Fuori dal Pakistan!

Questa mattina, andando al lavoro ho ascoltato la puntata di Stories di Cecilia Sala del 2 novembre.

Ecco la presentazione della puntata: “Il primo novembre le unità di poliziotti pachistani sono andate casa per casa nelle città a caccia di afghani senza documenti. Per radunarli, arrestarli temporaneamente e caricarli sui camion con destinazione Afghanistan. È la conseguenza della decisione del governo del Pakistan di deportare con la forza tutti gli afghani che vivono nel paese senza documenti: sono almeno un milione e settecentomila persone. E l’ingresso improvviso di quasi due milioni di persone in un paese insicuro come l’Afghanistan è la premessa per una catastrofe umanitaria che non abbiamo mai visto negli ultimi 80 anni.”
Ho voluto approfondire ulteriormente le cose.
Prima di tutto, per rendersi conto dell’andamento, un semplice grafico dell’Ispi  (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale):

Poi propongo un articolo del 2 novembre di Vatican News, a cura di Leone Spallino e Luana Foti, con un’intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia:
“Il Pakistan non è più un luogo sicuro per i profughi provenienti dall’Afghanistan senza i permessi necessari: si tratta di 1.7 milioni di persone che sono ora passibili di arresto e deportazione forzata. Il 3 ottobre, il ministro dell’Interno pakistano Sarfraz Bugti, aveva lanciato un ultimatum, scaduto ieri 1 novembre, in cui dava un mese di tempo per lasciare volontariamente il Paese a una parte della cospicua comunità afghana rifugiatasi nel vicino Pakistan. “Se a questo ultimatum scaduto seguiranno espulsioni di massa in un Paese tra l’altro impoverito e devastato da recenti terremoti, per queste persone la vita sarà veramente a rischio”, afferma a Vatican News- Radio Vaticana il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury.

Secondo i dati ufficiali del Ministero degli Interni, infatti, in Pakistan sono registrati come richiedenti asilo 1.3 milioni di afghani mentre a 800mila è stato riconosciuto lo status di rifugiati. Oltre a loro, ci sono 1.7 milioni di persone che vivono nel Paese illegalmente, perché senza documenti regolari e non riconosciuti né come richiedenti asilo né come rifugiati. “Il fatto che siano sprovvisti della documentazione adeguata non è colpa loro”, spiega Noury. Lo status di rifugiato infatti viene attestato da un documento rilasciato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ma queste procedure sono lentissime, spiega. “Sappiamo di minacce, intimidazioni e tentativi di estorsione da parte di funzionari pakistani nei confronti di queste persone. Quindi, in sintesi, che paghino loro per inefficienza e ritardi di altri è irresponsabile”, dichiara il portavoce di Amnesty Italia.
L’esodo afghano verso il Pakistan dura da decenni. I primi flussi risalgono agli anni Settanta, motivati dalla ricerca di opportunità economiche migliori, poi la fuga dall’occupazione sovietica negli anni ottanta e dal primo regime talebano negli anni novanta. Dal ritorno dei talebani al potere nell’agosto del 2021 invece si stima che siano arrivati oltre 600mila afghani. Ma molti di loro sono finiti in campi di accoglienza in cui erano sottoposti a condizioni di vita dure segnate da un accesso limitato all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro.
La decisione adottata dal governo pakistano di espellere i rifugiati privi di documenti è stata motivata da questioni definite “di sicurezza nazionale”. Nei primi nove mesi del 2023 infatti in Pakistan si sono verificati numerosi attacchi suicidi che hanno provocato la morte di oltre 1.000 persone, tendenza che dura nel Paese da ormai due anni. Secondo il Centro di ricerche e studi per la sicurezza CRSS, gli episodi violenti in Pakistan sono aumentati del 57% negli ultimi mesi. Gli attacchi sono in parte condotti dai talebani pakistani del gruppo terroristico più grande del Paese, il Tehrik-i-Taliban Pakistan. E le autorità di Islamabad hanno accusato il regime talebano afghano di finanziare questi attacchi terroristici. Accusa che quest’ultimo rigetta.
Alcune organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani sono preoccupate per le potenziali ritorsioni sulla vita degli afghani costretti a ritornare nel Paese dal quale erano fuggiti. “Il rischio è che riprenda la caccia alla persona. Per le autorità afghane, avere a casa uomini e donne, attivisti, giornalisti, insegnanti, persone a cui davano la caccia, potrebbe portare a un esito tragico come la loro eliminazione fisica perché percepite come nemici” dice ancora Noury. Inoltre, aggiunge, molti di loro non avrebbero un luogo dove andare e senza una casa non avrebbero accesso a servizi fondamentali e  a mezzi di sostentamento, senza contare l’arrivo della stagione fredda. “Sarebbe veramente un gesto irresponsabile rimandare queste persone in Afghanistan. Si tratterebbe peraltro di una grave infrazione del diritto dei rifugiati che prevede il divieto assoluto di respingimento in luoghi in cui le persone respinte potrebbero essere a rischio di subire violazioni dei diritti umani”, spiega Riccardo Noury.
L’occidente, in questo, sottolinea ancora il portavoce di Amnesty Italia, non ha aiutato il Pakistan. “Dopo l’evacuazione dell’agosto del 2021 gli stati occidentali hanno voltato le spalle all’Afghanistan. Il governo tedesco aveva promesso mille reinserimenti al mese, eppure in Germania non è arrivato neanche un afgano”. Quello che Amnesty auspica è un cambio di rotta soprattutto attraverso finanziamenti al Pakistan nella gestione dell’enorme flusso di rifugiati. “Se lo farà, e verranno accelerate le procedure di riconoscimento tutto finirà bene. Perché alla fine, se queste persone che non sono in regola lo fossero, lo stesso Pakistan non avrebbe dato questo ultimatum”.
Infine propongo un approfondimento, sempre del 2 novembre, di AsiaNews su una questione più specifica, quella degli afghani che avevano collaborato con le forze Usa:
“Tra gli afghani espulsi in questi giorni dal Pakistan ci sono anche migliaia di richiedenti asilo e personale che aveva collaborato con le forze americane e alleate in vent’anni di guerra in Afghanistan, individui ai quali era stato promesso un visto per gli Stati Uniti.
L’espulsione di tutti i migranti presenti nel Paese illegalmente era stata annunciata circa un mese fa dal governo di Islamabad, che aveva dato la possibilità di uscire dal Paese in maniera volontaria entro il primo novembre. Le autorità locali hanno comunicato che almeno 200mila persone sono tornate spontaneamente, evitando così l’arresto da parte delle forze di sicurezza pakistane. Sui social sono stati anche circolati video di bambini afghani che salutano i compagni di classe prima di partire. Nonostante le critiche delle Nazioni unite e di diversi gruppi umanitari, in alcune città si sono verificati veri e propri rastrellamenti (anche di rifugiati con i documenti in regola), in seguito ai quali decine di afghani sono stati stipati su camion e autobus per essere trasportati ai valichi di frontiera.
Secondo Sarfaraz Bugti, ministro dell’Interno del governo provvisorio del Pakistan (che resterà in carica fino alle prossime elezioni, previste a gennaio 2024) 1,7 milioni di afghani “non sono registrati” e vivono nel Paese “illegalmente”. Le Nazioni unite sostengono che oltre a 2 milioni di afghani senza documenti, nel Paese risiedano anche quasi 1,3 milioni di rifugiati con un permesso di soggiorno, chiamato “prova di registrazione” (Proof of registration, PoR) e altri 880mila che hanno il diritto legale di rimanere nel Paese, mentre gli scappati dopo la riconquista di Kabul da parte dei talebani ad agosto 2021 sono tra i 600 e i 700mila. Tra i migranti che il governo pakistano vorrebbe rimpatriare in Afghanistan sono comprese anche famiglie che hanno fatto domanda d’asilo dopo il ritiro delle truppe statunitensi (circa 60mila individui), persone con permessi scaduti e che non hanno possibilità di rinnovarli, e pure afghani in attesa di ottenere il visto da altri Paesi terzi.
Alcuni funzionari statunitensi hanno affermato di aver inviato alle autorità pakistane una lista di circa 25mila persone che avevano collaborato con il governo americano, per cui avrebbero il diritto di essere trasferite negli Stati Uniti attraverso un programma speciale (che ha subito enormi rallentamenti). Ieri, però, un funzionario pakistano ha detto a Voice of America di aver rifiutato la lista presentata dagli americani a causa di discrepanze significative: l’elenco è stato esaminato “ma l’abbiamo trovato imperfetto e incompleto”, ha detto l’incaricato in forma anonima. Washington nei prossimi giorni dovrebbe rivedere la lista e inviare agli afgani dei documenti da condividere con le autorità locali per impedire (o almeno ritardare) il rimpatrio, ma persino alcuni cittadini che erano stati incarcerati per “crimini minori” sono stati rilasciati per essere rispediti in Afghanistan: “Questa azione è una testimonianza della determinazione del Pakistan a rimpatriare chiunque risieda nel Paese senza un’adeguata documentazione”, ha scritto sui social il ministro Bugti.
Secondo diversi esperti, anche se i talebani hanno allestito campi profughi temporanei al di là del confine, il Paese non è pronto ad accogliere il ritorno di migliaia di cittadini. L’Afghanistan da due anni sta cercando di far fronte a una pesante crisi umanitaria: almeno 15 milioni di persone soffrono di grave insicurezza alimentare, che è stata aggravata da disastri naturali come inondazioni e terremoti e una sempre più frequente siccità.
Da decenni il Pakistan accoglie i rifugiati afghani e già in passato si erano verificati rimpatri forzati (ragione per cui in anni recenti gli afghani hanno sempre più frequentemente preferito affrontare il viaggio per arrivare in Europa anziché fermarsi nella regione), ma mai su questa scala, hanno commentato gli esperti, secondo i quali, a determinare le espulsioni sono questioni di politica interna e il deterioramento dei rapporti tra i due Paesi dell’Asia meridionale. I migranti afghani sono trattati da tempo come capro espiatorio, accusati dal governo di Islamabad di favorire il terrorismo e, indirettamente, di ostacolare la ripresa economica del Paese, “rubando il lavoro” ai pakistani.
In realtà negli ultimi due anni il Pakistan, dopo aver a lungo sostenuto i talebani, ha visto la propria politica ritorcersi contro, subendo un aumento di attentati da parte dei Tehrik-e-Taliban Pakistan o TTP, i talebani pakistani, che, galvanizzati dalla vittoria dei “cugini” afghani, mirano a creare un Emirato islamico anche in Pakistan, prendendo come obiettivi le sedi e le istituzioni governative.
Non è un caso, infatti, che nelle scorse settimane le autorità talebane abbiano emesso una fatwa che vieta ai propri miliziani di condurre attacchi in Pakistan, dove la violenza non è considerata parte del jihad. Con questo termine gli “studenti coranici” si sono sempre riferiti alla guerra portata avanti per vent’anni contro gli Stati Uniti.
A giugno diversi combattenti dei TTP erano stati trasferiti verso le aree centrali dell’Afghanistan lontano dal confine, ma non pare sia servito a placare le tensioni con Islamabad, dove a guidare la politica è l’esercito, mentre il governo ad interim, che verrà sostituito nei prossimi mesi, si sta facendo carico delle critiche pubbliche senza andare incontro a particolari conseguenze. Rispondendo alle critiche da parte occidentale, infatti, il ministro Bugti ha sostenuto che le pratiche di espulsione siano del tutto legittime in quanto oggigiorno sono messe in atto da diverse nazioni, anche in Occidente.”

Pena di morte in calo

Riprendo la notizia con cui Amnesty presenta il rapporto sulla pena di morte nel mondo per il 2018.

“Nel nostro rapporto globale sulla pena di morte registriamo, per il 2018, un dato positivo: l’anno appena passato è stato quello con il più basso numero di esecuzioni in almeno un decennio, con una diminuzione globale di quasi un terzo rispetto all’anno precedente.
Il rapporto prende in esame le esecuzioni in tutto il mondo con l’eccezione della Cina, dove si ritiene siano state migliaia ma il dato rimane un segreto di stato.
“La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta”, ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International.

PENA DI MORTE 2018: UNA BUONA NOTIZIA
Complessivamente i dati del 2018 mostrano che la pena di morte è stabilmente in declino e che in varie parti del mondo vengono prese iniziative per porre fine a questa punizione crudele e inumana.
Ad esempio, a giugno il Burkina Faso ha adottato un nuovo codice penale abolizionista. Rispettivamente a febbraio e a luglio, Gambia e Malaysia hanno annunciato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. Negli Usa, a ottobre, la legge sulla pena di morte dello stato di Washington è stata dichiarata incostituzionale.
A dicembre, nel corso dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 121 stati (un numero senza precedenti) hanno votato a favore di una moratoria globale sulla pena di morte, cui si sono opposti solo 35 stati.
“Lentamente ma stabilmente, assistiamo alla crescita di un consenso globale verso la fine dell’uso della pena di morte. La campagna mondiale di Amnesty International per fermare le esecuzioni va avanti da oltre 40 anni, ma con più di 19.000 detenuti nei bracci della morte la battaglia è lungi dall’essere finita”, ha sottolineato Naidoo
“Nonostante passi indietro da parte di alcuni stati, il numero delle esecuzioni portate a termine da parecchi dei più accaniti utilizzatori della pena di morte è significativamente diminuito. Si tratta di un’auspicabile indizio che sarà solo questione di tempo e poi questa crudele punizione sarà consegnata alla storia, dove deve appartenere”, ha commentato Naidoo.

PENA DI MORTE 2018: GLI STATI DOVE SONO AUMENTATE LE ESECUZIONI
Nel nostro rapporto, però, non vi sono solo buone notizie.
Le esecuzioni sono aumentate in Bielorussia, Giappone, Singapore, Sud Sudan e Usa. La Thailandia ha eseguito la prima condanna a morte dal 2009 mentre il presidente dello Sri Lanka ha annunciato la ripresa delle esecuzioni dopo oltre 40 anni, pubblicando un bando per l’assunzione dei boia.
“Le notizie positive del 2018 sono state rovinate da un piccolo numero di stati che è vergognosamente determinato ad andare controcorrente”, ha sottolineato Naidoo.
“Giappone, Singapore e Sud Sudan hanno fatto registrare un livello di esecuzioni che non si vedeva da anni e la Thailandia ha ripreso a eseguire condanne a morte dopo quasi un decennio. Ma questi stati ora costituiscono una minoranza in calo. A tutti gli stati che ancora ricorrono alla pena di morte, lancio la sfida: siate coraggiosi e poniate fine a questa abominevole sanzione”, ha proseguito Naidoo.

PENA DI MORTE 2018: IL CASO NOURA HUSSEIN
Noura Hussein è una giovane sudanese condannata a morte nel maggio 2018 per aver ucciso l’uomo che era stata costretta a sposare mentre cercava di stuprarla. Dopo uno scandalo mondiale, grazie anche a una nostra campagna, la condanna è stata commutata in cinque anni di carcere.
“Fu uno shock assoluto quando il giudice mi disse che ero stata condannata a morte. Non avevo fatto nulla per meritare di morire. Non potevo credere a che livello d’ingiustizia fossimo arrivati, soprattutto contro le donne. Non avevo mai pensato di poter essere messa a morte fino a quel momento. La prima cosa cui pensai fu ‘Cosa provano le persone quando vengono messe a morte? Cosa fanno?’. La mia vicenda era decisamente drammatica in quel momento, la mia famiglia mi aveva ripudiato. Affrontavo quello shock completamente da sola”, ha raccontato Noura Hussein ad Amnesty International.

PENA DI MORTE 2018: LA VERGOGNA DI IRAQ ED EGITTO
Siamo preoccupati per il notevole aumento delle condanne a morte emesse in alcuni stati nel corso del 2018.
In Iraq il numero è quadruplicato da almeno 65 nel 2017 ad almeno 271 nel 2018. In Egitto il totale è cresciuto di oltre il 75 per cento, da almeno 402 nel 2017 ad almeno 717 nel 2018, a causa dell’attitudine delle autorità egiziane di emettere condanne a morte in massa al termine di processi gravemente iniqui, basati su “confessioni” estorte con la tortura e nel corso di interrogatori di polizia irregolari.

Cliccare qui per scaricare il rapporto.

Pena di morte: buone notizie

E’ stato pubblicato da Amnesty International il nuovo rapporto sullo stato della pena di morte nel mondo. E’ in netto calo il numero delle esecuzioni (1032, erano oltre 5000 dieci anni fa), che si concentrano soprattutto in 5 stati: Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan.

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Fonte Amnesty 

Negli Stati Uniti si è registrato il numero più basso di esecuzioni dal 1991: 20 in tutto. Si sono concentrate in Alabama (2), Florida (1), Georgia (9), Missouri (1) e Texas (7). L’attenzione si sta focalizzando ora sull’Arkansas, stato che da più di 10 anni non effettua esecuzioni, ma nel quale sono previste in aprile 7 esecuzioni in 10 giorni.

Va però detto che pochi sono i dati sulla Cina, nella quale l’argomento resta coperto dal segreto di stato.

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Fonte Amnesty

Afferma Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International nel comunicato ufficiale che commenta i numeri del rapporto. “La Cina è una completa anomalia nel panorama mondiale della pena di morte, non in linea con gli standard internazionali e in contrasto con le ripetute richieste delle Nazioni Unite di conoscere il numero delle persone messe a morte”.

La pena di morte nel 2013

E’ uscito oggi il rapporto sullo stato della pena di morte nel mondo nel 2013. Questo è il link al sito di Amnesty che così scrive:
Secondo il rapporto annuale di Amnesty International sulla pena di morte, Iran e Iraq hanno determinato un profondo aumento delle condanne a morte eseguite nel 2013, andando in direzione opposta alla tendenza mondiale verso l’abolizione della pena di morte. Allarmanti livelli di esecuzioni in un gruppo isolato di paesi – soprattutto i due mediorientali – hanno determinato un aumento di quasi 100 esecuzioni rispetto al 2012, corrispondente al 15 per cento. Il numero delle esecuzioni in Iran (almeno 369) e Iraq (169) pone questi due paesi al secondo e al terzo posto della classifica, dominata dalla Cina dove – sebbene le autorità mantengano il segreto sui dati – Amnesty International ritiene che ogni anno siano messe a morte migliaia di persone. L’Arabia Saudita è al quarto posto con almeno 79 esecuzioni, gli Stati Uniti d’America al quinto con 39 esecuzioni e la Somalia al sesto con almeno 34 esecuzioni.
Escludendo la Cina, nel 2013 Amnesty International ha registrato almeno 778 esecuzioni rispetto alle 682 del 2012. Nel 2013 le esecuzioni hanno avuto luogo in 22 paesi, uno in più rispetto al 2012. Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam hanno ripristinato l’uso della pena di morte. Nonostante i passi indietro del 2013, negli ultimi 20 anni vi è stata una decisa diminuzione del numero dei paesi che hanno usato la pena di morte e miglioramenti a livello regionale vi sono stati anche l’anno scorso.
Molti paesi che avevano eseguito condanne a morte nel 2012 non hanno continuato nel 2013, come nel caso di Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Gambia e Pakistan. Per la prima volta dal 2009, la regione Europa – Asia centrale non ha fatto registrare esecuzioni.
Segnalo anche questa infografica.
Questo è infine il rapporto nella sua interezza: Rapporto_pena_di_morte_2014

Una al mese

Quest’anno il sabato è il mio giorno libero, quindi da oggi sono a casa. Ma essendo rientrato con una forte arrabbiatura, non sono assolutamente in clima natalizio. Cerco di rifarmi con un po’ di buone notizie prese dalla parte di sito del Corriere gestita insieme ad Amnesty.

MP900431844.jpg“Buone leggi, importanti sentenze giudiziarie, prigionieri di coscienza scarcerati, condanne a morte commutate. Nonostante tutto, anche il 2012 ha riservato tante buone notizie sul fronte dei diritti umani. Ho cercato, su un totale di 124 registrate da Amnesty International (qui ne trovate molte altre), di selezionare le migliori 12, una per mese. Prima di elencarle, vorrei ricordare che niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza l’impegno di giornalisti, giudici, avvocati, organismi della società civile e soprattutto di tante attiviste e di tanti attivisti per i diritti umani. Eccole, allora, queste buone notizie!

Ecuador – Il 4 gennaio 2012 la corte d’appello della città di Lago Agrio, nella provincia di Sucumbios, ha confermato la condanna della Chevron per disastro ecologico e danni alla salute delle parti lese. Nel febbraio 2011 il tribunale aveva ordinato alla Chevron di pagare 8 miliardi e mezzo, ma nella sentenza d’appello l’importo è raddoppiato anche perché la Chevron si è sempre rifiutata di scusarsi pubblicamente, come richiesto dalla sentenza.

Italia – Il 23 febbraio 2012 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia nel caso Hirsi Jamaa e altri contro l’Italia. Il caso riguarda 11 cittadini somali e 13 cittadini eritrei che facevano parte di un gruppo di circa 200 persone intercettate in mare dalle autorità italiane e respinti direttamente in Libia, senza che fosse stata valutata la loro necessità di protezione internazionale: una delle operazioni di intercettamento e rinvio in Libia eseguite dalle autorità italiane nel 2009, a seguito dell’accordo bilaterale tra Italia e Libia allora in vigore.

Guatemala – Il 14 marzo 2012 Pedro Pimentel Rios, estradato dagli Usa nel luglio 2011, è stato condannato a 6060 anni di carcere per aver preso parte al massacro di Dor Erres nel 1982, che provocò la morte di oltre 250 civili. Si tratta del quinto ex militare condannato dalla giustizia guatemalteca per i fatti di Dos Erres: anche gli altri quattro hanno ricevuto una condanna a 6060 anni, equivalente a 25 anni per ogni omicidio.

Stati Uniti d’America – Il 25 aprile 2012 il governatore del Connecticut ha firmato la legge che abolisce la pena di morte. Il Connecticut è diventato il 17° stato abolizionista degli Usa.

Siria – Yaacoub Shamoun, un cittadino libanese scomparso dopo essere stato catturato dalle forze siriane in Libano nel luglio 1985, è stato rilasciato nel maggio 2012 da un carcere della regione orientale di Hasaka. Dopo il suo rapimento in Libano, Shamoun era stato portato in Siria e, per l’ultima volta, era stato visto 27 anni fa nella prigione di Saydneya, a nord di Damasco.

Egitto – Il 2 giugno 2012 un tribunale del Cairo ha condannato all’ergastolo l’ex presidente Hosni Mubarak e l’ex ministro dell’Interno Habib Al Adly per non aver prevenuto l’uccisione di oltre 840 manifestanti durante le proteste che si svolsero dal 25 gennaio all’11 febbraio 2011.

Repubblica Democratica del Congo – Il 10 luglio 2012 la Corte penale internazionale ha emesso la sua prima condanna, infliggendo 14 anni di carcere a Thomas Lubanga Dyilo, capo di un gruppo armato congolese, per aver reclutato e impiegato bambine e bambini soldato in un conflitto armato.

Messico – Il 21 agosto 2012 la Corte suprema ha giudicato incostituzionale l’articolo 57 II (a) del codice penale militare, sulla base del quale le denunce di violazioni dei diritti umani commesse da membri delle forze armate venivano indagate dalla giustizia militare.

Iran – L’8 settembre 2012 Yousef Naderkhani, un pastore protestante condannato a morte nel 2010 per apostasia, è stato assolto e, avendo terminato di scontare una precedente sentenza di tre anni per un reato d’opinione, è stato rimesso in libertà.

Slovacchia – Il 30 ottobre 2012 il tribunale regionale di Presov ha definitivamente stabilito che la scuola elementare di Sarisské Michal’any ha violato la legge istituendo classi separate per i bambini e le bambine rom.

Myanmar – Il 19 novembre 2012 sono stati rilasciati oltre 50 prigionieri politici e prigionieri di coscienza. Tra questi ultimi, U Myint Aye, cofondatore della Rete dei difensori e promotori dei diritti umani condannato nel 2008 all’ergastolo, e Saw Kyaw Kyaw Min, difensore dei diritti umani e avvocato, condannato a sei mesi nell’agosto 2012.

Nigeria – Il 15 dicembre 2012 la Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale ha giudicato la Nigeria responsabile della violazione della Carta africana dei diritti umani e dei popoli riguardo alle condizioni di vita della popolazione del delta del fiume Niger. La Corte ha stabilito che il governo nigeriano è responsabile del comportamento delle compagnie petrolifere e che a esso spetta chiamarle a rispondere dell’impatto ambientale del loro operato.”