Gemma n° 2135

“Questo che vedete è un piccolo scatto rubato, una foto del 10 settembre che ho scattato durante il primo ballo di quei due ragazzi innamorati, e che sono anche i miei zii. Li chiamo ragazzi perché l’amore di cui si inondano l’un l’altro ho avuto solo la possibilità di immaginarlo, un po’ come nelle commedie romantiche che danno quasi la nausea o in quelle lettere dei vostri bisnonni alle loro mogli cariche di speranza e amore. Dovete sapere che mio zio detesta ballare, si definisce “un tronco d’albero rinsecchito” e sbuffa ogni volta che qualcuno prova anche solo a porgli la domanda “ti va di ballare?”. Ma quella sera non ha smesso di muoversi un secondo e dal suo sorriso deduco si stesse anche divertendo abbastanza. Tutto merito della donna che ha a fianco, anzi direi dell’amore perché si sa, quando si è davvero innamorati si fanno cose che non ci aspetteremmo pur di rendere la nostra persona contenta, anche solo per un minuto.
Effettivamente chi mi conosce sa che non sono una persona su cui la parola “amore” sta proprio bene addosso: non sono particolarmente empatica, non dimostro affetto facilmente, probabilmente quasi mai, e non credo nemmeno nell’atto del matrimonio.
Forse perché fin da bambina ho visto amori tramontare e innamorati diventare sconosciuti, o forse perché l’idea di rendermi vulnerabile a qualcuno mi terrorizza.
E allora perché questa foto?
Quella sera è scattato qualcosa in me, ho sentito un’impercettibile scossa travolgermi da un lembo all’altro del mio corpo e che mi ha portato a riflettere e rivedere degli aspetti che regolano i meccanismi della mie mente e conseguenti riflessioni.
Sono sempre stata convinta che questa generazione non è mai stata in grado di riconoscere il vero significato dell’amore e per questo ha dato vita ad un’altra versione di questo per tentare di colmare l’inevitabile vuoto creatosi, anche se non ne ha nulla a che vedere. I ragazzi si circondano di relazioni false, di breve durata, ingannevoli, dolorose e immature. È un ciclo tossico che non ha fine.
Eppure quella sera il mio occhio ha captato qualcosa di diverso, qualcosa di finalmente autentico. Ho visto una luce nei loro occhi che non avevo mai visto prima, un senso di rispetto, di sostegno, un legame profondo che mi ha colpito immensamente.
Nonostante i miei protagonisti non appartengano ovviamente alla mia generazione, mi hanno comunque fatta riflettere molto sulle mie idee poiché queste partivano sempre da una concezione relativamente pessimista delle relazioni sentimentali. Non che non ne abbia mai viste di vere prima d’ora, eppure vedendoli così innamorati e insieme proprio davanti ai miei occhi mi ha fatto nascere in me l’idea per la prima volta che forse, in fondo, è ancora possibile tutto ciò e non è solo una stupida fantasia nell’anticamera del mio cervello.
Tutto questo per invitare gli altri, ma soprattutto me stessa, a buttarci un po’ di più nelle situazioni che ci mettono potenzialmente paura o in quei legami o conoscenze che ci sembrano voler solo fare del male. Magari si scopre qualcosa di bello, qualcosa di inaspettato, qualcosa di autentico” (V. classe quinta).

Gemma n° 1824

E’ una gemma senza testo quella di G. (classe seconda), o meglio, il testo è “solo” quello della canzone Solamente unico che ha voluto proporre in classe come gemma, non ha voluto né commentarlo né dire il motivo della scelta. Ho messo le virgolette a “solo” perché basta ascoltare il pezzo per capire quanto racconti. Però mi voglio attenere al dato di fatto, non voglio immaginare o ipotizzare cosa ci sia dietro alla scelta di G. E per farlo cambio destinatario: il mio commento alle gemme è praticamente fatto tenendo in mente ragazze e ragazzi che incontro ogni giorno. Ora invece penso al mondo degli adulti e il perché è presto detto. Prima di entrare nella classe di G. stavo leggendo delle pagine del libro L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti di Matteo Lancini (2021, Raffaello Cortina Editore).

In famiglia è necessaria “una nuova propensione affettiva e relazionale, che consenta sin da bambini di esprimere fatiche e sofferenze, non chiedendo loro di farsi carico di sguardi troppo angoscianti provenienti da mamma e papà. L’inciampo e il fallimento sono parte costituente della vita, della crescita, dello sviluppo in direzione della costruzione del vero sé e di una propria identità autentica. Non si tratta certo di ricercare dolori e sofferenze nella vita, ma di evitare grandiosità e decessi che illudono sulla possibilità di essere felici senza accettazione ed elaborazione dei fallimenti e della morte come elementi fondanti della nostra esistenza”.
In adolescenza “la qualità di un ascolto identificato e la capacità di interessarsi al figlio reale, ormai divenuto altro da sé e delle proprie aspettative, rappresentano l’unica via d’accesso per lo svolgimento di un ruolo materno e di un ruolo paterno davvero autorevoli e di sostegno alla crescita. Laddove prevalgano discorsi infantilizzanti, alimentati dal rimpianto per la straordinarietà dei tratti affettivi e relazionali dell’ex bambino, e contenuti ciclici standardizzati sulla necessità di un maggiore impegno scolastico, comportamentale, etico, sacrificale, non solo il ruolo affettivo adulto non riesce a incidere, ma rischia di innalzare il livello del conflitto in atto, se non di accrescere i sentimenti di tristezza e di vergogna, già sperimentati dal figlio o dalla figlia, negli stati depressivi legati al fallimento narcisistico.
Gli adolescenti odierni hanno sensibilità non comuni, sviluppate proprio grazie alla mamma e al papà e alla trama affettiva che ha dominato la loro crescita. Solo se percepiscono una capacità di ascolto e rispecchiamento realmente identificata con le loro esigenze e difficoltà evolutive possono rivolgersi al proprio adulto di riferimento, condividere i propri stati affettivi, chiedere aiuto e conforto. Oggi i ragazzi e le ragazze non parlano con i propri genitori perché hanno paura di deluderli o di incontrare reazioni emotive materne e paterne spropositate. E i genitori temono a loro volta le paure e le sofferenze dei figli, cosa che gli adolescenti avvertono sin da quando sono nati. Madri e padri di ragazzi tristi, mutacici non dovrebbero mai temere di introdurre il tema della morte volontaria a tavola, la sera o in qualunque altra occasione di incontro possibile. Chiedere se ci si pensa e se ci si è mai pensato, nominare il suicidio senza alcun timore. Un altro luogo comune da sfatare è quello che sostiene che parlare di suicidio possa istigare, promuovere l’idea del nostro giovane interlocutore di mettere in atto il gesto insensato. E’ vero esattamente l’opposto. Parlarne consente di abbassare il rischio, di dare senso al pensiero sviluppato sulla morte volontaria, di rendere meno attrattiva l’eventuale ipotesi e intenzione suicidaria. Ovviamente, ciò che vale per l’espressione più terribile del disagio di un figlio, vale per tutti i sentimenti, le sofferenze e i dolori sperimentati. Conviene sforzarsi in questa direzione, allenarsi per essere in grado di percepire, ascoltare e sostenere l’elaborazione delle emozioni negative. Continuare ad allontanarle e rimuoverle è oggi davvero molto pericoloso”.
(estratti dalle pagg. 147-150).

Questo leggevo ieri in aula insegnanti, mi sono alzato, ho messo via il libro, ho salito le scale, sono entrato in aula e la prima cosa successa è stata ascoltare la canzone proposta da G. Di quali ulteriori segni avrei bisogno per non toccare questi temi? Cosa mi serve ancora per far sì che emergano quelle prove “del sole intorno a te”, per far sperimentare che “la luce non muore”?