Cara ansia ti scrivo

Immagine creata con Gemini®

Su Rocca ho trovato un curioso articolo di Rosella De Leonibus: si tratta di una lettera alla propria ansia e si apre con una citazione. “L’ansietà è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente. Se incoraggiata, scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri vengono attirati” (Robert Albert Bloch). Ma ecco il testo.

“Ansia: travaglio d’animo, tormento, tribolazione (dal latino: anxietas, anxietudo).
La psicologia ti definisce come un senso di incertezza relativo al futuro, con sentimenti spiacevoli di timore, in genere vaghi e non proiettati su oggetti o eventi riconoscibili. Nel senso comune, ti si descrive come viva preoccupazione, attesa inquietante e angosciosa.
Bene, ora che so come ti definiscono, ho intenzione di scriverti una lettera. Non perché io ti voglia bene, per favore no, direi invece che, se devo dire la verità, ti odio, con tutto il mio cuore, sì, quel cuore che tu mandi in affanno quando meno me lo aspetto. Ti voglio scrivere perché voglio che tu mi stia a sentire, sì, proprio tu che mi blocchi la parola in gola quando ti pare, senza alcun riguardo per le pessime figure che mi fai fare…
E quindi, a noi due. Mi leggerai fino in fondo, lo pretendo, perché io ti sto a sentire anche in piena notte, quando mi svegli all’improvviso con un bagno di sudore, il fiato mozzo, gli occhi sbarrati nel buio.

C’E’ POSTA PER TE
Cara la mia ansia,
cara nel senso che mi costi davvero cara. Ecco, cominciamo con questo. Le occasioni mancate a causa tua, che ti infili in mezzo tra me e la persona che vorrei sedurre, ti metti tra i piedi quando sono in un posto nuovo e mi impedisci di godermi l’avventura per le paranoie che mi sventoli davanti al naso. Per non parlare degli esami e dei colloqui di lavoro in cui mi hai sabotato, svuotandomi il cervello davanti a domande banali per cui mi mordevo la lingua solo pochi minuti dopo, una volta fuori dalla stanza dell’incontro. Perché tu, vile e traditrice come sei, appena fuori da quella stanza sei balzata giù dal mio cervello e la lucidità di colpo è tornata. Quindi, cara mi costi e mi sei costata, il giorno in cui ti addebito tutti i fallimenti, le mancate azioni, le figuracce, ti mando in rovina.
“L’ansia in bancarotta… Costretta a risarcire i danni!”, quanto vorrei questi titoli su tutti i social…
Già, perché, tanto per non abbonarti alcun addebito, mi torturi anche lì, che dovrebbe essere il mio spazio di decompressione. Perché mi sento male se non vedo il “mi piace”, e vado in apprensione per i discorsi di odio che mi becco ogni volta che esprimo pubblicamente una posizione. E poi quella tremenda sensazione di essere tagliati fuori dai circuiti comunicativi, Fomo, la chiamano, fear of missing out, e io soltanto so com’è collegata al mio grande assente, il sentimento di autostima, e alla paura ancestrale di dover subire un’esclusione…
Quindi, odiata ansia, farò di tutto per cancellarti dalla mia vita. Se fossi un partner, ti avrei già mandato al tuo paese, ma tu saresti ritornata mille volte, più possessiva e invadente che mai a grattare alla mia porta, a infilarti nelle fessure delle imposte, a sgusciare furtiva dentro l’uscio quando esco, così nel frattempo ti saresti impossessata della casa e non avrei avuto pace neppure al mio ritorno.
Che vuoi da me? Tu sei muta, ma io lo posso dedurre facilmente dai risultati che ottieni. Mi tieni alla larga dalle novità, mi precludi ogni prospettiva che non sia già praticata, ogni slancio un po’ più ampio, e finisci per oscurare l’orizzonte delle mie speranze occupandolo con le tue nuvole nere e i tuoi annunci di tempesta.

E IL PERFEZIONSIMO? COLPA TUA.
“È detto che la nostra ansietà non svuota il domani dei suoi dispiaceri, ma soltanto svuota l’oggi della sua forza” (Charles Haddon Spurgeon).
Ti ho sfidato, qualche volta, ho voluto buttare il cuore oltre l’ostacolo, ho fatto l’esatto contrario di quel ritiro dal campo che tu mi gridavi nelle orecchie, e il risultato è stato solo che l’energia non mi è bastata per arrivare in fondo. Per cui hai vinto anche allora, lasciandomi solo la corda più lunga e giocando con me come fa il gatto col topo, sapendo bene fin dall’inizio che saresti stata tu ad assestare la zampata finale.
Ecco, vedi, ho una rabbia enorme nei tuoi confronti, e ora che l’ho messa per iscritto mi accorgo che dietro c’è tanta tristezza. Perché, per quanto io continui a guardarti come una nemica, come un parassita, un’ospite indesiderabile, sei dentro di me, sorgi dal mio interno, da una parte antica del mio cervello, quella più direttamente connessa alle funzioni vitali del mio corpo. Che dolore riconoscere che vivi dentro di me… che dolore riconoscere che sei nata per proteggermi da pericoli futuri, e anche se non ci sono guai in vista, comunque mi ordini di stare in guardia, non si sa mai…
Tu lo sai bene, anche se io non lo posso ricordare, quanto fosse difficile per me nell’infanzia aver fiducia nel mondo… il mondo allora per me erano i genitori, il loro modo di amarmi, fatto di insicurezze e ambivalenze, il loro modo di scoraggiare le mie prime esplorazioni, e quella reazione aggressiva che avevano nei miei confronti quando mi capitava qualcosa di spiacevole, come se, invece di consolarmi e rassicurarmi, si arrabbiassero per via dello spavento che avevo procurato loro…
Ho imparato là a non osare più di tanto, è là che ti sei manifestata dentro di me, perché non dovevo sbagliare, non dovevo incappare mai in alcun problema, altrimenti non ci sarebbe stato nessuno a venire a prendermi. La tua funzione era di proteggermi, visto che nessun altro lo avrebbe fatto, evitando ogni rischio, e così ho imparato a camminare sulle uova, testa china e spalle chiuse, passo incerto e voce spenta. Meglio meno, meglio non chiedere, vietato sbagliare.
E poi è scattata la trappola: forse se faccio le cose al meglio, forse se imparo a dare il massimo qualcuno mi amerà di più, mi amerà meglio, mi offrirà finalmente un riparo? Se offro solo il profilo migliore, piacerò di più? Se mi occupo degli altri e dimentico me, sarò una creatura finalmente indispensabile e quindi visibile?
La risposta è negativa, purtroppo, con l’aggravante che con questa ricerca dell’eccellenza ho accumulato tensioni intollerabili, sforzi inumani, che mi hanno lasciato la mandibola sempre bloccata, le spalle doloranti, l’intestino in fiamme, il bacino rigido, i piedi contratti… Mi hanno plasmato a poco a poco come una figura pietrificata, efficiente ed efficace agli occhi del mondo, ma sola, irraggiungibile dietro la mia corazza.

E SE CI ALLEASSIMO?
La sento incrinarsi, da un po’, la corazza, e tu, ansia, che ti eri trasformata in tensione e spasmi, torni a manifestarti nel tuo regno preferito, quello delle emozioni.
Credevo di averti domato con l’autodisciplina, con il senso del dovere, ma eccoti, non ammetti briglie, vuoi dirmi qualcosa finalmente?
Vuoi dirmi che tu sei l’energia vitale che non ho potuto ancora vivere? Che sei la mia difficoltà a stare nel presente perché il presente che mi si offriva non era vivace, attraente, sereno?
Vuoi raccontarmi oggi che tu sei la mia energia?
Che hai sofferto accanto a me e con me per tutte le volte in cui non ho potuto lasciarmi andare, per tutte le volte in cui l’ambiente è stato poco accogliente, per ogni errore che non è stato aiutato a diventare apprendimento, per ogni modello mancato, per ogni sostegno non ricevuto?
Vuoi dirmi che hai dovuto farmi tu da scudo, poiché non potevo contare su una forza interiore che non aveva avuto le condizioni per consolidarsi?
Vuoi dirmi che ognuno di quei sintomi che tanto mi spaventavano, ognuno dei cento malesseri psicosomatici di cui ho ricevuto la visita devastante, ognuno di loro era un grido di libertà soffocato?
E mi vieni a raccontare che questa energia può ancora essere ravvivata e può trovare una forma adattiva per manifestarsi?
Vuol dire che quel grido muto dei sintomi può diventare man mano slancio vitale, curiosità nuova, e può avere presa sul mondo invece che avvilupparsi alla mia gola?
Vuoi farmi vedere quanto hai condensato, in forma di malessere, i “no” che non potevo dire, i “sì” che mi erano stati strappati per compiacenza, vuoi stare qui a narrarmi di come hai mantenuto accesa la mia vitalità nonostante tu ne abbia limitato a tua volta, con la tua presenza, le possibilità di espressione?
Vuoi che facciamo un patto?
Che io non cerchi più di annullarti, che io riconosca che mi hai salvato e protetto quando ero troppo fragile, che io accolga il tuo messaggio di alleanza?
Perché sei una forma elementare di energia per sopravvivere, ma se ti tengo accanto e ti do respiro puoi evolvere e diventare la mia migliore body guard. E io saprò che mi metterai in allerta solo quando servirà, e che non mi giudicherai per una svista, un tentativo fallito. Saprò che è mio compito assicurarti pause di benessere, di natura, di gioco, di leggerezza. E che l’amore in tutte le sue forme è il tuo migliore nutrimento trasformativo.
E allora, dai, vecchia mia, ho fatto bene a scriverti questa lettera, ti ho visto da vicino e tu lo stesso, abitiamo lo stesso corpo, abbiamo tutt’e due bisogno di esperienze creative, e vive, e libere.
Ti puoi sciogliere, ora, puoi allargarti, diluirti, oppure sprizzare con forza come le bollicine frizzanti che escono dalla bottiglia appena stappata, ci possiamo concedere quel brivido di eccitazione, quello scintillio di vita che ci radica nel presente e ci spinge verso il futuro con occhi desideranti.
Alleate.
Ciao cara, senza paura. Ciao cara, con un pizzico di brio. Ciao cara, con leggerezza.

“La tua ansietà è direttamente proporzionale alla tua dimenticanza della natura, perché tu porti in te stesso paure e desideri illimitati” (Epicuro)”

Gemma n° 2292

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare una vacanza fatta quest’estate in Spagna, a Barcellona, un luogo che sognavo fin da piccolina.
A luglio sono partita per 5 giorni in questa nuova città con i miei genitori. Per me si trattava, di fatto, di un nuovo Stato da visitare: gente con cultura, tradizioni, usanze e maniere per me nuove e diverse da quelle a cui sono sempre stata abituata. Di quei giorni mi ricordo benissimo la velocità con cui sono terminati ma ancor di più la felicità che mi hanno dato. Penso che sia proprio vero che viaggiare a volte possa essere la cura ai nostri problemi: la sensazione di scappare dai propri pensieri, il fatto di recarsi in una città totalmente sconosciuta, dove nessuno ti conosce e dove tu non conosci nessuno, la meraviglia nel camminare per le sue strade per la prima volta dopo averle guardate e riguardate su uno schermo centinaia di volte, la gioia nel provare nuovi cibi e nuovi piatti di cui hai da sempre sentito parlare. Durante l’intero anno non ho molte occasioni per passare del tempo con i miei genitori e la nostra unica vacanza estiva di quest’anno mi ha fatto avvicinare veramente molto a loro. Crescendo mi sto accorgendo che non sono più loro a dovermi coinvolgere nella scelta ma sono io invece che gli do delle proposte riguardanti ogni possibile viaggio. Questi giorni mi hanno fatto sentire veramente spensierata, nel vero senso della parola, mi hanno permesso di avverare uno dei tanti sogni tenuti nel cassetto che la me di qualche anno fa non avrebbe mai pensato di avverare, ma più di ogni altra cosa mi hanno trasmesso al massimo l’amore per il viaggiare.
Ho amato ogni momento di queste giornate, soprattutto l’allegria ed il coinvolgimento degli spagnoli, che anche con poco sanno farti sentire nuovamente a casa, ma più di tutto ricorderò con grande nostalgia le passeggiate fatte alla sera sul lungomare illuminato e nella città storica accesa dal calore degli artisti di strada, con i quali ti senti subito in compagnia. Alla magia delle serate devo aggiungere però anche la bellezza delle sue case dallo stile art nouveau, da sempre viste nei libri di storia dell’arte, che nella realtà risultano ancora più affascinanti che in foto. Quello che ancora ad oggi, tuttavia, riesce a strapparmi un sorriso è il ricordo della vista panoramica che si ha dal punto più alto del parco Güell, situato su un promontorio, dal quale si ha una vista spettacolare dell’intera città fino alla sua costa”.
(G. classe seconda).

Gemme n° 63

E’ un video quello proposto da M. (classe quarta): “Penso siano parole e immagini importanti per chi attraversa l’adolescenza e si trova ad affrontare problemi di scuola, amore e amicizia”.

Le parole che mi vengono in mente alla fine di questo filmato sono esattamente quelle di Sergio Barbarén della gemma 61 🙂

Gemme n° 14

D. (classe terza) ha iniziato facendoci ascoltare “Guardastelle” di Bungaro.

Questa canzone non rappresenta il mio genere musicale ma mi ricorda i miei genitori: mio padre, che vedo due volte all’anno, e mia madre che ha qualche problema di salute. Poi ho scritto questa cosa, prof, ma vorrei che la leggesse lei per me:
Mi sono chiesta varie volte cosa fosse la vita. Che senso abbia essere al mondo.
La mia conclusione è che viviamo, beh, per vivere.
Trovo incredibile quanto difficile possa essere trovare un sinonimo della parola “vita”.
Gioia?
Amore?
Dio?
Come si potrebbe descrivere un concetto tanto immenso con solo quattro misere lettere?
La vita è colore.
Una scala infinita di rossi, di blu, che si uniscono al giallo, si confondono col nero e invocano il bianco.
Molti animali hanno una vista monocromatica, vedono tutto ciò che li circonda in un unico colore e non se ne rendono neanche conto; non possono neanche immaginare quante altre sfumature ci siano al mondo, e se neanche noi lo sapessimo?
Ci potrebbe essere un ulteriore gamma di colori che non possiamo percepire.
Noi siamo più fortunati, ma non per questo i migliori.
La vita è musica.
Un insieme di note e sinfonie.
Composizione di suoni dolci, suoni caldi, suoni acidi, suoni armonici e contrastanti.
Sospiri. Urla. Sussurri.
Un Mi Bemolle può far nascere un musicista.
Un arpeggio, e poi le scale.
Do.
Re.
Mi.
Fa.
Sol.
La.
Si.
E via avanti. Ci sono i Diesis, i Bemolle. Ma non è finita.
Ci sono un’infinità di chiavi nascoste di cui non conosciamo l’esistenza.
Dei mondi paralleli a cui ci sono stati sbarrati i confini.
La vita è sogno.
Attraverso il nostro cervello passano milioni di immagini mentre dormiamo, eppure ne ricordiamo solo un paio.
Desideri. Ricordi. I nostri peggiori incubi. In una sola notte.
Storie mai raccontate. Colline incantate. Fiabe mai scritte.
E vuoi dirmi che la chiameresti ancora così?
Quattro insulse lettere. Una parola.
No, è molto di più.
E’ un vortice di emozioni e sensazioni che aspettano di essere sentite, raccontate, amate.
E’ qualcosa di astratto, eppure così dannatamente concreto.
Qualcosa d’infinito, racchiuso in un infinito ancora più grande, che fa spazio all’immenso.
Vita. Che parola stupida, non credi?”
Riprendo delle parole della canzone proposta da D.: “Da qui, mi stacco da terra ad immaginare; da qui, chissà se c’è un mistero grande da scoprire; da qui, una libera preghiera per una pace da inventare. Ho fantasia e posso anche volare, la fantasia, lo sai ti fa volare”. Un gran bel volo ci ha fatto oggi, D. Eravamo in classe ma mentre leggevo le sue parole sentivo quelle pareti abbattersi e vedevo occhi e animi dei suoi compagni decollare e farsi un giro attraverso le ali che ci ha prestato.