Un’inesauribile ricerca di luce

Martina Spollero ha terminato il Liceo Percoto nel 2020. Poi si è iscritta a Lettere Moderne ed è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine. Insieme a Gabriele Visintin, studente di filosofia, ha scritto un articolo per Il chiasmo, magazine online edito dalla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU), in collaborazione con l’Istituto Treccani. Lo ripropongo qui molto volentieri e aggiungo ai suggerimenti di lettura dei due autori il libro di Massimo Recalcati “Il grido di Giobbe”, sempre sullo stesso tema (libro che ho appena terminato).

Il muto dialogo tra l’uomo e Dio

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Se l’esperienza del quotidiano è quella di una realtà profondamente intrisa dal male e dominata dalla sofferenza, come conciliare la constatazione del dolore con un vivo rapporto di fede? È possibile un dialogo con un Dio imperturbabile davanti alla sofferenza del frutto stesso del suo amore?
La visione della fede proposta dal filosofo danese Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855), sebbene influenzata dalla rigida educazione pietista impartitagli fin dalla giovinezza, risulta un tassello fondamentale nell’analisi dell’esperienza religiosa intesa come imprescindibile componente dell’esistenza umana. Il rapporto col divino che emerge dai suoi scritti viene rappresentato quanto mai distante dai dogmatismi interpretativi consueti mediante cui è percepita la fede. Essa risulta, infatti, caratterizzata da sentimenti radicalmente negativi quali l’angoscia e l’incomunicabilità, i quali isolano l’uomo entro i confini di una prospettiva che lo allontana dai suoi stessi simili.
Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard individua differenti stadi della vita dell’uomo. Il primo di essi è quello della vita estetica, nel quale l’uomo sceglie di non scegliere, e ricerca, in tutte le loro forme, il piacere e il godimento personale. La brama della passione – inevitabilmente e per sua stessa natura – non giunge al suo pieno soddisfacimento, conducendo inesorabilmente l’uomo verso la noia e l’indifferenza. La figura esplicativa di questo stadio è appunto quella dell’esteta, del  seduttore, alla quale si contrappone l’uomo che incarna le caratterizzanti dello stadio etico e vive conformemente a una morale, inserito in una quotidianità e in una concretezza sociale e umana.  Questo momento di vita può essere rappresentato  dal marito fedele e laborioso. Come ben evidenziato da Remo Cantoni nel suo saggio introduttivo all’opera di Kierkegaard qui presa in esame, l’aut-aut denota la scelta con cui ci si sottopone al contrasto tra il bene e il male. Non accettare questa dicotomia, pertanto, non significa necessariamente propendere verso il male, bensì verso l’indifferenza etica.
La possibile comunicazione che sussiste ancora tra vita etica e vita religiosa viene definitivamente meno nel saggio che il filosofo danese pubblicherà pochi mesi più tardi: Timore e tremore. Mediante l’esempio di Abramo, rivela come l’uomo religioso, immerso in una fede totalizzante, si trovi in aspro contrasto con le convinzioni etiche e morali comunemente accettate e condivise. Il patriarca dell’ebraismo viene messo nella posizione di doversi confrontare con una richiesta assurda e irrazionale: sacrificare suo figlio Isacco. Il nodo insolubile e controverso del rapporto tra l’uomo e la spiritualità scaturisce dalla constatazione che Colui che pretende l’immolazione dell’amato risulti il medesimo che quella prole gliel’ha donata, Dio stesso. La prospettiva, annichilente e disarmante, è quella dell’innocente che si interroga circa il fondamento di un tale abominio e la richiesta di privazione dell’unico frutto d’amore concessogli attraverso il grembo della moglie Sara, simbolo di quella vita che sopravvive – oltre le soglie della morte – sotto forma di eredità nei posteri.
Il tragico dolore che Abramo si trova ad affrontare diventa icona dell’esperienza religiosa estesa a tutti gli uomini: essa risulta sconnessa – secondo Kierkegaard – dalla ragione, dalla morale, dalla razionalità. La fede è un salto nel buio, è un cieco abbandono a una volontà che non è conforme e coincidente a quella umana, e che per questo motivo non è comunicabile agli altri individui. Ne deriva un’esperienza di fede profondamente soggettiva e assolutizzante, una frattura che allontana l’uomo dal divino, il quale vive un rapporto assoluto con l’assoluto. “Chi si trova nel mare della disperazione trova l’assoluto”, asserisce Cantoni. L’uomo, dunque, incontra Dio proprio nella sofferenza più totale.

L’esempio letterario in cui confluiscono tutte queste considerazioni è quello del romanzo Giobbe, frutto del genio e della penna di Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939). Potremmo considerare Mendel Singer (protagonista del romanzo) come il tipico uomo morale kierkegaardiano che vive nella convinzione di incarnare una fede sincera, la quale si manifesta – nei limiti dell’illusione generata dalla sua soggettività – in un rapporto diretto con Dio, dinanzi al quale si genuflette e si abbandona completamente, togliendo a se stesso qualunque prospettiva di azione, nell’attesa che si portino a compimento i piani a lui destinati (il tutto fondato su preconcetti di matrice quasi fideistica che vedono un Dio dispensatore di beni ai giusti e di dolori a coloro che non si incamminano lungo la via della rettitudine). Il suo atteggiamento nei riguardi della fede è duplice e fortemente problematico: da un lato nega la necessità di intermediari, rivendicando la possibilità di instaurare un rapporto intimo con l’Assoluto, dall’altro non cerca mai veramente un dialogo con Dio. Nel momento in cui il concatenarsi di spiacevoli eventi imprevisti lo costringe a uscire dai binari della quotidianità e a fare esperienza di un dolore che attanaglia anche le vite degli innocenti, si avvia il turbolento processo di demistificazione dei pregiudizi sui quali si fonda il suo fragile credo, e che lo porteranno via via a prendere le distanze da una fede vissuta meccanicamente, in una sua forma sterile e semplicistica.
Proprio l’esperienza diretta con il dolore lo getta nella condizione di interrogarsi sul suo sentimento religioso. Il personaggio viene portato a mettere in discussione la volontà di Dio, il suo rapporto con esso e a prendere in mano le redini di una vita sino a quel momento vissuta come passivo spettatore. Davanti alle disgrazie che lo colpiscono, il suo diviene il grido ancestrale dell’innocente che lamenta l’ingiusta punizione di cui non coglie le ragioni, che rivendica – quasi portavoce degli interrogativi di ogni uomo – il diritto alla felicità. La rabbia si tramuta in rigetto totale della fede, la quale, in quanto elemento costitutivo della sua intera esistenza, porta il personaggio in qualche misura a rinnegare sé  stesso e ad abbandonarsi in un tetro nichilismo rassegnato e rancoroso.
Se il Giobbe biblico accetta il male così come accoglie il bene, in quanto si percepisce come ente infinitesimale rispetto a ciò che lo sovrasta e non vacilla mai nei suoi intenti – poiché caratterizzato da un rapporto con Dio genuino sin da principio – il personaggio rothiano compie un’evoluzione inversa. Il suo è un percorso che va dall’illusione di una fede sincera che, messa in discussione dalle prove cui si vede suo malgrado sottoposto da Dio, approda al termine del romanzo a un rinnovato dialogo più consapevole e autentico – e dunque più sincero – con il Creatore. Nel racconto si osserva, pertanto, la fede come sentimento profondamente umano che, proprio in quanto tale, manifesta i tratti di quelle stesse debolezze e inquietudini caratteristiche dell’uomo.

La prospettiva religiosa fin qui delineata ribalta la concezione odierna della fede come palliativo verso la sofferenza. Non è grazie alla morte e alla paura verso di essa che l’uomo, anelando a un’eternità metafisica, si rifugia nell’eternità per definizione (Dio), che risulta però inconsistente illusione, inconsciamente creata dall’uomo stesso. Fu il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) a teorizzare che senza la morte come limite naturale non esisterebbero le religioni, così come Dio. La fede vista in questa prospettiva assumerebbe caratteri prettamente utilitaristici: l’individuo è costretto ad affidarsi a una figura ultraterrena e soprannaturale per sperare in una vita che possa superare la morte. Presentata in tal modo, l’adorazione religiosa è legata esclusivamente alla promessa di immortalità. Senza questa promessa, se dell’uomo, delle sue opere e del frutto delle sue fatiche nulla rimane, allora Dio non solo sarebbe “inutile”, ma non avrebbe senso neppure porsi la questione della sua esistenza. La fede esisterebbe fintanto che da essa si può ottenere un profitto reale e tangibile.
Nel suo senso antropologico, il dolore si manifesta nell’estrema concretezza di un’esperienza in grado di produrre quella discontinuità necessaria a rompere il ritmo abituale dell’esistere e a trasfigurare sotto una rinnovata luce le esperienze caratterizzanti del quotidiano. Risulta al contempo patimento e rivelazione: il suo porre inesorabilmente l’uomo dinanzi la cocente presa di consapevolezza dei suoi limiti e della sua fragilità, lo predispone all’analisi di sé e alla messa in discussione dei paradigmi interpretativi a lui consueti. Chiuso entro i confini del suo microcosmo esistenziale, l’individuo acquisisce paradossalmente una prospettiva privilegiata per meditare sulla natura e sullo scopo della sua stessa sofferenza in quanto «prezzo dell’esistenza e sapore dell’istante che passa» (Le Breton, 2007). L’impressione è quella di un patimento tutto individuale, incomunicabile agli altri e a loro incomprensibile che alimenta il ripiegamento in una dimensione inedita dell’esistenza. Il dolore può assumere un valore solo nel preciso istante in cui ad esso viene attribuito, quando diviene cioè epifania di un disegno ultimo che va al di là dei confini di quel frammento di vita che è l’uomo. Imprescindibile punto di partenza per il maturare di una fede viva e sincera è proprio l’esperienza del più profondo e totale abbandono, di quel tetro silenzio di un Dio che apparentemente tace davanti alla sofferenza umana. La visione screditante della fede come comodo palliativo non è altro che la distorsione derivante da un’interpretazione fortemente semplicistica del sentimento religioso e implica il rischio di deresponsabilizzazione dell’uomo e dell’agire: il sacrificio umano non è la sopportazione del dolore, è l’accoglienza di un messaggio di fede capace di farsi propulsore all’azione e occasione per una riscoperta sincera della presenza di un essere Altro, esterno ma allo stesso tempo componente intrinseca di sé.
Ciò che si è voluto dimostrare con quest’analisi è come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato di assolutezza divina, divenga quotidiana riscoperta del rapporto autentico con l’Assoluto attraverso l’intima esperienza del dolore. L’essenza del sentimento di fede risiede nella tensione di un’inesauribile ricerca della luce tra le pieghe in ombra dell’esistenza, nel perpetuarsi di un’insaziabile esplorazione profonda della vita interiore spinta dalla volontà di dare risposte circa il senso dello stare al mondo e di quel fine ultimo verso cui la vita dell’uomo è volta teleologicamente a tendere.

Per saperne di più:
GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Roma, Paoline Editoriale Libri, 2015.
KIERKEGAARD, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2016.
KIERKEGAARD, Timore e tremore, Milano, Mondadori, 2016.
KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio, Bologna, Il Mulino, 1997.
LE BRETON, Antropologia del dolore, Roma, Meltemi editore, 2007.
ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano, Adelphi edizioni, 2014.

Kierkegaard: estetica, etica, religione

Un articolo di Matteo Andriola su cui riflettere e meditare. Uno di quei pezzi che ti fanno pensare “Mmm… devo approfondire le cose”… per cui didatticamente interessante 🙂

Søren Kierkegaard, BøgerHo sempre considerato Søren Kierkegaard come un filosofo anomalo, un pensatore illuminato e affascinante, poco propenso a fornire soluzioni e risposte, quanto piuttosto orientato verso la spiegazione e l’analisi di problematiche e situazioni che lo conducono a erigere strutture di pensiero sempre figlie di profonde osservazioni e meticolose elaborazioni. Spesso per tale motivo, a torto, lo si ritiene lontano dalla grandezza di altri filosofi, ma personalmente ho sempre visto in lui un pensatore straordinario, moderno e conservatore al tempo stesso, in grado di fornire continuamente fondamentali argomenti d’indagine. Quello della “scelta” è sicuramente uno di questi.

Partendo dall’assunto che l’esistenza umana si riduca fondamentalmente alla “possibilità”, in Enten-Eller, cui la comune traduzione Aut-Aut non rende completamente giustizia, il filosofo danese presenta la celeberrima contrapposizione tra i due ideali di condotta di vita: quello estetico e quello etico. Nella vita estetica, incarnata dalla figura di Don Giovanni, dominano la fugace ricerca del piacere e dell’estemporanea ebbrezza quali condizioni tese a impedire l’incanalamento dell’esistenza verso finalità concrete e definite, strumenti atti a evitare una qualsivoglia concretizzazione dell’esperienza vitale. L’esteta infatti, di fronte alla possibilità, di fatto rinuncia a scegliere, coltivando esclusivamente l’interessante, subendo passivamente la bellezza anziché dominarla attivamente. È proprio questa vita inconcludente e incompiuta ad appagare l’esteta, che ha nella rinuncia alla scelta in luogo del godimento dell’istante, la propria esaltante vittoria. La non scelta però, teorizza Kierkegaard, violenta se stessa nel momento in cui subentra nell’esteta la consapevolezza che rifiutarsi di scegliere sia in realtà l’innesco di un rovesciamento dell’essenza stessa della possibilità che, proprio in virtù della non scelta, diviene di fatto impossibile e dunque, ciò che in prima istanza appariva appagante, in realtà non risulta tale proprio perché irresoluto e incompiuto. Senza concretizzazione, la possibilità genera quindi angoscia, e la ripetitività dell’incompiutezza vanifica un percorso, quello estetico, che porta l’esteta a “non essere” o, se si preferisce, a “poter essere” in eterno.

Kierkegaard, sulla cui filosofia le personali tribolazioni religiose e sentimentali lasciano un segno molto più netto di quanto si voglia ammettere, sviluppa una teorizzazione che spesso, troppo frettolosamente si crede di aver dominato. Infatti, occorre uno sforzo intellettuale significativo per comprendere come il pensatore danese non cada in contraddizione sostenendo che, contrariamente alla concezione che in origine convince l’esteta della propria assoluta indipendenza, la libertà risieda in definitiva proprio nella scelta che inizialmente rifuggeva, nel poter scegliere in vista di una realizzazione individuale; il soggetto estetico, se vorrà realizzare se stesso e la propria essenza, rinunciando alla condotta estetica, non potrà fare a meno di svoltare in direzione etica. La virata etica non deve ritenersi però la tappa di un naturale e progressivo percorso, quanto piuttosto un cambiamento drastico ed emotivamente violento, una presa di coscienza del nulla insito in sé o, se si preferisce, va inteso come quella scelta che l’individuo, fintanto che si trovava a vivere lo stadio estetico, rifiutava a priori e di cui in realtà era assolutamente incapace. Tra le possibilità che gli si prospettano, l’uomo etico, incarnato dalla figura del marito, diviene tale proprio sgombrando il campo dalle opzioni e decidendo di scegliere una e una sola via, quella che gli permetterà di dare concretezza a se stesso, divenendo ciò che è. Strumento determinante affinché l’esteta possa virare in direzione etica è la disperazione, quel sentimento generato dalla presa di coscienza della propria nullità. La disperazione dunque, nella concezione kierkegaardiana si configura come condizione necessaria e per certi aspetti addirittura positiva, in quanto la sola a permettere all’esteta la piena comprensione del valore della scelta. La scelta etica però, a conti fatti, è a sua volta un palliativo poiché non necessariamente salva l’individuo dall’errore del peccato, in quanto il rispetto delle norme vigenti nella società in cui vive diviene, in seguito alla scelta, una nuda e cruda conformazione alle consuetudini, un moralismo figlio di un senso del dovere scaturente dal fatto che quella determinata società impone “conditio sine qua non” il rispetto aprioristico di determinate norme. L’obbligatorietà dell’allineamento a una norma però non rende necessariamente il suo rispetto un ossequio, quanto piuttosto soltanto un accettabile compromesso, un viatico per poter vivere entro quella società che porta però l’individuo etico a sprofondare nell’abisso dell’universalità, anziché in quello della singolarità come avveniva per l’esteta. Neppure l’ideale etico dunque può considerarsi un traguardo accettabile, e il ripiegamento su Dio diviene, a giudizio di Kierkegaard, inevitabile, anche se certamente non privo di difficoltà. È ancora una volta la disperazione, peraltro consapevole, a generare quell’insoddisfazione necessaria per gettarsi a capofitto nella scelta religiosa. Si tratta della svolta più difficile e coraggiosa in quanto richiede il totale annichilimento della ragione in luogo dell’assurdo, del paradossale e dell’incomprensibile; in altri termini, la scelta religiosa richiede un totale annullamento di sé, paradossalmente funzionale all’affermazione della propria individualità. Nella fede infatti, pur ritrovando la propria individualità, occorre spogliarsi di qualunque residuo di razionalità e lanciarsi nell’abisso dell’incomprensibile, nel profondo e spiazzante abisso di Dio. Secondo Kierkegaard infatti, Dio chiede ossequio incondizionato verso qualcosa che alla ragione non può che apparire assurdo e irragionevole se misurato secondo un criterio razionale, in quanto si sottrae completamente al suo metro di valutazione. Occorre credere a Dio, e per certi versi fidarsi di ciò che chiede senza condizioni accettando l’imperscrutabile e l’incomprensibile. Soffermiamoci infatti sull’episodio del sacrificio di Isacco: cosa ci può essere di razionale nella richiesta avanzata da Dio ad Abramo? Come può la ragione comprendere una richiesta così terribile e razionalmente ingiustificabile? Non la può comprendere, ma la svolta religiosa richiede accettazione e solitudine.”

Tra divinità e matite

Pubblico l’articolo di Matteo Andriola che abbiamo letto in quinta stamattina. Una riflessione molto interessante sfiorando Nietzsche, Kierkegaard e Marx, tra storia e filosofia.

Nessun dio può odiare una matita.

matite_ruota1Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, probabilmente non esagero ritenendo la satira lo specchio della libertà di un Paese. Tristemente attuale, il dibattito relativo agli eventuali limiti che essa dovrebbe imporsi tiene banco in maniera piuttosto vigorosa. La presenza di un limite negherebbe il concetto stesso di satira, questo è vero, ma ciò che spesso, troppo spesso, viene sottovalutato è il fatto che non sia possibile né corretto fare i conti esclusivamente con il livello di tolleranza del proprio Paese o della propria confessione, facendone l’unico termine di paragone. La recente tragedia cui abbiamo assistito impotenti, altro non è se non l’ennesima dimostrazione di quanto la vita sia oramai subordinata ad interessi differenti, un valore non più inalienabile e imprescindibile, quanto piuttosto una merce di scambio da utilizzare in una guerra destinata a concludersi senza vincitori né vinti. Le vittime del terribile attentato al periodico Charlie Hebdo pagano un dazio infinitamente salato, capri espiatori di una situazione di esacerbata intolleranza che li ha visti diventare un subdolo e abietto pretesto nelle mani di un fanatismo sempre più becero e ingiustificabile.

In situazioni come questa, la banalizzazione e la generalizzazione sono i nemici più ostici da fronteggiare, e l’ignoranza induce sempre più di frequente a ritenere che il colpevole di un gesto tanto efferato quanto vigliacco non sia il singolo in quanto tale, ma piuttosto ciò che esso rappresenta.

La Storia è però una maestra troppo autorevole e competente quando si tratta di fornire un insegnamento, e con il consueto rigore didattico ci ricorda come la religione, anche quella cristiana, abbia mietuto vittime con clamorosa regolarità nel corso dei secoli. Gli esempi sono troppi e sarebbe impossibile riportarli tutti in questa sede, ma pescando in un passato neanche troppo lontano, credo che alle popolazioni centroamericane massacrate dai conquistadores, i cattolici Cortes e Pizarro non dovessero apparire molto diversi da come appaiono oggi coloro che si rendono colpevoli di ingiustificabili barbarie in nome di un profeta che non può neppure essere raffigurato. Gli spagnoli tuttavia, e non è un mistero, non avrebbero neppure levato un’ancora se nel nuovo mondo non vi fosse stata l’opportunità di allungare le mani su enormi quantitativi d’oro, né i crociati dal canto loro avrebbero preso la strada di Gerusalemme se a Roma non avessero intravisto in questi pellegrinaggi armati la possibilità di un lauto guadagno. La religione, oggi come allora, a conti fatti, risulta il pretesto più valido e facilmente vendibile, in grado di rendere accettabile anche ciò che razionalmente non potrebbe mai esserlo. Il ricordo dell’attentato alle torri gemelle o le sconvolgenti immagini delle decapitazioni dell’ISIS sono ancora davanti agli occhi di tutti, e per quanto mi sforzi di trovare un senso a tutto ciò che da sempre accade, concludo sempre la mia ricerca a mani vuote. Tutti agiscono in nome di un dio, qualunque sia, caritatevole e misericordioso, ma per soddisfare le sue richieste, travisando e maneggiando ad arte il suo messaggio, ricorrono al contraddittorio strumento della violenza. Il superamento di Dio auspicato da Nietzsche, in questo senso, prescindendo dalla posizione religiosa di ciascuno, responsabilizzerebbe l’individuo, ponendolo di fronte a se stesso senza condizioni, privandolo di uno strumento che, snaturandosi, troppo spesso si tramuta in pretesto. Non è oggetto dell’intervento l’opportunità di credere o meno, ma partendo dal presupposto di scegliere la strada della Fede, qualunque essa sia, non si potrà fare a meno di constatare come nessun dio possa pretendere il sacrificio del sangue, di cui è invece perennemente assetato soltanto l’uomo, capace di perpetrare orribili violenze in nome di un credo, senza voler ammettere che il reale problema risieda in realtà nell’innata inclinazione dell’individuo a non accettare l’altro poiché ritenuto diverso, e di conseguenza inferiore. L’impressionante manifestazione di solidarietà tenutasi a Parigi dovrebbe configurarsi non come una manifestazione anti islamica, quanto piuttosto come una presa di posizione contro una situazione insostenibile in cui sono sempre gli innocenti a fare le spese di un disegno perverso in cui potere e interessi scavalcano con inconcepibile noncuranza il valore di quella vita che ogni uomo dovrebbe amare più di qualunque altra cosa, sia che creda sia che non creda. Come accennato, non mi preme in questa sede entrare in merito alla questione della Fede, poiché credo di non aver titolo se non per sostenere la mia intima posizione al riguardo; quello della Fede è un argomento delicato, la cui verità, come sosteneva Kierkegaard, è un discorso del singolo, suo e soltanto suo. Da qualunque angolazione la si osservi però, la violenza come strumento religioso risulta una contraddizione nei termini, e un mondo che si professa civile e moralmente evoluto, non può fare a meno in nessun caso di poggiare sulle solide fondamenta della tolleranza, in cui il rispetto della vita altrui è e sarà sempre il viatico migliore per raggiungere il rispetto di se stessi. In un Paese laico e democratico, la scelta religiosa rappresenta uno straordinario esempio di libertà che tutti dovrebbero proteggere gelosamente, ma la società ha sprecato troppo spesso l’occasione per riscattarsi e temo se la lascerà sfuggire anche questa volta, calpestando il prossimo e il diritto di espressione, preferendo mantenere in vita una tensione sempre più pericolosa e retrograda. Nel riscontrare il potenziale ottenebrante della religione, Marx colse nel segno definendola “oppio dei popoli”, e mai come oggi tale espressione risulta di sconvolgente attualità. Non mi illudo che la situazione possa cambiare, poiché non riconosco al genere umano la preziosa dote della tolleranza, ma sono certo di non sbagliare sostenendo che nessun dio, qualora dovesse esistere, possa accettare che un suo figlio muoia a causa di un disegno, a causa di una matita. Per quanto io mi possa sforzare, non intravedo nulla di religioso in ciò che sta accadendo, né riuscirò mai a convincermi del fatto che un dio possa pretendere ciò che la Storia ha voluto e vuole farci credere che pretenda.

L’Illuminismo ci ha lasciato in eredità molte teorizzazioni, ma il suo merito più grande è stato quello di rifiutare l’accettazione passiva di convinzioni secolari, e nessun filosofo del tempo potrebbe sentirsi offeso per il fatto che, per l’occasione, io scelga di rispolverare Voltaire, che sarebbe sicuramente sceso in piazza per manifestare la propria solidarietà alle vittime della tragedia parigina e che, senza remore né timori di sorta, avrebbe certamente ripetuto, gridandola a squarciagola, una delle più note affermazioni a lui attribuite: “Non sono d’accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee”.”

Il singolo e Dio

Un interessante post di Matteo Andriola, trovato sul suo blog:
sorenSe l’avessi incontrato ad un evento mondano, probabilmente l’avrei invidiato per la sua aria scanzonata e sovente guascona; l’eleganza mescolata allo snobismo che di consuetudine sciorinava in pubblico faceva di Søren Kierkegaard un perfetto mentitore, un dissimulatore capace di nascondere la propria reale condizione a quella che era solito chiamare “folla bestiale”. Senza remore, oggi posso dire di essermi convinto che fosse un bugiardo, e la sua maschera era senz’altro piuttosto ingannevole se si considera che dietro di essa si celava uno degli individui che non è esagerato annoverare tra i più tormentati dell’intera Danimarca. Nato nel 1813, ricevette una rigida educazione religiosa che personalmente credo l’abbia condizionato più di quanto si voglia credere; nell’arco di circa sette anni perse il padre e cinque fratelli, in quella che interpretò come un’autentica punizione divina per una colpa a noi ignota commessa dal genitore. Sentimentalmente non si può dire che il giovane fosse meno inquieto, se si considera che interruppe il fidanzamento con Regina Olsen, a causa di un mai specificato turbamento interiore che funestava il suo animo senza dargli tregua. Che Kierkegaard fosse un animo profondamente turbato non è in alcun modo opinabile, ma non sono mai riuscito a giudicarlo instabile o illogico, e il frequente ricorso agli pseudonimi fa di lui un filosofo tanto grande quanto sfuggente. La questione degli pseudonimi è in realtà più complessa di quanto si pensi e il ricorso ad essi non è altro che un geniale stratagemma per responsabilizzare il lettore, privandolo di qualunque condizionamento.
Alla luce di quanto accadutogli, Kierkegaard doveva sentirsi decisamente in credito con Dio, eppure, sostenendo la “verità del singolo”,ci fornisce una delle più alte e pure dimostrazioni di fede che la Filosofia ricordi. Secondo lui, è il “singolo” ad elevarsi sulla collettività, anche e soprattutto in materia di fede, e la verità ha come proprio compito l’affermazione assoluta dell’individualità. Attaccando Hegel, Kierkegaard si scaglia contro le ricerche metafisiche indirizzate alla ricerca di verità universali e concetti assoluti ( quali ad esempio la coscienza ) che non possono avere senso a meno che non vengano rigidamente contestualizzati alla soggettività del singolo individuo. Una conoscenza che scavalchi l’individualità è un’assurdità, in quanto tale individualità si concretizza proprio in relazione ad altre singolarità, e non in rapporto all’umanità intesa come entità autonoma dotata di vita propria. Una simile concezione dell’umanità negherebbe in assoluto la singolarità dell’individuo, potendo peraltro perpetrare crimini orrendi, semplicemente celandosi dietro la spersonalizzante maschera della moltitudine; ed infatti, è la folla ad aver ucciso Gesù Cristo, non il singolo. Paradossalmente, in materia religiosa, la conoscenza diviene secondo Kierkegaard uno strumento fuorviante, in quanto essa nulla ha a che vedere con la fede, ma al più con un nozionismo fine a se stesso. Il singolo individuo può e deve ricercare la salvezza, rimanendo però consapevole di poterla raggiungere esclusivamente attraverso la fede, e la conoscenza storica del Cristianesimo, in questo senso, può tranquillamente valere molto meno della totale ignoranza in materia. È in Cristo soltanto che si trova la chiave della salvezza, e non nei proseliti di una Chiesa come quella danese che Kierkegaard non ha remore nel definire “pagana”. Il rapporto con Gesù è intimo e personale e tale intimità rappresenta agli occhi del filosofo l’unica strada possibile per la salvezza; ogni uomo, inteso nella propria individualità, instaura con Cristo un rapporto esclusivo che di fatto costituisce, e non potrebbe essere altrimenti, l’unico viatico possibile per ottenere la salvezza.
A ben vedere, al di fuori di questo privilegiato rapporto, la religione può addirittura risultare contraddittoria nella sua incomprensibilità. Che Dio, a cui sarebbe sufficiente una parola, si faccia uomo e decida di morire per salvare l’umanità, è un controsenso dal quale è impossibile uscire per mezzo della ragione; la storia di Cristo è propedeutica alla fede, ma non indispensabile per la salvezza. Il rapporto dell’uomo con Dio è un mistero che accomuna tutti i singoli, affermandone l’individualità. Ecco perchè, secondo Kierkegaard, la verità può risiedere soltanto nel singolo.”