Gemme n° 317

ilbuiooltrelasiepe

La mia gemma è un libro: “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Vi si affronta il tema del razzismo e della discriminazione negli Stati Uniti degli anni ’30, dal punto di vista di una ragazzina (Scout) figlia di un avvocato (Hatticus Finch) che deve difendere un uomo di colore innocente ma ritenuto colpevole. Lo stesso titolo fa riferimento a ciò che è sconosciuto ma comunque vicino. Abbiamo paura di quello che non conosciamo. Il libro fa riflettere: io non ho pregiudizi, ma vorrei riuscire a trasmettere questo modo di vedere la vita anche ad altre persone, anche a mio fratello. Siamo tutti uguali e non dobbiamo fare differenze o criticare gli altri”. Così si è espressa S. (classe terza).
Ho letto il libro la scorsa estate e mi è molto piaciuto. Riporto un dialogo:
“Vuoi dire che se non difendi quell’uomo, Jem e io potremmo non darti più retta?”
“Più o meno.”
“Perché?”
“Perché non potrei più pretenderlo da voi. Vedi Scout, a un avvocato succede almeno una volta nella sua carriera, proprio per la natura del suo lavoro, che un caso abbia ripercussione diretta sulla sua vita. Evidentemente è venuta la mia volta. Può darsi che a scuola tu senta parlare male di questa faccenda, ma se vuoi aiutarmi devi fare una cosa sola: tenere la testa alta e le mani a posto. Non badare a quello che ti dicono, non diventare il loro bersaglio. Cerca di batterti col cervello e non con i pugni, una volta tanto… È una buona testa, la tua, anche se è dura a imparare!”
“Atticus, vinceremo la causa?”
“No, tesoro.”
“Ma allora, perché…”
“Non è una buona ragione non cercare di vincere sol perché si è battuti in partenza,” disse Atticus.”

E un po’ più avanti si può trovare questa perla:
“Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta succede”.

Albini in Tanzania

albino2Sul numero di luglio/agosto di Nigrizia, ho trovato questo articolo sulla condizione delle persone albine in Tanzania. La penna è quella di Giorgio Brocco, dottorando presso l’Istituto di antropologia sociale e culturale della Freie Universität di Berlino.
Sisi, kama albino, watu wenye ulemavu wa ngozi, hapa nchini Tanzania, tuna matatizo mengi sasa kama muda wote!». «Noi, come albini, persone con albinismo, qui in Tanzania abbiamo molti problemi adesso e sempre!».
Queste le parole che uno dei responsabili dell’organizzazione delle persone con albinismo in Tanzania (Tanzania Albinism Society) ha pronunciato in un incontro all’ospedale Ocean Road Cancer Institute, a Dar es Salaam. Era marzo e il giorno prima aveva ricevuto la notizia di un altro, l’ennesimo, bambino con albinismo, nella regione di Geita, sottratto con violenza alla madre e barbaramente ucciso. Il suo corpo sarebbe stato trovato circa una settimana dopo in una fossa, con gli arti amputati. Dall’inizio del 2000, sono state registrate da parte delle autorità tanzaniane circa 76 uccisioni e più di 100 aggressioni ai danni di persone con albinismo nelle regioni dei Grandi Laghi (Mwanza, Shinyanga, Tabora, ecc.). Le ragioni di queste atrocità sono da rintracciare nella marginalizzazione sociale delle persone con albinismo e nel cosiddetto “mercato dell’occulto”, all’interno del quale è diffusa la credenza che gli arti e il sangue delle persone con albinismo possano dare ricchezza e fortuna ai cercatori di minerali, ai pescatori delle industrie limitrofe al Lago Vittoria e a facoltosi uomini d’affari tanzaniani. Per tali motivi, le persone con albinismo nutrono il timore che, in prossimità delle elezioni nazionali, che si terranno il prossimo 25 ottobre, le atrocità e gli omicidi a loro danno possano perpetrarsi nuovamente. L’albinismo è una condizione che si manifesta fenotipicamente attraverso l’ipopigmentazione della pelle, dei capelli e delle pupille. In Tanzania, nonostante non sia ancora stato condotto un censimento su scala nazionale, si ipotizza che la percentuale di persone con albinismo sia nettamente superiore alla media europea e statunitense: circa un individuo ogni 20mila. Il governo tanzaniano ha stimato – nell’ultimo censimento nazionale condotto nel 2012 – che la popolazione con albinismo sia composta da almeno
16mila individui, lo 0,04% sul totale di quasi 45 milioni di abitanti. Secondo altre fonti, tra cui la prestigiosa rivista Bmc Public Health Journal, vivrebbe nel paese circa una persona con albinismo ogni 4mila individui.
In Tanzania li chiamano comunemente zeruzeru (fantasma), dili (affare) e mzungu (europeo, persona dalla pelle bianca). Termini offensivi, testimonianza diretta dello stigma e della discriminazione di cui sono vittime. Una discriminazione che si perpetua da tempo per le strade delle città e dei villaggi tanzaniani. Ma che si manifesta anche a livello ufficiale. Un indice di ciò è presente nel vocabolario della lingua swahili (Kamusi ya Kiswahili Sanifu): zeruzeru, infatti, è indicato, insieme ad albino, come termine per designare le persone con albinismo. Il loro stare ai margini delle comunità, anche per ragioni economiche, ha contribuito al loro isolamento e rafforzato i pregiudizi. Fino a qualche anno fa, nei piccoli villaggi del distretto di Kilolo (regione di Iringa) era diffusa l’idea che l’albinismo fosse una maledizione (laana) inflitta dagli antenati o da Dio, per i misfatti compiuti in passato da uno dei membri, alla famiglia in cui era nato il bambino/a con la condizione congenita. Ancora oggi, una donna che partorisca anche solo un bambino con albinismo viene considerata dalla comunità, e in alcuni casi dal marito stesso, un essere malfermo (mtu mgonjwa) fino a quando non dà alla luce un individuo “sano”. In alcuni casi, il solo guardare una persona con albinismo, o mangiare il cibo confezionato da questa, si pensa che possa causare la nascita di prole con quel problema. E le discriminazioni accadono anche nelle grandi città, e non solo nei villaggi di campagna. A Dar es Salaam o a Iringa alcuni datori di lavori hanno deciso di non assumere persone con albinismo perché le considerano non all’altezza di svolgere semplici mansioni, e non dotate di elevate facoltà intellettive. Tuttavia, la città è più inclusiva e offre maggiori chance delle aree rurali. A migliorare la situazione anche i nuovi social media, Internet e le campagne di sensibilizzazione condotte da organizzazioni governative e non. Non è una caso che termini quali albino (albino) o mtu mwenye ulamavu wa ngozi (“persona con disabilità della pelle”) siano molti diffusi a Dar es Salaam o a Mwanza, rispetto ad altri luoghi.
albino1Dal 2008 a oggi, il governo ha preso molti provvedimenti per arginare il fenomeno delle uccisioni delle persone con albinismo. A seguito delle pressioni della comunità internazionale, il presidente Jakaya Kikwete, condannando le atrocità perpetrate nei confronti di questi, ha più volte affermato di volere organizzare una forza congiunta composta dall’esercito, dai membri di alcune organizzazioni di guaritori tradizionali (waganga wa jadi) per scovare i malfattori e gli “stregoni” che compiono tali barbarie nei confronti delle persone con albinismo. A marzo di quest’anno, è stata comminata la condanna a morte a quattro individui colpevoli di avere ucciso una bambina, e le liste nazionali di guaritori tradizionali sono state ulteriormente revisionate e aggiornate. La Tanzania Albinism Society (Tas) e la Under the Same Sun (Utss) – una ong cristiano-pentecostale fondata in Canada – sono molto attive, invece, nell’organizzare campagne di sensibilizzazione in tutto il paese. Il 13 giugno è la data scelta per celebrare il “Giorno internazionale dell’albinismo” ad Arusha, indetto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Inoltre, la Utss, fin dalla sua creazione nel 2008, ha elargito più di 320 borse di studio a persone con albinismo, prodigandosi per la distribuzione su larga scala delle creme solari, in collaborazione con il Kilimanjaro Christian Medical Center. La struttura sanitaria, fondata dalla Good Samaritan Foundation, dispone di un centro di dermatologia avanzato per la cura dei tumori della pelle e ha avviato un programma per confezionare creme solari in loco e distribuirle gratuitamente in tutto il paese. Anche le comunità cristiane e musulmane tanzaniane si sono sin da subito mobilitate per condannare il fenomeno degli omicidi commessi nella regione dei Grandi Laghi e per avviare programmi umanitari al fine di distribuire creme solari e medicine alla popolazione con albinismo. L’Esercito della salvezza, per esempio, distribuisce borse di studio agli studenti con albinismo di alcune scuole primarie nel distretto di Ilala, a Dar es Salaam; mentre la Muzdafarah Charity Organization, con l’aiuto dell’ambasciatore turco, ha avviato dal 2014 un programma per la distribuzione di creme solari e medicinali.”

Un punto fermo

Amo le storie delle persone. Sull’inserto Letture del Corriere della Sera di ieri c’era la vicenda di Rosa Parks raccontata da Paola Capriolo: merita di essere conosciuta.

rosa parks, discriminazione, stati uniti, martin luther king“Esiste, io credo, una semplicità del bene, che è l’esatto opposto di quella «banalità del male» della quale Hannah Arendt si è servita come di una chiave di lettura per comprendere la possibilità degli orrori nazisti; e forse nessuno ha incarnato questa semplicità in modo così esemplare come Rosa Parks. Semplice, Rosa lo era di origini e di condizione: una donna «di colore», cresciuta poveramente tra i campi di cotone dell’Alabama, che si guadagnava da vivere cucendo vestiti per un grande magazzino e, dopo il lavoro, militava nelle file della Naacp, l’associazione sorta per rivendicare i diritti dei neri americani, svolgendovi con modestia la «femminile» funzione di segretaria. Una modestia connaturata, che faceva tutt’uno con la sua fierezza indomabile e che l’avrebbe portata a subire quasi controvoglia la celebrità e il ruolo di eroina nazionale. Ma semplice soprattutto, di quell’ardua eppure disarmante semplicità che è il sigillo delle vere rivoluzioni, è il gesto con cui quella signora fragile e minuta arrivò a cambiare la storia del suo Paese.

Siamo negli Stati Uniti d’America, negli anni Cinquanta del Novecento. La schiavitù è stata abolita da quasi un secolo, eppure nel Sud della nazione domina ancora la discriminazione razziale. I neri sono cittadini come tutti gli altri e hanno il diritto di voto, ma per esercitarlo devono sottoporsi a un umiliante esame o trovare un bianco disposto a «garantire» per loro; la Costituzione li proclama uguali agli altri di fronte alla legge, ma in una terra dove il linciaggio è all’ordine del giorno nessun tribunale si è mai sognato di condannare un bianco per l’assassinio di un nero; da soldati, hanno combattuto come gli altri nella Seconda guerra mondiale, ma ai caduti di colore toccavano funerali, sepolture, persino colonne dei necrologi sui giornali, rigorosamente separati da quelli dei loro commilitoni bianchi, mentre quanti riuscivano a tornare a casa venivano aggrediti e malmenati dai fanatici razzisti se osavano mostrarsi in pubblico con la divisa dell’esercito americano. Nella vita di tutti i giorni, poi, la discriminazione si traduce in un minuzioso sistema di segregazione razziale, molto simile all’apartheid sudafricano: scuole, fontane pubbliche, ospedali sono rigidamente divisi tra quelli per i bianchi e quelli per i coloured; un nero non può entrare liberamente in qualsiasi bar e farsi servire una tazza di caffè, e la legge, per evitare ogni «contaminazione», gli proibisce addirittura di provarsi un vestito in un negozio. Ma la forma di segregazione più invisa agli afroamericani è quella in vigore sui mezzi pubblici, dove le prime file sono a uso esclusivo dei bianchi, mentre i neri possono occupare le ultime file, a loro riservate, oppure quelle intermedie, ma con l’obbligo di alzarsi su ordine del conducente per cedere il posto a un membro della «razza superiore» che non trovi da sedersi altrove.

Così andavano le cose negli Stati del Sud, questo era il trattamento al quale la gente di colore doveva assoggettarsi, finché, nel pomeriggio del 1° dicembre 1955, accadde qualcosa di inaspettato. Accadde che a Montgomery, capitale dell’Alabama, una sarta quarantaduenne di nome Rosa Parks, che come ogni giorno aveva preso l’autobus per rincasare dal lavoro, alla richiesta dell’autista di lasciare a un bianco il suo posto rispondesse: «No». Una parola semplice, addirittura un monosillabo; ma fu come se dietro quel «no» si radunassero a battaglia tutte le schiere degli angeli.

L’autista, sbalordito, ripete il suo ordine, ma lei rimane seduta. «Guarda», minaccia l’uomo, «che se non ti alzi ti faccio arrestare»; e Rosa risponde tranquillamente: «Sì, lei può farlo». Molti tra coloro che la conobbero affermano che quell’umile sarta aveva qualcosa di «regale», e proprio così, con la dignità di una regina, la immagino attendere l’arrivo della polizia e compiere il penoso tragitto verso il carcere. Non poteva aspettarsi niente di diverso, dato che il suo rifiuto di alzarsi equivale a un reato per la legge dell’Alabama. Rosa però è stanca: non, come dichiarerà in seguito, per la giornata faticosa, non per i piedi gonfi e la schiena indolenzita. È stanca di arrendersi, di chinare il capo di fronte all’ingiustizia, e nei giorni successivi, proprio grazie al suo caso, tutta la popolazione nera di Montgomery scopre di essere altrettanto stanca.

Per iniziativa di un gruppo di persone coraggiose, tra le quali un pastore battista ventiseienne di nome Martin Luther King, i neri decidono dunque di organizzare un boicottaggio: sugli autobus li si tratta in quel modo? Bene, allora andranno tutti a piedi. Ha inizio così una lotta che presto richiamerà l’attenzione dell’America, anzi, del mondo, suscitando intorno alla cittadina di Montgomery una straordinaria ondata di solidarietà: una lotta alla quale Rosa, rilasciata su cauzione, partecipa in prima fila, sia nei giorni che precedono il processo, sia dopo la sentenza di condanna che, «macchiandole» la fedina, la consacra per sempre al ruolo di «madre dei diritti civili». Nonostante gli espedienti più o meno legali escogitati dalle autorità per farlo cessare, nonostante intimidazioni e violenze di ogni specie, il boicottaggio si prolunga per tredici mesi, mandando quasi in fallimento la compagnia dei trasporti, e si conclude con una vittoria clamorosa: il 13 novembre 1956, dopo un lungo e travagliato iter legale, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sugli autobus, primo passo di un cammino che condurrà, sia pure a prezzo di molto sangue e di molte sofferenze, alla piena integrazione razziale e che forse non sarebbe stato possibile senza il coraggio e la fermezza di una donna. Come scrisse in seguito Martin Luther King, il gesto di Rosa è «un’espressione individuale di un anelito eterno alla dignità e alle libertà umane»; a inchiodarla a quel sedile furono «il cumulo di iniquità dei giorni passati e le sconfinate aspirazioni di generazioni non ancora nate»: aspirazioni tra le quali (perché no?) poteva esserci anche quella di vedere un nero insediarsi alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti d’America.

Rosa Parks non fece in tempo ad assistere a questo trionfale «lieto fine»: morì il 24 ottobre del 2005, tre anni prima dell’elezione di Obama, che da parlamentare tenne per lei un discorso commemorativo al Senato. Nel frattempo le toccò pagare caro il suo gesto, in conseguenza del quale perse il lavoro e fu bersagliata a tal punto da telefonate anonime e minacce di morte da essere costretta con il marito a cambiare città. Una vita difficile, quella dei giusti: una vita semplice in un mondo che, della semplicità, spesso non ne vuole sapere. Non credo che Rosa abbia mai pensato di aver compiuto un atto di eroismo; solo di aver fatto ciò che, in quelle circostanze, avrebbe dovuto fare chiunque. O per dirla con le sue parole: «Doveva esserci un punto d’arresto, e sembra che quello sia stato per me il punto in cui smettere di lasciarmi bistrattare e scoprire quali fossero, se mai ne avevo, i miei diritti di essere umano».”