Gemma n° 1830

“Ho portato questa R: quest’estate sono andata a fare la ragazza alla pari. Ho lavorato in una famiglia come baby sitter in Spagna: si è creato un rapporto veramente stupendo. Accudivo tre bambini di 3, 5 e 8 anni e le cose sono andate molto bene: ancora adesso siamo in contatto. Questa R, regalatami dalla famiglia e con tutte le firme, mi ricorda la mia prima esperienza all’estero da sola: mi ha fatta crescere sotto tantissimi aspetti. Sono più indipendente, mi sento più sicura di me stessa, cresciuta”.

Questa è stata la gemma di R. (classe quinta). Mi sento di commentarla con la poesia Spazio di Alda Merini, dalla raccolta Vuoto d’amore:
“Voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso
della divina sapienza.”

Gemma n° 381

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Ho appena passato tre mesi di studio in Francia, un’esperienza significativa che mi ha segnata sotto vari aspetti. Ho deciso di portare questa gemma perché è quello che sento veramente importante in questo momento.” Così A. (classe quarta) ha presentato la propria gemma, che è consistita in un montaggio video di alcune foto della sua esperienza.
La prima canzone scelta da A. come colonna sonora del video è stata “Buon viaggio” di Cesare Cremonini. “Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare…”. Non avrei fatto la stessa scelta di A. durante il mio quarto anno di liceo; da un lato sarei stato un ufo in quegli anni (non si usava), dall’altro non sarebbe proprio stato nelle mie corde. Ma ho visto l’entusiasmo di A. al ritorno e ho letto la sua contentezza nelle mail inviate durante la sua esperienza in Francia… “per quanta strada ancora c’è da fare amerai il finale”.

Gemme n° 158

Kava1

Come gemma ho scelto una poesia di Kavafis e desidero accompagnare la lettura col brano Nuvole bianche di Einaudi. Itaca è metafora, è raggiungere una meta, accumulare saggezza e ricchezza. Mi riporta alla mia famiglia e agli amici, mi emoziona molto. Spero sia il mio viaggio e lo auguro a tutti. Ognuno ha una propria Itaca.

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”

Questa la gemma di R. (classe terza). C’è una canzone di Niccolò Fabi contenuta nell’album “La cura del tempo” del 2003 che si intitola “Il negozio di antiquariato” e sulla quale desidero soffermarmi. E’ difficile trovare un oggetto particolare in una strada centrale, lungo un corso, in bella vista in vetrina: “Per ogni cosa c’è un posto ma quello della meraviglia è solo un po’ più nascosto”. L’uomo contemporaneo è abituato al prodotto pronto e servito sul piatto: ciò che costa fatica spesso spaventa e non ci si rende conto che invece la cosa desiderata e bramata, per cui magari si è sofferto e lottato porta la bellezza proprio in quella attesa e in quelle battaglie (“Il tesoro è alla fine dell’arcobaleno che trovarlo vicino nel proprio letto piace molto di meno”). Le imprese, anche quelle che paiono impossibili, non sono precluse, ma è bene sapere quello di cui si va alla ricerca: “Come cercare l’ombra in un deserto o stupirsi che è difficile incontrarsi in mare aperto. Prima di partire si dovrebbe essere sicuri di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri”. La meta deve essere valutata con calma, non è detto che la corsa e la premura siano ideali per questo tipo di viaggio, corriamo il rischio di trascurare l’essenziale: “Ma le più lunghe passeggiate, le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo non so dove l’ho comprate. Di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta perché l’argento, sai, si beve, ma l’oro si aspetta”. Non lo so, penso ci stia bene qui.

Un orizzonte nuovo

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Capita spesso in classe di parlare dei social a vari livelli, a seconda delle classi. Ecco, questo articolo, preso dal sito di Giovanni Grandi, ricercatore in filosofia morale, è per le classi più esperte, ma con un po’ di concentrazione è utile a tutti 🙂

“Non occorre trovarsi ad un incontro con il Papa: basta essere ad uno spettacolo di fine anno alla scuola dell’infanzia – l’asilo, per la mia generazione – per vedersi levare immancabilmente una selva di schermi tra telecamere (sempre meno) tablet e smartphone (sempre più). Impossibile vedere oltre. Che alle volte è più semplice guardare la scena dallo schermo del tablet di chi sta due file più avanti. Provavo a sorridere a proposito della funzione dello “schermo”, che originariamente è quella di proteggere, di riparare, di mettersi in mezzo ma proprio per creare distanza. Oppure per impedire dispersioni, specialmente – e non senza umorismo – nel caso dei “cavi schermati” che impieghiamo nelle telecomunicazioni. Questo significa “schermare”. È allora paradossale la funzione dello schermo delle nostre appendici tecnologiche: si mette di mezzo tra noi e quel che ci sta di fronte non più per proteggere e custodire, ma per esporre e diffondere esponenzialmente.
Alessandra de Paola (@amedepaola) da twitter suggeriva che si tratta di un’eco della nostra solitudine: «Se qualcosa non sta sulla tua timeline esiste solo per te: è la foto di quanto ci sentiamo soli e abbiamo bisogno di comunicare».
È interessante l’idea per cui oggi rischia di esistere solo quello che riusciamo ad esibire, a mostrare, anche dei nostri vissuti. Alle radici di questa deriva non vedo però il demone della tecnologia, ma forse qualcosa di meno appariscente su cui varrebbe la pena di sostare.
Il raccontare e il raccontarsi è un elemento strutturale della nostra umanità. È nella narrazione che si creano relazioni, che si strutturano eredità e tradizioni. Se la cultura semita puntava sull’ascolto, la cultura greca ha fin da principio fatto leva sulla visione: dalla prima abbiamo ereditato l’opzione preferenziale per la scrittura, dalla seconda quella per la monumentalità. In entrambi i casi però quel che veniva trasmesso non era la riproduzione immediata del reale. La Sacra Scrittura non è una cronaca di eventi, neppure quando fa riferimento a fatti attestabili secondo i moderni criteri storiografici. Neanche i monumenti greci, con le loro storiografie visuali volevano essere una riproduzione pedissequa del reale. I media antichi non erano semplicemente cronache: erano narrazioni in cui il cuore era costituto da un tassello di sapienza. Come dire: attraverso questi eventi, rielaborando queste esperienze, abbiamo compreso che…
Quello che mi colpisce di molte nostre narrazioni contemporanee è che somigliano sempre di più a delle telecronache, in cui il messaggio di fondo rischia di essere semplicemente “io c’ero”, “io sono qui” (I’m at…) o “guardate che bello”. Nulla di discutibile nel realizzare un’istantanea, il punto non è questo.
Il punto è se, nel tempo, ho modo di ritornare su quell’esperienza che ho avvertito la necessità o di condividere in diretta, per estrarne un tassello di sapienza, di maggiore comprensione della vita. Il punto è se dietro all’evento c’è una scoperta, che a sua volta vale la pena di condividere, di far circolare. Quel che mi lascia perplesso nelle nostre narrazioni è l’inflazione di eventi e la deflazione delle scoperte di sapienza. Se impieghiamo tutto il nostro tempo a far rimbalzare in diretta telecronache di eventi, quanta attenzione ci rimane per sostare sui vissuti e perlustrarli con pazienza, alla scoperta di profondità meno appariscenti, di significati e lezioni stimolanti per maturare in umanità?
Potrebbe essere allora interessante mettersi alla prova: tra gli eventi di cui ho riferito e che ho esibito nella mia timeline (specialmente sui social) della scorsa settimana, ce n’è almeno uno che oggi posso raccontare nuovamente, perché non ha il gusto stantio della cosa passata ma quello frizzante di un orizzonte nuovo che ho scoperto?
Riabilitare (o quantomeno sostenere) la capacità narrativa come rielaborazione del messaggio dei vissuti potrebbe essere una sfida interessante. Perché non pensare qualche workshop in questo senso, specialmente lì dove si lavora sulla valorizzazione dei social media e degli strumenti di interazione che oggi abbiamo a disposizione?
Gran cosa se il social fosse un amplificatore di human wisdom…”

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