Gemma n° 2243

“Oggi ho portato le mie prime scarpe da calcio come gemma. Le ho prese quando avevo 7 anni e, anche se non mi vanno più bene, le volevo tenere perché significano molto per me: rappresentano quella bambina di 7 anni che voleva a tutti i costi giocare a calcio, che aveva in testa solo quello sport. A volte, quando per esempio va male un allenamento, penso a quella bambina che non ha mai smesso di giocare e che non ha mollato; mi aiuta a riprovarci sempre ed a arrivare al successo. Da quando ho messo quelle scarpe ho iniziato a sognare la nazionale e la serie A, ci sto provando ancora oggi ad arrivare in alto ed essere una grande giocatrice” (E. classe prima).

Asticelle e punti

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Ma noi non chiediamo più nulla ai figli, neanche «come stai». Abbiamo paura di disturbare. Di interrompere il loro sonno chiamato giovinezza. Quando gli chiediamo di studiare, siamo patetici. Glielo chiediamo così, perché si fa, perché ci è rimasto dalla tradizione che un figlio deve studiare, ma non lo sappiamo più bene neanche noi perché; e loro lo sentono che glielo chiediamo senza uno scopo, sentono che dietro quella richiesta c’è il vuoto. Perché in fondo non c’è più niente che vogliamo da loro. I miei genitori invece lo sapevano bene, i miei volevano che io andassi avanti, che io li superassi. Continuare la loro corsa, ecco; loro si fermavano a un certo punto perché di più non potevano, e a me chiedevano di oltrepassare quel punto. Era molto chiaro. Ed era anche molto commovente. Si piangeva il giorno della laurea, ad esempio. Si piangeva di una commozione che aveva in sé tutto: mio padre piangeva perché per lui era un sogno che la figlia di un operaio si laureasse in Lettere e Filosofia; mia madre piangeva perché aveva passato la vita a badare a me, in casa tutto il giorno a fare, come si dice, la casalinga e a risparmiare persino sull’aria che si respirava; e io piangevo perché non lo so, mi sembrava di avere il mondo in mano e che sarei diventata non so cosa. C’era l’idea di un compimento, l’idea di un inizio, e anche l’idea di una morte, della loro e poi della mia morte. Insomma l’idea del tempo. Ma noi qui il tempo l’abbiamo abolito. Lo facciamo solo passare. E questo i figli lo sentono.” (Paola Mastrocola, Palline di pane, pp 145-146)

Ho letto due volte il passo perché sentivo che in me c’era qualcosa che suonava rotto… Mi sono immedesimato nell’unica delle due esperienze che fino ad ora ho vissuto sulla mia pelle: quella di figlio. E mi son detto: dipende da che genitori hai… Se tuo papà ha vinto il Nobel per la letteratura e tua mamma quello per la medicina, hai voglia a superarli… Fuor di facile banalizzazione: a che punto i genitori hanno collocato l’asticella del superamento? A che punto si sono fermati per fissare il sorpasso? E’ lì, immagino, che il genitore può dimostrare di essere veramente in gamba: spronarti, stimolarti, pungolarti ma desiderare per te, essenzialmente, il tuo essere felice, reale ed autentico, al di là dell’altezza dell’asticella e del punto di sorpasso. 

Il violinista mancato

vele.jpgUn suonatore di violino è l’ottavo antenato di Jovanotti. Sogna di diventare un virtuoso del suo strumento, ma incontra un amore malato per il quale rinuncia al suo sogno e si chiude in un mondo di gelosia e tristezza. Quando oramai la strada che porta al suo desiderio è preclusa (un sentiero non più calpestato si copre, negli anni, di rovi e cespugli) se ne va anche la donna da lui amata, e lo lascia proprio per un uomo che è diventato un violinista… Morale? “Mi insegnò che rinunciare all’ambizione è sbagliato, che poi la dea si vendica se c’hai rinunciato”. Come fare, allora, a non pensare a George Gray, uno dei morti di Spoon River, di cui Edgar Lee Masters “trascrive” gli epitaffi? Si parte da un’immagine: una barca ferma in un porto con le vele ammainate. Visto che a parlare è una persona che ha concluso la propria esistenza, viene da pensare che quella barca sia arrivata alla fine del suo viaggio. Invece no: “In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita”. E lo spazio del rimpianto si fa largo: “Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.” Penso che a volte si confonda l’ambizione con l’arrivismo, la sana coltivazione di un desiderio con la voglia di avere ed essere sempre e comunque più di quel che si ha e si è. Vedo qui l’ambizione come un modo di vivere appieno la possibilità che viene data all’uomo con la vita; l’epitaffio si conclude così: “Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio – è una barca che anela al mare eppure lo teme.”

Lo zio di un mio trisnonno suonava il violino,

il suo sogno era di essere un grande virtuoso.

Poi si innamorò di una che gli cambiò il destino,

lasciò perdere il violino divenne triste e geloso.

Dopo un sacco di anni che stavano insieme,

quando aveva rinunciato al suo sogno di artista,

lei se ne andò via con i profumi e le creme

e si mise con uno che faceva il violinista.

Mi insegnò che rinunciare all’ambizione è sbagliato,

che poi la dea si vendica se c’hai rinunciato.