Un papabile in saio e sandali

Prendo da Vatican Insider un articolo di Andrea Tornielli.

4277128451_ebd99b5ebc.jpg“C’è un «papabile» che ha già raggiunto Roma da qualche giorno. Indossa il saio dei cappuccini, il suo abito religioso, ha una figura imponente. È un uomo di preghiera, determinato, chiamato dieci anni fa a compiere un miracolo considerato impossibile: ridare credibilità alla Chiesa di Boston, sgretolata dallo scandalo pedofilia che aveva costretto alle dimissioni il cardinale Bernard Law. Ha un nome irlandese doc, Patrick O’Malley, è stato missionario nelle Isole Vergini, ha lavorato molto nell’assistenza alle comunità dei latinos statunitensi, è in prima fila nella difesa della vita. Il cardinale cappuccino non è un candidato che entrerà in conclave sostenuto da un consistente pacchetto di voti, come potrebbe invece accadere, con buona probabilità, per il canadese Marc Ouellet. È piuttosto un outsider, un candidato a sorpresa, su cui potrebbero puntare gli elettori dopo uno stallo nelle votazioni. L’arcivescovo di Boston unisce in qualche modo nella sua persona l’Europa e le due Americhe. Quando arrivò a Boston, un tempo roccaforte del cattolicesimo Usa, la diocesi era in ginocchio. I casi di molestie insabbiati, con i preti pedofili spostati da una parrocchia a un’altra, lasciati in condizione di ricominciare i loro abusi su nuove vittime. Una situazione disastrosa: calo di vocazioni, di frequenza alla messa, di credibilità. L’arcivescovo è arrivato senza clamore, con i sandali da frate. Ha cominciato ad ascoltare, ma anche a decidere. Ha avviato un cammino di purificazione e di risanamento, e ora la situazione di dieci anni fa è solo un brutto ricordo. I fedeli hanno ricominciato a tornare in chiesa, le vocazioni sono riprese.

Nato in Ohio, nel 1944, cresciuto in Pennsylvania, ha preso i voti a ventuno anni, entrando nell’ordine dei Frati Minori Cappuccini. Viene ordinato sacerdote nel 1970 e subito trasferito a Washington, nella capitale federale, dove insegna letteratura spagnola e portoghese all’università. Tre anni dopo dà vita a un’organizzazione di assistenza umanitaria per i latinos, i profughi e immigrati dell’America Latina, il «Centro Católico Hispano». Nel 1984 diventa vescovo nella diocesi di Saint Thomas, nelle Isole Vergini Americane. Nel 1992 è promosso a Fall River, in Massachusetts e nel 2002 passa alla guida della diocesi di Palm Beach, in Florida. Soltanto un anno dopo, Giovanni Paolo II lo invia a Boston. Si ritrova a dover fronteggiare una gran quantità di richieste di risarcimento da parte delle vittime degli abusi, e per pagarle mette in vendita l’episcopio, ritirandosi a vivere in una cella monastica. Combatte fino in fondo la pedofilia clericale e soprattutto ascolta le vittime. È lui ad accompagnarne alcune a Washington, nell’aprile 2008, all’incontro commovente con Benedetto XVI. È lui a consegnare nelle mani del Papa l’elenco contenente soltanto i nomi, senza i cognomi, di circa mille persone che hanno subito violenze sessuali da parte di esponenti del clero negli ultimi decenni, perché Ratzinger possa ricordarli nelle sue preghiere. È ancora lui a criticare l’entourage wojtyliano per la gestione del fenomeno negli ultimi anni del pontificato, quando Giovanni Paolo II era ormai ammalato.

Papa Ratzinger lo ha creato cardinale e lo ha annoverato tra i visitatori apostolici inviati in Irlanda per fare un rapporto su come le diocesi hanno trattato i casi di pedofilia. O’Malley, amico di molti porporati, dall’italiano Scola al latinoamericano Maradiaga, è sempre stato in prima fila anche nella difesa della vita e nella lotta all’aborto, e ha benedetto le manifestazioni dei cattolici contrari ai matrimoni gay. Cardinale dalla spiritualità profonda e dallo spiccato umorismo, ha dimostrato sul campo quella capacità di governo che molti elettori oggi ritengono indispensabile per il nuovo Papa chiamato a rimettere ordine nella Curia. Se i cardinali lo scegliessero, sarebbe il primo Papa con la barba dopo Innocenzo XII, morto 213 anni fa.”

Il pensiero di Messori

Pubblico l’eterno articolo di Vittorio Messori sul Corriere con l’angoscia nel cuore, vaticano.jpgsensazione che sempre mi accompagna quando leggo le sue grigie parole: “Dicono che non sia stato in Sicilia, bensì a Torbole, sul lago di Garda, che a Goethe eruppero dall’anima i versi famosi: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni (…) dove una mite brezza spira dal cielo luminoso?». Il mattino di lunedì 11 febbraio, pensavo un po’ ironico a Goethe – e a qualche talebano del «riscaldamento globale» -, guardando dalla finestra del mio studio, nella millenaria abbazia benedettina, la neve che scendeva sugli olivi, i cipressi, gli allori. Quello non era – per la Chiesa intera, tanto meno per me – un giorno come gli altri: la liturgia ricordava la prima apparizione della Vergine Immacolata, a Lourdes, a una piccola, miserabile analfabeta, figlia di un mugnaio fallito che aveva conosciuto anche la prigione. Il Dio del Vangelo frequenta volentieri i poveri, gli ignoranti, i disprezzati. Pregustavo la giornata tenuta sgombra da ogni impegno esterno, mi godevo la prospettiva della solitudine, fasciata per giunta dal silenzio del manto nevoso ormai alto. Contavo, infatti, di continuare – guarda caso – la stesura di un secondo libro su Lourdes, dopo quello su Bernadette pubblicato pochi mesi fa. Quale giornata più propizia di un 11 febbraio?

A un tratto, ecco il telefono portatile, il solo legame con il mondo che abbia ammesso nell’abbazia. Era mia moglie, sconcertata: «Sullo schermo tv è apparsa una scritta, dice che il Papa ha annunciato le dimissioni!». Lo confesso: sulle prime pensai alla goliardata di hacker che si fossero inseriti sulle frequenze televisive. Non ero solo nel dubitare: in quegli stessi momenti, nei cinque continenti, 117 cardinali, compresi i più vicini a Benedetto XVI, erano increduli davanti alla prospettiva di dover presto partecipare a un Conclave. Chiusi la chiamata, chiedendo ovviamente di informarmi in caso di improbabile conferma. Ma non ne ebbi bisogno: il cellulare cominciò a suonare e non cessò per un paio di giorni e di notti; quando (con fatica, la neve continuava a cadere) raggiunsi la casa, al trillo del portatile si aggiunse lo squillo incessante della linea fissa e il computer cominciò a scaricare senza sosta messaggi dal mondo intero che chiedevano interviste, interventi, articoli al cronista di cui era nota la lunga vicinanza a Joseph Ratzinger e la conoscenza, solidale, del suo pensiero.

Perché raccontare questo? Perché un cedimento alla testimonianza personale? Ma perché io stesso fui colpito dall’immediato, travolgente, planetario tsunami mediatico provocato da poche parole in latino lette a sorpresa, a voce bassa, quasi fossero di routine, da un vecchio, circondato da altri vecchi, in una ancor più vecchia e inaccessibile Sala vaticana. Un ciclone che raggiunse all’istante tutti; e me pure, isolato tra la neve in un angolo di provincia, sconvolgendomi ogni programma. Cliccando, nell’elenco dei «preferiti», sul sito delle maggiori testate del mondo, constatavo lo straordinario rilievo dato al Pope resigning from his charge , modulato in ogni lingua. È in casi come questi che si manifesta un paradosso singolare: alla diminuzione progressiva, in atto da decenni, del numero dei praticanti cattolici (almeno in Occidente) e della influenza sociale, morale, politica della Chiesa romana, sembra corrispondere un aumento dell’interesse per essa, per le sue vicende, per il suo Pontefice. Alla pari dei grandi media internazionali, anche le nuove testate nate sul web non rinunciano a un «vaticanista» o, almeno, a qualche esperto non tanto in questioni religiose ma, specificamente, cattoliche. Avrebbero avuto il successo che sappiamo i romanzetti di Dan Brown e dei suoi ormai infiniti imitatori se non avessero come sfondo la Chiesa, proprio quella che ha il suo centro in Vaticano? Una Chiesa, per giunta, non come residuato archeologico, come pittoresco set storico, sul tipo dell’abbazia di Umberto Eco, ma ben viva, presente, intrigante. Magari imbrogliona o, addirittura, assassina: ma, anche per questo, pericolosa perché ancora potente. L’immagine, anche se così spesso deformata, della Catholica et Apostolica affascina o inquieta l’immaginario dell’umanità. E il suo Capo in veste bianca è la sola autorità morale ascoltata ovunque e comunque: per accettare o per rifiutare, per amare o per detestare.”

Eppure, suona ormai beffardo l’aggettivo «cattolicissima», abbinato per secoli alla Spagna, all’Irlanda, all’Austria; e, tra un poco, forse non sarà più adatto neppure alla Polonia, che sembra volere recuperare a grandi passi il «ritardo» verso il laicismo liberal. Sono ormai multisale cinematografiche, outlet, studi di architetti, sale da gioco o, in qualche caso, sex-shop buona parte delle chiese dell’Olanda, un tempo per metà cattolica e famosa per il fervore devoto. Proprio nei Paesi Bassi vi è un gigantesco magazzino che è una sorta di segno concreto – ed è crudele, per un credente, visitarne il sito Internet – della débâcle cattolica, non solo nell’Europa nordica, ma nel continente intero: quei capannoni sono un ammasso (svenduto a prezzi stracciati, vista l’esiguità della domanda) del contenuto dei luoghi di culto abbandonati o trasformati. È un cumulo tragico di statue, di quadri edificanti, di Viae Crucis, di tabernacoli, di campane e campanelli, di vasche battesimali, di interi altari, di ostensori, di candelabri, di confessionali, di inginocchiatoi, di vetrate, di mobili da sagrestia, di abiti liturgici. A improbabili acquirenti si propongono persino le venerate reliquie di santi, racchiuse in artistiche cornici. Una discarica, insomma, per tutto ciò che fu «cattolico», dove i clienti pare siano scenografi cinematografici e teatrali o arredatori eccentrici in cerca del pezzo per qualche abbinamento blasfemo per bar, discoteche, garçonnière . Non a caso colui che ha avuto l’idea di quel deposito ha scelto un nome latino per il suo commercio: Fluminalis. Come un fiume, cioè, che porta via i detriti del Cattolicesimo. Anche se resta da chiedersi se si tratta davvero della fine del o di un Cattolicesimo; del congedo di una fede o solo dell’esaurimento di un modo di devozione legato a un tempo ormai finito.

Ma che Chiesa è, davvero, questa che per otto anni Benedetto XVI ha presieduto e al cui peso, unito a quello dell’età, ha infine ceduto? Cos’è, oggi, quella Chiesa cattolica, apostolica, romana che sarà «guidata» (il verbo sembra forse, nella situazione attuale, un po’ pretenzioso) da colui che uscirà dal Conclave di marzo? Lo spazio ci obbliga solo a qualche pennellata, a qualche sprazzo della situazione oggettiva: ben altro respiro occorrerebbe per un quadro completo. Un quadro che – sia ben chiaro – non ha soltanto i punti di crisi cui qui accenniamo ma che presenta anche non pochi aspetti positivi, luoghi di resistenza, solidi rinnovamenti, motivi fondati di speranza. La natura duplice, al contempo umana e divina della Chiesa (a immagine del suo Signore: Dio e uomo; crocifisso e risorto), fa sì che sempre, nei secoli, sia parsa sofferente se non agonizzante; e sempre fosse, al contempo, brulicante di vita, anche se talvolta visibile solo agli occhi della fede. Un’energia vitale capace di manifestarsi e di rianimarla anche al fondo delle crisi peggiori. Mai, pure nei secoli più bui, mai questa Chiesa ha smesso di essere madre di santi, mai le sono mancati – malgrado tutto – uomini e donne che del Vangelo hanno fatto carne e sangue della loro vita. Papa Borgia è contemporaneo del più penitente e austero dei santi, Francesco da Paola, che da quel Pontefice simbolo della maggior decadenza ecclesiale fu stimato e ne ebbe approvata la durissima Regola. Tempeste che sembrarono segnare la fine, come quelle che seguirono la Riforma o la Rivoluzione francese, l’Era napoleonica, l’occupazione italiana di Roma, furono superate più che dal valore di gerarchi e fedeli dall’apparizione imprevedibile di una schiera di santi. Lo studioso serio sa che occorre grande prudenza nel giudicare quella che è la più antica, la più vasta, la più variegata istituzione della Storia: c’era già quando l’Impero romano era al suo apogeo, la sua vicenda ha attraversato venti secoli, ha visto sorgere e morire tutti i regni e svanire tutti i potenti e, malgrado tutto, è giunta sino a noi, non ha alcuna intenzione di congedarsi dal mondo. Il suo popolo e i suoi pastori – cardinali e vescovi – appartengono a tutte le stirpi e a tutte le culture, come non avviene in nessuna parte, altrove. Ultimo Stato teocratico, ultima Monarchia assoluta, è al contempo il luogo più democratico: ogni seminarista, per povero e oscuro che sia, sa che avrà nella sua bisaccia di sacerdote un possibile pastorale da Papa o almeno da cardinale o vescovo. Il più oscuro dei battezzati ha – all’interno delle sue mura spirituali – i diritti e i doveri del più potente o ricco della Terra intera. Anzi, nell’ottica che qui solo vale, è la sua la posizione privilegiata. L’ultima tra gli ultimi, quella Bernadette ignorante, malata, miserabile di cui stavo scrivendo quel mattino, avrà la gloria degli altari, ritratti venerati nel mondo intero, una statua in marmo nella navata stessa di San Pietro, pellegrinaggi ininterrotti alla sua tomba di Nevers.

Sia chiaro, dunque: le «sfumature di grigio» che qui elenchiamo, con realismo doveroso, convivono con ampi spazi dai quali filtra la luce. Non dimentichiamo ciò che proprio Benedetto XVI ci ha ricordato, anche con il suo congedo: solo chi non comprenda che la Chiesa non è nostra ma del Cristo, può preoccuparsi per essa, per il suo futuro. Ai fedeli, Papa compreso, non è chiesto che fare, ciascuno al suo posto, il proprio dovere: il resto non è affare degli uomini. La barca, in ogni caso, giungerà al porto della fine della storia, anche fosse ridotta a una misera zattera carica solo di povera gente. Non potendo allargarci al mondo intero, concentriamoci, come abbiamo cominciato qui sopra, sull’Europa che, malgrado tutto, resta e resterà il centro, e non solo perché il Papa è il vescovo di Roma. Le comunità cattoliche di ogni altro Continente sono tutte sue figlie, sono state fondate da missionari spagnoli, portoghesi, francesi, olandesi, austriaci, bavaresi, italiani e ne portano ancora il segno indelebile. E, pure oggi, malgrado il baricentro numerico dei battezzati si sia spostato oltre l’Atlantico, è dall’Europa che giungono gli orientamenti, anche culturali, per la Chiesa intera. Solo qualche semplice può credere, ad esempio, che la più nota delle teologie «esotiche», quella detta «della liberazione», sia nata dalla sofferenza e dall’anelito degli sfruttati nell’America che parla spagnolo e portoghese. In realtà, è stata elaborata nei laboratori teologici di Francia e di Germania, con un robusto apporto olandese: dunque dagli stessi uomini e dagli stessi circoli che hanno ispirato e guidato, nei fatti, il Vaticano II. Concilio, più che dei vescovi, dei teologi. Tutti europei. La stessa superpotenza economica e militare degli Stati Uniti non ha dato finora alla cattolicità alcun santo davvero popolare né al pensiero ecclesiale uno spunto originale, se non quell’«americanismo», applicazione un po’ naïf del pragmatismo yankee al Vangelo, che Leone XIII si affrettò a condannare nel 1899.

Per quanto è dunque dell’Europa, umbilicus Ecclesiae , la situazione non sembra, umanamente, rassicurante: la diminuzione, spesso l’azzeramento delle vocazioni al sacerdozio secolare potrà dissolvere a breve buona parte della millenaria rete delle diocesi e delle parrocchie, per mancanza di personale ecclesiastico. Già ora, in Francia, nell’area germanica e altrove, gli accorpamenti sono la norma, ma bastano sempre meno. Quanto alle vocazioni alla vita religiosa, molte congregazioni (soprattutto femminili, ma non solo) sono destinate statisticamente all’estinzione: sul mercato delle vendite immobiliari di Roma stanno riversandosi le sedi, spesso imponenti, delle Case Generalizie ormai deserte. I collegi che furono per i novizi sono trasformati in ricoveri per i religiosi anziani e malati: molte congregazioni stipulano patti per unire i loro invalidi, non avendo più né personale né fondi sufficienti per fare da sole. La speranza di riempire i vuoti europei con i giovani e le giovani africani ed asiatici si è rivelata spesso illusoria o, almeno, eccessiva. Troppe le differenze culturali, troppa la distanza di mentalità, troppe le motivazioni sospette nell’ingresso in seminari ed istituti. Non sono certo solide tante «vocazioni» terzomondiali determinate (come un tempo nell’Europa delle campagne miserabili) da ragioni di sopravvivenza o da ricerca di elevazione sociale. Non tutti i casi, grazie a Dio, finiscono come quello di mons. Milingo, il presule nero che tante simpatie e speranze aveva suscitato; non mancano le buone riuscite, ma molto al disotto – almeno per quantità – di quanto vescovi diocesani e Superiori Generali delle Congregazioni avevano atteso. Quanto ai laici, l’abbandono in massa della pratica anche solo domenicale, per alcuni ha portato all’indifferenza e alla lontananza, per altri si è trasformato in ostilità, tanto da spingere i sociologi a coniare un triste neologismo: «cristianofobia». Nessuno è più rancoroso di un «ex» deluso. Malgrado l’alternarsi di destre e di sinistre nei vari governi europei, un trend storico che sembra per ora inarrestabile porta a costumi morali, prima o poi riconosciuti dalle leggi statuali, che contrastano frontalmente l’etica cattolica. E, questo, anche tra gli ancora praticanti, tanto che qualcuno ha parlato di uno «scisma silenzioso»: una pratica di vita, cioè, che non tiene alcun conto (pur senza proclamazioni e, a quel che pare, senza crisi di coscienza) dei precetti ecclesiali. Chi, oggi, pur tra coloro che si definiscono cattolici e che si accostano ai sacramenti, chi penserebbe a escludere dalla sua vita coniugale gli anticoncezionali; o a distogliere il parente divorziato dal risposarsi; o ad ammonire l’amico gay praticante; o a vietare alla figlia i rapporti sessuali con il compagno; o a dissuadere le coppie dalle convivenze, esortando alle nozze. Pare che forti desistenze si verifichino pure per aborto ed eutanasia. Il praticante cattolico medio europeo sembra coincidere, nella prassi morale, col laico medio della postmodernità, senza differenze rilevanti.

I sacerdoti: sia diocesani che religiosi. Non si creda (lo hanno denunciato più volte tanto Benedetto XVI quanto Giovanni Paolo II, ma le messe in guardia cominciarono con Paolo VI) che l’insegnamento di teologi e biblisti, nei seminari superstiti e negli atenei che pur si dicono «cattolici», sia sempre rispettoso delle indicazioni che vengono da Roma. Al clero che ne esce manca spesso, più ancora che le nozioni, quella che i tedeschi – ancora al tempo della gioventù di Joseph Ratzinger – chiamavano die Katholischeweltanschauung , la prospettiva, il punto di vista cattolico. Non di rado l’ottica di certo clero e di certa stampa confessionale sembra essere quella della ideologia egemone del momento: per più di vent’anni dopo il Vaticano II fu l’impasto – con dosi diverse a seconda dei luoghi e dei teologi – tra Cristianesimo e marxismo. Ora, si è largamente infiltrato il relativismo liberal, il liberalismo etico, soprattutto la political correctness , questa ideologia diabolica perché dalle apparenze quasi cristiane ma fondata su ciò che il Cristo più detesta: l’ipocrisia, l’eufemismo ruffiano, la manipolazione delle parole per nascondere la realtà nella sua verità. A proposito di clero, di disciplina, di quella che fu un tempo la virtù dell’obbedienza: prendiamo un aspetto che sembra minore – quello dell’abito ecclesiastico – ma che ha in realtà un significato esemplare. Il nuovo Codice di diritto canonico, riscritto secondo le indicazioni del Vaticano II, recita, al canone 284: «I chierici secolari portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale del luogo». E, per i membri di ordini e congregazioni, prescrive al 669: «I religiosi portino l’abito dell’istituto, fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà». Il Concilio stesso aveva ammonito di non abbandonare questo «segno» di consacrazione sul quale, tra l’altro, Giovanni XXIII era rigorosissimo, imponendo al suo clero, nel Sinodo Romano che precedette il Vaticano II, la sola talare nera dai molti bottoni e vietando persino il clergyman. Ebbene: prima Paolo VI, poi Giovanni Paolo II, infine Benedetto XVI hanno moltiplicato le esortazioni, gli inviti, gli ordini, i rimbrotti, ma il risultato è sempre l’armata Brancaleone dei sacerdoti (vescovi, non di rado, compresi) abbigliati ciascuno secondo l’estro proprio. Dal completo da manager, al giubbotto da metalmeccanico, sino agli stracci ben studiati da clochard-filosofo: comunque, sempre indistinguibili dai laici. La raccomandazione di un Concilio Ecumenico e le ripetute disposizioni disciplinari di quattro Papi non sono riuscite ad ottenere alcun ascolto, spesso neppure dalla gerarchia episcopale. La questione sembra secondaria, ma non lo è: dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia, vi è la negazione protestante di un sacerdozio «sacrale», che distingua il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato «diverso», «a parte». Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come «atleta di Dio» (l’immagine è di san Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì uomo come gli altri, distinto semmai solo dal maggiore impegno sociopolitico.

Vi è qui la maggiore, forse, delle attuali deformazioni, insidiosa in quanto apparentemente meritoria: la Chiesa, cioè, come la maggiore delle ong, una organizzazione di volontari, di filantropi dediti a soccorrere coloro che sono bisognosi di assistenza materiale e, al contempo, a denunciare con toni profetici ingiustizie, disparità, violazione dei diritti umani. Preti e suore come militanti sociali e come sindacalisti, uniti nella lotta, senza differenze di religione, a ogni uomo di buona volontà. Nobile ideale, va riconosciuto. Ma che a un cristiano non può bastare. In questo pur generoso darsi da fare solo umano vi è un rovesciamento radicale della prospettiva di fede: il «Cristianesimo secondario» – quello dell’impegno sociale e politico – non può, non deve essere anteposto a quello «primario». Che è l’annuncio del Vangelo della salvezza eterna, è la «carità della verità» prima ancora di quella (pur benemerita, ma derivata) del pane, l’amministrazione dei sacramenti che sorreggano nella fede e conducano verso la meta al di là della morte, la preghiera individuale ma pure quella, pubblica, incessante, ogni giorno rinnovata, della liturgia. La fede senza esitazione nella verità del Vangelo e l’annuncio di esso ai fratelli (il kérygma) è il prius, la carità materiale non è che la conseguenza doverosa, istintiva ma subordinata, all’annuncio che «Gesù è il Cristo». Quel rinnovato Codice canonico che dicevamo, questa raccolta delle leggi che reggono l’istituzione ecclesiale, riporta alla fine il fondamento di sempre, la ragion stessa di essere della Comunità cristiana: Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto , suprema legge della Chiesa (e di ogni uomo di Chiesa) sia la salvezza delle anime. La Chiesa esiste per questo: per annunciare la Vita oltre la vita e per accompagnare gli uomini verso questo traguardo finale. Non è spiritualismo disincarnato, al contrario: è consapevolezza della parola del Cristo, per il quale «non di solo pane vive l’uomo» e per il quale non vi è vita umana senza una prospettiva di eternità. Quel Gesù che predicava la Parola che salva e poi, ma soltanto poi, dopo aver nutrito le anime, le menti, i cuori, pensava ai pani e ai pesci per sfamare anche i corpi. Quel Gesù che guardò con affetto grato Marta che si affaccendava per la casa «tutta presa da molti servizi», come scrive Luca. Ma che le ricordò che era la sorella, Maria, accoccolata in silenzio ai suoi piedi, che «aveva scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta». La parte, cioè, di chi dà il primo posto all’ascolto della Parola di Dio, alla meditazione, alla preghiera, che è il lavoro più prezioso anche socialmente, benché i suoi effetti concreti spesso sfuggano alla nostra miopia. Non a caso la Chiesa ha sempre approvato, incoraggiato, benedetto le famiglie religiose di «vita attiva», dedite soprattutto alla carità corporale. Ma ha sempre considerato più alte – dunque, più rare – le vocazioni alla «vita contemplativa», nel silenzio e nel nascondimento del chiostro. Concetti che furono elementari, per un cattolico. Eppure, sembrano sfuggire a tanti, tra i fedeli stessi. Non a caso Benedetto XVI ci ha ridato un esempio: nel suo desiderio di continuare a servire la Chiesa, ha scelto il ministero della preghiera nella solitudine e nel silenzio, cioè l’impegno più concreto, che però solo la fede può comprendere.

Ma che dovrebbe fare il Papa che uscirà dal prossimo Conclave, alla luce di quei nodi di crisi che si è cercato di indicare, seppur solo con pochi, pochissimi esempi? Noi non siamo Hans Küng che da decenni si è nominato anti-Papa e che, in un’intervista di questi giorni, sfidava il grottesco: plaudiva infatti allo svecchiamento della Chiesa, voleva che gli anziani si togliessero di torno, diceva che il suo già collega Ratzinger aveva aspettato troppo ad andarsene. Non ricordava al lettore, però, che, con i suoi 85 anni, è coetaneo di Benedetto XVI (soltanto pochi mesi in meno), eppur nulla intende mollare degli incarichi raggiunti. In pensione vadano i Papi, che diamine, non gli anti-Papi! Ma noi non siamo Küng, soprattutto perché ci pare da delirio egocentrico, da rinnegamento di ogni prospettiva cristiana la risposta alla domanda «Che cosa si aspetta dal prossimo Conclave?». Risposta che così, purtroppo, suona: «Il Conclave potrà dare un impulso solo se i cardinali accetteranno l’analisi esposta nel mio libro Salviamo la Chiesa ». Poiché, come si sa, in una prospettiva di fede è lo Spirito Santo a ispirare gli elettori nella Sistina, il Paraclito dovrà sbrigarsi: occorre procurarsi quel libro e studiarselo bene per indirizzare i cardinali non come Dio, ma come il professor Küng comanda. Lo Spirito, in Conclave, non è che un tramite del Messaggio redentore, quello che sta nelle tavole bronzee, incise in caratteri gotici, di Salviamo la Chiesa vergate da colui cui fu vietato di dirsi «teologo cattolico».

Prendendoci, come doveroso, assai meno sul serio, noi crediamo che la Chiesa, Corpo stesso di Cristo, Sua proprietà esclusiva, sia già salvata, senza bisogno delle nostre analisi e dei nostri libri che, semmai, rischiano di irrigidire in un morto schema ideologico l’abbondanza di vita del Vangelo. «Il mio programma è di non averne», disse giustamente Benedetto XVI nel discorso di inizio del pontificato. Se è lecito, tuttavia, un auspicio, è che il Papa che uscirà dal prossimo Conclave si ponga come prioritario un impegno. Quello che mi riassunse, in una intervista che fece rumore, Hans Urs von Balthasar, tra i maggiori teologi del secolo scorso, cardinale mancato solo per la morte improvvisa. Mi disse: «Tout d’abord, il faut remettre le christianisme debout», innanzitutto bisogna rimettere il Cristianesimo in piedi. Occorre, cioè, rimetterlo dritto sulla base in roccia della fede: una fede salda, come fonte originaria e primaria, da cui tutto derivi. Continuando, in questo modo, il lavoro di colui che ora lascia il pontificato. In effetti, l’eredità più significativa che Benedetto XVI ci lascia è quell’Anno della fede, per il quale ci ha dato anche il testo di riferimento: quei tre libretti, apparentemente divulgativi, in realtà calibrati parola per parola, frutto di una vita intera di riflessione, che ci mostrano come Gesù sia il protagonista di una storia vera, non di un oscuro mito giudaico-ellenistico. Da docente prima e poi da vescovo, poi da Prefetto della Dottrina della Fede, infine da Papa, Joseph Ratzinger ha voluto sempre e solo darci testimonianza che prendere sul serio i Vangeli, scommettere sulla loro verità la nostra vita e la nostra morte è ancora possibile, non è ingenuità o carenza di informazione. Credere che Gesù è davvero il Cristo può farlo anche lo specialista più informato, più smaliziato (come Ratzinger è) quanto alle esegesi e alle teologie più recenti. Insomma, per dirla alla svelta: confermare il popolo di Dio che le chrétien n’est pas un crétin. Ha scritto nel testo di indizione per l’Anno della Fede: «Capita ormai che i cristiani si diano preoccupazione quasi esclusiva per le conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, pensando ad essa come a un presupposto ovvio. Ma simile presupposto di una fede salda è, purtroppo, sempre più spesso illusorio».

Ecco – pur convinti che la scelta della Sistina sarà comunque la migliore, se i venerandi elettori si riterranno solo gli strumenti di Qualcuno che li sovrasta – ecco, il nostro auspicio è per un Papa consapevole che la Chiesa non ha che un problema: confermarsi e confermarci nella fede, tornare a recitare il Credo con convinzione, rafforzare (anche con la riscoperta di un’apologetica adeguata) le ragioni per credere. Il resto seguirà da sé e tanti nodi si scioglieranno. La sola vera, preoccupante crisi ecclesiale è consistita, in questi decenni, nell’affievolirsi della certezza nella Speranza che il Vangelo ci annuncia. Papa Ratzinger ne era ben consapevole, alla pari di Papa Wojtyla. L’augurio è che il loro Successore, chiunque sia, ne sia altrettanto convinto.”

Estratti

Alcuni estratti di articoli presi da Vatican Insider:

f11841167e.jpgScrive la biblista Marinella Perroni: “… Sul futuro pontefice non può non colpire però che, se in passato questa discussione teneva conto di carriere ecclesiastiche e posizioni dottrinali, oggi è diventato determinante anche il connotato della provenienza etnica. La chiesa cattolico-romana è cambiata: non è più eurocentrica o, spingendo ancora più in avanti la prospettiva, è ormai post-coloniale e assolutamente global. Mentre i media hanno gioco a insistere su un toto-papa la gente si chiede “davvero il nuovo papa potrà essere africano?”. Non faccio pronostici. Ragioni su due realtà. La prima è che l’establishment cattolico comincia il giorno stesso dell’elezione di un papa a pensare al suo successore. Su questo regna un “extra omnes” che supera abbondantemente le regole dei conclavi dato che i fedeli ne sono del tutto esclusi, mentre teologi e storici cercano di decriptare parole e, soprattutto, silenzi che possano in qualche modo comporsi in una trama che abbia un senso di fronte all’imminenza di una nuova elezione. La seconda è che la distanza tra i sistemi di governo e la realtà della vita è oggi inequivocabile, forse inevitabile, a volte quanto mai perniciosa. Il discorso di Benedetto XVI ha messo in chiaro la questione cruciale che attanaglia oggi il papato e attiene al governo della chiesa. I due pontificati che abbiamo ormai alle spalle di Woytjla e Ratzinger, solo in parte tra loro diversi, ne sono entrambi testimonianza evidente.”

Scrive Roberto Repole: “… Il suo successore … sarà chiamato a guidare la Chiesa a ritrovare nella fede il motivo più profondo della sua esistenza. E dovrà soprattutto orientare i cristiani a mettere a disposizione tutte le energie spirituali e intellettuali di cui dispongono per testimoniare che il cristianesimo è realmente vivibile anche oggi; e che il Dio di Gesù non è solo alleato dell’uomo in genere, ma anche dell’uomo moderno, che ha riscoperto come valori irrinunciabili la sua ragione critica e, soprattutto, la sua libertà. Come annunciare Dio in questo nostro mondo dovrà essere pertanto preoccupazione centrale del papa e della Chiesa dei prossimi anni. Ma perché ciò avvenga il nuovo papa sarà chiamato a favorire il più possibile tutti i luoghi di dialogo, di confronto e di apporto delle competenze su cui la comunità cristiana può contare, a diversi livelli. Le questioni che la modernità consegna sono, infatti, sempre più complesse. E solo una Chiesa sinodale, che imbocchi con coraggio la via del “cammino insieme” potrà tenere il passo, in modo attivo e profetico, di questa complessità. Per non dire che solo una Chiesa così, dove tutti si sentono davvero fratelli, responsabili e al tempo stesso bisognosi degli altri, potrà annunciare – con la sua stessa esistenza – che Dio non è una minaccia delle nostre potenzialità, ma le fa davvero fiorire ed esprimere. Infine, al futuro papa spetterà il grande compito di spronare la Chiesa ad essere nei fatti sempre più cattolica e, dunque, sempre più capace di abitare con senso critico tutte le culture. Un illustre teologo dell’altro secolo, Rahner, disse che al Vaticano II la Chiesa per la prima volta si scoprì mondiale. Quella scoperta chiede oggi di diventare coscienza comune. Il che implica, tra l’altro, che i cristiani non abbiano timore di dialogare, in qualunque posto del mondo si trovino a vivere, con le culture in cui sono immersi e con gli uomini insieme ai quali camminano.”

Infine uno sguardo a un po’ di stampa straniera: “In Gran Bretagna THE OBSERVER, il settimanale del quotidiano The Guardian, titola «Con l’Africa che cresce, l’Europa perde presa sulla base cattolica», evidenziando come, ormai, «il cattolicesimo europeo sia sotto minaccia» e il fatto che «candidati africani o latinoamericani possano emergere, può rappresentare un momento storico per la Chiesa». E «un Papa nero», scrive ancora il foglio britannico, sulla scia di diverse culture africane secondo le quali «un uomo senza una donna, dopo una certa età, porta a sospetti e perdita di autorità», potrebbe spingere anche una «riforma non tradizionale» sul celibato sacerdotale. In Francia LES ECHOS torna sul gesto del Papa e titola «Benedetto XVI, un leader del XXI secolo?» osservando come, «in un’istituzione che si caratterizza necessariamente per il non adeguarsi al mondo secolare, l’annuncio di Benedetto XVI è forse una bella lezione di leadership». Di tono diverso l’analisi de LE MONDE, che in un articolo intitolato «Critiche e incomprensioni nella Chiesa cattolica» ricorda come, privatamente, «diversi religiosi, vescovi e cardinali restino sotto choc per la decisione, con la quale non concordano». In Germania diversi quotidiani sottolineano l’attesa di una Roma «gremita» per il «penultimo» Angelus del pontefice, mentre la BILD, titolando «Come procedere dopo Benedetto?», cita il parere di quattro vescovi tedeschi secondo i quali il successore dovrebbe essere «autentico» e «dal respiro internazionale». SPIEGEL ONLINE titola infine «Il Vaticano vuole eleggere il Papa» evidenziando la possibilità che il Conclave sia anticipato. In Spagna EL MUNDO si concentra sulle «sfide che attendono il nuovo Papa» citando, tra le principali, «l’ordinazione delle donne, la democrazia ecclesiale e il recupero della credibilità sociale» dopo lo scandalo pedofilia. EL PAIS torna invece sulla nomina di Ernst von Freyberg a capo dello Ior e in commento intitolato «L’ultima battaglia di Benedetto XVI», sottolinea come questa sia l’atto finale di «una guerra di potere portata fino al limite stesso delle dimissioni: la designazione di von Freyberg rivela come l’ultima decisione di Ratzinger sia stata togliere le chiavi della cassaforte vaticana al suo fraterno nemico Tarcisio Bertone». Oltreoceano, «Gli elettori studiano una rosa di candidati» è il titolo con cui il NEW YORK TIMES sottolinea come i membri del Conclave stiano «silenziosamente» vagliando «da anni» i papabili, costruendosi opinioni che «potrebbero influenzare il processo molto intuitivo, spesso imprevedibile» della nomina del pontefice. Il WASHINGTON POST, in un lungo articolo, torna infine su Vatileaks evidenziando come i documenti «abbiano mostrato un Vaticano diviso e pieno di rivalità». E il nuovo Papa «erediterà una gerontocrazia ossessionata dalla politica italiana, disinteressata alla gestione delle attività di base e ostile alle riforme», conclude il foglio statunitense.

Infografica sul conclave

Molto interessante:

http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/come-si-elegge-il-papa/

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Le attese del Centro e Sud America

Maurizio Stefanini è giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Liberal, L’Occidentale, Limes, Longitude, Theorema, Risk, Agi Energia. Su Limes ha scritto questo articolo sulle ipotetiche aspettative latino-americane sul conclave.

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“L’America Latina ha il 42% dei fedeli cattolici di tutto il mondo: mezzo miliardo su un totale di 1,2 miliardi. Questa maggioranza relativa diventa però minoranza in conclave, con appena 19 cardinali su 117, contro i 62 europei, anche se in Europa vive oggi solo il 25% di tutti i cattolici. Benedetto XVI è stato – dopo Giovanni Paolo II, che vi è passato ben 18 volte – il secondo papa nella storia a viaggiare in America Latina. In precedenza, a essere fiscali, c’era stato anche Pio IX, ma prima di diventare papa: quando ancor giovane sacerdote fu in Cile tra luglio 1823 e giugno 1825 come membro di quella rappresentanza apostolica del nunzio Monsignor Giovanni Muzi, che sarebbe stata la prima missione mandata dal Vaticano ad aggiustare i rapporti con le nuove repubbliche nate dall’insurrezione indipendentista contro la monarchia cattolica spagnola. I viaggi di Benedetto XVI non sono stati numerosi. Il primo è stato fatto in Brasile nel maggio del 2007, due anni dopo l’elezione. In quell’occasione Benedetto XVI visitò San Paolo, Aparecida e Guaratingueta; si vide con Lula; inaugurò il santuario di Nossa Senhora Aparecida e la V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e Caraibico (Celam); proclamò il primo santo brasiliano nella figura di Frei Galvão (Santa Paulina era stata canonizzata nel 2002, ma era nata in Trentino, pur essendo emigrata in Brasile a 10 anni); celebrò un incontro con i giovani; visitò un centro per il recupero di tossicodipendenti. Il secondo viaggio è stato in Messico e a Cuba, dal 23 al 28 marzo 2012: il primo di Benedetto XVI in due paesi di lingua spagnola. In Messico, dove restò tra il 23 e il 26, si vide con il presidente Felipe Calderón; sorvolò in elicottero il santuario di Cristo Rey; si riunì con i vescovi messicani: ebbe un incontro con i bambini. A Cuba, dove restò tra il 26 e il 28, si vide con Raúl e Fidel Castro; visitò il santuario della patrona dell’isola Virgen de la Caridad del Cobre, nei 400 anni dal suo ritrovamento; celebrò una messa in Plaza de la Revolución. Proprio questa rubrica registrò come, a parte le contestazioni in Messico per lo scandalo della pedofilia e le polemiche a Cuba per aver subito il diktat delle autorità non dando alcuno spazio ai dissidenti, ci fosse in America Latina una certa delusione verso il successore di Giovanni Paolo II. Una delusione legata proprio a questa apparente disattenzione nei confronti di un’area che non solo è per la Chiesa sempre più importante, ma sta vivendo in questi anni un periodo effervescente di crescita economica e politica (pur con vari problemi vecchi che restano e problemi nuovi che arrivano).

La prima reazione all’improvviso annuncio di Benedetto XVI è stata, come in tutto il mondo, di mera sorpresa. Misurabile dal fatto che in Brasile i relativi titoli di giornale abbiano surclassato quelli sul Carnevale. Poi, ci sono stati commenti in parte calati sulle realtà nazionale. Il cardinale boliviano Julio Terrazas, ad esempio, ha espresso “profondo rispetto”. Il presidente della Conferenza Episcopale del Venezuela Diego Padrón nel dire che Benedetto XVI nel mostrare che non attaccato “al potere per il potere” ha preso una decisione “che dovrebbe essere presa come un esempio dai venezuelani”. Un riferimento velato ma chiarissimo a Chávez, che rimane presidente anche se da due mesi non si hanno più sue immagini dal letto d’ospedale. Il portavoce dell’Arcidiocesi di città del Messico Hugo Valdemar Romero si è detto “scioccato”, ammettendo in un’intervista tv che era “evidente” come Benedetto XVI sia stato danneggiato dagli “intrighi di Roma”, e negando che il successore possa essere messicano. Il vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana, monsignor Pedro Barreto, ha parlato di una decisione “che provoca dolore” ma è anche “una manifestazione di grandezza”.

Si è scatenata soprattutto l’attesa per la possibile elezione del primo papa latinoamericano. Tra i papabili provenienti dalla regione, quello con più possibilità sarebbe il brasiliano Odilio Pedro Scherer, arcivescovo dell’enorme diocesi di San Paolo. Non si sa però se la rapida crescita dei protestanti in Brasile lo danneggi – come prova di scarsa “efficienza” – o lo avvantaggi, creando la necessità strategica di dare una risposta “forte” come appunto l’arrivo di un brasiliano al Soglio di Pietro. Dopo di lui viene nei pronostici l’argentino di genitori italiani Leonardo Sandri: un candidato “transatlantico” e poliglotta che dopo essere stato nunzio apostolico in Venezuela e Messico è diventato prima sostituto per gli Affari generali (dal 16 settembre 2000) e poi prefetto della Congregazione per le chiese orientali. Sandri è anche uomo di rapporti con il Medio Oriente e l’Asia, anche se ha perso potere rispetto a quando – come sostituto per gli Affari generali – era il terzo uomo della gerarchia vaticana. Fu lui ad annunciare la morte di Giovanni Paolo II. C’è poi il brasiliano João Braz de Aviz, che dopo sette anni da arcivescovo di Brasilia è stato nominato nel 2011 prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica; è considerato un supporter della Teologia della Liberazione, ma molto moderato, e comunque un personaggio che tende a mantenere un profilo basso. L’arcivescovo di Tegucigalpa e presidente di Caritas Internationalis Oscar Andrés Rodríguez Madariaga, che era un favorito per la successione a Giovanni Paolo II, ebbe problemi perché considerato troppo progressista: in compenso, ora il suo appoggio alla destituzione del presidente Zelaya ha fatto spostare la sua immagine sensibilmente a destra. Un secondo argentino in gioco è Jorge Mario Bergoglio, anche lui di origine italiana: arcivescovo di Buenos Aires, primate d’Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale in Argentina, al conclave del 2005 fu il più votato dopo Ratzinger, sostenuto dai progressisti. Ma sarebbe stato lui a voler fare un passo a lato, preoccupato che la sua candidatura bloccasse il conclave troppo a lungo. Molto stimato dai colleghi latinoamericani, che al momento dell’elezione dei 252 membri del primo Sinodo dei vescovi dopo l’ascesa al Soglio di Benedetto XVI, fu lui il più votato. Ma amerebbe poco gli ambienti romani, ed è considerato di età troppo avanzata. Altri tre brasiliani sono il presidente della Conferenza episcopale brasiliana Raymundo Damasceno Assis, che ha però solo un anno meno del 75enne Bergoglio; il vescovo emerito di San Paolo Cláudio Hummes, a sua volta però 75enne e criticato per eccessivi sbandamenti tra sinistra e destra; e l’arcivescovo di Salvador Geraldo Majella Agnelo. In realtà, i bookmakers britannici non favoriscono nessuno di loro, mettendo invece ai primi tre posti delle quotazioni il nigeriano Francis Arinze, il ghanese Peter Turkson e il canadese Marc Ouellet, che peraltro conosce bene l’America Latina e parla perfettamente spagnolo. Insomma, i latino-americani lo vedono quasi come uno di loro. Ma è proverbiale: “chi entra in conclave papa, ne esce cardinale”.”