Lezioni sospese

cenereA volte mi piace lasciare le lezioni sospese. “Questo ve lo dico la prossima volta” o “Bene, è una cosa carina, ma la vediamo in quarta” o “Se volete vedere come va a finire la vicenda di Giobbe, potete fare da soli…”. E’ la sensazione che Don De Lillo descrive benissimo in questo passo di “Rumore bianco”: “La cenere della sigaretta era lunga più di due centimetri e stava cominciando a piegarsi. Era una sua abitudine lasciarla penzolare. Secondo Babette lo faceva per provocare negli altri dei sentimenti di suspense e ansia”.

Il meglio, per favore

Io non voglio che un rappresentante politico, un governante, un politico, un dirigente siano persone normali. Voglio che siano persone speciali, che sappiano fare il loro lavoro con una competenza enorme ed eccellente, che mi facciano sentire orgoglioso di far parte di questa nazione o regione o città o gruppo di lavoro o comunità o qualsiasi altra cosa. E desidero che se qualcuno ha bisogno delle mie competenze o capacità pretenda da me altrettanto, ossia il massimo che posso dare nel ruolo che mi compete. Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti, Abramo Lincoln, scrisse questa lettera all’insegnante di suo figlio:

lincoln“Il mio figlioletto inizia oggi la scuola: per lui, tutto sarà strano e nuovo per un po’ e desidero che sia trattato con delicatezza. È un’avventura che potrebbe portarlo ad attraversare continenti, un’avventura che, probabilmente, comprenderà guerre, tragedie e dolore. Vivere questa vita richiederà fede, amore e coraggio.
Dovrà imparare, lo so, che non tutti gli uomini sono giusti, che non tutti gli uomini sono sinceri.
Però gli insegni anche che per ogni delinquente, c’è un eroe; che per ogni politico egoista c’è un leader scrupoloso…
Gli insegni che per ogni nemico c’è un amico, cerchi di tenerlo lontano dall’invidia, se ci riesce, e gli insegni il segreto di una risata discreta.
Gli faccia imparare subito che i bulli sono i primi ad essere sconfitti… Se può, gli trasmetta la meraviglia dei libri… Ma gli lasci anche il tempo tranquillo per ponderare l’eterno mistero degli uccelli nel cielo, delle api nel sole e dei fiori su una verde collina.
Gli insegni che a scuola è molto più onorevole sbagliare piuttosto che imbrogliare…
Gli insegni ad avere fiducia nelle proprie idee, anche se tutti gli dicono che sta sbagliando…
Gli insegni ad essere gentile con le persone gentili e rude con i rudi.
Cerchi di dare a mio figlio la forza per non seguire la massa, anche se tutti saltano sul carro del vincitore…
Gli insegni a dare ascolto a tutti gli uomini, ma gli insegni anche a filtrare ciò che ascolta col setaccio della verità, trattenendo solo il buono che vi passa attraverso.
Gli insegni, se può, come ridere quando è triste. Gli insegni che non c’è vergogna nelle lacrime.
Gli insegni a schernire i cinici ed a guardarsi dall’eccessiva dolcezza.
Gli insegni a vendere la sua merce al miglior offerente, ma a non dare mai un prezzo al proprio cuore e alla propria anima.
Gli insegni a non dare ascolto alla gentaglia urlante e ad alzarsi e combattere, se è nel giusto.
Lo tratti con gentilezza, ma non lo coccoli, perché solo attraverso la prova del fuoco si fa un buon acciaio.
Lasci che abbia il coraggio di essere impaziente. Lasci che abbia la pazienza per essere coraggioso.
Gli insegni sempre ad avere una sublime fiducia in sé stesso, perché solo allora avrà una sublime fiducia nel genere umano.
So che la richiesta è grande, ma veda cosa può fare… E’ un così caro ragazzo mio figlio”.

Togliere il velo

Torino_045 fbScrive Umberto Galimberti: “Apocalisse (dal greco apo-kalypto) vuol dire “togliere il velo” “svelare quel che era nascosto”. E quest’opera di verità la stanno facendo i giovani, per farci sapere che mondo abbiamo creato per loro. Un mondo senza sogni, un mondo senza desideri che abbiamo estinto ogni volta che davamo loro una cosa prima ancora che la desiderassero.”
E’ vero? Il mondo senza sogni e desideri è creato proprio da quello che sostiene Galimberti? E nella scuola?

All’università di Ifrane

Al Akhawayn UniversityUn articolo un po’ lungo, ma molto molto interessante. E’ di Marco Ventura, pubblicato su Il club de La Lettura del Corriere.
“Sono studenti universitari come gli altri. Li incontri nel campus a passeggio sui viali, jeans, felpa e giubbotto, magari calzoncini corti nella bella stagione. Tra una lezione e l’altra li trovi ai tavolini della caffetteria. Li incroci a mensa, nei club studenteschi. O diretti alle residenze, con i sacchi della spesa. Sembrano distinguersi solo perché un po’ più avanti con gli anni. Devi entrare in aula con loro, per cogliere la vera differenza. Devi osservare che cosa succede quando il professore apre la discussione sul testo assegnato per quel giorno. La preparazione è impeccabile. La precisione è strabiliante. Senza guardare le fotocopie ricordano esattamente ciò che hanno letto. Ma se nelle prime lezioni chiedi di criticare l’autore, se spingi all’interpretazione personale, li metti in imbarazzo.
Comprendi allora che non sono studenti come gli altri. Ti spiegano: a dieci anni, per entrare nelle migliori scuole religiose, come la mitica Qarawiyyin di Fez, dovevano già conoscere il Corano a memoria. Per anni, da allora, la loro vita è stata apprendimento mnemonico, disciplina. Ora sono imam. Guide della comunità musulmana. Le loro famiglie sono orgogliose. Sono fieri di loro il Marocco e il suo re: Mohammed VI, comandante dei credenti.
Non sono studenti come gli altri, ma si trovano in questo campus universitario per diventarlo. A modo loro. Nel 2010, il ministro degli Affari religiosi marocchino, Ahmed Toufiq, siglò un accordo col rettore dell’università Al Akhawayn di Ifrane per l’istituzione di un corso di formazione per imam. In autunno arrivò il primo gruppo. Per tre anni gli imam studiano le religioni nella società contemporanea e l’islam globale. Autorità governative e accademiche hanno scommesso sulla compatibilità tra lo studio islamico tradizionale e il sapere occidentale. Uomini che dopo anni di scuola coranica hanno conseguito l’ijaza, titolo che consente l’accreditamento presso il ministero degli Affari religiosi, possono integrarsi in un’esperienza accademica all’americana. Gli imam che usciranno dal training saranno più forti, più completi: pronti per essere leader ovunque; a proprio agio a Meknes e a Montreal, a Casablanca e a Manchester.
Dopo tre anni, il progetto è ormai consolidato. Il governo del Mali ha firmato un accordo per inviare propri imam. Sembra che nelle scorse settimane anche la Tunisia abbia raggiunto un’intesa con le autorità marocchine. Al corso in scienze religiose, religious studies, disegnato per gli imam, s’iscrivono anche studenti americani e europei, che vengono qui soprattutto per l’islam. Connell Monette e Emilie Roy, rispettivamente direttore e professoressa nel programma, sono canadesi, con un solido percorso nordamericano nei religious studies. Il loro primo problema con gli imam è stato l’inglese, lingua ufficiale del corso. Ma la vera questione è più profonda. Dopo lunghi anni di madrassa, di scuola religiosa, gli imam che arrivano a Ifrane sono supini all’autorità del testo e dell’insegnante e hanno una testa divisa in due: esiste il sì e il no, il vero e il falso. L’islam è verità, il resto è ignoranza. Studiare l’islam secondo il metodo tradizionale fa bene; invece studiare qualsiasi altra cosa, soprattutto le altre religioni, fa male.
Monette, Roy e gli altri professori provano a spezzare la naturale resistenza dei loro studenti speciali senza minacciare la loro reverenza per l’islam. Lo studio critico della religione è proposto come un altro mondo che può aggiungersi a quello delle scuole coraniche. Il modello educativo dei religious studies di Al Akhawayn, scrivono Monette e Roy, «non è alternativo, ma di complemento» all’educazione tradizionale ricevuta nelle madrasse. Il banco di prova è lo studio della preghiera rituale musulmana, salât. Non si mette in discussione la verità islamica sul culto a Dio. Ma si usa il concetto di salât anche per definire in qualsiasi religione la ritualità, il comportamento esteriore, e si aiuta lo studente a familiarizzarsi con la categoria accademica di «rituale», cui non è più necessario applicare un giudizio di verità e falsità.
Il compito di professori e studenti è titanico. Si tratta di riconciliare due mondi straordinariamente diversi, fin nel paesaggio. Gli imam che hanno studiato a Fez sono cresciuti nella medina, con l’odore che sale dalle vasche in cui si conciano le pelli, i canti delle confraternite sufi, la ressa per le viuzze in cui si ammassano pezzi di carne e stoffe, datteri e ciambelle. È tutto diverso quassù a Ifrane, sul Medio Atlante, 1.600 metri di altezza, la Chamonix del Nord Africa. Struttura e vita del campus sono da università americana. Potresti scambiare il minareto della moschea per il campanile di Berkeley, se non fosse per la neve che ricopre i prati. I manifesti in bacheca pubblicizzano un corso di maquillage, la seduta settimanale di sensibilizzazione contro le molestie sessuali, la conferenza di Aicha Belarbi, ex ministro femminista venuta da Rabat. In un’aula della biblioteca, Jeremy Gunn sta preparando la proiezione serale del corso di cultura americana. Dalla Grace Kelly quacchera di Mezzogiorno di fuoco al predicatore di Furore, alla Madonna di Material Girl e alla Lady Gaga di Beautiful, Dirty, Rich.
Per gli imam paga il governo, ma costa caro iscriversi in questa università, in cui i rampolli del Marocco benestante studiano ingegneria, management e comunicazione, mentre gli studenti americani e europei vengono a imparare come si cammina sul filo di scambi e denaro che collega l’Occidente al mondo arabo. Gli imam si mischiano a studenti, come l’italiana Sofia, che hanno fretta di crescere e di riuscire.
Il collega Bouziane Zaid mi ha invitato nel suo corso di comunicazione e sviluppo, per parlare della teologia della liberazione. Racconto di Oscar Romero, di Desmond Tutu. Una studentessa di Liegi con il velo si stupisce che in tanti anni nelle scuole cattoliche del Belgio nessuno le abbia mai parlato di tutto ciò; si entusiasma al pensiero di un islam liberatore degli oppressi. Kenza Oumlil mi ha invitato nel suo corso di teoria dei media. Agli studenti interessa il business, nessuno vuol fare il giornalista: mestiere troppo mal pagato, troppo pericoloso. Non per questo si tirano indietro quando viene il momento delle domande.
Mi incalzano sui due Papi, sul rinnovamento della Chiesa, su ciò che ho dichiarato in proposito ad Al Jazeera un anno fa. Non ci sono imam in aula. Questi corsi non fanno parte del programma. Ma alla mia conferenza, la sera, una dozzina di loro è in sala. Parlo dell’uso della religione nella politica post moderna: faccio scorrere le immagini del Dalai Lama e di Tom Cruise, di Berlusconi e Gheddafi, dei manifesti svizzeri anti-minareto, delle musulmane in marcia a Parigi contro la laicità che vieta loro di indossare il velo a scuola, dei barbuti che a Londra inneggiano alla sharia che dominerà il mondo, debellando la democrazia.
Un imam, a fine conferenza, mi dice la sua passione per un islam politico, la sua determinazione nel costruire una religione di progresso. Gli imam di Al Akhawayn si preparano a diventare gli ambasciatori nel mondo dell’islam del Marocco. Non hanno dubbi che il loro sia il migliore islam possibile. Moderato ed energico, tradizionale e moderno. Non hanno velleità rivoluzionarie. Stanno con un ministero degli Affari religiosi impegnato a costruire un islam ufficiale, di credo asharita e di scuola malikita, sensibile al sufismo e alle tradizioni popolari.
Nella geopolitica globale, quest’islam d’ordine piace a molti, anche in Occidente. Quello che avviene sul campus, tuttavia, sfugge alle strategie e ai disegni. È grande politica, certo, ma anche, soprattutto, traiettorie individuali. Glorianna Pionati, psicologa italoamericana del campus, mi dice che i problemi sono simili per tutti: l’ossessione della verginità, la paura dell’omosessualità, i diversi modelli sociali e familiari che fanno l’individuo a pezzi. C’è l’imam che ha trovato qui la fidanzata, l’imam già sposato, quello che attende la scelta delle famiglie. C’è chi resterà in Marocco, chi sogna il Canada. C’è chi è a disagio per questa formazione e chi grazie ai corsi, mi dice Emilie Roy, «ha smesso di vedere l’islam come una bolla di astrazione teologica». Ci sono infine i tanti che hanno solo voglia di capire, di fare, che si preparano a percorrere le strade del mondo pensandola come Gunn: «Il problema non sta nelle religioni, ma in coloro che popolano le religioni».”

Elogio del secchione

secchioneSabato pomeriggio ho comprato tre libri. Uno di questi è “Centomila giornate di preghiera”, che ho iniziato stamattina. E’ un fumetto: ultimamente mi sto appassionando molto a questa forma letterario-artistica, soprattutto quando ha a che fare con la storia. Questo è sulla Cambogia, ma non mi soffermo su tale argomento. A pag. 13 ci sono queste parole: “Prendere dei bei voti è come stare assenti. Se non fai storie e te ne stai zitto e buono nessuno ha da ridire”. Quant’è vero, quant’è triste. Purtroppo ci sono classi in cui si instaura un regime di mediocrità scolastica: che cerca di tirarsi fuori è emarginato, isolato, preso in giro, messo in disparte. Per un gioco di parole chi pensa all’emersione è destinato all’emarginazione. La scorsa settimana in due classi ho fatto l’elogio del secchione. Sul vocabolario Treccani ho trovato: “alunno (e, nel femm. secchiona, alunna) che, anche senza avere capacità eccezionali, raggiunge tuttavia risultati discreti o addirittura buoni applicandosi allo studio con ostinata diligenza”. Ricordo che, quando frequentavo il liceo, nella mia classe c’era una ragazza dotatissima per la filosofia e un ragazzo dotatissimo per la matematica e la fisica. A loro non servivano tanti esercizi, non occorreva passare ore sulle pagine e sui quaderni: “Mi basta ascoltare il prof, poi vado a casa, leggo e sono pronta”. Che rabbia, che invidia! Io non ero così: a me servivano le ore, gli esercizi, la costanza, la perseveranza. Dovevo ricorrere a quella “ostinata diligenza”, certo con strappi e “trasgressioni”, ma quella era comunque la mia via. E lo è stata anche dopo, quando quei due compagni di liceo mi hanno detto che non bastava più quanto facevano al liceo per raggiungere le mete che si erano prefissati, quando ho visto mia moglie fare l’università, e il tirocinio, e la scuola di specializzazione, e il dottorato per arrivare là dove voleva arrivare. Determinazione, perseveranza, coraggio, ostinazione, sacrifici, forza d’animo, orgoglio (perché no?), caparbietà, resistenza… “Ostinata diligenza” non è una brutta cosa. E si può applicare in tutti i campi della vita.
E se volete farvi una risata andate qui.

Ci somigliano

Ieri al tg mi sono imbattuto nel video di un pestaggio di una ragazza nei confronti della sua rivale in amore, girato da alcuni compagni rimasti fermi anche davanti alle esplicite richieste di aiuto della seconda. Ecco il commento scritto oggi da Gianluca Nicoletti su La Stampa.
“Il pestaggio di una ragazzina da parte della sua compagna di classe è raccontato in ogni dettaglio da un video che ora gira su Facebook. Lo hanno condiviso quasi 90.000 utenti e continua a rimbalzare tra le bacheche, suscitando a volte rabbia a volte incredulità. Chiunque abbia figli adolescenti è bene che lo guardi, anche se è molto crudo e può far male vederlo. Spiega molte cose dell’universo dei nostri ragazzi, cose che magari avevamo letto o di cui avevamo sentito parlare. Vedere però è un’ altra cosa.
bollateAvviene per strada, in una periferia come tante. In questo caso fuori dell’ Itc Primo Levi di Via Varalli a Bollate, ma poteva benissimo essere accaduto in qualunque strada di qualunque città italiana. Ragazzi e ragazze sono tutti ben vestiti, come prescrive il dress code per sopravvivere in classe ogni giorno senza sfigurare nel gruppo e confondersi rassicurati nelle sue dinamiche.
Si capisce dal video che è in atto una sfida tra ragazzine, o meglio una delle due -la bionda- affronta a brutto muso la nemica -la mora- s’immagina per rivalità amorosa. Comincia a picchiarla a freddo, con tecnica e determinazione. Combinazione di calci e pugni in faccia. Agile determinata, precisa. L’altra è terrorizzata e chiede aiuto.
Il primo cerchio degli osservatori è rappresentato dalle amiche, che fanno cerchio attorno al luogo dove il branco probabilmente amministra la sua giustizia. Più defilati i maschi, con il ruolo di semplici osservatori. Incitano, bestemmiano, si lamentano perché secondo loro si chiacchiera troppo e si agisce poco. Quasi tutti hanno lo smartphone in mano e filmano.
La scena prosegue lungo il marciapiede, la vittima prova a scappare chiede aiuto, l’altra la insegue, la colpisce, la prende per i capelli, la sbatte contro un lampione, la butta a terra e la prende ripetutamente a calci in faccia tenendola sempre per i capelli. Urla disperate, richieste d’ aiuto ai compagni che restano impassibili e continuano a filmare. Finalmente una delle altre ragazze l’aiuta a sollevarsi e le fa scudo, mentre gli altri decidono che può bastare e allontanano la bionda che pare appagata per la punizione.
Facebook storicizza l’evento. La vicenda arriva alla preside del liceo che chiama i Carabinieri di Rho, i genitori della vittima denunciano. La storia seguirà il suo naturale iter giudiziario. Su Facebook invece continua: si sono già creati due gruppi antagonisti che, attorno al filmato, stanno trasferendo quel brutto episodio nel tempo dell’epica 2.0.
I ragazzi non sono molto diversi dai loro genitori che si accaniscono su Twitter per la politica, per il disprezzo verso le donne in genere, per razzismo, per intolleranza verso chi è diverso: “Z….la dai ricci d’oro vieni al Sud, qui nn ti diamo manco il tempo di parlà che come fai A co no calcio in bocca ti facciamo saltà tutti i denti.” Oppure chi inneggia alla bionda che è diventata un’eroina “Brava G….!! Sei finita sul giornale insieme all’algerino con la mannaia!! Sei una da temere!! Sei tosta!! ….. una vacca intostata!!”
Chi se la sente di fare lo scandalizzato, di meravigliarsi, di dire: “Oh che tempi…Che gioventù!!!!” Difficile fare la morale, somigliano troppo a noi adulti questi sciocchi ragazzi. E’ da noi che hanno imparato ad essere pusillanimi, ma spietati se imbrancati. Pronti a eccitarsi alla violenza, pronti a seguire senza discutere chiunque dimostri di essere il più forte, il più spietato, il vincente perché capace di prendere a calci in faccia qualunque suo simile inerme che chiede pietà.
Soprattutto i ragazzi sono come noi convinti che, alla fine, anche i nostri atti peggiori possano assumere mitologica dignità se solo riusciamo a conquistarci l’attenzione dei media. Sia per goderci la gloria di avere spazio in tv e giornali, sia per accontentarci d’essere protagonisti assoluti nelle bacheche Facebook delle nostre molteplici relazioni digitali.
PS
Nel tempo che scrivevo le condivisioni del video sono diventate quasi centomila (ore 10.50)
Ore 18.30: il video è stato rimosso da Facebook

1 e 2

E’ tempo di iscrizioni a scuola. Su molti moduli mamma e papà non troveranno più madre e padre ma genitore 1 e genitore 2. Ecco cosa ne scrive su Popoli Giacomo Poretti, sì, quello del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Il titolo del pezzo è “Onora il genitore 1 e il genitore 2”.
1 tondo“A un certo punto l’essere umano ha cominciato a parlare e a dare nomi alle cose e agli oggetti, così che tutti intendessero la stessa cosa e non succedessero guai. Infatti poteva capitare che un marito desiderasse un risotto per cena, ma lo chiedeva con un grugnito inarticolato, così che la moglie capiva minestrina in brodo: quando portava in tavola la brodaglia il marito spaccava tutto con la clava. Oppure magari c’era un dinosauro dietro a un cavernicolo e il suo amico con frasi sconnesse cercava di farlo scappare, al che quell’altro gli ripeteva: «Ma perché non ti applichi nella grammatica?». Alla fine veniva inghiottito da un Triceratopo.
Così, dopo tutti questi equivoci spiacevoli, gli umani hanno deciso di chiamare le cose con i loro nomi. Per esempio, fin dal principio, «zanzara» era quell’animale fastidioso che tutti cercavano di sfracellare contro le pareti della caverna senza riuscirci. «Flatulenza» era il fuggi fuggi che accadeva nella caverna quando qualcuno mangiava il Tirannosauro rex cucinato in fricassea con purea di castagne. O, ancora, con la parola «papà» si definiva il genitore maschio e «mamma» la genitrice femmina, e questo da molto molto prima che Charlton Heston, il mitico Mosè nel film I dieci comandamenti, scendesse dal Sinai con le Tavole della Legge.
Oggi, in un Paese vicino al nostro, giusto per svecchiare la lingua e i concetti, il papà e la mamma si è deciso di 2 tondorinominarli «genitore 1» e «genitore 2». Resta da definire se il maschio indosserà la maglietta numero 1, o se invece verrà attribuita alla femmina; ancora più complessa è la vicenda di quando i genitori saranno entrambi maschi o entrambi femmine: forse si deciderà ai rigori o, più democraticamente, 6 mesi a testa, come per la presidenza Ue.
Abolite, perché sorpassate, la festa della mamma e del papà, al loro posto verranno istituite la «festa del genitore 1», che verrà celebrata il 2 novembre al posto dei morti che fa un po’ tristezza, e la «festa del genitore 2» il 25 aprile, al posto dell’inutile «festa della liberazione». I primi anni potrà capitare che i bambini sbaglieranno e regaleranno una cravatta al genitore femmina e un paio di orecchini al genitore maschio, ma dopo qualche decennio di assestamento i bambini, per non sbagliare, regaleranno in entrambe le occasioni una trousse di trucchi.
E i nonni, se non verranno aboliti, come li chiameremo? «Colei che vizia 1» e «Colui che porta sempre i regali 2»? Io, che non ho studiato le lingue, continuerò a parlare la lingua delle caverne e a onorare gli unici mamma e papà che conosco.”

Trasformare un probabile in possibile

fahrenheit-451-1966-01-gPubblico un articolo che riguarda il mondo della scuola, in particolare quello dell’Università. Lo consiglio ai miei studenti più grandini, o, ancora meglio, agli ex-studenti; penso possa essere frutto di riflessioni interessanti. Si tratta di un’intervista di Franco Marcoaldi al professor Carlo Ossola, critico letterario e docente al Collège de France, sul rapporto maestro-allievo. Ovvero: su quali basi il primo sceglie, elegge, promuove il secondo? L’ho trovato qui.
Professore, partirei da un’annotazione di carattere linguistico. Giudicare, in questo nostro caso, non significa emettere una sentenza. Il vocabolario del giudizio qui si apre piuttosto alla critica: il giudice si fa critico, esercita la facoltà di separare, scegliere, decidere.
“Aggiungerei un ulteriore elemento, che non si dà in altri settori in cui pure si esercitano il giudizio e la critica. In un’aula scolastica, l’insegnante non ha di fronte un libro chiuso, o un fatto compiuto e irrevocabile, ma un essere vivente in continua evoluzione. Quindi, prima ancora che emettere una valutazione, qui si tratta, socraticamente, di riuscire a far emergere le motivazioni dello studente, le ragioni per le quali sta seguendo un percorso. Il maestro è lì per individuare assieme allo studente i tanti crocevia, per aiutarlo a spianare la strada senza che si perda in inutili viottoli laterali. È un lavoro comune, insomma. Ed è giusto per questo che in quarant’anni di insegnamento ho sempre preferito la prova orale all’esame scritto. Perché non si tratta di perseguire un sistema oggettivo di incasellamento, ma di far emergere una personalità attraverso il dialogo”.
Il maestro dovrebbe accendere una passione, risvegliare una mente.
“Per dirla con George Steiner: “Nessuna passione è spenta”. Se il corso universitario è stato ben condotto, se le proposte di lettura sono state interessanti, lo studente avrà avuto accesso a un ampio ventaglio di opzioni. E avrà potuto trasformare il probabile in possibile. Per me l’esame finale rappresenta esattamente questo: trasformare un probabile in possibile. Perché nella foresta dei testi, lo studente trovi il proprio itinerario”.
Nei miei ricordi scolastici, il principale obiettivo era, al contrario, quello di ripetere ciò che aveva detto l’insegnante.
“Più l’insegnante è bravo, meno si presenta questo rischio. Il mio professore di greco del liceo diceva: primo, esaminare; secondo, sceverare; terzo, soltanto terzo, decidere. E badi bene, era uno che veniva dalla guerra partigiana. Ancora oggi quei tre verbi in successione rappresentano la mia bussola di orientamento nel rapporto docente-discente. Mettendo al primo posto l’obbligo dell’analisi, “provando e riprovando”, dimostro sì di essere esigente nei confronti dell’allievo, ma metto in questione anche me stesso. Perché sono disponibile ad accogliere tutte le sue domande e tutte le sue contestazioni. Nel senso più bello del termine: “Chiamati a testimoniare con”, come dice Michel de Certeau. Se io riesco a chiamare lo studente a testimoniare attraverso la propria voce, vuol dire che il soggetto di cui gli sto parlando sta diventando effettivamente suo. Non conosco modo migliore per recuperare la perduta autorità dell’insegnante”.
Un insegnamento fondato sull’interrogazione e sul dubbio dovrebbe essere il miglior antidoto al dogmatismo.
“Quando ero studente universitario, seguivo i corsi di Raoul Manselli, storico del Medio Evo, che amava ripetere: ricordatevi che l’eresia rappresenta sovente la parte sconfitta della verità. Un’affermazione, per me, decisiva: si tratta non solo di sceverare il vero dal falso, ma di capire perché – nella storia – una certa posizione abbia vinto e un’altra perso. Non si deve offrire allo studente un blocco organico di verità, ma piuttosto lo si guida a procedere nel modo indicato da Einstein: siamo noi stessi parte del problema che stiamo affrontando. E nel trattarlo, ne usciamo modificati. Grazie anche alle risposte dello studente a cui ci rivolgiamo”.
Il guaio è che secondo alcuni si è rotta la cinghia di trasmissione del sapere. E quanto interessava ai padri non interessa più ai figli. Su questo giornale ne ha scritto in modo dolente e puntuale lo scrittore e insegnante Marco Lodoli.
“Mi ricordo bene quell’articolo: un’analisi, dal punto di vista fattuale, difficilmente contestabile. Mi permetta tuttavia di parafrasare quel sonetto di Michelangelo che suggerisce: “Val meglio un lumino nella notte che una fiaccola di giorno”. Ecco, è da lì che bisogna ripartire. Siamo cresciuti in un contesto innestato sulla cultura umanistica: basti pensare al ruolo pubblico rivestito da figure come De Sanctis, Gobetti, Gramsci. E dagli stessi padri costituenti. Tutto questo oggi non c’è più. Ma perduta la sua centralità catalizzatrice, la cultura umanistica deve comunque rivendicare la sua funzione critica. A maggior ragione in una realtà sempre più segnata da scienze applicative e tecnologiche; una realtà in cui il problema principale sembra essere quello di allargare con nuove corsie le autostrade informatiche, mentre non si verifica se i Tir che vi sfrecciano sono pieni di contenuti, di versioni di mondi possibili, o vuoti o ingombri solo del loro “rumore””.
Ma come riuscire a farlo, se è vero, per dirla ancora con Steiner, che viviamo nella civiltà del “dopo-parola”?
“Bisogna partire dalle nostre specifiche responsabilità. Nel percorso scolastico siamo passati da una cultura del debito, fondata sull’idea che siamo sempre inadempienti rispetto al compito che ci eravamo dati, a una cultura del credito: i ragazzi acquistano crediti e noi li eroghiamo. Peccato che si tratti di crediti ipotetici, fittizi, che non vengono mai riscossi, finendo per alimentare nello studente un senso di frustrazione, di inganno, di irrealtà. La scuola in generale, e l’università in particolare, non è stata abbastanza severa con se stessa. Non esigente con sé e con gli studenti, ha indotto un lassismo di cui ora paga le conseguenze. L’orizzonte dell’insegnamento universitario è rimasto schiacciato sul presente, limitandosi a offrire descrizioni, comunicazioni, piuttosto che a porre domande di fondo. Quando invece sarebbe più che mai necessario pronunciare parole che si protendano “a nord del futuro”, come diceva Paul Celan. Perché non basta descrivere il mondo, bisogna anche saperlo varcare. Secondo elemento. Nella civiltà dei flussi, si corrono gravi rischi di rottura del pack su cui riversiamo la piena del dire. Ma il primo compito dell’insegnante non è proprio quello di circoscrivere la frase, di studiare i passi, di ristabilire sintassi e gerarchie di senso? Oggi più che mai c’è bisogno di limpidezza e sobrietà nella prosa, mentre troppo spesso, anche all’interno dell’accademia, prevalgono inutili espressionismi e compiacimenti di un dire senza oggetto”.
L’altra grande e terribile novità dei nostri tempi è la progressiva scomparsa dell’uso della memoria. Imparare a memoria non è più un esercizio richiesto.
“Ho iniziato la mia carriera a Ginevra, quando era ancora vivissima l’eredità di Jean Piaget, che aveva molto scommesso sui primi anni di vita, quelli dell’infanzia. Bisognerebbe strapagare i maestri, diceva, perché è lì, all’asilo e durante la scuola elementare, che si gioca l’essenziale della partita. Aveva ragione. Non esercitando la memoria, buttiamo via un dono prezioso. Non è soltanto lacuna dell’oggi, legata all’avvento del digitale: già nel ’68, sciaguratamente, si combatteva il presupposto uso “autoritario” della memoria. Credo che oggi questa sia, in assoluto, la sfida più importante dell’insegnamento: bisogna riattivare quell’esercizio, arrestare l’irresistibile processo di delega mentale rappresentato dal mondo delle risorse Web. Come farlo? Scovando dei testi talmente belli, talmente pieni di domande decisive, da costringere lo studente a mandarli a memoria. In tal senso la poesia ha un grande compito, perché un verso non lo si può storpiare. C’è una bella differenza tra il sentenziare: “Stiamo come le foglie d’autunno sugli alberi” e l’indugiare sospeso “Si sta come / d’autunno / sugli alberi le foglie””.
Professore, non è che stiamo un po’ fantasticando? Sta franando tutto, e noi pensiamo che si possa ripartire da un verso di Ungaretti?
“Si ricorda Fahrenheit 451 di Bradbury- Truffaut? Noi oggi siamo come quei rifugiati ai quali è stato dato il compito di ripetere il verso appreso a memoria, uno per uno, in modo che la piccola comunità sopravvissuta possa alla fine ricostruire per intero il poemetto andato distrutto. Credo che sia proprio questa coscienza della fine, a darci la forza per combattere la nostra battaglia. Certo, potremmo anche uscirne sconfitti. Ma non bisogna mai negoziare troppo con il presente”.

Ne avrei da taggare…

Un avviso per i miei studenti… e apprezzo molto la nonchalance della prof.

Persone silenziose

In questi giorni vedo passare molto spesso il video della canzone “Persone silenziose” sui canali che si occupano di musica. Lo trovo un ottimo testo, una poesia in musica scritta da quello che ritengo uno degli autori più sensibili del panorama italiano, Luca Carboni (che qui canta con la partecipazione di Tiziano Ferro). Mi vengono in mente molti studenti, quelli più taciturni, che abbassano lo sguardo se il mio si posa su di loro, che non alzano mai la mano, che preferiscono essere impallati da qualche compagno mentre i prof scannerizzano la classe… e che custodiscono dentro di loro un mondo prezioso fatto di perle di incredibile valore. Questo pezzo è per loro.

Di persone silenziose ce ne sono eccome
sono timide presenze nascoste tra la gente
Ma il silenzio fa rumore e gli occhi hanno un amplificatore
quegli occhi ormai da sempre abituati ad ascoltare
Persone che non san parlare che mettono in ordine i pensieri
persone piene di paura che qualcuno possa sapere
i loro piccoli e grandi contraddittori pensieri
E all’improvviso scappi via senza salutare
i tuoi occhi scendono le scale non so cosa vanno a fare
se a commuoversi o a sognare ad arrabbiarsi o a meditare
ma nell’anima si sa c’è sempre molto da fare
Persone che non san parlare che mettono in ordine i pensieri
persone piene di paura che qualcuno voglia giocare
coi loro piccoli e grandi contraddittori pensieri
All’improvviso scappi via senza salutare
… vorrei essere un angelo per poterti accompagnare

Spunti di scuola

noia-a-scuola.jpg w=500Qualche spunto dall’articolo di Marco Gallizioli su “Rocca” dell’1 gennaio.
“… nelle nostre classi siedono sempre più numerosi ragazzi che arrivano senza entusiasmo o che lo perdono strada facendo, allontanandosi dallo studio in modo lento ma progressivo davanti ai quali mi sento impotente. …
Trasmettere dei saperi a chi vuole apprenderli è compito fin troppo semplice, mentre trovare la modalità per incendiare di desiderio un terreno secco è forse operazione complessa, ma non credo impossibile. …
La scuola dovrebbe essere un laboratorio sociale di primo piano perché in essa comincia l’integrazione, il rapporto con le differenze, l’affinamento delle proprie capacità, il mettersi alla prova, il crescere attraverso errori ed occasioni positive, ma se finiamo con l’accatastare numeri sempre crescenti di allievi per classe, se non offriamo occasioni di crescita pensate per i ragazzi di questo tempo, se non investiamo davvero nella formazione in itinere dei docenti, gli scenari non potranno che essere grigi.”

Io, più uguale di te

ogiue-drawingNon penso che questo post otterrà molti “like”, ma non è certo per questo che scrivo. Semplicemente, a volte si affastellano dei pensieri che chiedono di essere espressi per suscitare, magari, una discussione in classe. Solo che non voglio farlo argomentando, e allora passo attraverso la fantasia di un breve dialogo tra me ed Esculapia, un’alunna che non ho mai avuto ma che riassume le parole di molti.

E: “Prof, ho bisogno di parlarle dopo. Ha un attimo?”
S: “Va bene, quando suona.”

Suona.

E: “E’ che la prof. di paleontologia (sai mai che qualche collega legga e si identifichi!) ci ha preso in picca, me e la Drusilla.”
S: mumble mumble
E: “Non ci tratta come tutti gli altri. Fa continuamente preferenze. Ci ha chiamate e noi abbiamo saputo come la Desdemona: lei il solito 8, noi il solito 6 che ci portiamo dalla prima interrogazione del primo anno.”
S: mumble mumble
E: “Davanti ai vostri occhi non dovremmo essere tutti uguali, senza preferenze, tutti sullo stesso piano?”
S: “Hai mai provato a parlarle? A esporre le tue perplessità, magari con meno foga?”
E: mumble mumble
S: “Domani ce l’hai la seconda ora, prova!”
E: “Uh no, prof. Domani non vengo: fra tre giorni c’è la simulazione di terza prova e sto a casa a studiare”
S: “State a casa tutti?”
E: “No, no, prof, stia tranquillo, la maggior parte c’è”
S: “Ma non siete tutti uguali, senza preferenze, tutti sullo stesso piano…”
E: stronzo!

140? troppo poco

Bruxelles20130515_0070fbMi capita spesso di leggere tweet degli studenti come “ma che senso ha studiare matematica?” oppure “la filosofia fa schifo”. Confesso che mi piacerebbe avere una risposta di 140 caratteri in grado di essere convincente. Ma non ce l’ho. Anzi, se vado indietro con la memoria di 20-25 anni, ai tempi del liceo, mi accorgo di essermi posto le loro stesse domande. La risposta è venuta solo dopo. Perché? Colpa della scuola? Colpa degli insegnanti? Colpa del metodo? Colpa mia? Oppure merito? Merito del tempo? Merito di un lavoro che prevede prima una semina, poi un tempo di cura e infine il momento della mietitura? Insomma, un lavoro per forza di cose lungo… E aggiungo un vantaggio che io e la mia generazione e quelle precedenti alla mia abbiamo avuto sugli studenti di oggi: la qualità del tempo dello studio. Era un tempo “naturalmente puro”, unicamente dedicato allo studio, alla concentrazione. Il disturbo poteva venire dalla nostra fantasia, dai nostri pensieri, al massimo da un po’ di musica in sottofondo. Erano dei pionieri coloro che studiavano con la tv accesa. Oggi il tempo dello studio è fortemente intermittente, fatto di tanti piccoli momenti intervallati da un whatsapp, un tweet, un ask, un quadratino rosso sulla pagina di fb che la coda dell’occhio riesce a percepire. E non si può ignorare e dire “lo leggo dopo”. Ormai il cervello è già là, la concentrazione è già dimezzata, il pensiero è continuamente interrotto. Il tempo dello studio per essere efficace deve essere “artificialmente puro”, è necessario crearlo e proteggerlo dalle ingerenze esterne che sono molte di più di quelle di 20 anni fa. Oggi anche io quando leggo, studio, preparo lezioni, correggo, scrivo mi creo uno spazio di silenzio mediatico: non mi risulta difficile, ma… non ho 15 anni e la mia esperienza di scuola è stata diversa da quella di uno studente del 2013…

Indecente, indocente, docente

Alessandro D’Avenia batte un altro colpo sulla grancassa della scuola bella. Ero tentato di scrivere sulla grancassa della “scuola che vorrei” o della “scuola dei sogni”. Poi mi sono detto che dovevo un po’ di rispetto a chi in questa scuola bella ci crede e ci lavora per renderla reale ogni giorno. L’articolo è presso da La Stampa di oggi. Immagino già alcuni colleghi “Eh, tante belle parole… ma poi i ragazzi di quinta all’esame devono sapere quello che viene loro chiesto…”. Al che domando: “Ma quando sei commissario esterno che cosa chiedi?”. “Beh, quello per cui sono stati preparati, le solite cose”. Il cane che si morde la coda…

scuola“Un libro li definisce «sdraiati». I ragazzi di oggi. Una generazione che non sa tenere la schiena dritta, ma spalma sulla vita la propria spina dorsale liquida. Avrei la schiena come la loro se mi avessero dotato di una comodissima sedia a sdraio, dalla quale avrei mandato a quel paese chi dopo averla fornita ora, pentito, la rivuole indietro. Moralismo. Nostalgia del tempo andato. Paternalismo sornione.
Gli sdraiati invece li vedo tendersi quando offri loro qualcosa di cui non possono fare a meno e che abbiamo sostituito con surrogati tecnologici, assenza di «no» e limiti, ma soprattutto di mete non autoreferenziali e narcisistiche.
Raddrizzano la schiena quando al moralismo sostituisci la morale: facendo loro toccare cosa è bene e cosa è male, non a parole; quando alla nostalgia del tempo andato sostituisci la nostalgia del futuro, sudando lo stesso loro sudore, non metaforico; quando al paternalismo sostituisci la paternità, difendendoli dalle paure ma sfidando le loro risorse migliori, dedicando loro tempo al di fuori di quello stabilito.
La spina dorsale cresce dritta a chi è teso verso la luce, come quelle piante a cui mia nonna metteva accanto un bastone fissato con uno spago, che le lasciava abbastanza libere da slanciarsi verso l’alto e non troppo libere da curvarsi su se stesse. Come si slanciavano verso il sole affondando proporzionalmente le loro radici! Dopo un po’, eliminati spago e bastone, rimanevano dritte, perché la fisica vuole che più ti slanci in alto più hai bisogno di radici profonde. Incolpare la pianta di non avere radici salde è incolpare se stessi, ma questo è duro da ammettere, e la colpa finisce sempre per cadere fuori dal recinto della responsabilità personale: loro, la tv, il consumismo, la scuola, la playstation (che abbiamo comprato con la sdraio).
Solo la vita e l’esempio educano, le parole non bastano. Non basta dire tieni su la schiena, se non additiamo il panorama da guardare oltre la soglia. Il nostro modo di vivere autoreferenziale lancia spesso proclami contraddittori rispetto alla schiena dritta che esigiamo. I bambini allo stadio fanno lo stesso che fanno i padri: e ci scandalizziamo pure? O li multiamo?
C’è però chi reagisce, cito da una delle tante lettere di contenuto analogo che ricevo:
Mi dica, le piace essere un professore? Pensa che abbia ancora un valore, per un professore, essere tale? Io sinceramente odio la scuola e non perché non ami studiare, imparare cose nuove, ma perché mi sento soffocare, quando la prospettiva è entrare in classe ed ascoltare passivamente persone che nel loro mestiere non mettono impegno, che sembrano sempre sull’orlo di una crisi isterica, che non fanno amare ciò che si vantano di insegnare.
Ho solo diciotto anni, che ne so io della vita, di come si svolge un mestiere? Potrebbe chiedermi e dirmi che tutto ciò è una scusa per giustificare il fatto che di studiare non mi va. Sì è vero, non mi va di studiare un argomento che non mi appassiona. Ma non dovrebbe essere proprio quello, il ruolo del professore? Far amare la cultura? Far amare lo studio? No, perché quello che nel mio liceo si fa è imparare a memoria. Ma a Lei non sembrano sbagliati i verbi che vengono usati per capire se si è studiato o meno? Interrogare e ripetere.
Io li odio questi due verbi, Professore, perché interrogare ha perso il suo significato latino, è diventata una minaccia, e alla domanda «La misoginia nella Medea di Euripide» – che neanche è una domanda a dirla tutta – si deve ripetere, come un automa, quello che il professore ha «pazientemente» dettato in classe per un’ora (50 minuti, nei primi dieci era a prendere il caffè col collega di turno) e le altre cinquanta pagine che invece avresti dovuto imparare a memoria a casa.
Io invece vorrei che un professore mi chiedesse: «Ma tu della Medea cosa hai capito?», «Ma perché secondo te Manzoni ha rinnovato completamente il genere del romanzo?», «Ma quindi a te cosa è rimasto di Hegel?», e vorrei lo facesse con quella luce che si ha negli occhi quando si fa qualcosa che si ama, per guidarci verso la maturità, quella vera, verso la capacità di guardare con occhio critico la realtà, quella luce che fa scattare dentro la curiosità, una volta a casa, di aprire il libro e capire «Ma quindi cosa voleva trasmettermi D’Annunzio, con tutta ’sta pioggia?».
Io guardo i miei professori e in loro vedo tante cose, tranne l’amore verso il proprio mestiere. Più che odiare la scuola, io odio i miei professori. Preferisco passare i pomeriggi a scrivere o visitare una mostra che hanno appena allestito o andare in quella libreria, un po’ nascosta tra le vie del centro, dove posso comprare un libro e sedermi a leggerlo.
Lei la vede intorno a sé la voglia di insegnare, di trasmettere qualcosa a coloro ci si aspetta siano il futuro del nostro Paese? Le vede le loro anime accese, vive, piene di voglia di fare, di dire?
Questa non è una lettera sdraiata, ma la lettera ben dritta di una ragazza all’ultimo anno di liceo, delusa, polemica, in uscita con un cumulo di nozioni in testa e la certezza di sapere chi non diventare. Eppure ne voleva di cultura, di quella che trasforma la vita, cultura indicata infatti come «luce che fa scattare». Non basterà rispondere che la vita è la fatica di fare «anche» ciò che non appassiona, perché lei la passione non l’ha vista proprio e le sembra di dover fare «solo» ciò che non appassiona, la morte in vita per chiunque, figuriamoci per un diciottenne.
Chiedete ad un ragazzo di oggi quali lezioni frequenta volentieri: vi citerà non l’«in-decente» (professore amicone, complice, che parla di sé e non fa lezione), non l’«in-docente» (colto ma freddissimo), ma il docente che li mette alla prova, che li sfida, che dà molto ed esige molto, che si occupa della loro crescita e non solo dei loro voti, il docente che amano e odiano, e che sceglierebbero autonomamente, se fosse loro consentito. I ragazzi si sdraiano nella scuola degli «in-decenti», e odiano quella degli «in-docenti» (letteralmente coloro che non-in-segnano anche se conoscono in modo ineccepibile la materia). L’in-docenza si nasconde dietro la ripetizione, la formula vuota, il dovere per il dovere, evita la vita, non la seduce, non per portare gli sdraiati verso noi stessi (triste e inutile beffa), ma per raccontare loro il sole, attraverso la luce di occhi posati sì sulle carte ma altrettanto sulle vite, perché raggiungano – singolarmente e insieme – la loro altezza. Prima di discettare sul ridurre di un anno la scuola italiana, per uniformarci (verso il basso) al resto dei Paesi europei (se la sognano una scuola con contenuti come la nostra), dovremmo provare a costruire scuole in cui sia consentito scegliere insegnanti decenti e docenti, come prova a fare qualsiasi mamma che vuole iscrivere il figlio in prima elementare.”

Pesci sugli alberi

primo-giorno-di-scuola2“Se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido” Albert Einstein

Panorami

PACE da noi_0023bw fbHo fatto questo scatto a giugno. Ieri è riemerso dall’hard-disk e mi ha portato a fare una riflessione sul mio lavoro. Nella foto ci sono il mio caro amico Carlo insieme al suo piccolo Pietro: un padre e un figlio. Non mi soffermo su questa relazione, perché al momento potrei raccontare per esperienza diretta solo il punto di vista di figlio. Guardando l’immagine, però, mi è venuta alla mente l’idea che sta dietro a quello che, secondo me, dovrebbe essere un insegnante: qualcuno che ti mette davanti a un panorama, a una vastità, a uno spettacolo, a tante possibili strade da poter percorrere, a una molteplicità di scelte da poter esercitare. L’insegnante è chi ti ha portato lì e ti lascia valutare quel paesaggio da solo, senza starti davanti impedendo una parte della visuale o, ancora peggio, facendo la strada al posto tuo. Però è lì dietro, e se hai una domanda da fare o un pensiero da condividere, sai che puoi girarti e chiedere, parlare, confrontarti, crescere.
E lo stile del papà di Pietro è anche quello di Eva, la sua mamma…
PACE da noi_0069 fb

Poco nitido

E’ un articolo molto interessante quello pubblicato da Roberto Cotroneo su “Sette” il 31 ottobre. Lo riporto qui e lo commento sotto.

Torino_049 fbPrima o poi dovremo fare i conti con quello che ci è rimasto dell’assenza. E prima o poi capiremo quali danni possono fare i social e il web 2.0 sulla nostra vita. L’essere sempre connessi infatti non è soltanto un modo di stare nel mondo, non è solo la meravigliosa sensazione di raggiungere chi vogliamo, sempre e comunque, ma è la cancellazione dei tempi verbali della nostra vita: tutti, eccetto il presente. Voglio dire che ormai non viviamo più con i passati remoti o con i futuri anteriori. Non c’è un luogo della memoria da riempire con immaginazione e verità, non c’è un presente che sfuma verso un passato lentamente fino quasi a lasciare solo piccoli puntini lontani. E non c’è neppure l’attesa del futuro, perché il futuro o si fa presente oppure non esiste. Cosa voglio dire. Voglio dire che i nativi social, che sono una categoria ancora diversa dai nativi digitali, quelli che sono cresciuti usando facebook sin da bambini, quelli abituati a esserci sempre e comunque, hanno un problema con il distacco dalle cose. Hanno un problema con il tempo. Tutto quello che è accaduto nella loro vita, dalle grandi alle piccole cose, non smette di essere, come non si smette di esistere nelle bacheche e nelle timeline. Sta tutto lì. Hai voglia a cancellare, a togliere, a limare. Il passato viene di continuo rovesciato sul presente come fossero detriti e calcinacci che occupano lo spazio della nostra vita, e con cui si deve fare i conti. C’è una vecchia storia, di quando i social non esistevano, che Umberto Eco racconta nel suo Secondo Diario Minimo: «Salvatore lascia all’età di vent’anni il paese natio per emigrare in Australia, dove vive in esilio per quarant’anni. Poi, sessantenne, raccolti i suoi risparmi, torna a casa. E mentre il treno si avvicina alla stazione, Salvatore fantastica: ritroverà i compagni, gli amici di un tempo, nel bar della sua gioventù? Lo riconosceranno? Gli faranno delle feste, gli chiederanno di raccontare le sue avventure tra i canguri e aborigeni, avidi di curiosità? E quella ragazza che…? E il droghiere dell’angolo? E cosi via… Il treno entra nella stazione deserta, Salvatore scende sul marciapiede battuto dal gran sole meridiano. Lontano, ecco un omino curvo, inserviente delle ferrovie. Salvatore lo guarda meglio, riconosce quella figura malgrado le spalle ingobbite, il viso segnato da quarant’anni di rughe: ma certo, è Giovanni, l’antico compagno di scuola! Gli fa un segno, si avvicina trepidante, indica con la mano tremante il proprio volto come per dire: “Sono io”. Giovanni lo guarda, sembra non riconoscerlo, poi alza il mento in un gesto di saluto: “Ehi, Salvatore! Che fai, parti?”». Salvatore era partito, scomparso, e nessuno si era accorto della sua assenza. Forse Salvatore non era un tipo capace di farsi notare. Ma oggi queste considerazioni, l’idea di partire e tornare, la speranza di essere riconosciuti ma in modo nuovo, con il tempo che ci ha attraversato, con il passato che racconta di noi, è impossibile. Oggi Salvatore sarebbe là, come sempre, dall’Australia come dall’Italia. Sarebbe là a twittare o a postare fotografie, a scrivere sui social o a raccontarsi. Come sempre, con le foto che aggiornano il suo volto, che lo mostrano visibile e sempre uguale. Se oggi tornasse ritroverebbe Giovanni, vecchio compagno di scuola, con una battuta, tipo: belle le foto dei canguri. Oppure: ma quanto sono cresciuti i tuoi figli! E se il tempo e la memoria non contano, non conta neppure la nostalgia: non esiste il prima e il dopo, e non esiste il passato, il passato è soltanto un presente rinnovato, riciclato in un certo senso. Niente si chiude, niente si compie in modo definitivo. Tutto resta per tornare. Ex mariti ed ex mogli, fidanzate dimenticate, amici di un tempo, colleghi, e poi compagni di scuola, commilitoni, parenti lontani. Restano tutti lì, aggiornati all’oggi, nitidi, come se non fossero mai usciti da un orizzonte ingombrante di cui non si sente il bisogno. Un tempo lo slogan era: cerca su facebook le persone della tua vita. Ma senza l’assenza il tempo non passa. Senza perdere qualcosa il ritrovare è un concetto vuoto.”

Ho letto queste parole in treno, più di 15 giorni fa, mentre andavo a Torino con Sara; lungo il viaggio tempo e spazio passavano accanto a me e dentro di me, in piena sintonia con le parole del pezzo. Eppure sentivo in me qualcosa di dissonante. L’esperienza diretta dei social mi porta a pensare che le parole di Cotroneo possano valere per una persona totalmente assorbita da essi, una sorta di isolato sociale che abbia solo quella possibilità di socializzazione. Un po’ come quando mi succede di leggere delle nuove generazioni che vivono rapporti falsi, fittizi ed esclusivamente virtuali a causa dei social. Quel che mi capita di vedere e ascoltare in classe è che la maggior parte dei ragazzi coltivano e approfondiscono su internet rapporti già esistenti nella realtà e che le due cose si integrino tra loro. La nitidezza di questo mondo che si sta costruendo è, a mio avviso, molto meno chiara di quanto si possa pensare, ed è in continua evoluzione, come se ci fosse un velo di foschia a non rendere chiari i contorni delle cose. Sarà stato forse per questo, quasi per reazione, che il 7 novembre scrivevo le parole di Pasolini: “Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto”. E sono uno che il passato lo pensa, lo rievoca, lo elabora, lo ama per meglio cogliere il futuro (a esemplificazione di ciò il prossimo post…).

La felicità del dono

Matrimonio Cate e Vince_0017fb.jpg

Dare voce agli studenti durante le lezioni… E loro, a commento del volontariato che fanno nel tempo libero, arricchiscono te e i compagni facendoti conoscere cose così: “La vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario”. (Theodor Adorno)

Grazie

Famiglia e rugby

Mi ha scritto l’altro giorno uno studente, in risposta a un lavoro che avevo assegnato:

rugby2.jpg“Ecco. Il mio valore più importante è la famiglia… Ho scelto questa immagine perché penso che il Rugby sia come una famiglia: ci può essere qualsiasi persona in una squadra: c’è quello veloce, quello snello, quello tarchiato, quello alto, quello ciccione, quello grosso… Tutti questi con differenti personalità…. belle o brutte… E nonostante il carattere e l’aspetto fisico differenti l’uno dall’altro questa squadra è una sola: agisce, lotta, si aiuta a vicenda, ognuno ha il suo compito, proprio come una famiglia. Non deve mollare. Deve avanzare. Continuare il percorso anche durante le difficoltà…

Io gioco a rugby. Sono al primo anno dell’under diciotto e sono il più piccolo. Io ammiro molto i compagni più grandi di me. Essi hanno più tecnica, più fisico ed esperienza… Sono più forti, superiori a me, anche in partita, e ad allenamento (infatti le prendo molto spesso). Nonostante questo anche se ogni tanto fanno gli spavaldi con me, gli voglio bene, li rispetto con tutto il cuore e so che anche se mi legnano ad allenamento, nel vero match, nel momento del bisogno, quando sarò placcato, loro saranno lì a prendere la mia palla per poi portarla oltre la linea di meta. Con loro son sicuro: avrò sempre un sostegno, sia morale che fisico. Per questo ritengo che la famiglia sia importante, sia dal punto di vista sociale che sportivo.

Devo dire che riflettendoci, ci sono vari tipi di famiglia in questo mondo, anche se non ce ne rendiamo conto. La prima cosa che viene in mente appena qualcuno dice la parola famiglia, sono i genitori e i parenti. Se pensiamo bene invece ci sono anche altre famiglie. A scuola, al lavoro, nello sport, ovunque.

La famiglia condivide tutto nonostante le difficoltà.

Oggi uscendo dallo spogliatoio ho visto i due soliti fuori quota della squadra… Sono acerrimi nemici in campo. Quando si devono scegliere le squadre ad allenamento loro sono sempre separati, l’uno contro l’altro. Se le danno di santa ragione. Alla fine pero’ si chiamano a vicenda “mate”, vengono ad allenamento insieme, ridono insieme, c’è un’ intesa incredibile … Sono inseparabili… Io penso che ci sia qualcosa di magico in questo sport… Si condivide tutto: dalla fatica degli ultimi minuti impossibili da giocare, dove le ossa scricchiolano, i lividi si sentono di più e le gambe si indolenziscono, alla pasta del terzo tempo, dove si ride e scherza anche con la squadra avversaria.

Il rugby insegna tante cose. Ti insegna ad attribuire i valori alla vita, ti insegna a rispettare, a dare sostegno, a non mollare al primo tentativo, a perseverare…. ad essere UNITI… Come una famiglia…

Il rugby è come la vita. C’è tutto dentro: Difficoltà, dolore, amore, passione… Non per questo è definito dai gallesi “LO SPORT CHE VIENE GIOCATO IN PARADISO”… E lei cosa ne dice prof, pensa che qualche volta Dio si metta a fare qualche partita di rugby per insegnare a noi la vita?”

Non senza il suo nome

identità, scuola, solitudine, coraggio, relazioni, amicizia, sogno, eva, nightwishImmaginiamo una bambina o una ragazzina sensibile (“un cuore più generoso di tutti gli altri che mi ha sempre fatto vergognare del mio”) che, all’interno della propria classe, se ne resta piuttosto appartata in quanto viene spesso presa di mira dalle prese in giro dei compagni (“Eva vola via, sogna il mondo lontano, in questo crudele gioco di bambini non c’è un amico che chiami il suo nome, Eva prende il largo sogna il mondo lontano”). Eppure, nonostante l’isolamento, Eva non perde la propria identità (“lei cammina da sola, ma non senza il suo nome”). Se ci fosse anche solo una parola gentile sopporterebbe di restare ancora un po’ in quella situazione a cullare il sogno di un mondo migliore, di un paradiso, di un Eden (come la prima donna che aveva il suo stesso nome)… invece ci sono i compagni ad uccidere quel sogno e quel cuore buono. Fino a quando qualcuno, anche uno solo, non fa un passo e apre ad Eva un campo di girasoli…

6:30 di un mattino d’inverno

La neve scende, nell’alba silenziosa

Una rosa di qualche altro nome

Eva lascia la sua casa di Swanbrook

Un cuore più generoso di tutti gli altri

che mi ha sempre fatto vergognare del mio

Lei cammina da sola, ma non senza il suo nome

Eva vola via

Sogna il mondo lontano

In questo crudele gioco di bambini

Non c’è un amico che chiami il suo nome

Eva prende il largo

Sogna il mondo lontano

Il buono in lei sarà il mio campo di girasoli

Derisa dall’uomo fino al più profondo disonore

Una ragazzina con una vita davanti

Per il ricordo di una parola gentile

Rimarrebbe in mezzo ai bruti

Tempo per un altro audace sogno ancora

Prima della sua fuga, splendore dell’Edencampo_di_girasoli.jpg

Che uccidiamo insieme al suo cuore amorevole

Eva vola via

Sogna il mondo lontano

In questo crudele gioco di bambini

Non c’è un amico che chiami il suo nome

Eva prende il largo

Sogna il mondo lontano

Il buono in lei sarà il mio campo di girasoli

(Eva, Nightwish)