Gemma n° 1865

“Innanzitutto vorrei proporre uno spezzone de Il giovane favoloso, film che parla della vita di Leopardi, non solo delle poesie ma anche delle sue vicende e della sua personalità.

L’ho scelto per due motivi. Il primo è che ho studiato Leopardi con una prof che mi ha insegnato un sacco di cose, il secondo è la lettura de L’arte di essere fragili di D’Avenia che ci ha consigliato la nostra attuale prof di lettere. La prof delle media mi ha fatto capire, attraverso questa poesia, un sacco di cose sull’adolescenza e su quello che può aspettarmi nella vita: nonostante ci saranno momenti difficili, saranno seguiti da momenti di felicità. Inoltre mi ha fatto capire che Leopardi non è un pessimista, ma un uomo speranzoso che celebra la vita e mi ha fatto apprezzare anche le altre poesie sue. Poi nel 2018 ho fatto delle vacanze a Recanati, prima ancora di sapere che fosse il paese di Leopardi. Ho visitato la casa ma mi hanno colpito soprattutto i luoghi delle sue poesie, la torre, la finestra da cui si affacciava, dal paesaggio che lascia senza fiato e senza parole. La passione per Leopardi mi è stata trasmessa poi da mia madre.”
E’ ricca questa gemma di E. (classe seconda) e per commentarla prendo a prestito delle parole di Alessandro D’avenia dal libro citato da lei: “Mi sono convinto che gli adolescenti non hanno domande: sono domande. Riformulano con i loro silenzi gli stessi “perché” reiterati tipici dei bambini, ma su un piano diverso: il bambino chiede come mai ci sono le stelle, l’adolescente chiede come ci si arriva, perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle)”.

Gemma n° 1824

E’ una gemma senza testo quella di G. (classe seconda), o meglio, il testo è “solo” quello della canzone Solamente unico che ha voluto proporre in classe come gemma, non ha voluto né commentarlo né dire il motivo della scelta. Ho messo le virgolette a “solo” perché basta ascoltare il pezzo per capire quanto racconti. Però mi voglio attenere al dato di fatto, non voglio immaginare o ipotizzare cosa ci sia dietro alla scelta di G. E per farlo cambio destinatario: il mio commento alle gemme è praticamente fatto tenendo in mente ragazze e ragazzi che incontro ogni giorno. Ora invece penso al mondo degli adulti e il perché è presto detto. Prima di entrare nella classe di G. stavo leggendo delle pagine del libro L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti di Matteo Lancini (2021, Raffaello Cortina Editore).

In famiglia è necessaria “una nuova propensione affettiva e relazionale, che consenta sin da bambini di esprimere fatiche e sofferenze, non chiedendo loro di farsi carico di sguardi troppo angoscianti provenienti da mamma e papà. L’inciampo e il fallimento sono parte costituente della vita, della crescita, dello sviluppo in direzione della costruzione del vero sé e di una propria identità autentica. Non si tratta certo di ricercare dolori e sofferenze nella vita, ma di evitare grandiosità e decessi che illudono sulla possibilità di essere felici senza accettazione ed elaborazione dei fallimenti e della morte come elementi fondanti della nostra esistenza”.
In adolescenza “la qualità di un ascolto identificato e la capacità di interessarsi al figlio reale, ormai divenuto altro da sé e delle proprie aspettative, rappresentano l’unica via d’accesso per lo svolgimento di un ruolo materno e di un ruolo paterno davvero autorevoli e di sostegno alla crescita. Laddove prevalgano discorsi infantilizzanti, alimentati dal rimpianto per la straordinarietà dei tratti affettivi e relazionali dell’ex bambino, e contenuti ciclici standardizzati sulla necessità di un maggiore impegno scolastico, comportamentale, etico, sacrificale, non solo il ruolo affettivo adulto non riesce a incidere, ma rischia di innalzare il livello del conflitto in atto, se non di accrescere i sentimenti di tristezza e di vergogna, già sperimentati dal figlio o dalla figlia, negli stati depressivi legati al fallimento narcisistico.
Gli adolescenti odierni hanno sensibilità non comuni, sviluppate proprio grazie alla mamma e al papà e alla trama affettiva che ha dominato la loro crescita. Solo se percepiscono una capacità di ascolto e rispecchiamento realmente identificata con le loro esigenze e difficoltà evolutive possono rivolgersi al proprio adulto di riferimento, condividere i propri stati affettivi, chiedere aiuto e conforto. Oggi i ragazzi e le ragazze non parlano con i propri genitori perché hanno paura di deluderli o di incontrare reazioni emotive materne e paterne spropositate. E i genitori temono a loro volta le paure e le sofferenze dei figli, cosa che gli adolescenti avvertono sin da quando sono nati. Madri e padri di ragazzi tristi, mutacici non dovrebbero mai temere di introdurre il tema della morte volontaria a tavola, la sera o in qualunque altra occasione di incontro possibile. Chiedere se ci si pensa e se ci si è mai pensato, nominare il suicidio senza alcun timore. Un altro luogo comune da sfatare è quello che sostiene che parlare di suicidio possa istigare, promuovere l’idea del nostro giovane interlocutore di mettere in atto il gesto insensato. E’ vero esattamente l’opposto. Parlarne consente di abbassare il rischio, di dare senso al pensiero sviluppato sulla morte volontaria, di rendere meno attrattiva l’eventuale ipotesi e intenzione suicidaria. Ovviamente, ciò che vale per l’espressione più terribile del disagio di un figlio, vale per tutti i sentimenti, le sofferenze e i dolori sperimentati. Conviene sforzarsi in questa direzione, allenarsi per essere in grado di percepire, ascoltare e sostenere l’elaborazione delle emozioni negative. Continuare ad allontanarle e rimuoverle è oggi davvero molto pericoloso”.
(estratti dalle pagg. 147-150).

Questo leggevo ieri in aula insegnanti, mi sono alzato, ho messo via il libro, ho salito le scale, sono entrato in aula e la prima cosa successa è stata ascoltare la canzone proposta da G. Di quali ulteriori segni avrei bisogno per non toccare questi temi? Cosa mi serve ancora per far sì che emergano quelle prove “del sole intorno a te”, per far sperimentare che “la luce non muore”?

“Ma… come sono i giovani?”

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Una domanda che mi rivolgono spesso gli amici è “Ma come sono i giovani d’oggi?”. “È inutile cercare di etichettarli come gruppo sociale omogeneo: sono singole persone intente a costruire la propria storia, irriducibili alle caratteristiche standard che si vorrebbe attribuire loro: inquieti, ribelli, egocentrici o altro”. Questa è una delle frasi di questo editoriale estivo di Luigi Ciotti, presidente di Libera, dal titolo Ascoltate gli alieni. Pubblico tutto il pezzo perché vi trovo contenuti molti spunti interessanti, sia per chi li guarda da fuori, questi adolescenti, sia per chi lo è, un adolescente.

“Tante volte sentiamo parlare degli adolescenti come se fossero una popolazione di alieni, approdati sulla Terra da un pianeta sconosciuto, con abitudini e linguaggi per noi indecifrabili. Li nominiamo in blocco – “gli adolescenti” – e cerchiamo di individuare qualche tratto che li definisca collettivamente, che li classifichi e ce li renda meno estranei. Ma i giovani non sono una popolazione a parte, sono una parte della popolazione. Sono parte di noi, della nostra società, e di questa società rispecchiano vizi e virtù, paure e speranze.
Se c’è un elemento – il principale – che li accomuna, è quello di essere in un’età sulla soglia: non più bambini, in tutto dipendenti dalla guida dei più grandi, non ancora adulti capaci di prendere decisioni autonome e assumersi responsabilità importanti. Gli adolescenti stanno lì, in mezzo al guado, e si guardano attorno. Da ciò che osservano accanto a loro dipenderà molto di ciò che diventeranno.
È inutile cercare di etichettarli come gruppo sociale omogeneo: sono singole persone intente a costruire la propria storia, irriducibili alle caratteristiche standard che si vorrebbe attribuire loro: inquieti, ribelli, egocentrici o altro.
I Piani europei di ripartenza post covid sono pieni di buoni propositi sulle nuove generazioni. Ma davvero bastano più istruzione e lavoro per riempire il vuoto di senso di un’adolescenza sempre più aggressiva e ansiosa?
Tutti noi siamo stati adolescenti e di quella adolescenza conserviamo un peculiare ricordo: chi esaltante, tutto incentrato sulla scoperta del mondo, le prime intense amicizie, le prime forme di autonomia. Chi più amaro, perché per carattere, educazione o altro ha vissuto con disagio i cambiamenti del corpo, il rapporto coi coetanei, le richieste crescenti della scuola e della famiglia. C’è anche chi non ha voglia di tornare a quell’epoca della propria vita: la tiene chiusa in un cassetto come se fosse un frammento di materiale radioattivo, che ancora sprigiona energie misteriose, mai rielaborate, che potrebbero interferire con la maschera di rispettabilità e sicurezza dietro la quale molte vite adulte amano celarsi.
Ma per non fare torto agli adolescenti di oggi, ciascuno di noi dovrebbe ritornare all’adolescente che è stato, coi suoi umori incerti, le sue grandi passioni, i suoi imbarazzi, le sue angosce, i suoi slanci. Attraverso la nostra memoria interiore, una memoria non solo razionale ma emotiva, possiamo entrare in sintonia con le grandi domande che i giovani ci pongono, le stesse che anche noi ci siamo posti all’età loro e alle quali si spera che siamo rimasti fedeli nel costruire la nostra vita successiva, all’insegna della ricerca di verità e pienezza. Possiamo anche entrare in sintonia coi disagi che i giovani di oggi esprimono in forma più o meno diretta. E rifuggire così da qualsiasi giudizio sbrigativo, da qualsiasi tentazione di etichettare i ragazzi sulla base del racconto superficiale che spesso ne danno i media […].
Se operiamo questo esercizio di immedesimazione capiremo che i tanti, troppi giovani che non studiano e non lavorano – i cosiddetti Neet (acronimo dell’inglese Neither in employment nor in education or training) – non hanno rinunciato a formarsi per mancanza di curiosità: la curiosità, la sete di conoscere e capire, è uno degli impulsi principali dell’essere umano in crescita. Né hanno rinunciato a cercare un’occupazione per pigrizia, perché quando si è giovani si teme assai di più la noia della fatica. E quindi la passività in cui questi ragazzi vivono, l’apparente mancanza di desideri, stimoli e prospettive, è il frutto di un presente incapace di investire su di loro, dei limiti delle nostre politiche educative, di un mondo del lavoro che sacrifica i diritti ai profitti, la formazione alle performance.
Capiremo che i sempre più numerosi giovani che preferiscono vivere chiusi nelle proprie stanze, rifiutando qualsiasi contatto col mondo reale a vantaggio di un’esistenza ripiegata nel virtuale, forse ci stanno indicando le pecche di un sistema di relazioni fondato sull’adeguatezza a standard non solo inarrivabili, ma inutili: canoni estetici e di consumo, di possesso, di successo, di un’autoaffermazione che si gioca spesso sull’escludere, il deridere, il sottomettere l’altro. Chi non si adegua, chi non si conforma, chi magari manifesta le proprie difficoltà attraverso sintomi come i disturbi alimentari, l’autolesionismo, l’abuso di sostanze o il ricorso a rituali violenti, viene facilmente etichettato come malato, vittima o delinquente. Invece credo che dovremmo imparare a leggere dentro questi comportamenti – che come adulti ci provocano e ci mettono alla prova – anche una risorsa preziosa di comunicazione. Un tentativo, per quanto sofferto, di stabilire un contatto, ricordandoci che quello che non va, a qualsiasi età, non può essere detto sottovoce.
La pandemia ha suscitato reazioni emotive forti in ciascuno di noi. E non c’è da stupirsi se gli adolescenti, mutilati per lunghi mesi dall’esprimere la propria componente più vitale attraverso i contatti fisici, il rapporto quotidiano fra pari, a scuola, nel gruppo, messi addirittura da qualcuno sotto accusa come principali untori del virus, stiano oggi dando voce alle proprie frustrazioni, paure e aspettative di ritorno alla normalità. C’è chi lo fa in modo più costruttivo e chi più ingenuo, magari scomposto: ciascuno in base agli strumenti culturali di cui dispone, al carattere, all’esempio che ha respirato in famiglia. L’importante è ascoltare, ascoltare, ascoltare. E rispondere attraverso modelli di comportamento credibili, che non si limitino a predicare l’educazione, lo studio e l’impegno, ma dimostrino di praticarli nel quotidiano. E insieme di praticare sempre lo stupore, grazia spontanea della gioventù, ma anche imperativo di qualsiasi vita adulta che si voglia piena e autentica”.

La domanda e la risposta

Scrivo sul blog, forse metterò qualcosa su Instagram e Twitter, di certo non su Facebook, social in cui resto solo per informarmi o mantenere relazioni altrimenti destinate a perdersi (non mi meraviglio che i ragazzi non lo frequentino: lo conoscono). Pubblicherò il solito “Nuovo post sul mio blog”…
Stamattina, insieme a delle colleghe, ero per strada e in piazza in mezzo a loro. Passo buona parte della mia giornata in mezzo a loro, in presenza fisica o mentale (anche se non li vedo, li penso, penso a quello che scrivono, raccontano, esprimono…). Li sento discutere, parlare, chiedere; li vedo ascoltare, appassionarsi, interrogarsi.
“Prof, cosa dovremmo fare domani?” mi hanno chiesto ieri in una classe prima. “Non vi dirò cosa dovete fare. Parlatene a casa, discutetene con i genitori, con fratelli, sorelle, conoscenti, fatevi un’opinione e la scelta arriverà”. Stamattina alcuni erano in piazza, alcuni erano in classe. Bravi! Bravi questi e bravi quelli se la scelta è ponderata, se si sono informati prima di scegliere e decidere: non siete rimasti a casa. In piazza c’era sicuramente chi rideva e chi era lì senza sapere perché; ma tanti, tantissimi, erano lì consapevolmente, consci della loro presenza, in ascolto di chi prendeva la parola (applaudivano, annuivano, negavano: ascoltavano). Non hanno bisogno del cinismo mascherato di realismo di adulti delusi. Se non ci credono loro, chi ci deve credere? Sono a chiedere a chi ha il potere di farlo di prendere delle decisioni! Sono a chiedere a chi ha paura di fare scelte impopolari perché corre il rischio di non essere rieletto, di fare scelte impopolari. E sono a chiedere a noi adulti di stare dalla loro parte perché ci conoscono troppo bene e sanno che li guarderemmo dalle finestre liquidandoli con un “eh, son ragazzi… anche io alla tua età…”. Invece no, noi adulti, sappiamo perfino sorprenderli! Già! Sappiamo fare di peggio: non li compatiamo con un benevolo sorriso, ma li attacchiamo! Scriviamo sui social che devono vergognarsi, che non sanno perché son lì, che vogliono solo fare vacanza, che non sono coerenti. Siamo adulti tristi. E’ lì che va cercata la risposta alla domanda “Perché non abbiamo fatto niente quando potevamo fare qualcosa?”.

Davanti ai nostri occhi

pexels-photo-459971.jpegPropongo un articolo piuttosto vivace e non molto lungo scritto da Vincenzo Brancatisano su Orizzonte Scuola. Ragiono su questi temi molto spesso e frequentemente mi confronto con colleghe e colleghi; poco più di un anno fa, mentre partecipavo ad un convegno sull’adolescenza a Rimini, mi ponevo proprio la questione della preparazione pedagogica e didattica del corpo docente italiano. Mi sentirei di fare solo una puntualizzazione in merito all’accenno che viene fatto all’alternanza scuola lavoro, ma la rimando ad un futuro post.
“Leggo i titoli di centinaia di corsi di formazione per docenti. La maggior parte dei medesimi riguarda la disabilità degli studenti, i loro disturbi specifici di apprendimento (dsa), che meritano la giusta attenzione, le nuove tecnologie da usare in classe, le classi rovesciate o da rovesciare al più presto, Google drive dove infilare alla rinfusa la didattica appena offerta in classe o magari mai proposta in aula e spedita a casa come un pacco di Amazon a beneficio di genitori imbestialiti.
E invece c’è una grande emergenza che meriterebbe la giusta attenzione e che non occupa né sembra preoccupare la categoria dei formatori e degli insegnanti, almeno non nei grandi numeri. E si tratta di un’emergenza forse proprio perché non attiva la giusta attenzione dei docenti.
Questa emergenza si chiama preadolescenza e adolescenza. Quanti sono i docenti che si son dotati della giusta formazione per essere in grado di interpretare le dinamiche psicologiche, psicosociali, neurologiche, affettive dello studente che vive questa epoca ispirata al massimo nichilismo, alla mancanza diffusa di scopo, al desiderio di automutilarsi pur di attirare l’attenzione dei pari, al disastro causato dai genitori che si propongono loro come amici invece che come nomos, alla dipendenza dalle tecnologie talmente devastante che vien voglia di pensare: ma perché non si drogano con le sostanze (è un’iperbole, ovvio, tesa a sottolineare la cifra del fenomeno) invece che con gli smartphone, con le attese ansiosissime e distruttive di una risposta a un messaggino, che dev’essere brevissima (“Perché non risponde? Avrà ricevuto? Sì, c’è la doppia sbarretta blu, forse non ha capito…”) con l’esercizio fisico compulsivo nelle mille palestre sempre più affollate di giovanissimi in cerca di identità (la nuova dipendenza di cui non si parla ancora), con i giochi d’azzardo online.
Tra le tante ricadute positive (si parla invece solo dei lati negativi) dell’alternanza scuola lavoro, una ricaduta apprezzabile emerge dai tanti recenti colloqui con i genitori. Tutti mettono in evidenza il sollievo momentaneo ma intenso indotto in loro dal vedere i propri figli staccati per ore e ore e per settimane dal telefonino e dalle cuffiette, una sorta di disintossicazione involontaria che fa il paio per fortuna con quella che si ripeterà più avanti, quando i nostri ragazzi saranno assunti in aziende per svolgere mansioni che non si conciliano con lo zombismo che abbiamo tutti davanti agli occhi. Ma intanto, questi zombie li abbiamo, appunto davanti agli occhi.
Tutti o quasi tutti ipnotizzati da un nulla cosmico talmente potente che si fa fatica, nei grandi numeri, a farlo sopravanzare dall’interesse per quello che viene proposto in classe da docenti che continuano a proporsi loro come avrebbero fatto vent’anni orsono, senza capire che la connessione di massa alla rete, avvenuta solo di recente, ha cambiato l’assetto sociale, quello antropologico e quello neuronale dei giovanissimi.
Basterebbero i dati sulle crisi d’ansia, sugli attacchi di panico che richiedono ogni giorno il soccorso delle ambulanze nelle nostre scuole, gli occhi assonnati di ragazzi e ragazze che si vede da lontano che hanno trascorso la notte davanti a un mini schermo luminoso, con tutti i danni cerebrali connessi alla privazione di sonno importante a quell’età.
Eppure si continua a minimizzare la dimensione del fenomeno. Continuiamo a preoccuparci, e giustamente, di handicap, di sostegno, di alunni diversamente abili, di alunni neoarrivati e di alunni con bisogni speciali. Ma non dimentichiamoci dell’adolescenza, cari formatori e organizzatori della formazione, né degli strumenti, e ce ne sono, capaci di rendere gli insegnanti capaci di affrontarla nel modo più appropriato e proficuo”.

Riorganizzare la speranza

neet

Ho letto su La Stampa l’articolo di Niccolò Zancan su Ernesto Grasso, ventunenne torinese la cui esperienza viene brevemente raccontata come emblema dei Neet, acronimo inglese inventato nel 1999 che sta per Not in employement, education or training. Fa parte di quei “giovani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano e non stanno facendo percorsi di formazione”: in Italia sono il 19%. Alcune delle sue parole mi hanno colpito “I pomeriggi sono la cosa più difficile. Gioco alla PlayStation. Vado a camminare. Ma non passano mai” […] “Mi sono iscritto a sette centri per l’impiego. Fino a qualche mese fa, ogni giorno andavo al centro commerciale a vedere se mettevano degli annunci. Ho provato all’Ikea, a Leroy Merlin. L’ultimo tentativo è stato per un posto da commesso in un negozio di videogiochi. Non servo. Mi scartano sempre. Dopo un po’, ti chiudi. Ci rinunci. Vivi dentro la tua stanza, aspetti che passi il pomeriggio”…

Nei mesi di maggio e giugno ho letto vari libri di psicologi, psichiatri, antropologi su adolescenti e giovani e ho partecipato a convegni e incontri. In Abbiamo bisogno di genitori autorevoli lo psicoterapeuta Matteo Lancini scrive: “Sostenere la speranza di un futuro possibile è il compito fondamentale di ogni genitore e di qualsiasi figura adulta significativa, impegnata in un ruolo affettivo o professionale con gli adolescenti. Il futuro rappresenta infatti lo spazio e il tempo della realizzazione di sé dell’adolescente, l’ambito dove potranno affermarsi il suo talento e la sua originalità. Se manca questa prospettiva, se l’adolescente si rappresenta senza futuro, in assenza di avvenire, c’è la crisi adolescenziale. Il disagio dell’adolescente dipende soprattutto da questo.” E ancora “gli adolescenti necessitano di un adulto non troppo angosciato, sufficientemente preoccupato e autorevole da restituire loro uno sguardo di ritorno pieno di fiducia e capace di avvicinare le risorse necessarie alla realizzazione di sé in una società davvero complessa. Tutto ciò richiede agli adulti più creatività di quanto ne fosse necessaria in un passato neanche troppo lontano”.

L’articolo citato in apertura di questo post portava questo sottotitolo: “Un giorno con un Neet: gioco alla playstation perché ho smesso di guardare al futuro”. Penso che per dare concretezza al futuro di Ernesto, o di un qualsiasi adolescente la cui visione sul domani sbatte contro un muro, sia necessario lavorare sul presente, sull’oggi (che poi è la stessa cosa che scrive Lancini). E’ proprio la preoccupazione per un domani impossibile da immaginare che impedisce di vivere, apprezzare e abbracciare il presente che diventa quindi a sua volta tempo di frustrazione.
Mi vengono in mente le preoccupazioni e le angosce dei discepoli di Gesù, sempre in ansia. Vedono Gesù placare la tempesta e camminare sull’acqua, ne fanno diretta esperienza (Pietro), vengono sfamati quando pare loro impossibile… Si stupiscono di tutto questo, eppure le preoccupazioni restano. I discepoli temono, Pietro inizia ad affondare, dopo la moltiplicazione e la mangiata a sazietà sono preoccupati per non aver preso i pani… E l’accusa che muove loro Gesù è sempre la stessa: “uomini di poca fede”. La paura blocca la fede, quella che nasce dall’esperienza di un Dio vicino, buono e amorevole, che sa le necessità dell’uomo prima ancora che queste vengano esplicitate (Mt 6,7-8: Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate). Ancora Lancini: “Se si vuole aiutare l’adolescente in crisi bisogna essere in grado di «raggiungere» il ragazzo o la ragazza là dove sono. La clinica dell’adolescente richiede di arrivare alla mente del paziente là dove è, là dove si trova adesso, con un profondo rispetto per come il soggetto prova a gestire l’insopportabile crisi evolutiva, il fatto di vivere in una quotidianità senza prospettive visibili dal suo punto di vista. Su queste basi è possibile costruire un’alleanza con l’adolescente che consenta a noi, e ai suoi adulti di riferimento, di avvicinargli le risorse utili alla ripresa evolutiva, alla scoperta del proprio vero Sé, del proprio talento, come unica possibilità per riorganizzare la speranza e investire in un futuro possibile”.

13

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Due settimane fa, al Convegno Supereroi Fragili, organizzato dalla Erickson a Rimini, in molti interventi si è fatto riferimento alla serie 13, disponibile su Netflix. La sto guardando in questi giorni e proprio oggi è uscito su La Stampa un articolo di Alessandro D’Avenia con un notevole numero di spunti di riflessione, soprattutto per genitori, insegnanti e tutti gli adulti che incrociano le proprie strade con quelle degli adolescenti di oggi.

“Stavamo dialogando attorno al canto dell’Inferno dantesco dedicato al conte Ugolino, ed evidenziavo il fatto che Dante presenta un padre incapace di dare pane e parole ai suoi figli, condannati a morire da innocenti.
In un verso Dante descrive la tragedia della paternità sovvertita, quando Ugolino, guardando i volti dei quattro innocenti imprigionati con lui, dice di aver visto se stesso: sia perché vede in loro lo stesso dramma dell’inedia che li condanna a morte, sia perché vede in loro il frutto delle sue colpe. Moriranno a causa sua, e lui non se ne era reso conto, se non in quel momento, quando ormai è troppo tardi. Partendo da qui siamo13 arrivati a parlare di Thirteen reasons why: titolo di un fortunato libro negli Usa (Tredici in Italia), nonché di una ancora più fortunata serie televisiva che spopola tra i ragazzi e che, sollecitato da loro e interessato a capire dove cercano le parole e le immagini per raccontarsi, ho guardato nelle ultime settimane.
Una ragazza si suicida, ha 17 anni, ma prima di mettere in atto il suo gesto estremo, incide 13 audiocassette, dedicate ciascuna alle tredici ragioni che l’hanno portata a togliersi di mezzo, ogni ragione corrisponde all’amico o amica, a cui è dedicato quel nastro. Così a poco a poco emerge la verità di una storia di violenza verbale e fisica, ampliata anche da chi si riteneva innocente. Sorprende scoprire che solo l’ultima cassetta è dedicata a un adulto, lo psicologo della scuola, che aveva parlato con la ragazza il giorno stesso del suo suicidio e non era stato capace di andare oltre quanto richiesto dal codice del suo lavoro.
Il ritornello che caratterizza tutta la serie è che la verità non è sempre quella che ci costruiamo per giustificare le nostre azioni e che il male che commettiamo o il bene che tralasciamo di fare hanno lo stesso peso.
Tutto ciò avviene ad una ragazza a cui non manca niente per essere felice, ma una somma di gesti malvagi o di gesti omessi da chi le vuole bene fa crollare una identità in formazione e quindi fragile. Questo il fascino esercitato sul pubblico di adolescenti: la percezione della distanza tra come ci si sente e come è la realtà, due dati che nella vita di un ragazzo sono spesso molto distanti e che portano gli adulti a non capire, liquidando le loro sofferenze ora come «paturnie dell’età», ora come «cose che un giorno capirai», ora come «la vita è fatta così, impara a starci».
Nella serie infatti l’assordante assenza è quella degli adulti, distantissimi anche se vicini, a volte incapaci di ascolto o di capire come ascoltare (la famiglia del protagonista deve formulare il proposito di fare almeno un pasto insieme dopo tre settimane…), a volte incapaci loro stessi di essere adulti.
È il protagonista della serie, un diciassettenne, a dover dire in modo chiaro allo psicologo: «Dovremmo imparare a volerci bene, in modo migliore». Ha capito che non basta il rispetto, non bastano le regole, che il consumismo relazionale è un veleno e che per volersi bene bisogna conoscere gli altri, conoscere il bene per gli altri, perché una relazione è vera solo quando si impegna a realizzare il bene dell’altro e ad accogliere l’altro come bene, non basta vivere sotto lo stesso tetto (familiare, scolastico…). È l’adolescente protagonista che impara che il bene dell’altro va fatto, a ogni costo, ed è lui a dover educare gli adulti sul tema.
Sono gli effetti di una società individualista, in cui i ragazzi non si sentono più parte di una storia, ma si riducono ad atomi incapaci di comprendere la realtà, perché nessuno gliene offre le parole adatte, ci si limita a insegnare delle regole per la vita e non cosa ci sia di buono da fare nella vita e a cosa servano quelle regole. Lo spaesamento narrato in questa serie solleva sin dal primo minuto la ferita aperta della società di oggi, quella americana sicuramente più avanti della nostra, ma neanche tanto: in un tessuto sociale disgregato e utilitarista, l’individuo è solo e non vale nulla se non si procura da solo il suo valore. La vita inserita in un sistema di performance in cui si è tanto quanto si ha, fa, appare, non c’è il tempo per costruire sull’essere, cosa che potrebbe avvenire in famiglia, unico luogo in cui essere accettati per quello che si è e non per quelle altre tre cose. Ma la famiglia non ha tempo per fare questo, oppressa anche lei da un meccanismo soffocante. Non c’è tempo per le relazioni buone, il tempo che permette di far emergere le ferite e le gioie, che va a costruire quel nucleo forte di amore da cui un bambino ed un adolescente imparano a guardare ed affrontare il mondo.
Il tempo delle relazione è spesso riempito da oggetti, silenzi, altre performance… che non lasciano lo spazio e i minuti necessari ad abbassare le difese e ad aprirsi. Persino l’assurda moda della Blue Whale – un gioco perverso che si conclude con il suicidio del partecipante – può riempire il vuoto di senso della propria esistenza, tanto da trasformarla in una performance sino alla autodistruzione: ci sarebbe da chiedersi come mai neanche la scuola sia più in grado di offrire un orizzonte di senso a questi ragazzi che vi passano per tredici anni tre quarti delle mattine. Continuiamo a produrre «educazioni a» affollando la loro testa di altre regole, impossibili da vivere perché non c’è una vita interiore, personale, unica e irripetibile, una storia in cui inserirle. Gli individui non hanno storie, le storie le hanno i ragazzi quando sono figli, nipoti, alunni… La passione per questa serie da parte dei ragazzi la tradurrei così: «Insegnateci a voler bene davvero, ridateci relazioni significative e non consumistiche, trovate il tempo da impegnare per noi come la cosa più importante che vi è capitata nella vita, guardateci, andate oltre le apparenze, consegnatemi il testimone della vita perché io cominci la mia corsa e sappia perché sto correndo».
La ragazza che si suicida dopo aver parlato con lo psicologo si ferma fuori dalla porta a vetri di lui e rimane ferma sperando che lui la insegua, andando oltre lo stretto necessario della chiacchierata appena affrontata. Lei afferma nella sua registrazione che se lui fosse uscito non si sarebbe uccisa, ma lui risponde al cellulare che aveva squillato già più volte durante il colloquio, interrompendo l’attenzione totale dovuta ad una ragazza in crisi, e dimentica quello che lei gli ha appena confidato: la mia vita non vale niente. Sceglie ciò che sembra più urgente, invece di quello che è importante (quanto tempo rubato alle relazioni dalla nostra iper-connessione). Tredici sono le ragioni per cui una ragazza si toglie la vita: e sono persone, cioè relazioni. Una è la ragione che le unifica tutte: la mancanza d’amore. L’amore è dare valore alle persone, e il valore sì dà solo quando si dona il proprio tempo a curare la relazione con l’altro, costi quel che costi. Dare tempo quando si è in tempo, altrimenti come Ugolino vedremo sul volto dei ragazzi ciò che noi stessi, senza rendercene conto, abbiamo provocato. Ma sarà troppo tardi.”

Gemme n° 249

Le parole di Ogni adolescenza le sento molto vicine al periodo che sto vivendo, mi ci ritrovo, e sono cantate da un gruppo a cui sono affezionata. Sono andata ad un concerto dei Tre allegri ragazzi morti ad aprile e ci sono andata da sola. Me lo sono goduto e apprezzato nella sua integrità, senza riferimenti a qualcuno che sarebbe potuto essere con me; mi sono goduta anche il sound-check con loro che suonavano senza maschera ed è stato molto emozionante, mi sentivo un’infiltrata.”
Con queste parole A. (classe terza) ha presentato la sua gemma. Il ritornello della canzone dice: “Ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia falsa, che sia vera, ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia vinta, che sia persa”. E poi la seconda strofa: “E non ti vantare se la tua è stata mondiale, la mia sembra solo un fatto personale, e non ti vantare se c’hai perso un fratello, la guerra è guerra e succederà anche a me. E non ti vantare se la tua si chiama Vietnam, la mia è poco più di un argomento da giornale, e non ti vantare se c’hai perso un fratello, l’amico mio c’ha perso il cervello”. Ricordo ancora la rabbia che provavo quando, adolescente, cercavo di manifestare i miei pensieri, di sfogare le mie ribellioni, di esternare le mie sofferenze interiori e mi imbattevo in adulti che sminuivano quello che dicevo e soprattutto sentivo dentro. Ho fatto un tuffo all’indietro di 25 anni, ho indossato i vestiti di A. e mi ci sono ritrovato in pieno anche io in quelle parole dei Tre allegri ragazzi morti. Certo, non c’era solo quello, ma c’era anche quello e lo ricordo bene, benissimo; e alcune ferite di quella guerra sono state lunghe da guarire, lasciando anche delle cicatrici.

Gemme n° 234

Questa canzone l’ho sentita la prima volta effettuata dal coro di G., poi, per caso, l’ho ritrovata. Il testo esprime bene le insicurezze di noi adolescenti che spesso ci sentiamo sbagliati, fuori posto, imperfetti rispetto agli amici”. Questa la gemma di G. (classe quinta).
Mi sono venute alla mente le parole di una canzone di Ligabue che mette bene in evidenza questo sentirsi fuori luogo o fuori ritmo. Vien da chiedersi chi sia a fissare il luogo e il ritmo giusti o comunque accettati, chi a dettare le regole, chi a stabilire i principi. “E c’era tanta gente che sembrava lì solo per me, tutti ai blocchi di partenza lo start chi lo dà? E poi il cuore che bruciava e poi correvo come un matto, tutti gli altri eran davanti, cos’è che non va? Brutta storia dico corro corro e resto sempre in fondo sono fuori allenamento oppure è allenato il mondo? Certa gente riesce solo a dire “Sei fuoritempo. Sei fuoritempo, sei come un debito scaduto, sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei quello che ci chiede sempre aiuto”. Fu così che lasciai la gara e resto lì per andare con il passo mio. Stan fischiando, stan fischiando, va bene così. Per di qui per mesi e per chilometri finchè qualcuno dice: “Tu dov’è che stai andando, che siam tutti qui?”. “Io non vado da nessuna parte, io sto andando e basta”. Dicono che se mi beccano mi tagliano la cresta. Certa gente pensa solo a dire “Sei fuoritempo. Sei fuoritempo, arrivi e parti troppo presto, sei fuoritempo, sei fuoritempo”. Vogliamo i suonatori al loro posto, fatti per correre o per rallentare. C’è anche chi ha deciso di camminare al passo che gli pare. “Sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei come un debito scaduto. Sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei quello che ci chiede solo aiuto”.”

Gemme n° 136

noiHo portato un libro che mi è stato consigliato: «Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino». All’inizio non mi diceva nulla, poi mi sono ricreduta: è scritto in modo coinvolgente e ho apprezzato le dettagliate descrizioni dello stato d’animo della protagonista Christiane. E’ la storia vera di una vita disastrosa, una storia di droga, ambientata a Berlino. Viene descritto un mondo in cui si diventa adulti da piccoli (lei ha iniziato a drogarsi a 12 anni). Descrive anche la gioventù della Berlino anni ’70-’80: si cercava qualcosa che desse un segno alla vita. Mi hanno colpito queste parole: «Spesso riflettevo sul perché noi giovani eravamo così miseri. Non riuscivamo ad avere gioia di niente. Un motorino a 16 anni, una macchina a 18, questo era quasi ovvio. E se questo non c’era allora uno era un essere inferiore. Anche per me, nei miei sogni, era stato naturale pensare che un giorno avrei avuto un appartamento e una macchina. Ma ammazzarsi di lavoro per un appartamento, per un nuovo divano, come aveva fatto mia mamma, questo non esisteva. Questi erano stati gli ideali sorpassati dei nostri genitori: vivere per poter tirare su dei soldi. Per me, e credo anche per molti altri, quel paio di cose materiali erano il presupposto minimo per vivere. Poi doveva esserci qualche altra cosa. Esattamente quello che dà un significato alla vita. E questo non si vedeva. Un paio a scuola mia, tra cui mi ci mettevo anche io, erano ancora alla ricerca di quel qualcosa che dà significato alla vita». Ecco la gemma di J. (classe seconda).

Ho letto anche io il libro quando ero al liceo, ovviamente in un tempo più vicino agli eventi (inizio anni ’90), e mi ricordo il senso di angoscia nel leggere una realtà tanto distante dalla mia e soprattutto la percezione di mancanza di futuro di cui sono intrise quelle pagine. Il viaggio di Christiane è un percorso tra eroina e prostituzione, disperazione e delusioni affettive, dosi di droga e periodi di astinenza forzata per mancanza di soldi: per tornare alla citazione riportata sopra, i soldi che ai genitori erano serviti per il divano, a lei erano necessari per la dose. Difficile trovare in tutto questo qualcosa che dà significato alla vita.

Tra estetismo e violenza

violenzaConosco una persona che utilizza uno pseudonimo per la sua attività di blogger: ha un sito vivace in cui scrive senza mezzi termini quello che pensa. Spesso irrita e provoca, certo affascina. Pubblico alcune parti di un suo post di stamattina:

“ragazzine che si suicidano per essere messe alla gogna da coetanei o compagni di classe su internet: insulti al loro aspetto fisico, istigazioni a suicidarsi che ottengono il loro scopo; un sito, addirittura che è quasi specializzato in questo: Ask.fm.

suicidi annunciati, perseguiti con ostinazione anche se non con intenzione, che concludono mesi di caccia, di insulti, di vessazioni diventate intollerabili: cronache di suicidi annunciati, direbbe Marquez.

e sono i suicidi dei diversi e delle diverse: i diversi dal canone omicida del conformismo dominante.

l’ultima è una ragazzina di 14 anni di Venaria, gracile, mingherlina, che si getta dalla finestra della camera alle due di notte, dopo essersi vestita come per andare a scuola, e la trovano morta in cortile la mattina.

“Cesso, vatti a nascondere, dimostri dieci anni, sei la vergogna delle 2000″

e lei, che è malata di cuore dalla nascita, scrive tre messaggini alle sue amiche del cuore per dirgli “ti voglio bene” e poi decide di farla finita: tanto i segreti della vita li ha già scoperti tutti, pensa, e questa sofferenza è troppo grave per reggerla.

come se non ci fosse spazio al mondo anche per le donne esili; come se la fragilità in una donna non fosse desiderabile per uomini un poco insicuri (so di che cosa parlo).

quando sento qualche ragazza che si lamenta di non essere bella io vorrei dire loro quello che col tempo ho imparato anche riguardo al mio essere un uomo non bello: che una moderata bruttezza può essere un bene del cielo, perché ti protegge da relazioni false.

la bellezza può essere una maledizione e condannare a destino dell’usa e getta; tienti caro il non essere vistosa o vistoso: è una specie di marchio di qualità messo in anticipo sui tuoi contatti umani, che porterà a privilegiare nelle relazioni con te chi cerca qualcosa di più autentico.

[…]

il bullismo, la stupidità, la volgarità, la violenza gratuita contro i deboli non li ha inventati internet, ma ha dato loro una forza sconosciuta.

internet che nei nostri sogni doveva essere l’aggregatore delle intelligenze è invece lo strumento che permette di fare massa agli stupidi.

la stupidità è anche criminale, però, ma stupidamente, cioè senza neppure accorgersene.

ma ora io vorrei provare a mettermi nei panni di quei compagni di classe che hanno spinto la 14enne al suicidio.

che cosa può spingere un altro 14enne a insultare una ragazzina perché la ritiene brutta?

c’è una gratificazione in questo per lui, evidentemente: che tipo di gratificazione?

uomini che odiano le donne prima ancora di essere diventati uomini del tutto?

uomini pronti ad uccidere le donne, perché le considerano solamente un oggetto del loro piacere, e dunque una ragazza non attraente, cioè non scopabile, è una ragazza inutile?

[…]

se c’è un legame tra estetismo e violenza, per cui le civiltà che sviluppano maggiormente il senso del bello, come quella italiana, sono anche le civiltà del culto della violenza, questo legame diventa qualcosa di cupo, quando l’estetismo si trasferisce dall’arte alla fisiognomica e l’opera d’arte dominante diventa il corpo.

il tatuaggio è il manifesto di questo nuovo mondo dove i valori estetici vanno vissuti fisicamente e non esiste quasi altra forma d’arte possibile che quella dove il corpo riassume in se stesso tutti i canoni della bellezza e non ne ammette altri.

dove il cinema, che ha rubato alla danza e a teatro il segreto del corpo come linguaggio estetico e lo ha ingigantito sino a farne il suo nuovo vangelo, diventa pornografia.

è il mondo nel quale, come disse una volta appunto uno di questi giovani, “Oscar Wilde era un estetista”.

è il mondo dove – in nome di questo modo di concepire l’estetismo – si può anche uccidere chi non si adegua o non è in grado di adeguarsi: fosse una cosa consapevole, sarebbe nazismo.

ma non smette di essere nazismo perché è inconsapevole.”

Come?

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Vi segnalo l’ultimo post del prof. D’Avenia, di cui riporto questo estratto: “Come si fa, ragazzo, ragazza, a raggiungerti dove te ne stai rintanato? Come si fa a metterti sotto gli occhi quella bellezza unica e in costruzione che cerchi a tutti i costi di nascondere tanto fa male non esserle all’altezza? Come si fa a spiegarti che tra gli 80 miliardi di esseri umani che hanno calpestato il suolo non ce n’è uno o una come te? Come si fa a farti credere che sei la tua biografia, ma che sei sopratutto la tua autobiografia? Come posso io insegnante mostrarti sulla mappa geografica del desiderio che le terre di tua conquista sono ancora da scoprire? Come posso aiutarti a costruire il mezzo migliore per raggiungerle? Come faccio a sapere se sei fatto o fatta per una nave, per una bicicletta o per andare a piedi?”

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