Radici cristiane, ma le foglie?

Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.

“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne? Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione.
Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.

Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché?
O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae  vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”.
P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica.
O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.

Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.

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La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.  Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.

Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr]
P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.  La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.

Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della  République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam.
P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”

L’essenziale nella bisaccia

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Il blog è nato per accrescere il dialogo con gli studenti, per mettere a disposizione materiale interessante che magari in classe non riusciamo ad affrontare, per approfondire argomenti solo abbozzati. Tuttavia so che è letto anche da altre persone e da alcuni colleghi. Questo post penso che possa interessare maggiormente questi ultimi, soprattutto coloro che si ricordano di aver studiato sui testi del “mitico” Enrico Chiavacci. Come insegnanti di Udine abbiamo anche avuto il piacere (per me ascoltare un toscano è sempre un piacere, per le orecchie e per il cuore, perché mi ricorda le sere dei campiscuola passate a sentire la cadenza di una cara persona che non c’è più) di seguire, qualche anno fa, un corso di aggiornamento tenuto da lui. Il pezzo qui sotto verte su laicità-laicismo, clericalismo-anticlericalismo e, a mio avviso, è in grado di provocare molte riflessioni e pensieri, magari utili per un confronto di idee. E’ del 2005 ed è preso dal sito Dimensionesperanza.

“”D’ora in poi predicherò solo Cristo, e Cristo crocifisso”, esclama Paolo (cfr. 1Cor 2,2). La fede in Cristo non è un ‘bagaglio di valori’, ma è l’assunzione di un unico valore che deve dominare la mia intera esistenza, esserne il senso ultimo su cui io scelgo di misurare me stesso in ogni mia scelta concreta (o, se si vuole, storica). Questo unico valore è fare della propria esistenza un dono offerto a tutti i fratelli in umanità, buoni o cattivi, bianchi o neri, amici o persecutori. “Questo corpo che è per voi, questo sangue versato per voi e per tutti”: Gesù nella cena dichiara il senso del suo andare deliberatamente incontro alla croce, e con questo gesto supremo di dono accompagnare la storia, la vicenda intera della famiglia umana.

Spesso però noi cristiani ci dimentichiamo che ogni essere umano è chiamato dal proprio interno a una ‘vita morale’ cioè all’assunzione di un significato unico e ultimo del proprio esistere e alla coerenza con esso in ogni situazione concreta. Tale assunzione può nascere da un’esperienza interiore indicibile, cioè non dimostrabile ad altri come l’unica vera; può anche avere una motivazione filosofica e nascere da una argomentazione, ma il mettersi ad argomentare o a interrogarsi sul senso della propria esistenza è già vita morale. Anche l’ateo, il laicista, il ‘laico’, l’anticlericale, l’aderente a qualunque fede religiosa non cristiana, ha in sé la chiamata a una vita morale: il che equivale al bisogno di dare un senso al proprio esistere. Ma noi cristiani crediamo che anche il non-cristiano, come ogni essere umano, trovi in se stesso una chiamata divina, e precisamente la chiamata di un dio, del Dio che ci è apparso in Nostro Signore. A Lui tutti dobbiamo rispondere, che lo conosciamo o no, e da Lui tutti abbiamo bisogno di perdono. Tutto ciò è espresso chiaramente in Paolo, Rm 2. Giovanni XXIII riprende il tema indirizzando a tutti gli uomini di buona volontà la grande enciclica Pacem in terris: se ne rilegga l’intestazione, il proemio, e tutta la V parte. E la Gaudium et spes esplicita il contenuto di questa esperienza morale che accomuna tutti gli uomini intorno al grande tema della pace. Si veda il n. 77, ma specialmente il n. 92. In esso la Chiesa si dichiara aperta al dialogo e alla cooperazione (che ne è lo scopo e la cercata conseguenza) con uomini di qualsiasi fede, con gli agnostici e gli atei, e paradossalmente anche con i propri persecutori: a tutti coloro che “praeclara animi humani bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt”. E conclude dicendo che Dio Padre, principio e fine di tutti, ci chiama tutti a essere fratelli nella ricerca della pace: siamo tutti chiamati ad una stessa vocazione (hac eadem vocatione vocati: si noti che eadem in latino indica con precisione una stessa identica vocazione, unica per ogni essere umano). …

In questo quadro le espressioni del tipo ‘laico’ o ‘laicista’ non hanno necessariamente il significato di contrapposizione al cristianesimo: esse possono indicare l’assunzione degli alti valori vissuti e insegnati da Gesù Cristo, anche senza conoscerne o riconoscerne l’Autore. Nello stesso modo può avere un senso l’espressione ‘cristianizzazione senza Dio’: ma l’espressione è paradossale in quanto indica l’assunzione di valori assoluti evitando di riconoscere un assoluto a cui agganciarli. Io credo che in molti casi sarebbe più appropriato il binomio ‘clericale-anticlericale’: in esso si cela non tanto il problema di Dio o di Gesù Cristo, quanto il problema di accettazione della chiesa nel suo modo – passato e presente – di presentare il Vangelo di Gesù Cristo attraverso le sue strutture, regole, pronunciamenti, devozioni, predicazione. Il rifiuto della chiesa per i motivi ora detti può portare, e di fatto ha portato, al rifiuto in blocco del suo annuncio su Dio e/o su Gesù Cristo (si rilegga il n. 19 di GS). Lo stesso Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per gli errori del passato.

A partire almeno dal II millennio, il potere decisionale nella chiesa – in tutti i campi – si è sempre più accentrato nelle mani del clero (si pensi che nell’area ortodossa anche il clero contava e conta poco: quelli che contano veramente sono i monaci e i monasteri). E almeno dal XVI sec. ogni potere decisionale si è sempre più accentrato, passando dal clero e anche dai vescovi alla Santa Sede. Un papato monarchico non solo temporale ma anche spirituale (dottrinale, giuridico, liturgico etc.) da un lato era forse necessario per combattere eresie o errori pericolosi, dall’altro ha generato una reazione sia dottrinale che spirituale. Clericalismo e anticlericalismo, azione e reazione: difficile dire chi ha sparato per primo. Non posso discuterne qui, e nessuno ha una risposta certa. Ma non dobbiamo mai dimenticare che senza una comunità dei credenti in Cristo organizzata, pur con tutti i suoi limiti storici e i suoi errori, il Vangelo non ci sarebbe giunto. Ricordiamo il celebre detto, attribuito al grande regista Buñuel: “Io sono ateo, grazie a Dio”; e ricordiamo anche che il film più fedele al Vangelo – e forse fino ad oggi l’unico fedele – è dovuto a P.P.Pasolini. Ma qui si deve aprire un altro discorso. Mi si domanda “che ne è del pellegrino che viaggia con solo l’essenziale nella sua bisaccia?”. Rispondo che non può esistere tale pellegrino: non esiste e non può esistere un essere umano senza condizionamenti culturali e storici da un lato, e senza una sua fatica di ricerca dall’altro lato. La stessa chiesa apostolica per trasmetterci il Vangelo ci ha trasmesso quattro vangeli, ciascuno scritto con preoccupazioni, filosofie, sensibilità diverse. La trasmissione del Vangelo è poi avvenuta tutta all’interno della cultura e della filosofia occidentale, con arricchimenti spirituali grandiosi (si pensi a Dante) e con una forza propulsiva enorme in tutti i campi della riflessione umana, dalla scienza o all’arte in tutte le loro forme. Ma dopo il XV sec. è iniziato il contatto massiccio e costante con altre culture, e con esso la presa di coscienza che anch’esse offrivano nuove possibilità di comprensione e di vita evangelica; ma solo nel XX sec. tali possibilità sono state accolte e recepite ufficialmente con l’autorità di un Concilio Ecumenico (si rilegga il n. 44 di GS). E pertanto l’accentramento dell’autorità presso un’unica istanza tipicamente, e ancora, occidentale e tale da lasciare poco spazio a culture, tradizioni, filosofie, sensibilità storiche locali risulta ormai – teoricamente e praticamente – insostenibile per la credibilità della chiesa e anche del Vangelo. Se il cosiddetto ‘senso comune’ indica ciò che è socialmente ammesso e approvato nell’area occidentale, il suo controllo sulla vita religiosa è mortale per l’annuncio del Vangelo. … La giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero, e cioè al più socialmente debole, all’emarginato, allo straniero e anche a chi viene socialmente giudicato un ‘peccatore’. Questa giustizia appare in tutta la vita e la parola del Signore: è la bontà misericordiosa del Padre che ci appare nel Figlio. E la GS dice, al n. 77, che la “vera et nobilissima pacis ratio” è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra. Così sia, almeno io spero per la mia chiesa.”

Badabum!

Badabum! Perché sono parole che fanno rumore queste di don Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano e coordinatore di “Libera” per la Provincia dell’Aquila. Sono prese da L’Huffington Post.

175377_2925984_PULIZIABAS_12223333_medium.jpg“Amarezza e rabbia, indignazione e disappunto. Disgusto e una voglia matta di rivolta. Il vocabolario non è sufficiente a tradurre tutti i sentimenti che, in negativo, travagliano l’animo di un parroco di periferia. Le cronache di questi giorni hanno dell’incredibile che rasentano l’assurdo. Ormai è di dominio pubblico: l’aria mefitica della corruzione, dei giochi di potere, di pratiche persino criminali, di degrado morale, di malcostume appesta i palazzi vaticani e richiede urgente un’opera di disinfestazione e di pulizia generale, nella presa di coscienza e nella trasparenza generale. Aprire le finestre e cambiare aria! E invece cosa succede? Ci si chiude a riccio: si pone sotto secreto la relazione dei tre saggi, si schermano i telefoni, si oscurano perfino le finestre della Cappella Sistina, si perquisiscono i Cardinali, e si minaccia addirittura la scomunica a chi volesse twittare con l’esterno. La “città posta sul monte”, perché sia visibile a tutti e a tutti faccia luce, diventa un bunker sotterraneo più adatto ai topi che a persone libere e risorte. I “Pastori” che dovrebbero guidare il popolo in un cammino di crescita e di responsabilità vengono rinchiusi, chiavistellati (“cum-clave” da cui la parola “Conclave”), come scolaretti indisciplinati e incapaci, da tenere a bada.

Agli inizi del terzo millennio, in un mondo adulto ed emancipato, la chiesa continua imperterrita e mantenere una struttura d’altri tempi e che oggi non ha più alcun senso, anzi, si è invertita nel suo controsenso. Il conclave è nato e si è strutturato tale per tenere i cardinali indipendenti e liberi dai condizionamenti e dalle intrusioni del potere invadente e prepotente dei Re e degli Imperatori. Oggi questa stessa struttura invece che assicurare libertà al collegio cardinalizio, tiene i cardinali sotto tutela, come fossero degli incapaci; li tiene prigionieri.

Siamo agli antipodi di quella chiesa-comunità cui il Maestro aveva ordinato il linguaggio della schiettezza: «Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5,37). E’ stato censurato anche il Vangelo dalla sue narrazioni scomode che nessuno più ricorda ed è stato messo sotto silenzio perfino il suo Maestro: «Non abbiate paura. Nulla v’è di coperto che non debba essere svelato e nulla di nascosto che non debba essere conosciuto. Ciò che dico a voi nelle tenebre, proclamatelo nella luce; ciò che udite nell’orecchio, annunciatelo sui tetti» (Matteo 10, 26-27). «C’è un tragico paradosso in cui si dibatte la coscienza cattolica: l’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino ad essere ucciso. Questa è la condizione paradossale e a volte tragica dell’essere oggi, e non solo oggi, un cattolico». Così scriveva il teologo Vito Mancuso nel suo ultimo libro Obbedienza e Libertà. «Il paradosso, lo precedeva Ortensio da Spinedoli su Adista Documenti n. 47/2011, è che le moderne società civili si reggono da due secoli sui principi evangelici (libertà, uguaglianza e fraternità), riscoperte da “senza-Dio”, mentre la Chiesa, che proviene dal vangelo, continua a poggiarsi sui canoni dei regimi assolutistici che il vangelo condanna». Nella Chiesa la diplomazia double-face si è mangiata la trasparenza e la paura ha esiliato il coraggio. In questi ultimi anni si è fatto di tutto per riportare indietro le lancette dell’orologio: laici imbavagliati, teologi senza tutela, vescovi in libertà vigilata, iniziative locali bloccate, centralismo forsennato. Le conseguenze catastrofiche di questa “politica” neoconservatrice sono davanti gli occhi di tutti: l’atmosfera è pesante, carica di tensioni, colma di risentimento. Il grande slancio spirituale si è spento, frenato dagli interdetti, paralizzato dai giuramenti, polarizzato dal grandi scenografie e dalle lussuose liturgie.

La liturgia ha cancellato la profezia. Dai non più sacri palazzi si vorrebbe i cristiani come un popolo di “colli storti”, per dirla con la felice espressione del grande Bernanos. Ma così non è…; e non sarà! Molti sono coloro che quotidianamente amano e lottano in e per una Chiesa Altra, così come emergeva dal Vaticano II: una Chiesa più attenta a lavare i piedi dell’umanità che non preoccupata di curare le vesti che porta addosso.”

Una Resurrezione da vivere

Scrive Paolo Conti sul Corriere:

papa, benedetto xvi, dimissioni papa, chiesa, quaresima, concilio, resurrezione, martini“Esiste una possibile lettura delle dimissioni di Benedetto XVI legata al tempo liturgico e che può contenere un messaggio connesso alle parole del Papa sulla Chiesa con il «volto deturpato» dalle rivalità, dalle divisioni, dagli individualismi. L’addio del Pontefice al soglio pontificio sembra studiato con cura. L’annuncio pochi giorni prima della Quaresima, cioè il tempo non solo del digiuno, dell’espiazione, del lutto ma del profondo cambiamento: richiami perfetti per la crisi dell’universo ecclesiale denunciata da Benedetto XVI. Un Conclave quindi convocato in tale tempo, perciò maggiormente dedicato al silenzio e al mutamento, alla riflessione su quanto è accaduto nel cuore della Chiesa (ed è stato sottolineato da Ratzinger). Infine l’elezione di un nuovo Papa che, chiunque sarà, celebrerà una Pasqua di Resurrezione il 31 marzo che potrebbe davvero indicare al mondo una Chiesa «rinata» dopo i quaranta giorni di contrizione (un periodo che ricorre nella Bibbia: i quaranta giorni di Gesù nel deserto, di Mosè sul Sinai, del Diluvio universale, episodi di radicali metamorfosi). Dice per esempio il sacerdote missionario dehoniano Fernando Armellini, biblista che ha insegnato a lungo in Africa e ha quindi il polso della «Chiesa lontana» (almeno nella percezione dell’Europa): «È una lettura certamente vicina alle istanze di quella Chiesa cattolica più vicina e attenta alla Parola di Dio, più matura e consapevole, che magari segue i corsi biblici e la lectio divina». Cosa chiede questa base cattolica? «Sicuramente l’urgenza di un rinnovamento, di una rinascita della Chiesa. Proprio Benedetto XVI ha avuto parole dure sulla realtà ecclesiale e sugli scandali che la attraversano. Quindi la lettura delle dimissioni del Papa collegate alla Quaresima e alla successiva idea di Resurrezione credo sia in sintonia con la necessità dei fedeli di un autentico cambiamento, di una Chiesa più autenticamente evangelica». Questa «Resurrezione» della Chiesa con il nuovo Papa in quale linea si dovrebbe collocare? «Direi sulla linea del cardinal Carlo Maria Martini che avvertiva profondamente la necessità della rigenerazione della struttura ecclesiale che, agli occhi del mondo dei fedeli, appare ormai troppo pesante, troppo ancora medioevale nei paludamenti, in certe liturgie pompose che offuscano la semplicità di quanto avvenne nell’Ultima Cena. C’è un grande e diffuso desiderio di ritorno all’essenziale, a ciò che il Maestro consegnò ai suoi discepoli, al suo amore per il mondo e soprattutto per gli ultimi».

Aggiunge don Felice Accrocca, docente alla facoltà di Storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana: «Vivere un Conclave nel tempo della Quaresima significa certamente avere ben chiare tre dimensioni. Cioè la carità, la conversione e la preghiera. Richiami forti dopo il riferimento di Benedetto XVI alle divisioni nella Chiesa». Conclude Gianni Gennari, teologo e scrittore, sacerdote fino all’aprile 1984 quando si sposò col rito cattolico grazie alla dispensa di Giovanni Paolo II sollecitata proprio da Joseph Ratzinger («mi sento un prete romano emerito»): «Seguendo una simile ipotesi mi viene da dire che la Resurrezione col nuovo Papa dovrebbe avvenire nel segno che proprio Benedetto XVI ci ha indicato durante l’udienza di ieri al Clero Romano». A cosa si riferisce in particolare? «All’attualità estrema del Concilio Vaticano II, richiamata da Ratzinger. ” Tantum aurora est “, disse Giovanni XXIII, è appena l’aurora. Per applicare gli insegnamenti di un Concilio occorre tempo». Il legame tra l’addio di Benedetto XVI alla Quaresima affidando la Pasqua al nuovo Papa? «Altamente simbolico. Benedetto sa di essere riuscito a realizzare la collegialità “affettiva”. Quella “effettiva” è lontana, troppo spesso la Curia romana pensa di poter decidere tutto da sola senza nemmeno coinvolgere il Papa. Ecco perché la Chiesa ha il “volto deturpato”. Ora è tempo di risorgere, di costruire la Chiesa collegiale e fraterna, aperta al dialogo».”

Il Concilio e la complessità

Sul Corriere della Sera di venerdì scorso ho letto questo interessante articolo di Giuseppe concilio_vaticano_2.jpgDe Rita e Luca Diotallevi sul Concilio (I pericoli e l’illusione (vinta) del Concilio). Oggi l’ho trovato in rete: eccolo qui.

“Nel cinquantesimo anniversario del Concilio ci avviamo verosimilmente verso un ulteriore momento di confronto — tutto interno al mondo cattolico — fra progressisti e conservatori, cioè fra chi considera sempre più attuale quella mobilitazione di fede collettiva che il Concilio avviò; e chi considera invece necessario un anche crudo revisionismo delle scelte conciliari. Quanto è successo alla recente morte del cardinale Martini non fa prevedere nulla di nuovo. Forse è giunto il momento di prendere atto di quanto stia diventando inutile rimestare «da dentro» l’andamento e gli esiti della svolta conciliare. Crediamo sia più giusto guardarli anche «da fuori», cercando di capirne le relazioni con l’evoluzione complessiva della società del ventesimo secolo, nella progressiva autocomprensione della Chiesa non più come societas perfecta, ma come mistero e sacramento. E da questo angolo visuale si colgono subito tre coincidenze temporali e tre insegnamenti strutturali. Ci sono anzitutto coincidenze temporali importanti, pur senza star qui a discutere su chi ha anticipato l’altro fra Chiesa e dinamica socioeconomica mondiale.

La prima riguarda la accettazione della globalizzazione. A parte le guerre mondiali e le relative conferenze di pace, all’inizio degli anni Sessanta non c’era nella cultura che si diceva moderna la consapevolezza del carattere sempre più globalizzato dei fenomeni, dei problemi, delle decisioni da affrontare; in questo deficit di cultori aver convocato un evento così improssivamente globale come il Concilio fu un atto non solo di profezia ecclesiale ma anche di collettiva e laica consapevolezza planetaria.

La seconda coincidenza riguarda il fatto che il Concilio, forse per andar contro la ferrea logica piramidale della gerarchia cattolica, si rivelò una assise segnata da una grande molteplicità di variabili e di responsabilità (socioculturali oltre che religiose); e divenne quindi una proposta forte di un modello di governo di tipo policentrico, ad architettura distribuita del potere, su cui non a caso si va misurando oggi tutta l’evoluzione degli apparati istituzionali, nazionali e internazionali.

E la terza coincidenza risiede nel fatto che, come tutte le riforme vere, il Concilio fu «slegamento dei soggetti», orientamento di cui fanno testimonianza sia quella secolarizzazione soggettiva e di massa che contraddistingue gli ultimi decenni (e che qualcuno, in sacrestia, ha addirittura addebitato al Concilio), sia una proliferante soggettività ecclesiale — anche di tipo associativo — che rende oggi articolata e ricca la quotidiana presenza della Chiesa.

Non mette conto, lo ripetiamo, star a discutere su chi è arrivato prima, fra Chiesa e società moderna, a coltivare la dimensione globale, quella policentrica e quella soggettiva del mondo in questo passaggio di secolo. Quel che importa è che, dopo tanti secoli, la Chiesa non è andata a rimorchio della cosiddetta modernità, si è misurata nel Concilio con gli stessi parametri di riferimento cui si rifanno tutti i più dinamici sistemi sociali. Ma c’è qualcosa di più delle coincidenze temporali, c’è anche una elaborazione culturale complessa che si è esercitata e si è sviluppata nel Concilio e che può essere di insegnamento per tutti i grandi soggetti storici oggi operanti nel mondo.

Il primo di tali insegnamenti è stato di sapere sviluppare un policentrismo governato (fuori dei pericoli di inerzia tipica dei sistemi a troppi poteri). Il Vaticano II è stato un grande tentativo di fare governo senza sovranità. I pastori di comunità locali che si riunivano in San Pietro, lo facevano per decidere; non per protestare né per delegare, ma per prendersi delle responsabilità su cui sapevano di possedere potere da spendere. Altrimenti non sarebbe seguito così tanto governo della Chiesa, dalla riforma della liturgia alla riforma del diritto canonico.

La seconda lezione è stata quella di avere lavorato in una logica di continuità con la grande tradizione storica della Chiesa, di «continuismo» si dovrebbe dire, se il termine non avesse assunto valenza negativa. Il Concilio scelse la via lenta e media, la via che introduce ai cambiamenti più profondi, quelli che il conservatorismo nega o rimanda, quelli che il massimalismo ingenuo o ipocrita non si sogna neppure di conseguire. Chi sceglie la riforma nella continuità scopre che con tale scelta le risposte possono arrivare prima delle domande, le soluzioni prima dei problemi. Così, anche nella Chiesa, gli sprovveduti, quando sono arrivati i problemi, li hanno interpretati come il fallimento di quelle soluzioni che invece solo allora mostravano tutto il proprio valore.

E la terza grande lezione sociopolitica (e di vera teologia politica) del Concilio sta nel superamento dell’idea che ci fosse una società perfetta, una polis ben governata, interpretata nei secoli dallo Stato e/o dalla Chiesa. Con il Concilio questa illusione di perfezione scompare ed oggi la cosa è ancor più evidente per la perdita di sovranità che colpisce tutti i soggetti istituzionali esistenti. Se non c’è più sovranità non c’è più polis, non c’è più società perfetta: c’è solo «civitas», la formazione progressiva di un’identità collettiva figlia di condivisione e non di sovrapposto disegno ideologico o confessionale. Lezione straordinaria se si vuole affrontare con cultura adeguata il pericolo di nuovi fondamentalismi, anche civili e non solo religiosi.

Riflettiamo quindi laicamente e storicamente sul Concilio, orgogliosamente consapevoli, noi cattolici, di esser portatori non solo di una fede privata, ma di una visione dal mondo che aiuta tutti a capirlo e gestirlo, in una crescente coscienza della sua complessità.”

Già e non ancora

Per Rainews24 Pierluigi Mele intervista Mons. Bettazzi sull’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II:

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“L’11 Ottobre è il 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II. Quel grande evento, che cambiò la storia della Chiesa cattolica, si aprì con il famoso discorso di Papa Giovanni XXII “Gaudet Mater Ecclesia”. In quell’intervento c’è tutto il senso del Concilio voluto dal Papa. Nello stesso discorso Roncalli si rivolse anche ai «profeti di sventura», gli esponenti della Curia più avversi all’idea di celebrare un Concilio: «Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa ». Nella stessa sera il pontefice pronunciò inoltre il celebre “Discorso alla luna”. Vogliamo ricordare questo straordinario avvenimento con un testimone importante: Monsignor Luigi Bettazzi. Bettazzi è tra le figure più significative del cattolicesimo italiano. Vescovo emerito di Ivrea, ha partecipato al Concilio Vaticano II in quanto ausiliare del Cardinale Lercaro (uno dei quattro moderatori dell’assise conciliare). Per diversi anni è stato Presidente di Pax Christi. Nel 1976 scrisse una lettera a Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, che fece molto discutere l’opinione pubblica italiana.

Monsignor Bettazzi, Lei, in Italia, è tra i pochissimi testimoni viventi di quel grande evento che cambiò la storia della Chiesa Cattolica. Con che spirito, dati i tempi attuali della Chiesa, vive questo cinquantenario dell’inizio del Concilio? Con nostalgia?

Un pò di nostalgia per il fervore e l’entusiasmo che c’era allora, non solo dentro all’assemblea, ma soprattutto al di fuori, e anche con grande speranza perché se è vero quello che diceva padre Congar che se il grande concilio viene completamente capito e attuato solo dopo cinquant’anni, voglio sperare che l’anno della fede susciti davvero e porti di nuovo profondamente a capire e attuare questo Concilio II.

Veniamo al Concilio. Per Papa Giovanni XXIII, il Concilio, doveva essere una “nuova Pentecoste” per la Chiesa Cattolica. A vedere, oggi, certi comportamenti della gerarchia cattolica sembra “vincente” la linea dell’allora “minoranza” conciliare (quella più conservatrice). Per Lei?

È vero che per muovere secoli di atteggiamento dominante, in cui era la posizione del papa che era un re e doveva fare il re ci vuole un po’ di tempo anche perché il decentramento, la collegialità, la collaborazione dei vescovi non è sottrarre autorità ma dare autorevolezza al governo della Chiesa. Sicuramente il 68 e 69 hanno avuto delle eccedenze che hanno la sua portato a richiudersi, lo stesso Papa Benedetto fu scosso dalle rivoluzioni della facoltà di Tubinga. Voglio sperare che queste spinte portino dopo tanta prudenza ad una nuova apertura. Vediamo se questo sinodo di ottobre e l’anno della fede sia una vera Pentecoste, come la chiamava Papa Giovanni.

Torniamo, per un attimo, a Giovanni XXIII. Nell’ultima pagina, famosa, del Giornale dell’anima affermava, rispetto alle critiche reazionarie che avevano investito la sua enciclica Pacem in terris: “non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Le chiedo: è questo il profondo dinamismo delle riforme del Concilio?

Io penso di sì, per esempio la Pacem in terris rappresenta una novità, perché per la prima volta un Papa non parla di questioni religiose rivolgendosi ai cattolici, ma di un grande valore umano, come la pace, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà. E questo poi ha spinto il concilio alla costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, la Chiesa presenta i valori cristiani a tutta l‘umanità, anche a coloro che non sono cristiani, perché, pur non diventando Chiesa, continuino a camminare verso il Regno di Dio, che è il mondo che si apre ai grandi valori, di cui Dio è il sommo e che si apre agli altri; la Chiesa deve essere fermento e lievito per tutta l’umanità, perché diventi migliore. Il grande valore dell’uomo, della famiglia e di ogni famiglia, della cultura e di ogni cultura, dell’economia e di ogni economia, i valori della fede, in cui il cristiano trova il motivo in più per essere un buon cittadino, un buon essere umano, come tutti dobbiamo essere.

Il Concilio, nei suoi documenti, ha esaltato il ruolo dei laici nella Chiesa. Questo, nell’immediato post-Concilio, ha portato in Italia, con alcuni limiti, ad un grande protagonismo laicale. Oggi, pare, invece assistere, nell’ambito dei laici “impegnati”, ad una “rincorsa” a chi è più conformista nei confronti della gerarchia. E’ così?

Forse è vero che dopo tanti secoli clericali si fa fatica ad ammettere la corresponsabilità dei laici, la Chiesa richiama i principi, ma sono i laici che devono dare la loro testimonianza, la loro coerenza. Le mie diffidenze sono nate prima ancora che con la lettera a Berlinguer, con la lettera che avevo scritto al segretario della Democrazia cristiana, dopo Tangentopoli, quando il presidente della Democrazia cristiana aveva detto: “vi meravigliate che facciamo così? in politica tutti fanno così” No, allora non dire che sei cristiano: perché il cristiano deve portare in politica la traduzione della sua coerenza con il Vangelo nella onestà legalità nell’apertura nella solidarietà verso i più poveri e disagiati. Questa dovrebbe essere la testimonianza dei laici e come gerarchia dovremmo richiamarlo di più, e forse è una delle cose in cui il 50esimo del Concilio dovrebbe richiamare la priorità del popolo di Dio sulla gerarchia. Il primo testo della Chiesa era “Chiesa, gerarchia, fedeli”, i vescovi hanno voluto che fosse “Chiesa, popolo di Dio e gerarchia”.

C’è spazio, oggi nella Chiesa, per una fede “adulta”?

Credo che il richiamo a questi principi, al fatto che non sono stati profondamente attuati, voglio pensare che sia un’occasione per ripartire e attuare il concilio. Lo dice anche il Papa: La nuova evangelizzazione è l’attuazione del concilio. L’occasione credo che sia buona e che abbiamo speranza: come il concilio è arrivato all’improvviso, se ognuno nella chiesa fa quello che può, quello che deve, credo ci possa essere questo rinnovamento profondo nell’attuazione del concilio.

Laicità e principi “non negoziabili”. Alla luce del Vaticano II come si dovrebbe sviluppare il rapporto tra questi due “poli”’?

Per me il grande principio non negoziabile è la solidarietà, e dovremmo far capire che contro l’aborto e l’eutanasia sono due forme di situazioni di solidarietà nei confronti del più debole, non siamo convincenti se difendiamo la vita all’inizio e alla fine e non nel suo corso: se non siamo contro la guerra, se non cerchiamo di favorire il lavoro per i giovani, la possibilità del matrimonio perché le situazioni sono tali che li scoraggiano, la difesa della vita all’inizio e alla fine non è convincente se non è difesa nel suo corso. Il vero principio non negoziabile è la solidarietà nei confronti dei più deboli e dei più poveri.

Allora cosa resta, oggi nella Chiesa cattolica, di quello spirito rinnovatore, la “Pentecoste” appunto, che animò i Padri conciliari?

Io dico “già e non ancora”, perché è vero che se guardiamo a prima del concilio, qualcosa si è fatto, si legge di più la Parola di Dio, e anche il fatto che si discuta di queste cose, prima non se ne sarebbe certo parlato; il non ancora è che questi principi devono essere portati fino in fondo, attuati nella loro profondità, il rischio è di leggere il concilio come fosse un testo di diritto, e si sa il diritto lo si interpreta e lo si applica al minimo, ecco questo testo deve essere interpretato al massimo. Voglio sperare che questo anno della fede possa portare più speranza.”