. Non cercava miracoli, ma li provocava senza saperlo. Quando scoprì la radioattività, non sapeva ancora cosa fosse. Non c’erano parole, né modelli teorici, né manuali per spiegarla. Sapeva solo che da quelle pietre di pechblenda che le arrivavano sporche di fango e carbone, in sacchi da tonnellate, si sprigionava un’energia misteriosa.  Una luce invisibile che attraversava la materia, che lasciava tracce su lastre fotografiche dimenticate in un cassetto, che si rivelava con una luminescenza tenue nei suoi laboratori scuri. Non si vedeva a occhio nudo, ma era lì, reale, tangibile. Una presenza che sembrava più spirituale che materiale.
Marie Curie non lavorava con strumenti sofisticati: aveva provette spaiate, pentole crepate, mani  segnate dalla fatica. Il laboratorio era poco più di una baracca: d’inverno il freddo entrava dalle finestre rotte, d’estate il caldo scioglieva il piombo. Eppure, in quelle condizioni, scoprì che l’universo custodiva una scintilla segreta. Una scintilla che illuminava senza fiamma, che scaldava senza fuoco, che parlava senza voce. Una dedizione totale a quello che faceva.
Forse la sua spiritualità era questa: restare fedele a una ricerca che non prometteva nulla, se non il brivido del mistero. Non cercava un Dio personale, ma neanche si accontentava di un mondo già catalogato. La sua fede era nel lavoro, nella sua dedizione, nella possibilità che dietro l’apparenza ci fosse altro. E mentre gli uomini intorno a lei facevano carriera nelle accademie, Marie continuava a rimestare tonnellate di materiale grezzo. “Ho dovuto trascinare carri, spezzare pietre, accendere forni, come un contadino”, raccontava. Eppure, mentre sudava e tossiva in quella baracca, si accorgeva che stava accendendo una luce nuova sul mondo.
C’è una frase di Marie che mi colpisce sempre: «Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire». È un manifesto che potremmo appendere ovunque. Significa che la paura nasce dal buio, e che la conoscenza è una forma di luce. Eppure, proprio lei che aveva acceso quella luce, pagò il prezzo più alto: il suo corpo assorbì lentamente la radiazione che non sapeva ancora come domare. Le sue ossa si incrinavano, le sue mani tremavano, i suoi taccuini restano ancora oggi radioattivi, custoditi in piombo nelle biblioteche di Parigi.
In questo c’è una grande lezione di spiritualità: si può credere al punto da consumarsi, si può amare il mistero fino a farlo entrare nelle ossa. Non perché si sia fanatici, ma perché si riconosce che la vita ha senso solo se ci si dona a qualcosa che ci supera. Marie Curie non parlava di Dio, ma ci ha consegnato un’idea che gli somiglia: la convinzione che nell’invisibile ci sia la verità. E che la nostra parte più autentica non si trovi in quello che possediamo, ma in quello che siamo disposti a cercare. Forse la sua eredità non sono solo l’uranio o il polonio, né i due premi Nobel, né le onorificenze che le hanno consegnato troppo tardi. Forse la sua vera eredità è averci insegnato che la luce non è solo quella che vedono gli occhi. Ce n’è un’altra, più sottile, che ci chiede di avere coraggio, pazienza, dedizione.
Perché la sua grandezza non sta solo nell’aver aperto una strada nuova alla scienza, ma nell’averci  ricordato che il mistero non si doma: lo si accompagna. Si vive accanto a lui, lo si accetta, lo si interroga. Si lascia che diventi parte di noi. Eppure, per capire Marie, bisogna tornare all’inizio. Una ragazza di Varsavia, in un tempo in cui alle donne non era concesso quasi nulla: non le aule ufficiali, non le cattedre, non il diritto a una curiosità senza permesso. Studio clandestino, libri presi di nascosto, una fame di sapere che non si spegne. È lì che nasce la sua “preghiera laica”: imparare, anche quando tutto intorno dice di no.
Poi l’incontro con Pierre: due vite che si uniscono non per completarsi, ma per moltiplicarsi. Non  un altare, ma un banco da lavoro; non promesse solenni, ma una cassa di legno piena di minerali, campioni, strumenti. L’amore, per loro, è un’alleanza con la materia. E quando la materia restituisce il suo segreto, loro lo chiamano con nomi di patria e affetto: polonio, radio. Nella scelta dei nomi c’è la loro geografia interiore: il luogo da cui si parte e il fuoco che si è trovato. E poi la perdita. Un carro, un incidente, il mondo che si spezza. Marie rimane davanti a un’assenza che non ha linguaggio. Non scrive preghiere, non chiede risarcimenti al cielo. Torna in laboratorio, accende il forno, rilegge gli appunti. È una fedeltà senza spettacolo: l’idea che la vita riprenda senso stando vicino alla sorgente di luce che si è accesa insieme. Quella fedeltà è una forma di spiritualità: restare dove arde, anche quando brucia. E arriva la guerra. Non una parentesi, ma una chiamata. Marie prende la luce invisibile e la porta dove serve: sul fronte, negli ospedali, nelle baracche di fortuna. Addestra infermiere, guida camion, spiega come mettere a fuoco un’ombra dentro un corpo per salvare un arto, una vita. Non discute teorie: accende apparecchi. La scienza, in quelle ore, è una carezza che vede ciò che l’occhio non vede. La sua spiritualità è diventata azione: non parole, ma voltaggi e immagini che rimettono insieme ciò che la guerra rompe.
E c’è la fama, che non consola. Premi, medaglie, scandali, sospetti. La diffidenza verso una donna  “troppo donna per la scienza, troppo scienza per il salotto”. Marie non risponde. Lavora. Quando la vita di superficie si agita, lei scende di un livello e tace, come fanno i minatori quando la galleria vibra. È un gesto spirituale: scegliere la profondità quando la superficie fa rumore. Se guardiamo bene, tutto in lei è un esercizio di presenza. Restare, anche quando fa male. Cercare, anche quando non c’è garanzia di trovare. Illuminare, anche quando nessuno ringrazia. È una mistica senza dogmi, una scienziata senza retorica. La sua “preghiera” è una formula semplice: “continua”. Ed è proprio in questo verbo che la scienza e la spiritualità si toccano: nella perseveranza che non pretende risultati immediati, ma tiene aperta la possibilità.
E allora la domanda diventa nostra: cosa ce ne facciamo, oggi, della sua luce invisibile? In che  modo possiamo rimanere accanto a ciò che non capiamo, senza fuggire? Possiamo imparare anche noi a “vedere dentro” — nelle cose, nelle storie, nelle persone — con un apparecchio che non ha manopole ma ha un nome antico: attenzione. Forse l’attenzione è la radiografia dell’anima: mette a fuoco l’invisibile e lo rende abitabile. Ecco perché Marie Curie appartiene a questa rubrica: perché ci ricorda che la scienza, quando tocca l’invisibile, diventa preghiera. Non detta formule, ma ci invita a restare in ascolto. Non costruisce dogmi, ma apre spazi. Non ci promette risposte definitive, ma ci regala la capacità di non smettere di domandare.

PS: Scrivo questa rubrica anche per questo: perché sento il bisogno di rileggere figure come Marie Curie non solo come scienziate, ma come donne e uomini che hanno interrogato il mistero. Anch’io sono — come tutti, forse — alla ricerca di un nuovo significato da dare alle cose del mondo. Non basta spiegare, non basta calcolare. Voglio trovare parole che tengano insieme ragione e stupore, numeri e silenzi. In questo cammino, anche Marie Curie diventa per me una compagna di viaggio, come Einstein e altri fisici che hanno scavato nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni. Non tanto perché abbiano trovato risposte definitive, ma perché hanno avuto il coraggio di convivere con l’invisibile. Domanda per voi: qual è la vostra luce invisibile, quella a cui vi affidate nei momenti bui?”

Il silenzio sul celibato

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Ieri sera, sul tardi, diciamo pure ieri notte, mi sono imbattuto in un articolo di Sergio Di Benedetto pubblicato su VinoNuovo. L’argomento, come scrive il professore, è uno di quelli di cui effettivamente da tempo non sentivo parlare: il celibato dei sacerdoti.

“Ci sono temi che hanno un loro ‘momento di gloria’, e poi scompaiono, o quasi, dal dibattito. È così in ogni settore, e quello ecclesiale non è da meno. Tra questi argomenti messi nell’ombra credo si possa annoverare il celibato sacerdotale, che sembra sparito dai radar del dialogo pubblico nell’orbe cattolico, salvo poi tornare in scena (saltuariamente) di fronte a qualche caso di cronaca, che però si consuma in fretta e in fretta cade nel buio (l’ultimo, quello del vescovo Reinhold Nann).
Così, forse incalzato e scalzato dalla discussione sul diaconato femminile, o su altri nuclei di riflessione teologica, una pacata, profonda, seria discussione circa la possibilità di un superamento del celibato è tramontata. Complice, penso, un fatto che è stato una pietra tombale su tale argomento, e riguarda quando accaduto al Sinodo per l’Amazzonia (2019), il cui documento finale, al paragrafo 111, chiedeva un ripensamento della disciplina del celibato, ordinando uomini sposati (sostanzialmente i cosiddetti viri probati) «al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica». Esso, pur avendo avuto 128 voti favorevoli e 41 contrati (ovvero il 76%, ben più del 2/3 necessari), non era stato accolto nell’esortazione apostolica finale di Papa Francesco, Querida Amazonìa, per non spaccare o polarizzare (al solito, facendo prevalere i diritti della minoranza su quelli di un’ampia maggioranza). Così, però, si è non solo chiuso ogni tentativo di portare con più frequenza i sacramenti ai popoli dell’Amazzonia, ma anche ogni ulteriore riflessione: a che scopo discutere se, nonostante una consistente porzione di episcopato avesse espresso voto favorevole, poi nulla è cambiato?
La questione non è solo quella dei viri probati, ma in generale del celibato nella chiesa latina, la quale continua la prassi di scegliere presbiteri solo “tra coloro che sono chiamati al celibato”: ma questa, in buona sostanza, è una formula (retorica), per giustificare il fatto che la chiesa continua a ordinare uomini non sposati, mettendo la testa sotto la sabbia quanto a doppie a triple vite, sacerdoti con la compagna o il compagno, e così via. Perché una buona dose di ipocrisia pare non mancare mai quando si tratta di guardare alla realtà dei fatti, che è poi questa: ci sono presbiteri che vivono il celibato con equilibrio, altri che lo vivono in modo non equilibrato, finanche patologico, altri ancora che non lo vivono. Pochi giorni fa ho ascoltato, per l’ennesima volta, un ex sacerdote, ora dispensato e sposato, che ebbe un consiglio dal suo vescovo: per ora mantieni la tua relazione con questa donna, basta che non lasci il ministero….
Rimane l’antica questione, la vecchia scusa: il presbitero sposato non avrebbe tempo, energia, dedizione totali per la sua comunità. Ma siamo onesti: quanti, davvero, interpretano il proprio ministero in modo così eroico? Quanti parroci, quanti vicari sono oberati di incarichi, a rischio burnout, frantumati in mille discutibili attività, da avere quella disponibilità totale che, in realtà, li spezza umanamente, li induce talvolta al ritiro sociale, alla fuga, a vite parallele? Il tema è sempre lo stesso: che valore dare all’umanità del prete, celibato compreso?
Infine, che fare con quella risorsa preziosa che possono essere i presbiteri sposati, quando la loro ‘uscita’ è stata ben pensata, equilibrata, quando hanno costruito relazioni buone, generative, in cui ha trovato posto anche Dio?
In questo tema, oggi, mi pare, i veri nemici non sono né la tradizione né la prassi: è l’ipocrisia, che si tira dietro la paura di guardare le cose come sono, le vite degli uomini e delle donne come sono. E questo è, in ultima analisi, davvero contro il vangelo di Gesù.”

A conclusione di questo post mi piace riportare le parole di un sacerdote che mi manca molto, don Pierluigi Di Piazza che in vari libri ha affrontato l’argomento. In un’intervista di Giovanna De Caro dice:
“La dimensione affettiva è per ogni persona fondamentale, costitutiva; senza amore non c’è vita; l’amore buono, positivo, non quello inquinato o deturpato fino alla violenza sottile o esplicita. Essere prete non dovrebbe comportare il celibato obbligatorio; ho sempre pensato a una Chiesa libera, umana, ricca di relazione nella quale ci siano preti celibi, quando il celibato è scelto con libertà, consapevolezza, maturità; preti sposati; donne prete, non per una parità clericale sconveniente, bensì per l’apporto indispensabile della femminilità, della diversità di genere nella esperienza della fede, nella Chiesa. Sarebbero anche da reintrodurre nel ministero i preti costretti a lasciarlo perché si sono sposati. Attorno ai 33-35 anni ho vissuto una forte nostalgia della paternità. Non mi pare adeguato, né rispettoso per le tante esperienze umane se io parlo di coprire mancanze affettive. La compensazione dell’amore che non c’è per lo più si risolve in un artificio non veritiero.”

Supplica al divino della madre

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La notte scorsa Francesco si è svegliato poco prima di mezzanotte, è stato a lungo inconsolabile fino a quando è riuscito a farci capire che aveva mal di orecchie. L’ho prelevato io dal lettino: talvolta mi accetta, ma ci sono volte in cui solo l’abbraccio consolatorio della mamma lo calma, altrimenti serve molto più tempo. Il papà ci mette dieci volte a fare quello che la mamma compie in poco tempo. Mi è venuto in mente durante la lettura di un pezzo del poliedrico Marco Campedelli dedicato alla madre da poco scomparsa, un brano che mi ha toccato il cuore e mi ha commosso, soprattutto ripensando alle volte, purtroppo non poche, in cui in questi anni ho cercato le parole per rincuorare qualche allieva o allievo per la perdita della mamma. Il brano è stato pubblicato su Rocca a settembre.

“«È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio».

Inizia così Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini.
Un testo vertiginoso con accenti estremi del rapporto figlio-madre. Eppure nel finale c’è un verso, una supplica alla madre che sembra una freccia conficcata nel cuore di questa archetipica relazione:
«Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire».
Si direbbe una preghiera alla madre. In questo credo ci sia la scintilla divina della madre.
Pregare la madre come una divinità. Sappiamo, e la religione ne è in gran parte responsabile, di quanto il rapporto madre-figlio sia stato oggetto di proiezioni, simbiosi, sensi di colpa, sublimazioni. Mi ha sempre turbato quel “Totus tuus” sotto una gigantesca lettera M di papa Wojtyla, segno della sua ossessiva devozione mariana.
Forse nulla come questo rapporto ha dato tanto lavoro alla psicanalisi. Eppure in quella supplica del poeta c’è qualcosa di autentico: il riconoscimento della fonte divina della vita. Ti prego madre “di non voler morire”.
Perché se la fonte muore la terra si secca e appassisce. Ricordo bambino quando mia madre si ammalava, scendevo come in una botola segreta, come immerso in un liquido amniotico, finché non stesse meglio e così poter riemergere e tornare finalmente di nuovo nel meraviglioso caos della vita.
Pasolini in realtà non vivrà la morte della madre. Sarà la madre a dover subire il tragico lutto del figlio massacrato il 2 novembre del 1975.
Questo lutto è prefigurato nel film del regista friulano Il vangelo secondo Matteo, in cui ad interpretare la madre dolorosa sotto la croce sarà proprio Susanna Colussi-Pasolini, la madre del poeta. Ribaltata come un birillo dal dolore, sembra avere nelle pupille la morte del suo Pier Paolo più che del divino Nazareno. E i suoi occhi poi, riempiti di luce, brillano, mentre porta dei fiori di campo al sepolcro e si imbatte nell’angelo della risurrezione. Suo figlio, il poeta, è risorto!

È capitato anche a me di salutare mia mamma in questi giorni. Di sentire quanto fosse vera quella supplica del poeta, “ti supplico madre di non voler morire”.
In quella preghiera c’è il bambino che scende nella botola segreta. Ma questa volta la notte non passa. Si riemerge con l’ultima, estrema spinta dal grembo originario. Davanti alla morte della madre c’è sempre il bambino. Non l’uomo adulto con le sue rassicuranti riflessioni. C’è il liquido amniotico irrazionale che prima di abbandonarti sembra darti l’ultima possibilità di andare verso la morte o verso la vita. Lasciando a te la libertà di appassire o di germogliare.
Nella Bibbia sono scritte le parole del profeta Isaia (al capitolo 43): «Se dovessi attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno, se dovrai attraversare il fuoco non ti scotterai»; sembrano quelle di una madre, o di chi si prende cura di qualcuno che ama. E chissà se noi abbiamo imparato questo da Dio, o se Dio abbia appreso questo guardando le madri, guardando le donne. Valda, mia madre, ci ha detto queste parole tutta la vita: non come una lezione di catechismo, ma come un modo di stare, di crescerci, di educarci insieme a nostro papà. «Sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo», continua ancora Isaia.
Sei degno di stima anche quando fai scelte che non capisco, sei prezioso ai miei occhi, anche quando non lo sei più per molti. E poi io ti amo, non perché sei importante, non perché sei invincibile, ma perché sei Tu. E più diventi te stesso e più ti amo. Perché solo allora potrò specchiarmi nei tuoi occhi senza confondermi. Sarò me stessa perché tu sarai te stesso.
Il salmo più corto della Bibbia, il 131, recita: «Io resto sereno e tranquillo come un bambino in braccio a sua madre». Li vediamo, i bambini e le bambine in braccio alle loro madri, anche quelli devastati dalla guerra in questi tempi. I bambini e le bambine di Gaza. Lì, in braccio alla madre, è il loro rifugio. Tutta la vita cerchiamo di stare in piedi da soli, di diventare adulti, di rielaborare quell’abbraccio non come un confine ma come una possibilità di inventarne di nuovi. Di diventare noi rifugio per altri.
Succede poi che, quando nostra madre invecchia, siamo noi a tenerla dentro le nostre braccia, a dirle fino alla fine “stai tranquilla mamma, stai tranquilla e serena, la notte non dura, la luce presto viene”.
Il Vangelo ci ha raccontato di una donna. Ecco come viene definita la Siro-fenicia (Mc 7,24-30): una donna, prima di ogni ruolo, prima che madre, donna. È una donna coraggiosa perché davanti a Gesù, che dentro la sua cultura, la sua educazione traccia un confine (“sono venuto solo per i figli, non per gli stranieri”, che in modo dispregiativo si chiamavano “cani”), questa donna gli insegna a sconfinare. Questa volta, sì, è proprio Gesù che accetta la lezione della donna. Anche mia figlia straniera, che sta morendo, ha diritto al pane, alla vita, alla dignità.  Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, figli perfetti e figli imperfetti. «I figli sono figli, e basta…», come ha detto bene Eduardo De Filippo in Filumena Marturano.
La storia non si fa sui mausolei dei faraoni, sulle tombe dei generali, ma sulle ossa dei piccoli, degli ultimi, delle donne e degli uomini liberi e coraggiosi. Anche la Valda è stata una donna coraggiosa. Nel senso che aveva molto cuore (cor-cordis, come significa la parola). Ricordava quando i fascisti buttavano giù la porta di casa ai Molini di San Michele Extra (Verona) dove era nata, per catturare suo zio Nello, partigiano. Aveva imparato che si può resistere al male. Che anche in guerra si può scegliere da che parte stare (I bambini ci guardano, un film di Vittorio de Sica, ce lo ricorda). La mamma vedendo i bambini di Gaza diceva “avranno un rifugio dove ripararsi?”, come capitava a lei e ai suoi fratelli durante la Seconda guerra mondiale. Il Vangelo è una pagina aperta, da riscrivere ogni volta. Era capitato anche alla mamma di vivere l’abbandono del padre. Poi lui era tornato invecchiato, malato e chiedeva di esaudire un ultimo desiderio: essere accolto in casa. Morire a casa… E lei disse “vieni”. Tutti ricordiamo la parabola di quel padre che accoglie un figlio andato lontano. Ma non ce n’è una che racconta di un figlio, di una figlia, che ri-accoglie il padre. Forse intendeva questo Gesù, quando dice: “Non vi meravigliate, vedrete cose più grandi di queste”? Il Vangelo cioè può continuare a farci immaginare storie inedite, che sconfinano, che inventano cose che ora ancora non vediamo. Questo può capitare a tutti, a chi pensa di credere e a chi pensa di non credere. Perché il Vangelo, come diceva ancora Pasolini, è pienezza di umanità.
La mamma ci ha insegnato queste cose, ai suoi figli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti. Ci ha insegnato la dolcezza della resistenza. Malata, era stata per tre anni (dai 17 ai 19) prima a Padova e poi a Malcesine per curarsi di Tbc. Il professore aveva chiamato lei e nostro papà, allora giovani “morosi”. “Vedo che vi volete bene so che volete sposarvi”, aveva detto serio, “ma come ho già detto a te, Valda, lo devo dire anche a Raffaele, non potrete avere bambini”. Loro si sposarono invece, e ogni figlio lo portarono puntualmente alla clinica, davanti agli occhi allibiti del professore: uno, due e tre, fino a che questi aveva detto: “Ho capito, Valda, hai fatto bene, ci siamo sbagliati noi”. Ecco, questo è un frammento della piccola, immensa resistenza delle donne…
Ora che il viaggio è compiuto rimane questa supplica al divino della madre, ora che la morte è arrivata, questa arcaica e rivoluzionaria preghiera si accende perché la madre, la vita, non voglia morire nei nostri occhi, nel tremore delle mani, nella corteccia dell’olmo e nelle primavere che verranno quando sarà di nuovo sciolta la neve: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…».

Le immagini del mondo

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Una delle lezioni che desta più stupore in quinta è quella in cui confrontiamo alcune carte geografiche. Recupero retaggi dell’esame di cartografia fatto all’università e premetto che non esiste la cartina perfetta, adatta a ogni scopo, ma conta lo scopo che ci si prefigge, dal quale dipende l’adattamento che si decide di accettare. “E’ però importante” aggiungo “che, quando la prossima estate, dopo la Maturità, sarete indecisi se fare il giro della Groenlandia o dell’Africa, siate consapevoli che non è proprio indifferente cosa scegliere”. Se ne parla su AfricaRivista in un articolo di Cèline Nadler.

“L’Unione Africana (Ua) ha ufficialmente approvato una campagna per sostituire la mappa di Mercatore, ampiamente utilizzata fin dal XVI secolo, con una proiezione geograficamente più accurata. L’obiettivo, secondo l’organizzazione continentale, è quello di correggere una distorsione storica che riduce artificialmente le dimensioni dell’Africa e di rafforzare la posizione del continente sulla scena internazionale.
Creata nel 1599 dal cartografo fiammingo Gerardus Mercator per la navigazione marittima, questa proiezione fu una delle prime in assoluto a rappresentare rotte di navigazione immaginarie e arcuate come linee rette visibili. La sua semplicità per la navigazione marittima ne consolidò la popolarità all’epoca, ma i suoi enormi errori divennero presto difficili da ignorare. In effetti, la proiezione di Mercatore ingrandisce le regioni vicine ai poli, come il Nord America e la Groenlandia, mentre riduce significativamente quelle lungo l’equatore, come l’Africa e il Sud America, al fine di garantire una direzione costante.
“Può sembrare solo una mappa, ma in realtà non lo è”, ha affermato a Reuters Selma Malika Haddadi, vicepresidente della Commissione dell’Ua. “Questa proiezione ha dato l’illusione che l’Africa sia marginale”, in quanto il continente appare leggermente più piccolo del territorio artico della Groenlandia. L’Africa è invece il secondo continente più grande del mondo, più di 14 volte la Groenlandia, e ospita oltre un miliardo di persone e decine di nazioni. Anche l’Europa, rappresentata come più grande del Sud America sulla mappa di Mercatore, è in realtà la metà.
La campagna “Correct The Map”, guidata dalle organizzazioni Africa No Filter e Speak Up Africa, sta promuovendo l’adozione della proiezione Equal Earth, introdotta nel 2018 e progettata per rappresentare i continenti in base alle loro dimensioni reali. “Le dimensioni attuali dell’Africa sulla mappa sono sbagliate”, ha denunciato Moky Makura, direttore esecutivo di Africa No Filter. “Questa è la campagna di disinformazione più longeva al mondo e deve cessare”.

Al di là di una semplice questione cartografica, i sostenitori della riforma ritengono che questa distorsione influenzi l’istruzione, i media e le politiche pubbliche. Fara Ndiaye, co-fondatrice di Speak Up Africa, ha sottolineato che l’uso della mappa di Mercatore incide sull’identità e l’orgoglio degli africani.
L’Unione Africana, che conta 55 Stati membri, ha confermato che questa lotta fa parte della sua ambizione di “ripristinare il giusto posto dell’Africa sulla scena globale”, facendo eco alle crescenti richieste di risarcimento per il colonialismo e la schiavitù.
La campagna si estende oltre il continente. Anche la Commissione per le Riparazioni della Comunità Caraibica (Caricom) ha sostenuto la proiezione Equal Earth, vedendola come un rifiuto dell’”ideologia di potere e dominio” veicolata dalla mappa di Mercatore.

Mentre alcune istituzioni come la Banca Mondiale utilizzano già le proiezioni Winkel-Tripel o Equal Earth per le loro mappe statiche, le mappe di Mercatore rimangono lo standard in molti contesti, tra cui scuole e applicazioni digitali [devo dire che nella mia scuola da anni non ne vedo: la proiezione più diffusa è la azimutale equivalente di Hammer con polo equivalente di Wagner, ndr]. Google Maps, ad esempio, ha abbandonato la visione Mercatore solo nel 2018 sulla sua versione desktop, ma continua a utilizzarla di default sui dispositivi mobili. Anche il Goddard Institute for Space Studies (Giss) della Nasa, agenzia spaziale statunitense, ha adottato la proiezione Equal Earth, per evitare distorsioni dimensionali grossolane.
Per secoli, gli esperti hanno dibattuto la questione: è possibile rappresentare accuratamente un mondo tridimensionale e sferico su una superficie piana? È possibile prendere un oggetto arrotondato, come ad esempio un pallone da calcio, tagliarlo, incollarlo su una tavola e ottenerne una rappresentazione precisa? Molti esperti concludono che la risposta è un netto no. Le mappe, sostengono, sono intrinsecamente una menzogna, sempre a compromessi su qualcosa: area, distanza o altro. Altri, invece, sostengono che esistano mappe quasi perfette e che debbano essere evidenziate.
Nel corso del tempo, diverse proiezioni cartografiche hanno cercato di colmare le lacune di Mercatore, ma tutte hanno compromesso uno o più fattori. Ciò ha reso difficile per i sostenitori della giustizia sociale sostenere una proiezione che rappresentasse meglio il Sud del mondo.”

Il valore dell’imprevedibile

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

I colloqui con i genitori di allieve e allievi di quinta si concentrano spesso sul dopo-liceo, sulle prospettive future: frequentemente raccolgo la preoccupazione di chi non ha ancora deciso, di chi è perplesso, di chi teme la scelta di una strada “sbagliata”. Allora mi capita di raccontare il mio anno e mezzo di scienze geologiche prima di comprendere quale fosse il mio cammino; racconto anche quanto in realtà la strada “giusta” fosse ben delineata dentro di me, nascosta però da mille rovi e arbusti che, nel tempo, l’avevano coperta. Forse sarebbe stato comodo incontrare quel personaggio di cui Alessandro D’Avenia parla spesso quando affronta l’Odissea: un Mentore che mi sapesse consigliare, che mi aiutasse a leggere meglio dentro di me quella risposta di cui andavo cercando. D’altra parte riconosco che quello che talvolta io stesso ho considerato un anno e mezzo buttato via, è stato forse uno dei periodi più fecondi della mia esistenza, perché mi ha aiutato a vedere tutto ciò che non volevo diventare. Intuire chi si vuole diventare, ascoltare una vocazione, accogliere la risposta che noi stessi ci diamo, dare una direzione all’imprevedibile che si palesa: sono tutti verbi declinati all’infinito che richiedono però un risposta che trovi una concretezza finita nell’esistenza.

Lascio allora spazio a un articolo della pedagogista Paola Bignardi, scritto la scorsa settimana su Avvenire.

“Una riflessione dedicata al rapporto dei giovani con il tempo potrebbe avere per titolo semplicemente “I giovani e il futuro”; questa è infatti l’unica dimensione temporale che essi percepiscono: il tempo che hanno davanti a sé. D’altra parte, quello che hanno alle loro spalle è troppo breve per poter costituire una memoria significativa. E il presente? In esso sono immersi, e lo vivono – forse al pari di molti adulti – come una realtà così scontata da non rendersi conto di essa. Se ne rendono conto quando è troppo disordinato, arruffato; in quelle situazioni allora appare che la libertà di occupare il tempo secondo il desiderio del momento o i propri capricci non è per niente appagante. Anche l’istante nel quale sono immersi ha bisogno di ordine, di ritmo, per diventare veramente esperienza di serenità e di crescita. La necessità di una disciplina per la propria vita è difficile da proporre alle nuove generazioni, al di fuori di un contesto che mostri di essa l’utilità e il valore come stile di vita che può restituire tranquillità e armonia alle proprie giornate.
Il tempo verso cui la tensione dei giovani è protesa è il futuro; questa è la dimensione attesa, desiderata. Il futuro è la vita in cui ha inizio l’autonomia, la realizzazione dei propri progetti, dei propri desideri. Non ci sono ancora delusioni e quindi ci si può orientare verso il domani caricandolo di aspettative e di idealità. Anche i ragazzi e le ragazze di oggi guardano al futuro con il desiderio di realizzazione personale e aspirano a una vita piena, serena, in cui poter concretizzare i propri sogni: trovare un lavoro soddisfacente, costruire relazioni autentiche e durature, e “diventare qualcuno” senza perdere la propria autenticità. Per alcuni, l’università rappresenta un passaggio decisivo, ma è anche fonte di incertezza: non sempre le idee sul percorso da intraprendere sono chiare, e prevalgono talvolta la confusione o la paura di sbagliare; ne è riprova il numero di ragazzi e ragazze che dopo il primo anno di università si accorgono di aver intrapreso una strada che non fa per loro e cambiano facoltà, oppure si trascinano lentamente in un percorso culturale che non li soddisfa. Accanto a questo slancio positivo vi è nei giovani uno sguardo preoccupato. Il tema del futuro è più facilmente comprensibile alla luce delle considerazioni svolte qualche settimana fa in queste pagine sul dolore dei giovani. In una ricerca realizzata dall’Osservatorio dell’Istituto Toniolo nel 2013 risultava un dato inquietante: il 67% dei giovani interpellati nell’ambito dell’indagine dichiarava di pensare il proprio futuro come pieno di rischi e di minacce. Si tratta di una percentuale che si è mantenuta stabile nel corso degli anni, con un peggioramento nel periodo della pandemia, quando la fiducia nel futuro si è abbassata significativamente, mostrando nella popolazione femminile la componente più fragile e più sensibile alle ragioni della paura. In una ricerca attualmente in corso sul territorio delle diocesi di Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto la situazione sembra essere ancor più severa. I giovani che hanno dichiarato di guardare al futuro con preoccupazione e incertezza sono il 71%, cioè quasi tre quarti degli interpellati.
La pandemia, le crisi economiche, le guerre e il cambiamento climatico incidono profondamente sulle nuove generazioni. «Ho ansia e paura per il futuro – dice un giovane diciottenne –, il mondo è a rotoli». La sottile sfiducia verso gli adulti e soprattutto verso le istituzioni accentua il senso di precarietà e l’incertezza della realizzazione dei propri progetti e obiettivi. Le cause sociali e strutturali si riflettono sul piano individuale e danno forma a un interrogativo sulla propria persona, sulla propria identità. Dice un giovane ventiduenne: «Che futuro avrò? Che persona sarò? Chi sarò tra 5-10 anni, domani? Troverò una svolta nella mia vita?». Al tempo stesso vi è nelle ragazze e nei ragazzi di oggi la consapevolezza del delicato valore della loro età e della loro condizione. Dice una giovane: «Attraverso l’adolescenza so che da una bozza di ciò che sono ora può uscire un capolavoro». È come sentirsi un prezioso vaso di cristallo che prende forma a poco a poco nelle mani di un artigiano che, per quanto esperto, corre sempre il rischio di spezzarlo. Ragioni esterne e interiori si intrecciano; per qualcuno troppo fragile questa situazione diventa una sfida insostenibile; per molti, motivo per approfondire le proprie ragioni, il proprio atteggiamento di fronte alla vita, per rendere più mature le proprie scelte. Dietro la paura del futuro c’è spesso una domanda spirituale implicita: «Perché vale la pena vivere, impegnarsi, sperare?». Anche nell’inquietudine rispetto al futuro molti giovani esprimono la loro domanda di senso, la loro inquietudine spirituale, che spesso non approda alle forme religiose tradizionali ma che rivela tratti di una nuova ricerca: di relazioni autentiche, di cura del sé, di connessione con la natura, di armonia interiore, di giustizia sociale. Pensare a un futuro pieno di rischi e di incognite non significa restare di fronte a esso passivi e rassegnati, ma piuttosto consapevoli. I giovani oggi sanno che il futuro non verrà loro incontro in maniera scontata, ma richiederà loro impegno, intelligenza, determinazione. La complessità del futuro spaventa meno quei giovani che possono far conto su una famiglia accogliente, presente, capace di dialogo; questi si sentono meno soli davanti all’ignoto e alla loro paura di fallimento. In contesti familiari fragili, soprattutto dal punto di vista relazionale, l’incertezza del futuro rischia di essere vissuta come minaccia concreta, più che come sfida potenziale.
Accanto alla famiglia, il sostegno per guardare al futuro con fiducia sono gli amici. Nella ricerca citata, che riguarda un migliaio di adolescenti, gli amici vengono continuamente riferiti come la principale fonte di sostegno emotivo, più della famiglia e spesso più delle istituzioni scolastiche o religiose. Il futuro smette di essere un nemico quando lo si affronta “insieme”. I rapporti amicali 1possono aiutare perché costituiscono la grande risorsa del mondo giovanile. L’amicizia è una delle forme principali di spiritualità vissuta: è un luogo di fiducia, di presenza, di dono reciproco. Molti giovani che si dichiarano “non religiosi” trovano proprio nell’amicizia quell’esperienza del bene gratuito che un tempo veniva mediata da contesti religiosi o comunitari. L’amicizia diventa così un luogo del bene gratuito, una via relazionale alla fiducia, in cui il futuro non appare più come una minaccia ma come un cammino condiviso. Anche attraverso l’amicizia l’inquietudine verso il domani rappresenta la porta che apre a un’esperienza spirituale. «La serenità in famiglia e il sostegno dei miei amici – dice un ragazzo – costituiscono l’aiuto più concreto per affrontare il futuro». In una società dove le istituzioni tradizionali – famiglia, scuola, religione – faticano a offrire orizzonti stabili, gli amici diventano il luogo in cui si impara che il futuro non si affronta da soli, ma si può affrontare insieme. L’orizzonte di senso dei giovani non è individualista ma relazionale. L’incertezza del futuro non è eliminabile, ma è abitabile se è possibile viverla nel sostegno reciproco. In questa prospettiva, ciò che potrebbe aiutare i giovani ad affrontare il futuro in modo più positivo non è tanto una – improbabile – promessa di stabilità, quanto la possibilità di radicarsi in legami significativi e in una visione di sé che dia direzione e valore all’imprevedibile e ne trasformi il potenziale distruttivo in una risorsa per crescere.”

Quel filo di speranza

Ieri siamo andati con i bimbi a vedere uno dei tanti villaggi della zucca che stanno fiorendo in questo periodo. C’era anche un piccolo labirinto fatto con dei pallet messi in verticale. Mariasole vi si è infilata immediatamente seguita da Fra: ovviamente mi sono accodato per procedere alle spalle del piccolo che ben presto ha perso le orme della veloce sorella. Ma non ha perso la speranza: ha iniziato a sbirciare tra le assi dei pallet e a chiamare “Tata” ad alta voce, senza fermarsi, continuando a procedere, come se un invisibile filo lo legasse a Mariasole. E in poco tempo è uscito dal labirinto anche lui. Mi è tornato in mente tutto questo leggendo un articolo di suor Maria Gloria Riva su Avvenire.

“Non tutti ricordano che l’unico Giubileo del XIX secolo fu quello del 1825, celebrato – esattamente 200 anni fa – da un Papa di nome Leone, però XII. I giubilei successivi, indetti da Pio IX nel 1850 e nel 1875, non ebbero luogo a causa dei disordini politici che accompagnarono l’unità d’Italia, ma anche per il serpeggiare di guerre e depressioni economiche in tutta Europa. Non è difficile comprendere come la parola speranza in tali contesti culturali fosse ritenuta vacua e prima di fondamento. Il filosofo Nietzsche riteneva la speranza non una virtù, ma un sentimento negativo che spinge ad impegnare le proprie energie entro inutili sforzi. I pittori, in quel periodo, presero a dipingere la speranza separata dalle altre due virtù, fede e carità, attingendo volentieri all’immagine biblica suggerita dal Salmo 137 (1-3): Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!».
L’umanità, prigioniera delle Babilonie di ogni tempo, è incapace di salmodiare i canti della speranza. Così il clima culturale di quegli anni non fu tanto diverso dal nostro, dove guerre e depressione economica, miraggi espansionistici e giochi di potere, minano la fiducia assottigliando sempre più il filo della speranza.

A questo filo si aggrappò l’artista inglese George Frederic Watts quando nel 1886 dipinse la sua Hope. Il soggetto, cui l’artista dedicò varie versioni, conobbe una grande popolarità e, nella sua forza simbolica, parla ancora a noi oggi. L’espressione filo della speranza è collegata al mito di Arianna che consegnò all’amato Teseo, avventuratosi nel labirinto per uccidere il Minotauro, un gomitolo, il cui filo lo avrebbe ricondotto all’uscita. In realtà anche il termine biblico speranza, in ebraico Hatiqvà, contiene l’immagine di una corda (qav) tesa fra due poli. Ed è proprio entro questi due universi culturali, l’ambiente biblico e quello greco, cui Watts attinge per dipingere la speranza. La donna, nella posa della notte michelangiolesca, è bendata. La cetra con la quale cantare i canti di speranza è rimasta con una sola corda. Tutto appare perduto, oscuro difficile. Acque e nubi minacciose minano il globo terrestre e ogni pronostico positivo appare futile. La corda tesa però, l’ultimo filo della speranza, ben si accorda con una piccola stella che brilla in alto, appena visibile, attestando agli scoraggiati di ogni tempo e latitudine, che sorge sempre, oltre le nostre cecità, la stella della speranza.

A questo filo si aggrappa anche un artista contemporaneo, Viviani Vanni, che in una litografia dedicata al mito di Arianna, lega la corda tesa non ai canti di Sion, ma ad una mela. Il filo attraversa un’altra mela che, significativamente, rappresenta il grande labirinto del mondo internettiano. La mela, lo sappiamo, ci riporta a quella nostalgia delle origini, a quella sapienza capace di penetrare la realtà regalata ai due progenitori e irrimediabilmente persa dopo il peccato. Così per Vanni questa sapienza si riannoda grazie al mondo del Web, tuttavia la grossolana fattura della corda e il verismo della mela ci ricordano che anche nell’era dell’intelligenza artificiale è sempre necessario l’uomo, l’uomo con i suoi interrogativi ancestrali e con il suo percorso umano. Insomma, contrariamente alle filosofie nietzschane, la speranza è l’insopprimibile nostalgia dell’uomo che, senza dimenticare l’immanenza della storia, tende all’infinito. Cosa dice dunque a noi un Giubileo, come quello del primo quarto del XXI secolo, dedicato alla speranza? Cosa può fare l’uomo, sempre più piccolo in un mondo globalizzato, ad affrontare sfide che appaiono ben più grandi di Babilonia e dell’antico Minotauro?
La Chiesa, i Papi ci vengono incontro con la loro risposta semplice e super partes. Dal 2000 ad oggi la bambina da nulla della speranza, come la definisce Peguy, possiede un tesoro dentro un fazzoletto. Se Peguy si riferiva alla Veronica del Calvario, che ben prima delle tecniche fotografiche fissa nel tempo il volto del Cristo Eterno, il suo fazzoletto ci porta anche a realtà più quotidiane.

Seicento anni fa, nel 1425, Tommaso di Ser Giovanni di Mòne, detto Masaccio, dipinse nella Cappella Brancacci una stupenda, quanto drammatica, fuga dei progenitori dall’Eden. Qui viene immortalata la porta chiusa del Paradiso e non certo a caso: fu proprio nel 1425 che papa Martino V aprì, per la prima volta, la Porta Santa della Basilica di San Giovanni in Laterano. Così Masaccio pone i progenitori, scacciati dal paradiso, tra una porta chiusa e una scena di speranza. La scena è nota come il tributo e ritrae il Salvatore al centro della scena mentre, davanti all’esattore delle tasse, indica a Pietro il vicino mar di Tiberiade. Pietro, su comando di Gesù, apre la bocca a un pesce e vi trova la moneta da consegnare al Tribuno. Così, anche il fazzoletto da nulla di Pietro custodisce una grande speranza. Il pesce che reca a Pietro l’importo delle tasse è simbolo di Cristo che ha già pagato per la liberazione dell’uomo. «Chi è sottoposto a tassazione: i figli o gli schiavi?» chiese Gesù. Poiché i figli ne sono esenti ecco – dice Cristo – io ho già pagato per tutti. Questo è il senso del Giubileo e la grande speranza anche per l’uomo contemporaneo. C’è uno che ci considera figli e ha già pagato il prezzo del nostro riscatto. Non c’è disperazione per chi entra nella Chiesa dove la porta del Paradiso è stata riaperta, la tassa della colpa pagata e le braccia della misericordia allargate per l’eternità.

In tal senso è efficacissimo il confronto, nell’arte di Giotto, fra speranza e disperazione. Nell’impianto iconografico della Cappella degli Scrovegni, Giotto pone la personificazione della Speranza, di fronte a quella della Disperazione. La Speranza, ritratta in uno slancio leggero ed elegante, possiede ali candide e, per quanto i piedi poggino a terra, è colta in volo. Il volto, rivolto in alto, è orientato verso un punto che va oltre il visibile. Le mani protese, infatti stanno ricevendo da Dio una corona di gloria. Non così invece la Disperazione. Il peso del suo pessimismo e dei pensieri cupi sembra trascinarla sempre più in basso. Mentre i suoi piedi poggiano a terra, il suo collo è stretto nella morsa di una corda degli impiccati. Un demonio le ha rubato il cuore e le mani sono chiuse a pugni stretti. L’orizzonte di chi dispera è quello della mediocrità e del proprio io. In un tale orizzonte ogni visione profetica è impensabile. Al contrario, l’orizzonte dello speranzoso è sempre fuori di sé, tiene conto di un più in là e le sue mani aperte sono pronte non solo a dare, ma anche a ricevere la novità di una salvezza che può venire solo dall’alto. L’arte, in pieno accordo con i Giubilei di ogni tempo, ci racconta così la speranza: uno sprone ad andare oltre sé stessi, un invito a confidare: c’è sempre un filo che resta teso nella vita e una stella che brilla oltre le nostre oscurità quotidiane.”

Tra De profundis e Mercoledì

Quando si parla di tradizioni il mio pensiero va sempre al 1° novembre: da bambino il pomeriggio (da poco diventato più breve con il cambio d’ora) lo passavo in visita ai cimiteri (Palmanova, Bagnaria e Campolonghetto di solito) e a qualche parente (di quelli che si vedevano meno) e la sera rosario in latino a casa dei nonni insieme a zii e cugini. I due ricordi più vividi sono le risate trattenute a stento per quella lingua oscura di cui non capivamo niente (in particolare il De Profundis) e il crepitio del fuoco che cucinava le castagne. Poi presto a casa perché il giorno dopo c’era scuola. Helloween non c’era, è arrivato molto dopo. Oggi però, da papà di una bimba che si vestirà da Mercoledì Addams e di un bimbo che sarà uno scheletro, ci faccio i conti e la scelta che cerchiamo di portare avanti Sara ed io è quella di tenere insieme le due cose: l’elemento nuovo e la tradizione.
In questo post notturno voglio dare una colonna sonora a questo intento e mi affido ad un autore poco conosciuto ai più: Pédro Kouyaté. Lui è un griot, un poeta e cantore maliano con il ruolo di conservare la tradizione orale degli avi. Nel 2024 ha pubblicato l’album Following e a giugno 2025 ha rilasciato una bellissima intervista a Nadia Addezio di Confronti: vi si parla di memoria, tradizione, cultura, amore, blues, antropologia, nomi, morte, vita, bambini, esilio. Eccola.

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“Musicista, cantante, autore, compositore, attore, produttore, musicoterapista. Sono molteplici le anime e professioni che qualificano Pédro Kouyaté, classe 1972. Cresciuto in Mali, incarna la figura del griot – figura centrale nella cultura dell’Africa occidentale, custode della memoria collettiva e narratore musicale – e si forma nell’ambiente musicale della Symmetric Orchestra di Toumani Diabaté, leggenda della kora. Parallelamente, si laurea in socio-antropologia a Bamako, unendo l’approccio accademico alla sua vocazione artistica. Dopo un’importante collaborazione con il bluesman Boubacar Traoré, che lo porta a esibirsi in Africa, Europa e Stati Uniti, si stabilisce a Parigi nel 2006 e fonda il proprio gruppo, Pédro Kouyaté & Band.
Nella capitale francese si afferma come interprete e divulgatore della tradizione musicale africana, con esibizioni al Musée de la Musique della Philharmonie de Paris e collaborazioni con nomi del calibro di Archie Shepp e Jean Philippe Ryckiel. Negli ultimi anni, Kouyaté ha spinto la sua ricerca musicale verso nuove direzioni, mescolando sonorità tradizionali con elementi elettronici. Il suo nuovo progetto, Following, prodotto dall’etichetta discografica Quai Son Records, rappresenta un omaggio agli antenati e un’ulteriore tappa nella sua incessante esplorazione artistica.

Il cognome Kouyaté appartiene a un’antica stirpe di griot dell’epoca Mandinka. La sua discendenza ha segnato il suo destino di musicista e paroliere?
Quando si nasce in una famiglia griot, la madre fin dal concepimento è educata a portare in grembo il futuro nascituro con l’idea che quel neonato sarà un griot. Segue i consigli dei medici tradizionali, compie abluzioni rituali e parla alla luna. Ciò significa che sei preparato sin dal principio della tua vita alla tua funzione.

Lei ha collaborato con il leggendario Toumani Diabaté e la Symmetric Orchestra. Che impatto ha avuto sulla sua crescita artistica?
Toumani è l’equivalente dei grandi filosofi che hanno lavorato in modo empirico. Con lui puoi incrociare Martin Scorsese. Nel cortile di Toumani, puoi incontrare il musicista statunitense Taj Mahal. È stata una fortuna essere il suo compagno di viaggio. Toumani ha notato subito qualcosa in me: ha visto che il mio interesse era diverso da quello dei miei amici, che ero attratto dalla musica e dalla lettura. Toumani mi ha insegnato tutto, proprio come Michelangelo e Leonardo da Vinci trasmettevano il loro sapere ai loro allievi. Ci sono i grandi maestri e ci sono i discepoli, e io credo molto in questa relazione di subordinazione. Mi ha insegnato tutto sulla musica: come respirare, come sentirla. È stato la mia prima grande scuola, nonché il mio padre spirituale, poiché ero orfano di padre. Insomma, da lui ho imparato tutto. Indimenticabile.

Da questa esperienza, di fatto, è iniziata la sua carriera europea.
La mia carriera europea inizia con Boubacar Traoré, uno dei più grandi bluesman del Mali e del mondo. Mi aveva notato quando ero con Toumani. Mi ha preso sotto la sua ala e insieme abbiamo fatto sei volte il giro del mondo. Così, decisi di trasferirmi in Europa per imparare. Frequentai scuole di musica, studiai le origini del jazz. Imparare divenne quasi un’ossessione per me, una necessità vitale. Studiai i canti che venivano intonati nei campi di grano. Da lì provengono i Negro Spirituals. Da quell’esperienza di duro lavoro, le persone iniziarono a suonare musica, a cantare. È in quei momenti che il blues ha preso vita, ed è stato Boubacar Traoré a insegnarmelo. Con lui ho viaggiato per l’Italia, specialmente nel Nord, e ho avuto l’occasione di osservare come gli artisti che praticano musica tradizionale lavorano e provano. Ho scoperto il fado, i canti popolari italiani, la musica classica. Ho imparato moltissimo. È stata davvero una fortuna immensa.

La sua musica fonde tradizione ed elettronica, un ponte tra mondi ed epoche diverse. Da dove nasce questa spinta alla sperimentazione?
Perché per me la vita è mescolanza. È come il giorno, che si avvale della mattina, del pomeriggio e della notte. Ho quindi scelto di mantenere salde le mie radici e di offrire agli altri una cartolina del mio Paese. Non posso fare musica senza invitare gli altri a farne parte. Amo questa apertura. E poi vengo dal Mali, che è un Paese multietnico. Io stesso sono il frutto di un incrocio: mia madre era fulani, mio padre mandinka. Io sono “meticcio”.

Come integra la sua formazione in socio-antropologia nella sua musica?
Basta guardare il mio ultimo album: ho invitato persone come il trombettista franco-svizzero Erik Truffaz, il cantautore afroamericano Big Daddy Wilson, il musicista francese Arthur H. Il mio interesse si esprime, dunque, invitando persone di background musicali e culturali differenti a condividere il loro amore per la mia terra. L’Africa è amata, ma spesso noi africani crediamo che il resto del mondo ci consideri “esotici” quando non “inferiori”. La mia prospettiva, quindi, si basa sull’accoglienza di culture diverse. Grazie all’antropologia ho avuto un alibi e un’opportunità straordinaria per lasciare il mio Paese, conoscere altre persone e scoprire come vivono. Tuttavia, l’antropologia è anche una scelta, che si riduce nel voler avere l’incontro con l’altro.

Quali artisti hanno influenzato maggiormente il suo percorso?
Luciano Pavarotti, Miles Davis, Aretha Franklin, Ry Cooder, Ahmad Jamal, Yusef Lateef. Tutte persone che hanno avuto il coraggio di aprire nuove strade e che hanno aperto la musica al cambiamento. Il pianista e compositore Bill Evans, per esempio, ha inserito la musica classica nel jazz. Poi ancora: James Brown, Prince, fino ad arrivare a Michael Jackson e Thelonious Monk. Come per me, per questi artisti la musica tradizionale è stata alla base della loro creazione artistica.

Quando ha capito che blues e jazz sarebbero stati i capisaldi del suo linguaggio artistico?
Se penso alle mie origini, l’essere umano è sempre partito alla ricerca di migliori “risorse vitali”. Ciò dettato anche dalla peculiare posizione geografica in cui si trova il continente africano tutto. Il Mali, in particolare, si trova in una zona del pianeta dove l’acqua è scarsa e la siccità è una realtà. Tale penuria spinge a spostarsi e intraprendere un viaggio, che è l’esilio: una necessità per sopravvivere, più che una scelta. E cos’è questo se non il blues? Tu lasci il tuo Paese, ma il tuo Paese non abbandona te. L’esilio è universale. Siamo sempre stranieri in qualche parte del mondo che non sia casa nostra. E il blues non è mai lontano dalla storia dell’umanità.

Ci racconti il suo ultimo disco, Following, partendo dalla nona traccia, Sahara Blues.
Sahara Blues è un brano eseguito con Arthur H. dove affrontiamo i temi dell’ambiente e dell’ecologia, tematiche che toccano molto da vicino il Mali. Ma non solo: se il deserto è un luogo particolarmente ostile alla vita della fauna e della flora, oggi impera un “deserto umano” poiché il Mali è assediato dai jihadisti. Oggi nel Sahara ci sono povertà intellettuale e armi. Sahara Blues vuole essere un richiamo alla memoria culturale. Del resto la funzione del griot è ripetere e raccontare la Storia affinché non venga mai dimenticata. La storia, il passato, l’ecologia sono una chiave per comprendere le nostre terre e per mettere ordine, nelle nostre terre come nelle nostre menti.

Come è nato Following e cosa l’ha spinta a renderlo un omaggio agli antenati?
Ero in isolamento durante la pandemia da Covid-19 nella mia camera buia quando ho pensato: «Dove sono gli antenati? Cosa sta succedendo? Non abbiamo rispettato la vita e siamo stati colpiti in questo modo». Del resto, in tutti i libri sacri si parla di un tempo in cui gli uomini si perderanno. Se passeranno accanto all’amore senza riconoscerlo, se ignoreranno l’essenziale. Se il virtuale diventerà più importante del reale. E mi sono detto: «Wow! Ringrazio gli antenati per avercelo detto!». Quei messaggi sono rimasti nei canti che loro intonavano, quando subivano i colpi di frusta nei campi di grano, quando una persona resa schiava veniva portata via costretta ad abbandonare il suo villaggio e lavorare in campi che non erano i suoi. Pur non dimenticando mai da dove veniva. A quel tempi, venivano ripetute tutte le storie, le leggende, i nomi delle famiglie del villaggio di origine. Questo è rimasto vivo. E lì ho capito: Following significa “ciò che segue”. Questo disco vuole essere la continuazione dei nostri antenati e di ciò che viviamo oggi. L’urgenza di rendere omaggio agli antenati nasce dal fatto che io, come detto, sono un griot. I griot devono restituire, tramandare, recitare e perpetuare il passato, come si fa con i riti religiosi. Se una persona è virtuosa, sono i griot a doverlo raccontare. Sono la radiografia della società. Following è dedicato al Mali, ma anche a tutti i Paesi del mondo: non bisogna dimenticare la propria cultura, la propria famiglia, il nome di battesimo, il nome di famiglia. Perché anche il nome e cognome non sono casuali. Rispondendo alla prima domanda di questa intervista, o siamo attesi o abbiamo scelto di arrivare su questo pianeta. Non bisogna mai dimenticare il passato perché è tutto lì. Ogni popolo ha una storia. E la storia esiste per permetterci di risvegliarci e ritrovare il desiderio di vivere.

In Mabo, dedicata all’attore Mabô Kouyaté scomparso nel 2019, lei esplora il tema della morte. Qual è la sua visione?
Nel nostro Paese i defunti non muoiono per davvero: sono tra le nostre mura, scorrono nel nostro sangue, abitano nel nostro ventre, nei nostri sogni, nella nostra rabbia. Si muore due volte: la prima, quando si lascia questa vita; la seconda, quando l’ultima persona sulla Terra dimentica il tuo nome. I morti devono essere rispettati, perché dall’alto ci osservano.

A quali delle sue canzoni è più legato?
È difficile scegliere una sola canzone, come se avessi dieci figli e dovessi indicarne uno solo. Amo tutte le mie canzoni. Sa perché? Perché quando compongo, non impongo la mia volontà al cuore. È l’album che detta le sue regole. Non controllo il processo, non amo chi vuole controllare tutto. Bisogna lasciar andare, aspettare che la magia si crei da sola. Una volta che si stabilisce, è come una perla, una successione di armonie perfette. Amo ogni pezzo, ma vorrei che almeno le persone ricordassero il nome dell’album: Following.

C’è il rischio che l’eredità culturale dei griot vada perduta?
Non perderemo mai la cultura, non c’è alcun rischio. Questo perché esistono i griot, custodi della memoria collettiva, che ripetono e tramandano la cultura ogni giorno: nei matrimoni, persino durante le cerimonie funebri, i griot cantano. Finché ci sarà amore, ci saranno bambini. E finché ci saranno i bambini, ci saranno i griot. Tutto ruota intorno all’amore.”

La bellezza nella domanda

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Su Avvenire è stata inaugurata una nuova rubrica curata dalla fisica Gabriella Greison. Il nome è Interferenze e così la presenta l’autrice: “Scrivo questa rubrica perché sono — come tutti, forse — alla ricerca. Una ricerca che non è fatta solo di archivi, formule o viaggi nei luoghi dei fisici del Novecento, ma anche e soprattutto di  un bisogno interiore: dare un nuovo significato alle cose del mondo. Viviamo in un’epoca in cui le spiegazioni sembrano a portata di mano. Tutto è un link, un tutorial, un algoritmo che completa la frase al posto nostro. Eppure più le risposte si moltiplicano, più mi accorgo che le domande sono quelle che contano. Non basta dire “come funziona” — serve chiedersi “perché ci riguarda”, “che senso ha per me”. In questo cammino, Einstein è il mio faro. Non tanto per la relatività o per le fotografie spettinate che conosciamo tutti, ma per la sua capacità di tenere insieme due cose che di solito vengono separate: il rigore della scienza e il senso del mistero. Einstein non ha mai smesso di cercare, non ha mai smesso di stupirsi, non ha mai avuto paura di nominare Dio quando sentiva che le parole della fisica non bastavano più. Einstein come altri fisici (soprattutto quantistici) a cui sono legata e che scavano nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni.
Questa rubrica nasce così: dal desiderio di abitare quel confine invisibile tra scienza e spiritualità, dove i numeri non cancellano le emozioni, e le emozioni non negano i numeri. Voglio provare a raccontare storie che aprano spazi, che lascino entrare aria nuova, che mettano insieme ciò che spesso separiamo. Non so ancora dove porterà questa ricerca. Ma so che partire da Einstein significa partire da un luogo sicuro: il luogo in cui il pensiero più razionale si lascia attraversare dallo stupore, e l’uomo più logico del Novecento ammette che senza mistero la vita si spegne. Ecco cosa farò in queste righe: camminerò in quella zona di confine, raccoglierò indizi, proverò a dare voce a ciò che sfugge. Non con trattati, ma con racconti. Non con soluzioni definitive, ma con riflessioni aperte. Perché se il mondo ha ancora bisogno di senso, forse il primo passo è ricominciare ad ascoltare la spiritualità che ci abita. Domanda per voi: E voi? Quando è stata l’ultima volta che vi siete lasciati sorprendere da qualcosa che non sapevate spiegare? State sicuri che leggerò tutte le vostre risposte. Potete inviarle a
lettere@avvenire.it.

Riprendo la parola per dire che riguardo ad Albert Einstein quest’anno cadono, tondi tondi, diversi anniversari: 120 anni dalla teoria della relatività ristretta, 110 anni dalla relatività generale e 70 anni dalla morte avvenuta il 18 aprile 1955. Ma ecco il pezzo di Gabriella Greison.

“Da ragazzo Albert Einstein non aveva nessuna predisposizione al sacro. Anzi, al ginnasio di Monaco la religione gli stava stretta: dogmi, preghiere obbligate, riti che gli sembravano gusci  vuoti. A quindici anni, con la stessa radicalità con cui più tardi avrebbe spezzato le catene della  fisica classica, decise di liberarsi da ogni idea di un Dio personale. «Un’illusione infantile», la  chiamava. Poi arrivò la sua maturità scientifica, il suo trasferimento in America, e con esso l’illuminazione. Non nel senso mistico, ma in quello che appartiene a chi attraversa le profondità dell’universo e scopre che non tutto può essere spiegato con la logica. Mentre scardinava le leggi di Newton, mentre piegava lo spazio e il tempo, Einstein cominciava a percepire che c’era qualcosa di più grande. Lo chiamava «il Vecchio». Non era un Dio che ascolta le preghiere, ma un’entità più sottile: l’ordine nascosto della natura, la razionalità misteriosa dell’universo.
«Voglio sapere come Dio ha creato il mondo — scriveva — non mi interessano questo o quel fenomeno, questa o quella particella. Voglio conoscere i Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Era un parlare con Dio senza crederci davvero. Un dialogo che somigliava più a un esercizio filosofico che a una devozione. Eppure in quelle frasi si sente il respiro di un uomo che ha visto troppo per restare ateo in senso stretto. Einstein illuminato non abbraccia mai una religione. Non si converte, non fa professioni di fede. Ma riconosce che il linguaggio della fisica, da solo, non basta. «Il misterioso è ciò che non possiamo  penetrare, e che tuttavia percepiamo come significato più profondo della nostra esistenza». È questo il suo salto: da ragazzo scettico ad adulto capace di parlare con Dio — non per ricevere risposte, ma per non smettere di fare domande.
E così, il fisico che ha dato al mondo la teoria della relatività finisce per regalarci una visione più  assoluta: un Dio senza altari, fatto di equazioni e meraviglia, un’entità che non giudica ma che  invita a guardare più in profondità. Einstein non si immaginava certo un signore con la barba bianca seduto tra le nuvole a dispensare  premi e punizioni. Eppure parlava spesso di religione. E lo faceva con una formula che spiazza  ancora oggi: «Il più bel sentimento che possiamo provare è il senso del mistero. È la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Chi non lo conosce, chi non sa più fermarsi davanti allo stupore e restare rapito, è già come morto: i suoi occhi sono spenti». In pratica, aveva trasformato tutto questo in un sentimento di religious feeling. Non religione come  dogma, ma religione come vibrazione interiore, come consapevolezza che la realtà nasconde  qualcosa di infinitamente più grande di noi. Non un catechismo: un’emozione. Non un trattato di teologia: un brivido.
Perché lo scienziato che più di tutti ha cambiato la nostra visione del mondo — ha piegato lo  spazio, ha curvato il tempo, ha fatto ballare la luce — in fondo ci diceva che la vera radice non era la matematica, ma il mistero. E qui sta il punto. Oggi siamo così abituati ad avere risposte pronte che ci dimentichiamo la bellezza delle domande. Google risolve i dubbi, Alexa risponde in un secondo, l’intelligenza artificiale completa le frasi prima che le abbiamo pensate. Ma Einstein ci ricorda che la scienza nasce non dalle risposte, bensì dall’incapacità di smettere di stupirsi. C’è qualcosa di profondamente spirituale in questo. Non nel senso confessionale, ma in quel confine sottile dove la fisica diventa poesia. Quando Einstein diceva che «il misterioso è l’emozione fondamentale», stava riconoscendo che la realtà non è mai del tutto addomesticabile. Non tutto si lascia misurare, non tutto si lascia prevedere. Ogni volta che pensiamo di aver incasellato l’universo, lui ci sorprende con un paradosso, una particella, un lampo di inatteso. E allora la domanda che ci resta è: come risuona oggi questa idea? Forse così: la vita è meno lineare di quanto vorremmo, meno controllabile di quanto speriamo. Possiamo programmare agende, pianificare carriere, prenotare voli low cost per i prossimi sei mesi.  Ma poi arriva l’imprevisto, l’inaspettato, il salto quantico che non avevamo considerato. Ed è lì che ci accorgiamo di essere vivi.
Il senso del mistero non è una fuga dall’incertezza, ma la sua accoglienza. È accettare che non sappiamo tutto, e che va bene così. È riconoscere che c’è una bellezza nella domanda non risolta, una luce negli angoli bui. Einstein non ci stava invitando a costruire un tempio. Ci stava suggerendo di abitare la meraviglia. Di non perdere quello sguardo da bambini che si incantano davanti a una coccinella, a un’eclissi, a una formula scritta male sulla lavagna che però apre universi. Forse la sua vera eredità non è solo la relatività, ma questa: custodire il mistero come il bene più prezioso. Perché senza mistero non c’è ricerca, non c’è arte, non c’è spiritualità. E soprattutto: non c’è vita.”

Limite di velocità

Immagine creata con Gemini®

Oggi dedico il post a una delle cose che mi piace fare di più: rallentare, alzare il piede dall’acceleratore della frenesia delle mille incombenze quotidiane, mettere un limitatore della velocità. Per farlo mi giovo delle parole di Giuseppe Riggio che, nel numero di agosto-settembre di Aggiornamenti Sociali, ha dedicato il suo editoriale a questo tema.

“Ogni anno migliaia di persone percorrono a piedi Cammini noti da tempo o tracciati solo di recente. Perché lo fanno? Quali pensieri ed emozioni le accompagnano quando ritornano a casa in poche ore, viaggiando in pullman o in treno? La crescente popolarità che riscuotono questi itinerari accende i riflettori su un fenomeno singolare del mondo occidentale. In effetti, l’esperienza vissuta dai camminatori si compone di due dimensioni a prima vista opposte: all’andata si sperimentano la lentezza e la fatica del camminare per un lungo tempo; mentre nel tragitto a ritroso, generalmente, ci si affida alla velocità e comodità assicurata dai mezzi di trasporto. Così, quanti scelgono di percorrere i centrotrenta chilometri della Via degli Dèi, che va da piazza Maggiore a Bologna a piazza della Signoria a Firenze, camminano per cinque o sei giorni, immersi nella natura dell’Appennino tosco-emiliano. Per rientrare possono poi salire su uno dei frequentissimi treni ad alta velocità che collegano le due città e fare il viaggio, quasi per intero in galleria, in circa quaranta minuti.
Si tratta di un’unica esperienza, ma con modalità e logiche distinte: l’andata e il ritorno, come i due pannelli di un dittico che si completano, offrono spunti per riflettere sulla nostra società, sul rapporto che abbiamo con il tempo, con i miti che popolano il nostro immaginario e gli equilibri, inevitabilmente provvisori, che troviamo.

Nel segno di un progresso ambiguo
Il primo pannello su cui ci soffermiamo è quello del viaggio di ritorno, in cui ritroviamo la dimensione più comune della nostra quotidianità. Qualunque sia il mezzo di trasporto scelto, si tratterà di sicuro di un viaggio più rapido e confortevole di quello che si sarebbe potuto fare solo cinquant’anni fa. Sono evidenti gli sforzi che in questi decenni sono stati compiuti nel campo dei trasporti per migliorare la qualità dei servizi a disposizione, accrescerne la presenza sul territorio, ampliare il numero di persone che vi possono accedere. I risultati raggiunti sono il frutto di un insieme di scelte – alcune ascrivibili alle politiche adottate dalle istituzioni pubbliche, altre riconducibili alle iniziative delle imprese – che si sono condizionate e potenziate reciprocamente. Lo si coglie bene osservando quanto è accaduto nel settore dell’aviazione, con le strategie tariffarie delle compagnie low cost rese possibili anche dagli incentivi pubblici erogati per rendere più competitivo uno scalo secondario. Al contempo, non mancano i risvolti negativi di questi cambiamenti, ispirati dal mito del progresso che ha segnato la nostra epoca. Il miglioramento della rete dei trasporti, ad esempio, non è avvenuto in modo uniforme, ma è stato condizionato da diverse scelte, non ultime di convenienza economica. Alcuni territori sono stati privilegiati e altri trascurati: le differenze si colgono non solo tra il Nord e il Sud dell’Italia, ma anche tra i nodi urbani e le periferie, tra i grandi assi di comunicazione e le aree interne. Ogni intervento realizzato ha avuto un impatto sulle comunità e sui territori, con una ripartizione dei benefici e dei costi economici, sociali e ambientali che non sempre è stata pianificata ed equa.
Quanto abbiamo visto per i trasporti si può estendere ad altri ambiti della nostra vita. Nella Laudato si’ papa Francesco ha fatto ricorso a un neologismo spagnolo per descrivere le dinamiche in atto nella nostra casa comune: rapidación, che è stato tradotto in italiano con rapidizzazione ed indica un’accelerazione crescente. È questa una chiave interpretativa per i cambiamenti che viviamo: l’enciclica fa riferimento «all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro» e al contempo richiama il contrasto che esiste «con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica», e soprattutto riconosce che non sempre gli obiettivi che ci si propone di raggiungere «sono orientati al bene comune e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale» (LS, n. 18). In altri termini, c’è una tensione intrinseca che spinge a conseguire risultati sempre più ambiziosi, in modo sempre più veloce, che in qualche misura ripudia l’esistenza dei limiti fisici, che tuttavia ci sono, e non prende in considerazione quelli di carattere etico.

Una vita accelerata
Pochi anni prima della pubblicazione della Laudato si’, il sociologo tedesco Hartmut Rosa aveva ragionato sullo stesso tema nel saggio Accelerazione e alienazione (Einaudi, Torino 2015; ed. or. 2010), partendo dalla constatazione che il connubio tra modernità, velocità e accelerazione del tempo sia un dato ricorrente nelle analisi sociali. Come altri fenomeni che contraddistinguono la nostra epoca, anche questo processo si presta a letture diverse e stratificate per via della sua complessità.
Vi è senz’altro un’accelerazione sul piano tecnologico, i cui riflessi si colgono in modo evidente non solo nei trasporti, ma anche nei processi di produzione e di consumo o nella comunicazione, per fare qualche esempio. Questi cambiamenti hanno mutato la nostra percezione del tempo e dello spazio: quest’ultimo, in particolare, pare «virtualmente “contrarsi” per effetto della velocità dei trasporti e della comunicazione» (ivi, p. 10) e si smaterializza per effetto delle tecnologie digitali.
A livello sociale, le continue innovazioni culturali si traducono nella fragilità e rapida caducità di quelle conoscenze ed esperienze su cui si poggia la nostra esistenza. È così per aspetti pratici, quasi banali, della quotidianità (gli orari dei negozi o i riferimenti di cultura popolare), ma lo è soprattutto per alcuni capitoli strutturanti le nostre vite, come il lavoro, che le giovani generazioni cambiano a un ritmo impensabile per quelle precedenti, o le relazioni di coppia, dove il “per sempre” del passato, che si inquadrava in una certa concezione sociale dei legami, cede spesso il posto alla provvisorietà del “finché dura”.
Più in generale sono i nostri ritmi a essere mutati, a essere incredibilmente accelerati: possiamo fare più cose in meno tempo o farle contemporaneamente, divenendo maestri del multitasking, o almeno provandoci. Ci troviamo perciò nella situazione di avere a disposizione numerosi strumenti che semplificano e rendono più veloce il compimento di un’ampia serie di azioni quotidiane, mentre, paradossalmente, sperimentiamo una «spettacolare e contagiosa “carestia di tempo”», abbiamo «l’impressione che il tempo [ci] stia sfuggendo, che sia troppo breve» (ivi, p. 15).
Senza dubbio, le possibilità di cui disponiamo ci sono state dischiuse dai progressi tecnologici, a cui non possiamo tuttavia addebitare il paradosso in cui ci troviamo. La fame di tempo o l’affanno di fronte alla lunga lista di incombenze di cui occuparsi a casa, al lavoro, negli impegni sociali e pubblici non dipendono tanto dal fatto che le tecnologie rendono più veloci le nostre azioni, quanto dalla rapidità con cui riteniamo che tutti questi compiti vadano assolti. È in questo snodo che ha origine il senso di alienazione che spesso ci accompagna, l’esperienza «che facciamo “volontariamente” qualcosa che non “vorremmo fare”» (ivi, p. 96) e per questo proviamo una fatica che ci lascia prosciugati e insoddisfatti.
A essere chiamate in causa sono le nostre scelte come singoli e collettività, condizionate da un clima culturale che premia coloro che appaiono a loro agio nell’accelerazione continua. Nel suo saggio, Rosa individua infatti una trappola che rischia di alimentare questo meccanismo, alla fine perverso: «Dobbiamo essere veloci e flessibili per guadagnare (e preservare) il riconoscimento sociale, ma allo stesso tempo è proprio il nostro desiderio di riconoscimento a muovere incessantemente le ruote dell’accelerazione» (ivi, p. 66). Dietro queste parole vi è un appello al senso di responsabilità, senz’altro nei confronti di se stessi, ma anche dell’intera società.

Avanzare con un passo lento
A questo punto, torniamo al primo pannello del dittico evocato in precedenza, quel camminare a piedi per giorni. Di fronte al ritmo incalzante in cui siamo immersi, si fa strada il desiderio di vivere, anche solo per poco, un’esperienza diversa. Ne abbiamo bisogno come di un momento necessario e non a lungo procrastinabile, per poter beneficiare di un tempo altro, di un tempo “nostro”, in cui si combinano gli spazi personali e quelli condivisi. Lo testimoniano anche le motivazioni date da chi ha intrapreso un Cammino, dove spesso ricorrono parole come bisogno, ricerca, senso, spiritualità, amicizia, contatto con la natura, ricentrarsi, disintossicarsi, ecc.
Questa dimensione non è esclusiva dei Cammini, ma si ritrova in tutte quelle esperienze che permettono di accedere a un ritmo di vita dilatato, in cui è possibile procedere senza avere la sensazione di affondare tra gli impegni da assolvere e le scadenze da rispettare, in cui soprattutto si torna a essere padroni del proprio tempo, almeno a livello di percezione, potendo scegliere di che cosa occuparsi e di quando farlo.
Per lo più queste esperienze sono associate al tempo libero, che talora è vissuto come un vuoto che va in qualche modo riempito. Ne abbiamo una conferma indiretta dal significativo sviluppo che ha registrato il variegato settore che intercetta e risponde con diverse proposte alla domanda di benessere e di evasione, in particolare da parte di chi dispone di adeguate risorse economiche. Tuttavia, questa visione è monca e miope, perché spezza e finisce con il contrapporre le due parti del dittico, avvalorando l’idea che vi sia un’alternanza tra un ordinario, inteso come tempo accelerato, e uno straordinario, concepito come una parentesi più o meno lunga, finendo così per alimentare la sensazione di essere in realtà continuamente incalzati e sballottati.

Alla ricerca di un ritmo diverso
Una prospettiva diversa è quella che ci consegna la Bibbia nel racconto della creazione, scandito nel succedersi progressivo dei giorni, fino a giungere al momento in cui Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto (Genesi 2,2). Nella visione biblica il tempo necessario per compiere la creazione non si esaurisce con i sei primi giorni, in cui vengono creati la luce e il firmamento, la terra e le acque, il sole e la luna, le piante e gli animali, l’uomo e la donna, ma include il riposo del settimo giorno, oggetto di una specifica benedizione, come prima erano stati benedetti gli esseri viventi. C’è un ulteriore elemento che va segnalato: per ogni giorno il testo biblico riporta l’indicazione che Dio vide che era cosa buona quanto aveva fatto, quale ultimo momento del lavoro compiuto. Il fare lascia il posto all’osservare, al gustare e contemplare, per non smarrirne il senso.
La Bibbia ci presenta quindi un senso del riposo che non è slegato da quello dell’azione, ma ne è nutrito e a sua volta lo illumina. Il Signore rallenta perché non passi inosservato ciò che è importante, perché non sia trascurato ciò che necessita di essere curato, perché i legami tra le creature non siano mortificati o non si traducano in occasioni di violenza e sopraffazione. Soprattutto vi è l’indicazione di un ritmo in cui l’azione e il riposo si integrano, che si può vivere sia nei tempi brevi, come il singolo giorno, sia in quelli più lunghi, evocati dai sette giorni della creazione.
Questa indicazione è consegnata poi agli israeliti, che camminano nel deserto verso la Terra promessa: è il comandamento di rispettare il riposo del sabato, che consiste nel saper contemplare il cammino compiuto fino a quel momento, per rialzare lo sguardo verso ciò che li attende. E a farlo insieme agli schiavi e ai forestieri che stanno con loro, invito a vivere non solo come singoli ma come una comunità inclusiva. È anche l’indicazione di saper riconoscere e rispettare tanto i diversi tempi della vita umana – ognuno dei quali ha ritmi propri, dall’infanzia alla vecchiaia, quando rallentare non è più l’esito di una scelta, ma l’aderire alla realtà di ciò che si vive – quanto quelli della natura, segnati dalla lentezza nel rinnovarsi delle risorse di cui beneficiamo e dai fragili equilibri degli ecosistemi.
Quando questo avviene, il lento viaggio dell’andata e il veloce ritorno di un Cammino – la diversità di questi tempi che si ritrova in ogni nostra attività che facciamo e soprattutto nelle fasi della vita che attraversiamo – non sono separati, né in opposizione, ma in dialogo. Si realizza così quel rallentare che non consiste in uno stato momentaneo, una parentesi nel flusso degli impegni, bensì è un atteggiamento interiore e una maniera di cogliere la realtà, dove l’andare spedito e il sapersi fermare possono convivere per il bene del singolo e della comunità.”

Srebrenica 30 anni dopo

Memoriale di Srebrenica (fonte)

1995: era personalmente un’estate felice. La mia vita aveva avuto due svolte importanti. Avevo deciso di lasciare la facoltà di scienze geologiche che frequentavo a Trieste e di iscrivermi all’Istituto Superiore di Scienze Religiose a Udine e a Scienze dell’Educazione nel capoluogo giuliano. A giugno poi era iniziata la relazione con Sara e certo, in quel momento, a 21 anni, non potevo immaginare che poi lei sarebbe diventata mia moglie e madre dei nostri figli.
Ma di quell’estate ricordo ancora molto bene anche un evento tragico, legato a un nome che non mi ha più lasciato: Srebrenica. Lascio la parola a un estratto di dialogo tra Mario Calabresi e Paolo Rumiz risalente allo scorso luglio. Qui la fonte.

“«Tutti si ricordano dov’erano l’undici settembre 2001, quando sono cadute le Torri gemelle, ma pochissimi hanno presente dove erano quando è avvenuta la strage di Srebrenica che ha fatto il triplo dei morti di New York. Io ero a casa mia, ero appena stato al funerale di Alex Langer, il pacifista che per la Bosnia si era speso fuori misura fino al suicidio. Qualcuno mi telefonò e mi disse che era accaduto qualcosa di terribile da quelle parti. Ma non era ancora del tutto chiaro. Io ero stato lì alcuni mesi prima, nell’autunno del 94, e chiesi: “Ma non erano protetti?”. “No, no, li hanno chiusi dentro e li hanno fatti fuori come in una tonnara”».
Il racconto è di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, una voce unica nel raccontare e ricordare cosa è successo nei Balcani dopo il crollo del Muro di Berlino.
L’11 luglio 1995, esattamente trent’anni fa, a Srebrenica, una cittadina situata nella Bosnia orientale – era un’enclave sotto il controllo dell’esercito bosniaco ma attorniata da città serbe -, vennero sterminati ottomila bosniaci musulmani con l’intento di una pulizia etnica che è stata poi riconosciuta come genocidio.
Due anni prima, durante la guerra che era nata con la dissoluzione della Jugoslavia, quest’area era stata posta sotto la tutela della missione Unprofor delle Nazioni Unite. Seicento caschi blu olandesi erano stati incaricati di proteggerla.
Tuttavia, nel luglio del 1995 le forze militari serbe invasero la città, uccidendo tutti gli uomini ed espellendo sistematicamente donne, bambini e anziani. I caschi blu delle Nazioni Unite assistettero al massacro senza reagire.
Una strage rimossa e dimenticata, il più grande massacro avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, a cui abbiamo voluto dedicare un podcast in quattro puntate che si chiama “Srebrenica – Il genocidio dimenticato” in cui l’attrice Roberta Biagiarelli – che da oltre 20 anni porta in scena uno spettacolo teatrale dedicato a quel massacro – e Paolo Rumiz, che ha coperto quel conflitto da inviato, ricostruiscono la storia della guerra in Bosnia e del suo tragico epilogo.
«Soltanto il giorno dopo – continua a raccontare Rumiz – mi resi conto della gravità di quanto era accaduto. La cosa atroce è che si erano affidati a noi. Cioè non era una battaglia, non era un bombardamento a tappeto. No, erano entrati in una zona considerata sicura e protetta. Ricordo che la rabbia mi esplose e piansi e in preda alle lacrime e alle convulsioni, ricordo che chiamai il vescovo di Trieste per dirgli quello che era accaduto. E durò un’ora questa telefonata, tanta rabbia si era accumulata in me. Mi resi anche conto che i musulmani erano vittime di serie B. E questo me lo conferma l’attualità, perché anche oggi 100 morti a Gaza fanno notizia come cinque morti a Kiev».
Conosco Paolo da molti anni, è un grande giornalista perché è un grande osservatore e, prima di tutto, un ascoltatore. Ha bisogno di studiare e di capire e con la storia dei Balcani e dell’Europa ha un rapporto fisico, costruito attraverso un numero infinito di incontri, di viaggi e di cammini.
«Sono nato nello stesso giorno in cui il confine è stato tracciato attorno a Trieste, il 20 dicembre 1947 e questo segna il mio pedigree. E da questo confine ho registrato non soltanto il passaggio di diversi popoli, uno dopo l’altro, a conferma di questa destabilizzazione continua che dobbiamo fronteggiare soprattutto a Oriente. […]».
Nel podcast, Rumiz analizza le radici del male, la storia di come è cominciata la guerra nella ex Jugoslavia e poi racconta cosa vide lui: «All’inizio di aprile ‘92 ho attraversato il confine della Bosnia, venendo dalla Serbia, sul fiume Drina. Ero lì con la mia interprete che mi disse: “guarda a controllarci i documenti è il comandante Arkan”, uno che poi si è macchiato di orrendi delitti e che probabilmente in quegli stessi giorni stava ammazzando decine se non centinaia di musulmani».
Ma la cosa più impressionante, nei ricordi di Rumiz, è che la gente non si rendeva conto di quanto stava per accadere. «Arrivai a Sarajevo e mi dicevano: “No, sono ragazzi, vedrai. I serbi sono fatti così. Vedrai, sparano in aria, fanno festa, sono fuochi artificiali”… Ma bastava viaggiare nei dintorni per capire che in tutti i villaggi a maggioranza serba si scavavano trincee in vista di una guerra. Ricordo una famiglia che in quei giorni stava partendo per l’Italia per visitare dei parenti. Quando la figlia diciassettenne chiese di portarsi dietro l’album delle fotografie e le cose più care le dissero di no, convinti di tornare dopo pochi giorni. Quelle fotografie la ragazza, che oggi è una donna, non le ha mai più riviste. C’era un vecchio partigiano ottantenne che aveva annusato che la guerra stava venendo, aveva riempito il frigorifero di cibo. Poi vennero le figlie che lo presero in giro e lui si vergognò al punto che regalò tutto ai vicini. E invece aveva ragione lui: la guerra sarebbe arrivata di lì a poco».
Ma cos’era Sarajevo allora, cosa rappresentava? «Era un luogo dove le religioni convivevano abbastanza in pace, pur con le solite incomprensioni. Ma non era una città musulmana. Ricordo ancora lo stupore dei soldati italiani quando si trovarono davanti ragazze musulmane con le gonne corte, che mangiavano tranquillamente prosciutto e non andavano in moschea. E quello stupore mi dice quanto poco ci siamo resi conto che avevamo a disposizione un Islam europeo che poteva fare da magnifico cuscinetto contro l’islamismo che premeva da altre parti, soprattutto da Oriente. Mi chiedo spesso se ci rendiamo conto di cosa abbiamo perso, cosa ci siamo lasciati scappare dalle mani. Sarajevo era il luogo dove la coesistenza tra religioni era tale che in molte case di cristiani, si teneva una pentola che non aveva mai toccato la carne di maiale per poter essere usata nel caso fossero venuti a trovarti degli ebrei o dei musulmani. Credo che niente più di questa pignatta dica della tolleranza di questo mondo».
Per Paolo la Bosnia è molte cose e molti ricordi, parlarne gli provoca dolore e cerca di parlarne il meno possibile: «È doloroso perché lì hanno abitato molte anime care perdute. In trent’anni ho cercato di dimenticare, di farmi perdonare il fatto di non essere stato all’altezza della sua complessità. Le ho dedicato libri, ma in fondo la Bosnia è presente in tutti i miei libri, anche in quelli in cui non parlo di lei».
La Bosnia sono un serie di immagini rimaste nei suoi ricordi, a ricordarci cosa abbiamo perduto: «Un sopravvissuto al lager che mi regala i calzettoni bosgnacchi di lana grezza, uno stagnino che batte con tempo dispari in 7/8, un pentolino che sta costruendo nel cuore di Sarajevo. Un dolce che una donna mi offrì a casa sua, pieno di mandorle e di miele, quel piccolo dolce sembrava essere il cuore della resistenza contro la barbarie che circondava la città. Un ragazzo che si avvicina a due amanti che si baciano e dice loro: “Scusate, fatevi più in là perché devo rubare in questo chiosco!”.  La Bosnia sono i teatri che hanno continuato a funzionare. Ecco, per me Sarajevo, la Bosnia in generale, è stato un luogo la cui meravigliosa urbanità era Europa a tutti gli effetti. Sarajevo ha chiamato l’Europa e l’Europa non ha risposto. Era per me il centro del mondo. Era Turchia, era Austria, era Spagna sefardita, era mondo slavo, era Mitteleuropa, era Mediterraneo. Io ero innamorato della Bosnia, della sua fragile femminilità».”

Ogni nome una vita, ogni vita un mistero

Cimitero austro-ungarico di Palmanova (fonte)

Uno dei lavori che faccio a inizio anno con le prime riguarda il nome che ciascuno di noi porta. Riflettiamo sul significato, sul motivo per cui ci è stato dato, sul fatto se ci sentiamo rappresentati o meno da esso. E’, in fin dei conti, la prima cosa che riveliamo di noi nel momento in cui ci presentiamo a qualcuno. Nel mio lavoro è una delle prime cose che cerco di memorizzare, perché sentirisi chiamare per nome è anche un sentirsi visti, considerati, riconosciuti. Per dei genitori scegliere il nome è un momento importante ed emozionante: si comprano i libri sui nomi o si consultano i siti per conoscerne i significati. Nel rito del Battesimo è una delle prime cose che viene chiesta ai genitori. Nella Bibbia il cambio di nome indica un cambiamento di stato, di vita, di identità (cosa poi ripresa in alcuni ordini religiosi, soprattutto femminili). Il 21 marzo di ogni anno vengono letti tutti gli oltre mille nomi delle vittime innocenti di mafia. Sul nome riflette anche questo articolo di Anita Prati su SettimanaNews.

“Che cos’è un nome?
È dando nomi che l’Adam, creatura di terra e di sangue, può conoscere e riconoscere il mondo, è ricevendo il nome che l’indistinto del mondo emerge nella sua irripetibile singolarità.
Il nome discrimina, distingue, estrae dalla massa confusa, individua l’individuabile, ciò e chi è in sé non più discriminabile, separabile, divisibile. L’atto di nominazione sancisce visibilità ed esplicita legami: dare il nome conferisce statuto speciale al nominante e al nominato, ha a che fare con la domesticazione e si tiene sul crinale scosceso che da una parte racconta l’appartenenza e dall’altra l’usurpazione.
«C’è una rosa… e credo che mi abbia addomesticato…» – dice il Piccolo Principe alla volpe. Dal mondo vegetale emergono le piante, tra le piante i fiori, tra i fiori i fiori con le spine, tra i fiori con le spine le rose, tra le rose la mia rosa. Ma, ci avverte la poeta [Gertrud Stein, Rose is a rose is a rose is a rose in Sacred Emily, ndr], Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa. Nominare può sì dichiarare vicinanze, narrare appartenenze, sancire proprietà, ma il mare dell’essere si intride di sabbia quando lambisce la battigia del dicibile e più il nome si fa vicino alla cosa, più deve dichiarare l’impasse: la nominazione ha a che fare con il mistero – parola tremenda, in cui il verbo greco myo riecheggia onomatopeicamente il mugolio di chi, tenendo la bocca chiusa, non può o non deve parlare.
Il nome dice tutto, e non dice niente. Ci porta sulla soglia e ci lascia lì.
Un cimitero di montagna, abbandonato. Il cancello di ferro arrugginito cigola sui cardini. Sulle lapidi ingrigite le lettere si distinguono a fatica, a fatica compitiamo nudi nomi. Epigrammi incisi su stele funerarie di antiche civiltà, conservate nei magazzini polverosi dei musei, appoggiate alla bell’e meglio alle pareti di porticati e sale che attraversiamo con passo veloce. Liste onomastiche di regnanti o di generali in armi. Il sigillo dell’artigiano inciso sul bassorilievo, accanto al nome della madre o del padre che ha commissionato il monumento funebre più bello in ricordo del figlio tanto amato.
Il mistero della vita affidato ad un gesto, ad un segno, ad un nudo nome. Un monumento ed un nome. Yad vaShem. L’orrore di sei milioni di morti aperto nella carne della storia.
Quante morti, quanti morti.
Marzabotto. Gorla. Srebrenica. Kigali. I cimiteri militari con le loro croci bianche, perfettamente allineate in un grande prato verde. La scalinata di Redipuglia. Il Sacrario di Nervesa.
Nomi, solo nudi nomi, testimoni della labile inconsistenza di storie ormai trapassate e consunte, eppure garanti, nella morte, di ciò che è la Vita.
Lo scorso 30 luglio il Washington Post ha pubblicato i nomi dei bambini uccisi a Gaza. Non bastano otto ore per leggerli tutti, uno ad uno.
Nelle piazze e in luoghi significativi, sulla strada che porta alla pace, leggiamo ad alta voce i nomi di questi bambini e di queste bambine palestinesi, insieme ai nomi dei bambini ebrei uccisi il 7 ottobre. Ogni nome una vita, ogni vita un mistero che chiede alla nostra anima di mettersi in ginocchio.
È qualcosa che ha a che fare con il senso più profondo del sacro che ci sia dato sfiorare.”

Mi ameresti anche se fossi me stesso?

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Mignolo del piede versus qualsiasi spigolo. Inizio questo post con questa dolorosa immagine evocativa. Anche molto reale, visto che è quello che ho provato ieri sera, quando ho sbattuto contro una scatola di plastica che tengo sotto la scrivania. Dentro la scatola c’è qualcosa di legato al passato, a un’abitudine che avevo e che poi ho perso: i ritagli di giornali, riviste, mensili che ritenevo interessanti e che sarebbero potuti tornarmi utili. Ho smesso di raccoglierli quando mi sono reso conto che non li andavo più a cercare perché avrei dovuto digitalizzarli e poi perché, in fin dei conti, li trovavo già digitalizzati in rete (tutti gli abbonamenti che ho li possiedo anche in versione digitale). Mi sono anche accorto che ciò che salvo digitalmente mi resta molto meno in mente rispetto a quello che sottolineo e ritaglio materialmente, ma tant’è. Infine ammetto che internet mi ha messo a disposizione molto, ma molto di più, di quello di cui potevo disporre nel passato senza web. Basta pensare agli archivi: mi servirebbero due case se dovessi conservare tutto… O alla comodità di recuperare un articolo di un quotidiano anche solo di una settimana prima. Senza internet mi sarei, ad esempio, perso un pezzo come quello che ho appena finito di leggere di Alessandro D’Avenia, uscito una settimana fa sul Corriere della Sera e reperibile anche sul blog del professore. Credo che lo leggeremo insieme in più di qualche classe. Eccolo.

“Ho chiesto ai miei studenti la loro paura più grande. La maggioranza ha risposto: rimanere soli. Un timore connaturato all’uomo, ma che stupisce nell’epoca della condivisione costante. Sebbene iper-connessi siamo iper-slegati, e “social” non è sinonimo di relazione significativa ma di solitudine di massa. E questo perché l’unico modo per non sentirsi soli è il riconoscimento della propria unicità: volersi ed essere voluti al mondo come si è. Se ciò non accade non dipende dai social ma dalle relazioni primarie (personali, familiari, amicali). L’onlife, come Luciano Floridi (La quarta rivoluzione) definisce l’identità oggi, si sposta fuori dalla vita spirituale che è il luogo dell’amarsi e del sentirsi amati, e si affida a rappresentazioni (“Chi sono per te?” diventa “Chi sono online?”).
Ma se ad essere amata è la rappresentazione di me e non io, allora ci si sente soli anche in mezzo alla folla (o ai follower). Il concetto di auto-stima, oggi tanto diffuso, è l’ingannevole correttivo di questa mascherata, perché non può auto-amarsi chi non si sente amato, e non esiste doping spirituale per una identità relazionale come quella umana: l’io nasce e rinasce da un tu che ci fa sentire voluti. I social non possono darci l’amore, perché non arrivano al sé, possono darcene l’impressione, ma amata è la post-produzione che facciamo di noi, non noi. Figuriamoci per un ragazzo che sta cercando di dare alla luce il sé autentico e viene invece allenato a farsi “un profilo”, cioè a identificarsi con l’ego voluto dal mondo. Questo alimenta la paura della solitudine. Che fare?
Il sé è una nascita graduale che richiede parti dolorosi. Quando mi è capitato di perdermi, sono riuscito a dare alla luce un sé più autentico solo rinunciando alle rappresentazioni rassicuranti dell’ego, compromessi d’amore che amore non erano, e ci sono riuscito grazie alla forza ricevuta da persone che non amavano quelle rappresentazioni, ma me: mi vogliono bene “a prescindere”, cioè per loro è un bene che io ci sia, a prescindere da cosa io rappresenti.
Ci accade come nel Cyrano de Bergerac di Rostand in cui il protagonista, innamorato di Rossana, non ha il coraggio di dichiararsi a causa della bruttezza del suo volto deturpato da un naso gigantesco, e si limita a prestare le parole del corteggiamento al giovane spasimante di lei, Cristiano, bello quanto vuoto. Cristiano è come il profilo social di Cyrano. A un certo punto Cyrano, nella scena memorabile in cui, nascosto, detta le parole d’amore a Cristiano, fa chiedere alla donna: “Mi ameresti anche se fossi orrendo?”. Tradotto: anche se fossi me stesso?
Ecco il punto: i ragazzi oggi hanno bisogno più che mai di sapere se c’è qualcuno che li ama (li vuole al mondo, si impegna per il loro esserci) così come sono e non così come il mondo li vuole. A quell’età poi ci si sente brutti non tanto o non solo per l’aspetto fisico in trasformazione, ma perché, messi da parte i genitori, ci si scopre “soli”, cioè unici, ma si teme che questa unicità non interessi a nessuno là fuori. E così si cerca approvazione (non amore) ovunque, anche a costo di vendersi, tradirsi, nascondersi. La paura di rimanere soli non è la paura di non trovare qualcuno, ma di non essere “belli” abbastanza perché qualcuno ami proprio noi, anche perché l’unicità, scambiata per “farsi vedere”, è fatta proprio di ciò che nascondiamo: i nostri limiti. In una cultura della performance, auto-promozione e post-produzione di se stessi, si teme di non essere amabili e farsi amare diventa un lavoro. Tutti i ragazzi sono generati biologicamente ma pochi spiritualmente, cioè non riescono a contattare il sé, quel nucleo della persona che non è frutto di costruzioni, prestazioni, risultati, ma che si scopre e si abita se è amato gratuitamente, a prescindere da qualsiasi risultato.
La domanda di Cyrano è la domanda di tutti: “Posso essere amato anche se sono brutto?”, dove “brutto” non è estetica ma la verità di chi io sono, l’unicità dei miei limiti. I social che parlano il linguaggio del mondo, cioè dove gli umani ricevono attenzione solo perché se lo meritano o perché ti seducono, non possono nutrire la vita spirituale, che è vita amata gratuitamente. Nessuno di noi si è dato la vita e quindi per sentirsi amato ha bisogno di sapere che quella vita è stata voluta a prescindere da tutto (per questo i ragazzi adottati hanno la cosiddetta ferita dell’origine e prima o poi vanno alla ricerca dei genitori biologici, per sapere quella verità oscurata dal fatto di essere stati “abbandonati”). Ma un amore che ci ama anche “brutti”, che ci vuole esistenti a prescindere è una chimera? No, se il poeta può così testimoniare della sua amata: “Possesso di me tu mi davi, dandoti a me” (Pedro Salinas, La voce a te dovuta). Ecco la vita spirituale: il possesso di sé che nasce dall’amore gratuito.
Questo amore è stato da sempre ritenuto “divino” da noi umani perché noi non riusciamo ad amare così, eppure si dà anche nel quotidiano quando qualcosa o qualcuno smette di farmi sentire un mezzo e mi rende un fine: “sei il fine e quindi la fine del mondo!”. Può accadere in un bosco, in un quadro, in un angolo di città, in un volto, in una carezza, in una parola… insomma in tutte quelle situazioni in cui cose e persone non “si aspettano” nulla ma “ci aspettano”, lasciano “in pace” (danno pace al-) la nostra alterità (unicità), non ci manipolano, non ci rendono oggetti ma soggetti, ci rendono liberi, in ultima istanza ci testimoniano un amore che ci vuole esistenti, a prescindere da quanto siamo belli e bravi. Questo amore è la vita vera, la vita che non muore, la vita eterna, l’unica realtà che vince la paura di rimanere soli. E se in noi troviamo questo desiderio, allora questo amore c’è, altrimenti non ne avremmo notizia o nostalgia. La paura della solitudine dei ragazzi si rivela per quello che è: desiderio di spogliarsi delle rappresentazioni con cui l’ego crede di meritarsi di esistere ed essere amato, per far nascere il sé, che è dove la vita limitata che abbiamo si sente amata a prescindere.
Abbiamo appena festeggiato San Francesco che comincia la sua vita nuova proprio da giovane, con un denudamento sulla pubblica piazza: rinuncia a tutte le finzioni dell’ego per abbracciare la vita vera, quella in cui tutti sono figli e quindi fratelli e sorelle, dal fuoco alla morte. Non fa altro che seguire la frase paradossale di Cristo secondo cui chi perde la vita la trova, cioè solo chi smette di nascondersi e si libera dalle illusioni d’amore trova l’amore. Cyrano, alla fatidica domanda sul poter essere amato anche brutto (convinto com’è che la sua vita sia tutta definita dal naso deforme) si sente rispondere da Rossana: «Ma certo! E ti amerei ancora di più». Solo quando mi vengono restituite amate le mie insufficienze, le cose di cui io stesso mi vergogno, allora mi sento amato, e la mia vita è in pace, perché è voluta sino alle sue fondamenta. La paura di rimanere soli di questa generazione non è altro che la ricerca dell’amore “a prescindere”, non sotto condizione, che Social, dio delle inesauribili aspettative e solitudini, non potrà mai dare.”

Prof, è lunedì…

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“Come state?”. Ho iniziato l’ora nel mio solito modo.
“Prof, è lunedì…” è stata la risposta lasciata in sospeso ma sufficientemente esplicativa.
Mi sono venute in mente una canzone, un’immagine, una riflessione.
La canzone è Lunedì di Vasco, in cui si sente “Sono stato anche beccato dalla Polizia; mi han detto, “Prego, si accomodi lì; passerà qualche giorno qui, ma vedrà che probabilmente uscirà certo prima di lunedì” Voglio restare qui, odio quel giorni lì!”.
L’immagine è quella di Miele, il cane che è con noi da luglio. Credo che abbia già capito la routine: inizio di settimana con molto tempo a casa da solo, per poi passare in compagnia e mille attività la parte dal giovedì alla domenica. Ecco, la sua espressione di stamattina, quando l’ho lasciato in cucina, diceva “… è lunedì…”.
La breve riflessione che mi è venuta in mente è stata scritta in un pezzo di Alessandro Dehò pubblicato su Avvenire proprio oggi. E’ un testo che certamente parla di fede, ma è anche un testo che parla di tenerezza e che è in grado di dire molto anche a chi non ha fede e di metterci in connessione con le altre persone. Mi piace augurarvi con esso buon lunedì! Eccolo.

“Dulcinea, il mio cane, entra di corsa mentre io, inginocchiato davanti al crocifisso tento di pregare, lei trema, mi cerca, chiede rifugio tra le mie braccia, ha paura. Non so cosa abbia visto, non so cosa le sia successo, probabilmente l’incontro ravvicinato e inaspettato con qualche animale selvatico, non so e non lo saprò mai, so solo che la mia mano si apre naturalmente, e piano, e con grazia, e inizia ad accarezzarle il pelo, lentamente, e lei rimane e si lascia fare, diventa piccola sulle mie ginocchia e rimane lì, come su una zattera di salvataggio, come avesse trovato lo spazio per poter continuare a vivere.
Intanto gli occhi scorrono le righe dei salmi della giornata nel tentativo di risvegliare il cuore alla preghiera, mentre la mano destra continua il suo rosario di carezze all’animale impaurito esplode nei miei occhi una passaggio del salmo 30, è come una piccola illuminazione: “Mi affido alle tue mani…”.
Di colpo mi sento come Dulcinea, sento fisicamente che ho bisogno della carezza di Dio su di me e in quell’attimo mi pare di percepire anche tutta la felicità di un Dio che finalmente può permettersi di aprire le sue dita e perdersi in un mare di carezze d’affetto per la sua creatura. Sentirsi cercati è commovente. Mentre questo piccolo inutile indispensabile gesto si compie in una casa dispersa tra i monti dell’Appennino la mia preghiera si apre al pensiero per tutte le mani che come fiori stanno sbocciando in ogni parte del mondo.
È lunedì e milioni di mani sono ingranaggi per tenere in vita la complessità dell’esistere, mani che stringono, spingono, aprono, mani che digitano messaggi sui telefoni, mani che curano, mani che guidano, mani che stringono altre mani, mani sicure e mani impaurite, mani che accolgono vite nuove e mani che scivolano via per l’ultima volta… “mi affido alle tue mani”.
Forse tanti nostri affanni derivano dalla distanza creata tra i nostri gesti ordinari e un corpo vivo, magari un corpo tremante, un corpo bisognoso da accudire, forse tanti nostri affanni derivano dal fatto che non sentiamo più distintamente che qualcuno si affida anche alle nostre mani. Penso sarebbe salvifico per ognuno di noi percepire distintamente che ogni gesto appassionato sul mondo non è altro che il nostro tentativo per rendere affidabile l’esistenza, atto di fede. Nella trama infinita di mani che provano a ripetere l’infinito tentativo di tenere in vita la vita ci siamo anche noi, con il nostro piccolissimo tentativo di carezza. Ci siamo anche noi, e siamo divini, siamo segno visibile di un Invisibile che dal cuore del Mistero prega la sua creatura: “mi affido alle tue mani” per stare, vivo e risorto, nella trama della città degli uomini.”

Ti ho amato

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Il 4 ottobre è stata firmata “Dilexi te” la prima esortazione apostolica da Robert Francis Prevost, papa Leone XIV. Prendo la notizia e un articolo di presentazione da Vatican News. Il testo integrale si può trovare qui, sul sito della Santa Sede.

Dilexi te, “Ti ho amato”. L’amore di Cristo che si fa carne nell’amore ai poveri, inteso come cura dei malati; lotta alle schiavitù; difesa delle donne che soffrono esclusione e violenza; diritto all’istruzione; accompagnamento ai migranti; elemosina che “è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo”; equità, la cui mancanza è “radice di tutti i mali sociali”. Leone XIV firma la sua prima esortazione apostolica, Dilexi te, testo in 121 punti che sgorga dal Vangelo del Figlio di Dio che si è fatto povero sin dal suo ingresso nel mondo e che rilancia il Magistero della Chiesa sui poveri negli ultimi centocinquant’anni. “Una vera miniera di insegnamenti”.

Sul solco dei predecessori
Il Pontefice agostiniano con questo documento firmato il 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, il cui titolo è tratto dal Libro dell’Apocalisse (Ap 3,9), si inserisce così sul solco dei predecessori: Giovanni XXIII con l’appello ai Paesi ricchi nella Mater et Magistra a non rimanere indifferenti davanti ai Paesi oppressi da fame e miseria (83); Paolo VI, la Populorum progressio e l’intervento all’Onu “come avvocato dei popoli poveri”; Giovanni Paolo II che consolidò dottrinalmente “il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri”; Benedetto XVI e la Caritas in Veritate con la sua lettura “più marcatamente politica” delle crisi del terzo millennio. Infine, Francesco che della cura “per i poveri” e “con i poveri” ha fatto uno dei capisaldi del pontificato.

Un lavoro iniziato da Francesco e rilanciato da Leone
Proprio Francesco aveva iniziato nei mesi prima della morte il lavoro sull’esortazione apostolica.
Come con la Lumen Fidei di Benedetto XVI, nel 2013 raccolta da Jorge Mario Bergoglio, anche questa volta è il successore a completare l’opera che rappresenta una prosecuzione della Dilexit Nos, l’ultima enciclica del Papa argentino sul Cuore di Gesù. Perché è forte il “nesso” tra amore di Dio e amore per i poveri: tramite loro Dio “ha ancora qualcosa da dirci”, afferma Papa Leone. E richiama il tema della “opzione preferenziale” per i poveri, espressione nata in America Latina (16) non per indicare “un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi”, bensì “l’agire di Dio” che si muove a compassione per la debolezza dell’umanità.
Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo (9).

I “volti” della povertà
Numerosi gli spunti per la riflessione, numerose le spinte all’azione nella esortazione di Robert Francis Prevost, in cui vengono analizzati i “volti” della povertà. La povertà di “chi non ha mezzi di sostentamento materiale”, di “chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità”; la povertà “morale”, “spirituale”, “culturale”; la povertà “di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà” (9).

Nuove povertà e mancanza di equità
Di fronte a questo scenario, il Papa giudica “insufficiente” l’impegno per rimuovere le cause strutturali della povertà in società segnate “da numerose disuguaglianze”, dall’emergere di nuove povertà “più sottili e pericolose” (10), da regole economiche che hanno fatto aumentare la ricchezza, “ma senza equità”.
La mancanza di equità è la radice dei mali sociali (94).

La dittatura di un’economia che uccide
“Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale”, afferma Leone XIV (13). Da questo punto di vista, saluta “con favore” il fatto che “le Nazioni Unite abbiano posto la sconfitta della povertà come uno degli obiettivi del Millennio”. La strada tuttavia è lunga, specie in un’epoca in cui continua a vigere la “dittatura di un’economia che uccide”, in cui i guadagni di pochi “crescono esponenzialmente” mentre quelli della maggioranza sono “sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice” e in cui sono diffuse le “ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria” (92).

Cultura dello scarto, libertà del mercato, pastorale delle élite
È segno, tutto questo, che ancora persiste – “a volte ben mascherata” – una cultura dello scarto che “tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano” (11). Il Papa stigmatizza allora i “criteri pseudoscientifici” per cui sarà “la libertà del mercato” a portare alla “soluzione” del problema povertà, come pure quella “pastorale delle cosiddette élite”, secondo la quale “al posto di perdere tempo con i poveri, è meglio prendersi cura dei ricchi, dei potenti e dei professionisti” (114).
Di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti (94).

Trasformare la mentalità
Ciò che invoca il Papa è, dunque, una “trasformazione di mentalità”, affrancandosi anzitutto dalla “illusione di una felicità che deriva da una vita agiata”. Cosa che spinge molte persone a una visione dell’esistenza imperniata su ricchezza e successo “a tutti i costi”, anche a scapito degli altri e attraverso “sistemi politico-economico ingiusti” (11).
La dignità di ogni persona umana dev’essere rispettata adesso, non domani (92).

In ogni migrante respinto c’è Cristo che bussa
Ampio lo spazio che Leone XIV dedica poi al tema delle migrazioni. A corredare le sue parole, l’immagine del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni divenuto nel 2015 simbolo della crisi europea dei migranti con la foto del corpicino senza vita su una spiaggia. “Purtroppo, a parte una qualche momentanea emozione, fatti simili stanno diventando sempre più irrilevanti come notizie marginali” (11), constata il Pontefice.
Al contempo ricorda l’opera secolare della Chiesa verso quanti sono costretti ad abbandonare le proprie terre, espressa in centri accoglienza, missioni di frontiera, sforzi di Caritas Internazionale e altre istituzioni (75).
La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità (75).
Sempre in tema migrazioni, Robert Prevost fa suoi i famosi “quattro verbi” di Papa Francesco: “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. E di Papa Francesco mutua pure la definizione dei poveri non solo oggetto della nostra compassione ma “maestri del Vangelo”.
Servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari… La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata (79).

Le donne vittime di violenza ed esclusione
Il Successore di Pietro guarda poi all’attualità segnata da migliaia di persone che ogni giorno muoiono “per cause legate alla malnutrizione” (12). “Doppiamente povere”, aggiunge, sono “le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti” (12).

“I poveri non ci sono per caso…”
Papa Leone XIV traccia una approfondita riflessione sulle cause stesse della povertà: “I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà”, sottolinea (14). “Ovviamente tra i poveri c’è pure chi non vuole lavorare”, ma ci sono anche tanti uomini e donne che magari raccolgono cartoni dalla mattina alla sera giusto per “sopravvivere” e mai per “migliorare” la vita. Insomma, si legge in uno dei punti focali di Dilexi te, non si può dire “che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno acquistato dei meriti, secondo quella falsa visione della meritocrazia dove sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita” (14).

Ideologie e orientamenti politici
Talvolta, osserva Papa Leone, sono gli stessi cristiani a lasciarsi “contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti”.
C’è chi continua a dire: “Il nostro compito è di pregare e di insegnare la vera dottrina”. Ma, svincolando questo aspetto religioso dalla promozione integrale, aggiungono che solo il governo dovrebbe prendersi cura di loro, oppure che sarebbe meglio lasciarli nella miseria, insegnando loro piuttosto a lavorare (114)

L’elemosina spesso disdegnata
Sintomo di questa mentalità è il fatto che l’esercizio della carità risulti talvolta “disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale” (15). A lungo il Papa si sofferma sulla elemosina, raramente praticata e spesso disdegnata (115).
Come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore. Non sarà la soluzione alla povertà nel mondo, che va cercata con intelligenza, tenacia, impegno sociale. Ma noi abbiamo bisogno di esercitarci nell’elemosina per toccare la carne sofferente dei poveri (119).

Indifferenza da parte dei cristiani
Sulla stessa scia, il Papa denota “la carenza o addirittura l’assenza dell’impegno” per la difesa e promozione dei più svantaggiati in alcuni gruppi cristiani (112). Se una comunità della Chiesa non coopera per l’inclusione di tutti, ammonisce, “correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti” (113).
Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri (36)

La testimonianza di santi, beati e ordini religiosi
A controbilanciare questo atteggiamento di indifferenza, c’è un mondo di santi, beati, missionari che, nei secoli, hanno incarnato l’immagine di “una Chiesa povera per i poveri” (35). Da Francesco d’Assisi e il suo gesto di abbracciare un lebbroso (7) a Madre Teresa, icona universale della carità dedita ai moribondi dell’India “con una tenerezza che era preghiera” (77). E ancora San Lorenzo, San Giustino, Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, il suo Sant’Agostino che affermava: “Chi dice di amare Dio e non ha compassione per i bisognosi mente” (45).
Leone ricorda ancora l’opera dei Camilliani per i malati (49), delle congregazioni femminili in ospedali e case di cura (51). Ricorda l’accoglienza nei monasteri benedettini a vedove, bambini abbandonati, pellegrini e mendicanti (55). E ricorda pure francescani, domenicani, carmelitani, agostiniani che hanno avviato “una rivoluzione evangelica” attraverso uno “stile di vita semplice e povero” (63), insieme a trinitari e mercedari che, battendosi per la liberazione dei prigionieri, hanno espresso l’amore di “un Dio che libera non solo dalla schiavitù spirituale, ma anche dall’oppressione concreta” (60).
La tradizione di questi Ordini non si è conclusa. Al contrario, ha ispirato nuove forme di azione di fronte alle schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza. La carità cristiana, quando si incarna, diventa liberatrice (61).

Il diritto all’educazione
Il Pontefice richiama inoltre l’esempio di San Giuseppe Calasanzio, che diede vita alla prima scuola popolare gratuita d’Europa (69), per rimarcare l’importanza dell’educazione dei poveri: “Non è un favore, ma un dovere”.
I piccoli hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana (72).

La lotta dei movimenti popolari
Nell’esortazione il Papa fa cenno pure alla lotta contro gli “effetti distruttori dell’impero del denaro” da parte dei movimenti popolari, guidati da leader “tante volte sospettati e addirittura perseguitati” (80). Essi, scrive, “invitano a superare quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri” (81).

Una voce che svegli e denunci
Nelle ultime pagine del documento, Leone XIV fa appello all’intero Popolo di Dio a “far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli stupidi”.
Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società (97).

I poveri, non un problema sociale ma il centro della Chiesa
È necessario che “tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri”, esorta il Papa (102). “Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una questione familiare. Sono dei nostri”. Pertanto “il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa” (104).
I poveri sono nel centro stesso della Chiesa (111).”

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Cosa far entrare dentro di noi

Immagine creata con Gemini®

Il 7 ottobre avevo pubblicato un post in fondo al quale c’erano dei riferimenti bibliografici. Era citato un articolo che oggi ho deciso di pubblicare per intero e che parla dei rischi psicologici della continua esposizione alle scene di violenza sui social. E’ preso dal sito della Dott.ssa Viviana Chinello, ma la fonte originale è quello della Dott.ssa Anna Maria Sepe, autrice del libro “Il mondo con i tuoi occhi”.

“Ti sei mai chiesto perché, scorrendo i social, il tuo sguardo si ferma più facilmente davanti a scene di violenza, conflitto o tragedia piuttosto che a immagini serene e rassicuranti? Perché il tuo dito resta sospeso sullo schermo, incapace di andare oltre, anche se dentro provi disagio?
Scene di guerra, bambini uccisi, tuffi estremi e pericolosi, litigi ripresi con il telefono, immagini crude che mostrano dolore o distruzione: tutto questo si insinua nel nostro feed, interrompendo la quotidianità con un impatto emotivo immediato.
Non è solo curiosità morbosa. È qualcosa di più antico, radicato, viscerale.
La violenza — nei telegiornali, nei video virali, nei commenti pieni di rabbia — tocca corde profonde del nostro sistema nervoso, molto prima che la nostra mente cosciente abbia il tempo di elaborare. È come se il corpo reagisse da sé, mettendoci in allerta, costringendoci a guardare, come se da quello sguardo dipendesse la nostra sopravvivenza.
Eppure sappiamo che quelle immagini ci turbano, ci logorano, ci lasciano addosso scorie emotive. È il grande paradosso dei social: la violenza ci cattura subito, ma spesso ci impoverisce dentro. In questo articolo cercheremo di capire perché succede, cosa accade nel cervello quando siamo esposti a contenuti violenti online, e soprattutto perché — nonostante tutto — la parte più profonda di noi tende a restare.

La radice evolutiva: il cervello orientato al pericolo
Per milioni di anni la sopravvivenza dell’essere umano è dipesa dalla capacità di riconoscere e reagire rapidamente alle minacce. Questo ha plasmato il cervello in modo da dare priorità assoluta agli stimoli negativi, un fenomeno noto come negativity bias.
In pratica, tutto ciò che segnala rischio — aggressioni, conflitti, dolore — viene registrato più velocemente e con più forza rispetto agli stimoli neutri o positivi. Non è una scelta consapevole: è il retaggio di un meccanismo adattivo che ha garantito la nostra protezione.
Ecco perché una scena violenta, anche se vista attraverso lo schermo, cattura immediatamente l’attenzione: il cervello la interpreta come potenzialmente vitale, mentre un contenuto sereno o rassicurante richiede più tempo e più risorse cognitive per attivare interesse.

L’amigdala e il cervello emotivo
Quando siamo esposti a una scena violenta, la prima a reagire è l’amigdala, la piccola struttura del sistema limbico che funziona come un rilevatore di minacce. In pochi millisecondi valuta lo stimolo e, se lo percepisce come pericoloso, attiva la risposta di allerta: aumento della frequenza cardiaca, rilascio di adrenalina e cortisolo, orientamento totale dell’attenzione verso la fonte dello stimolo.
La corteccia prefrontale, deputata all’analisi razionale, interviene solo dopo, con tempi più lenti. È per questo che possiamo restare incollati a immagini disturbanti anche quando vorremmo distogliere lo sguardo: la parte riflessiva del cervello arriva in ritardo rispetto al sistema di allarme, che ha già deciso per noi.

Social e iper-esposizione: la violenza a portata di dito
Un tempo le immagini di violenza arrivavano solo attraverso il filtro dei giornali o della televisione, quindi con tempi e modalità più contenute. Oggi i social hanno cambiato radicalmente lo scenario: i contenuti violenti appaiono in maniera continua, rapida e imprevedibile.
Dal punto di vista neurobiologico, questo ha un impatto specifico. Il cervello è molto sensibile alla sorpresa: quando uno stimolo arriva in modo inaspettato, l’amigdala e i sistemi di allerta si attivano con maggiore intensità.
Ecco perché, scorrendo un feed, un video violento improvviso cattura più attenzione rispetto a un contenuto atteso.
Il problema è che questa esposizione non è episodica, ma costante. Ogni scroll può trasformarsi in un “mini-trauma visivo”, che mantiene il cervello in stato di allerta cronica. In questo senso, i social non solo amplificano la frequenza degli stimoli violenti, ma ne potenziano l’effetto emotivo, proprio grazie alla loro imprevedibilità.

Violenza e dopamina: il paradosso della ricerca
Può sembrare inquietante, ma la violenza non solo attira la nostra attenzione: spesso la mantiene agganciata. Questo accade perché stimoli intensi inducono un rilascio di dopamina, che non è la molecola del piacere, ma quella della motivazione e dell’anticipazione. È questo segnale a spingerci a restare: non è la violenza in sé a essere gratificante, ma l’aspettativa che genera, come se il cervello fosse convinto di dover cogliere un’informazione cruciale.
È lo stesso meccanismo che rende avvincenti le serie crime o i film thriller: non li guardiamo per la crudeltà, ma per la tensione che ci tiene sospesi. Sui social, però, questo processo diventa una trappola, perché non c’è un epilogo narrativo che sciolga la tensione: c’è solo una sequenza infinita di shock che mantiene il cervello agganciato.

L’effetto specchio: il corpo reagisce come se fosse dentro la scena
Il cervello non si limita a osservare: tende a “replicare dentro” ciò che vede fuori. Questo accade grazie ai neuroni specchio, che si attivano sia quando compiamo un’azione, sia quando osserviamo qualcun altro compierla.
Quando guardiamo una scena di violenza, il nostro sistema specchio entra in gioco: i circuiti motori ed emotivi si attivano come se stessimo vivendo in prima persona quella situazione. È per questo che, dopo aver visto un video crudo, possiamo avvertire il cuore accelerato, lo stomaco contratto o una sensazione di tensione muscolare.
Non è suggestione: è il corpo che reagisce in modo coerente con ciò che percepisce. Nei social questo effetto è amplificato dall’immediatezza delle immagini, spesso ravvicinate e realistiche, che riducono la distanza psicologica e ci fanno sentire “dentro” la scena.

Violenza ed emozioni positive: cattura immediata vs memoria duratura
Gli stimoli violenti catturano l’attenzione in modo rapido e potente, ma tendono a lasciare soprattutto tracce sensoriali e intrusive: immagini che ritornano, sensazioni di disagio, stati di allerta. Al contrario, le esperienze positive, pur richiedendo più tempo per catturare lo sguardo, hanno una maggiore probabilità di consolidarsi nella memoria affettiva.
Questo avviene perché la violenza attiva prevalentemente i circuiti limbici legati alla minaccia, mentre i contenuti che evocano cura, tenerezza o commozione coinvolgono anche i sistemi legati all’ossitocina e alla serotonina, neurotrasmettitori che favoriscono connessione e benessere.
In altre parole, la violenza ha un impatto immediato ma superficiale; le emozioni positive hanno un impatto più lento ma radicato, capace di costruire legami e significati duraturi.

I rischi psicologici della continua esposizione
Esporsi ripetutamente a contenuti violenti non è neutro per il cervello. Gli studi mostrano tre effetti principali:

  • Desensibilizzazione: con il tempo, la risposta emotiva si attenua. Questo riduce l’impatto soggettivo delle immagini violente, ma rischia di normalizzarle, facendo percepire la violenza come qualcosa di “ordinario”.
  • Iperattivazione limbica: l’amigdala costantemente sollecitata mantiene elevati i livelli di stress, con conseguenze come ansia, irritabilità, disturbi del sonno.
  • Alterazione dei circuiti empatici: l’esposizione cronica a scene di violenza può ridurre l’attività delle aree prefrontali coinvolte nella regolazione emotiva, rendendo più difficile modulare le proprie reazioni e aumentando l’impulsività.

In sintesi, ciò che nasce come una semplice visione “da spettatori” può trasformarsi in un fattore che influenza profondamente il tono emotivo, le relazioni e il modo in cui percepiamo la realtà quotidiana.

I social hanno reso la violenza una presenza costante
Basta un gesto, uno scroll, e ci troviamo davanti a immagini o parole che attivano il nostro sistema di allerta. Non è debolezza se restiamo agganciati, è il cervello che risponde come ha sempre fatto di fronte a un potenziale pericolo: attivando l’amigdala, rilasciando dopamina, mantenendo alta l’attenzione.
Il punto è che questo meccanismo, utile in un contesto evolutivo, oggi rischia di trasformarsi in una trappola. La violenza cattura lo sguardo, ma non ci nutre. Al contrario, lascia spesso turbamento, senso di vuoto, un’eco che ci accompagna senza darci davvero qualcosa in cui riconoscerci. Al contrario, le emozioni positive — più lente, più silenziose, ma profonde — hanno la capacità di radicarsi nella memoria affettiva, di costruire significati, di dare forma a legami duraturi.
Ed è proprio qui che entra in gioco un lavoro su di sé: imparare a scegliere cosa far entrare dentro di noi, allenare lo sguardo a non fermarsi solo su ciò che ci scuote, ma anche su ciò che ci nutre. Non è un processo immediato: richiede consapevolezza, cura, esercizio interiore […], il primo passo per costruire un mondo che rifletta davvero chi siamo e non solo ciò che ci turba.”

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE