La stazione di Zima

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LA STAZIONE DI ZIMA (Roberto Vecchioni, El bandolero stanco)
C’è un solo vaso di gerani dove si ferma il treno,
e un unico lampione che si spegne se lo guardi,
e il più delle volte non c’è ad aspettarti nessuno,
perché è sempre troppo presto o troppo tardi.
– Non scendere – mi dici – continua con me questo viaggio –
e così sono lieto di apprendere che hai fatto il cielo
e milioni di stelle inutili come un messaggio,
per dimostrami che esisti, che ci sei davvero:
ma vedi, il problema non è che tu ci sia o non ci sia
il problema è la mia vita quando non sarà più la mia,
confuso in un abbraccio senza fine,
perso nella luce tua, sublime,
per ringraziarti non so di cosa e perché;
lasciami questo sogno disperato di esser uomo,
lasciami questo orgoglio smisurato di esser solo un uomo;
perdonami, Signore, ma io scendo qua, alla stazione di Zima.
Alla stazione di Zima qualche volta c’è il sole
e allora usciamo tutti a guardarlo e a tutti viene in mente
che cantiamo la stessa canzone con altre parole,
e che ci facciamo male perché non ci capiamo niente.
E il tempo non s’innamora due volte di uno stesso uomo
abbiamo la consistenza lieve delle foglie
ma ci teniamo la notte, per mano, stretti fino all’abbandono
per non morire da soli quando il vento ci coglie.
Perché vedi l’importante non è che tu ci sia o non ci sia,
l’importante è la mia vita finché sarà la mia
con te, Signore, è tutto così grande,
così spaventosamente grande che non è mio, non fa per me
Guardami io so amare soltanto come un uomo,
guardami a mala pena ti sento e tu sai dove sono
ti aspetto qui, Signore, quando ti va, alla stazione di Zima.
Quando tornavo da Trieste in treno, diretto a Palmanova, capitava sempre di fare una breve sosta alla stazione di Strassoldo, quella vicina al nuovo scalo ferroviario, praticamente dentro al nuovo scalo. E mi chiedevo sempre il senso visto che nessuno scendeva e nessuno saliva. Bene, ora posso ringraziare quella breve pausa per avere anche io, nei miei ricordi, un luogo simile alla stazione di Zima. Vecchioni descrive una stazione solitaria e piuttosto desolata e immagina di scendere dal treno che fin lì lo ha portato, un treno che non è mai puntuale, capace perfino di arrivare in anticipo, o magari in ritardo, in ogni caso mai secondo l’orario previsto, mai secondo quanto previsto dai programmi ufficiali. Una voce nel silenzio blocca il viaggiatore arrivato a destinazione: “Non scendere, continua con me questo viaggio”. Non ci sono misteri sulla persona da cui proviene l’invito, Vecchioni ci conduce senza preamboli nel vivo del discorso tra lui e Dio. E’ un Dio che non dice di iniziare il viaggio con lui, non si comporta da capotreno o da macchinista, non invita a cambiare binario o a cambiare treno, prendendone magari uno ad alta velocità, ma chiede semplicemente di continuare qualcosa che è già iniziato: mi fa venire in mente il “si avvicinò e camminava con loro” (Lc 24, 15) di Emmaus. In fin dei conti Dio non fa altro che chiedere all’uomo di rimanere con lui, visto che gli ha dato il cielo e le stelle per raccontargli la propria esistenza. Per tutta risposta si sente dire che il vero problema non è la questione della sua esistenza o insesistenza: ciò non fa problema, la sua esistenza non è messa in discussione. Solo che l’uomo vuole starsene da solo, vuole scendere dal treno: troppo grande e forte è quell’“abbraccio senza fine”, troppo abbagliante è quella luce “sublime”. E giù, a terra, sulla pensilina, ci sono altre persone, tutte intente a vivere la medesima esistenza con modi diversi, a guardare il sole senza capirci niente: e fa male. Gli uomini sono leggeri, inconsistenti e fragili come foglie in attesa che il vento le colga (canta Pacifico: “E sembri una foglia una vela leggera, una barca minuscola in questa bufera”) e cercano di stare vicini in modo da essere portati via insieme e non morire soli.
Vecchioni ci spiega cosa significhi restare a terra, cosa implichi non salire sul treno, ce lo descrive: “amare soltanto come un uomo”. Non è pronto per accogliere l’invito “con te, Signore, è tutto così grande, così spaventosamente grande che non è mio, non fa per me”. Non riesco a non pensare a Mt 19, 21-22 “Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!” Udita questa parola, il giovane se ne andò triste; possedeva infatti molte ricchezze”.

Un altro binario

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“Basta un attimo”. Quante volte l’ho sentito dire, l’ho detto, l’ho pensato in tutti i contesti possibili, positivi o negativi. A volte frutto di libera scelta, magari ponderata e valutata; altre volte pura casualità, e ognuno decida poi di chiamarla a modo suo, destino, caso, dio, fortuna, sfiga… Così descrive la situazione Stefano Benni: “Magari qualcosa, una moneta che cade, un piccolo braccialetto che si impiglia alla maglia di qualcuno, uno scontrino che scivola via, cambia il destino di una persona. E quella persona, per un piccolo, banalissimo gesto, non farà più le stesse cose che avrebbe fatto invece se quel gesto non si fosse verificato. E la sua vita prende un altro binario. Magari per sempre. Magari per un po’ soltanto. Chissà.” Quanti binari percorriamo? Quanti scambi? Quanti stazioni attraversiamo? Scendiamo? Restiamo su? I passaggi a livello sono custoditi? Saliamo sempre sullo stesso treno? Possiamo stendere binari là dove ancora non ci sono?