Russia loves Africa

Fonte: profilo Instagram dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

A inizio marzo, il voto all’undicesima sessione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) sulla risoluzione sull’aggressione russa dell’Ucraina ha registrato che solo 5 paesi – Siria, Eritrea, Bielorussia e Corea del Nord oltre ovviamente alla Russia – si sono schierati apertamente con Mosca votando contro la risoluzione. 141 sono stati i favorevoli e 35 gli astenuti. Oltre a Cina e India, sono stati numerosi gli stati africani ad astenersi: perché? Mi soffermo su due di essi attraverso due articoli, uno sul Mali (a firma di Enzo Nucci, corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana e curatore di una rubrica su Confronti) e uno sul Sudan (a firma di Marco Cochi per il mensile Nigrizia). Inoltre torno su Kirill I, patriarca di Mosca molto legato a Putin, e sul suo ruolo proprio in Africa (articolo di Rocco Bellantone, sempre su Nigrizia).

VIA I FRANCESI, AVANTI I RUSSI

2 Febbraio 2022
di Enzo Nucci.
In Mali il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura legati al governo di Mosca. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse e vendita di armi.
Via l’esercito francese, avanti i mercenari russi della compagnia privata Wagner. Benvenuti in Mali. Il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura (ma legati a triplo filo al governo di Mosca) nel Paese africano, considerato strategico per fermare alla fonte una parte importante dei flussi migratori clandestini diretti verso l’Europa. Duecento di loro sono accampati a Segou, 200 chilometri a nord est della capitale Bamako, sul fiume Niger.
Il governo maliano a dicembre si è limitato a spiegare la presenza degli addestratori russi come un contributo al rafforzamento delle capacità operative delle Forze di difesa e sicurezza. E a gennaio l’esecutivo ha chiesto a Parigi di rivedere gli accordi militari firmati nel 2013 quando la Francia (guidata allora dal socialista François Hollande) lanciò l’operazione di contrasto al terrorismo islamista, estesa successivamente agli altri Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania). Da allora molte cose sono cambiate.
L’intervento armato si è dimostrato fallimentare e oneroso dal punto di vista economico, di costi umani e ricavi politici. Tanto che si parla apertamente di un “nuovo Afghanistan” per il presidente Emmanuel Macron che si accinge a sottoporsi al test delle imminenti elezioni presidenziali. Ma il Mali resta una ferita purulenta anche per il suo eventuale successore.
Il Mali (in 9 anni di presenza militare) si è rivelato lo Stato africano con l’opinione pubblica più antifrancese tra i Paesi francofoni, tanto che un colpo di Stato militare (forse ispirato da Mosca) ha sparigliato le carte. I gruppi terroristici islamisti non hanno preso il potere ma hanno allargato la loro influenza tra la gente, rendendo instabili istituzioni già profondamente fragili. Non è certo un grande risultato.
Sul Mali (guidato dalla giunta golpista) si sono anche abbattute le sanzioni economiche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché il governo di transizione ha deciso di rimandare le elezioni per un periodo variabile dai sei mesi ai cinque anni. Il dato politico è il ritorno in grande stile della Russia sulla scena africana. Gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse (estrazioni di minerali) e vendita di armi sono gli obiettivi principali.
La strategia fu spiegata da Putin nel summit russo-africano tenutosi a Sochi (sul Mar Nero) nell’ottobre 2019. Il presidente ribadì la sua volontà di offrire aiuti e contratti commerciali “senza condizioni politiche o di altro genere”, al contrario di quanto fanno i Paesi occidentali. E anzi affermò che la Russia sarebbe stata la migliore soluzione a cui far ricorso per resistere alle indebite intromissioni nella sovranità nazionale esercitate da europei, statunitensi e cinesi.
La presenza dei paramilitari della Wagner (fondata da un veterano delle forze speciali dell’esercito russo e da un ricco uomo d’affari legato a Putin) si conta già in 23 nazioni africane. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma in realtà svolgono training agli eserciti, forniscono scorte armate agli uomini di governo, conducono guerre informatiche, svolgono operazioni contro i ribelli nelle zone minerarie per facilitare contratti con compagnie russe, spesso connesse proprio agli azionisti della Wagner.
I mercenari sbarcarono per la prima volta in Africa nel 2013 quando in Sudan (guidato allora dal dittatore islamista Omar al-Bashir) furono utilizzati per reprimere manifestazioni di piazza. Da allora è stata una escalation in tutto il continente, ultimamente anche nella ricca regione mineraria di Cabo Delgado (Mozambico) dove operano terroristi islamisti, autori di numerosi attacchi. Mentre in Libia sostengono Khalifa Haftar con grande preoccupazione degli Stati Uniti.
I mercenari esordirono nel 2014 in Crimea a fianco dell’esercito russo che aveva occupato la penisola. Oggi conterebbero su almeno diecimila uomini contrattualizzati. Un escamotage che consente a Putin di avere le mani libere, non dover rendere conto a nessuno delle operazioni di questi “privati” che sono responsabili di abusi e crimini contro prigionieri e civili inermi. Ma Mosca ufficialmente ignora tutto questo.

RUSSIA IN AFRICA. IL SUDAN È UNA MINIERA D’ORO

09 Marzo 2022
di Marco Cochi.
La recente visita a Mosca di “Hemetti”, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese, ha allarmato molti paesi, tra cui Stati Uniti ed Egitto. Spaventa il progetto di una base navale del Cremlino sul Mar Rosso. E si vuole porre un freno al contrabbando di centinaia di tonnellate di oro illegale che dal Sudan finiscono nei forzieri russi.
Molti paesi africani stanno mostrando una buona dose di cautela nel rivedere le loro relazioni con la Russia per proteggere i loro interessi nazionali. Lo dimostra l’astensione di ben 17 nazioni del continente, oltre al veto dell’Eritrea, nell’approvazione della risoluzione votata, lo scorso 2 marzo, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.
Una cautela che trae origine dal fatto che negli ultimi anni il Cremlino ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. Un chiaro esempio è l’invio, a partire dal 2018, dei mercenari russi del Gruppo Wagner, oltre che in Libia, per aiutare i leader locali di Centrafrica, Mozambico e Sudan a mantenere saldo il loro potere e silenziare la dissidenza interna. E non a caso i tre paesi figurano tra gli stati africani astenuti.
A partire dallo scorso 6 gennaio, l’impegno militare della compagnia privata russa sta interessando anche il Mali, dove i paramilitari sono stati dispiegati nella città di Timbuctu. Ufficialmente, le unità della Wagner sono impegnate nell’addestramento delle Forze armate maliane e nel contrasto delle milizie jihadiste legate ad al-Qaida e al gruppo Stato islamico.
Altro aspetto saliente è da ricercare nei dati del SIPRI, che indicano Mosca come il principale fornitore di armi all’Africa, dove tra il 2015 e il 2019 ha esportato il 49% dell’equipaggiamento militare del continente, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Per questo, è improbabile che molti leader africani aderiscano al moltiplicarsi degli appelli in corso per condannare l’aggressione della Russia in Ucraina.
Tra i paesi africani che non nascondono il loro sostegno a Mosca c’è il Sudan. Con il Cremlino, il terzo più grande paese dell’Africa intrattiene una partnership così consolidata che il 23 febbraio il vicepresidente del Consiglio sovrano di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemetti ha iniziato una visita a Mosca, durante la quale, poi, l’armata russa ha invaso l’Ucraina.
Dagalo è anche a capo delle Rapid support forces (Forze di supporto rapido – Rsf), un’unità irregolare al soldo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di indicibili violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe fur, maasalit e zaghawa. Violenze che continuano ancora oggi.
Di recente, è emerso che le Rsf hanno avuto legami con la Wagner e anche se non ci sono statistiche ufficiali sul numero e sul luogo in cui si trovano i contractor russi in Sudan, alcune stime indicano la presenza di 300 effettivi, impegnati in attività congiunte e programmi di addestramento con la milizia di Dagalo. Nel paese, si è diffuso il sospetto che alcuni oppositori politici favorevoli a un ritorno del governo civile siano recentemente scomparsi per mano dei mercenari russi.
Nel 2017, l’interesse iniziale della Wagner nei confronti del Sudan è stato cercare i giacimenti di oro presenti nelle aree remote del paese, così cospicui che potrebbero rendere Khartoum in pochi anni il terzo produttore dell’Africa.
Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia ha contrabbandato centinaia di tonnellate di oro illegale dal Sudan, nell’ambito del piano di costruire la “fortezza Russia” e difendersi dalle previste sanzioni legate all’invasione in Ucraina.
Il Cremlino ha più che quadruplicato la quantità di oro detenuto nella banca centrale dal 2010, creando un “forziere di guerra” attraverso un mix di importazioni estere e vaste riserve auree nazionali, diventando il terzo produttore mondiale del prezioso metallo e arrivando, nel giugno 2020, a detenere più oro che dollari.
Mentre le statistiche ufficiali suggeriscono che il Sudan esporta scarsissime quantità di oro in Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al Telegraph che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del paese. Secondo la fonte, rimasta anonima, ogni anno circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate dal Sudan in Russia, sebbene sia impossibile valutare la reale portata dell’operazione.
Secondo Sim Tack, cofondatore di Force Analysis, una società di consulenza con sede in Belgio specializzata nella mappatura dei conflitti, alcune società russe come M-Invest, che ha una filiale locale chiamata Meroe Gold, hanno iniziato a operare in Sudan dopo che l’ex dittatore Omar El-Bashir ha incontrato Vladmir Putin nel 2017, offrendogli concessioni minerarie e permettendogli di costruire una base navale nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. 
Una struttura in grado di ospitare fino a 300 persone, civili e militari, e 4 navi da guerra. Secondo il progetto, Mosca avrà il diritto di trasportare, attraverso porti e aeroporti sudanesi, armi, munizioni e attrezzature destinate al funzionamento della sua base. Questo sito sarà il primo del suo genere per Mosca in Africa, e il secondo al mondo, dopo quello di Tartus, in Siria.
La base servirà a coprire due dei grandi interessi russi nella regione africana. Il primo è l’export bellico, per creare dipendenza e influenza attraverso questo mercato nei paesi del continente. Il secondo è che Mosca potrà avere un peso sull’asse Mar Rosso, Suez, Corno d’Africa che connette Mediterraneo e Oceano Indiano, considerato strategico per il commercio internazionale.
Una promessa che nella sua recente visita a Mosca, il generale Dagalo ha rinnovato proprio mentre le truppe dell’Armata russa si preparavano a invadere l’Ucraina. Secondo Hemetti, la proposta russa per lo sviluppo della base navale in Sudan sarebbe all’attenzione del ministro della difesa di Khartoum, di conseguenza non direttamente sotto la sua capacità decisionale.
Secondo gli Stati Uniti, invece, l’approvazione sarebbe imminente perché la missione del generale Dagalo a Mosca avrebbe avuto come principale oggetto proprio la discussione in merito alla definizione dell’accordo per la base navale.
L’assenso di Hemetti alla costruzione della base russa ha provocato la dura reazione delle autorità egiziane, che hanno chiesto al potente generale sudanese di fornire chiarimenti sulle dichiarazioni riguardanti la base. I funzionari del Cairo hanno affermato «di opporsi alla creazione di qualsiasi base straniera vicino ai confini e alle aree di influenza del paese».
Sarà però difficile che Khartoum receda dai suoi propositi, mentre cerca aiuti economici, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso per intero un pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari, in seguito al colpo di stato del 25 ottobre.

UN CONFLITTO POCO “ORTODOSSO”

11 Marzo 2022
di Rocco Bellantone.
A fine 2021, oltre cento sacerdoti in servizio nel continente hanno lasciato il patriarcato di Alessandria (Egitto) per passare a quello di Mosca. Artefice della manovra il patriarca russo Kirill I, fedelissimo di Putin, in rotta con Tawadros II di Alessandria
Centodue sacerdoti in servizio in 8 paesi africani passati dal patriarcato greco-ortodosso di Alessandria a quello russo. Con questo cambio di casacca di massa, annunciato a Mosca nel Sinodo di fine 2021 e di cui ha dato notizia Asia News, agenzia di informazione dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime), il patriarcato russo ha creato ufficialmente un proprio esarcato in Africa. Dodici in totale le bandierine fissate nelle due diocesi dell’Africa settentrionale e meridionale: Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ciad, Camerun, Nigeria, Libia, Centrafrica e Seicelle. Incarico di guida assegnato al vescovo russo di Erevan in Armenia, Leonid (Gorbačev).
Con una sola mossa, l’artefice di questa manovra, il patriarca di Mosca Kirill I, ha centrato due obiettivi: ha scippato sostegno internazionale alla Chiesa autocefala di Ucraina, frutto dello scisma ortodosso del 2018 (innescato nel 2014 dall’occupazione russa della Crimea) e riconosciuta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartomoleo I; e ha assestato un duro colpo all’autorevolezza in Africa del patriarca di Alessandria, Tawadros II, che nell’agosto scorso, sull’isola turca d’Imbros, aveva teso la mano al metropolita autocefalo di Kiev Epiphany, segnando il definitivo punto di rottura con la Chiesa russa, già maturato nel 2019.
In passato compagni di studi all’università sovietica di Odessa, Kirill I e Tawadros II sono dunque ormai ai ferri corti. Nella sua campagna di conversione in Africa, il patriarca di Mosca sa di poter contare sull’appoggio incondizionato del Cremlino. Kirill I fa parte, infatti, della cerchia dei fedelissimi del presidente russo Vladimir Putin. Ha rapporti molto stretti con oligarchi e manager delle più influenti aziende del paese, compreso il gigante petrolifero Gazprom. Una fedeltà riconosciutagli dal governo, che nel 2019 ha sborsato circa 43 milioni di dollari per ristrutturare la sua residenza nell’ex palazzo imperiale di San Pietroburgo.
Da anni la Chiesa di Mosca coltiva contatti in Africa. Ultime terre di conquista, come segnalato in un report di Africa Intelligence, sono stati Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia e Sudafrica. Tra le parrocchie sfilate ad Alessandria c’è quella di Sergio di Radonež a Johannesburg (Sudafrica), guidata dall’arciprete Daniel Lugovoy. Altro fronte caldo è il Madagascar, dove l’ambasciatore russo Andrey Andreev sta raccogliendo fondi per affidare una nuova chiesa a sacerdoti legati a Mosca.
I centodue transfughi di fine anno sono il risultato di un pressing diplomatico istruito in occasione di un precedente sinodo che si era tenuto a Mosca il 23 e 24 settembre. Da allora l’uomo di Kirill I in Africa, il vescovo Leonid – scelto non a caso per questo ruolo dopo aver rappresentato il patriarcato russo ad Alessandria tra il 2004 e il 2013 – non si è mai fermato. A metà novembre è stato a Dar es Salaam, dove ha incontrato i metropoliti Dimitrios di Irinoupolis, referente per la Tanzania orientale, e Jeronymos di Mwanza, per la Tanzania occidentale. Nella sua visita è stato accompagnato dall’ambasciatore russo in Tanzania, Yuri Popov, che in questo paese cura in particolare gli interessi della compagnia di stato Rosatom nei locali giacimenti di uranio.
Il blitz di Leonid era stato anticipato, qualche settimana prima, da un tour di visite di Tawadros II, volato prima a Kampala (Uganda) per un incontro con il presidente Yoweri Museveni, poi in Tanzania insieme all’ambasciatore egiziano Mohamed Gaber Abulwafa e al console onorario greco William Ferentinos – dove a capo di un codazzo di imprenditori greci ha incontrato anche il vicepresidente Filippo Mpango –, infine a Johannesburg per un colloquio con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa.
La regione dei Grandi Laghi è lo scacchiere in cui la posta in palio tra le due Chiese è la più alta. Tra fine luglio e inizio settembre le morti prima del metropolita Nikoforos di Kinshasa, poi del suo omologo di Kampala Jonah Lwanga, hanno aperto una delicata partita per la loro successione. Chi riuscirà ad accaparrarsi quelle poltrone, infatti, avrà accesso a uno dei più ampi bacini di fedeli ortodossi di tutto il continente.
Mosca ci tiene moltissimo. I governi di Rwanda e Uganda sono tra i principali acquirenti africani di armi di fabbricazione russa, mentre in Rd Congo è sempre più attivo il gruppo Alrosa, specializzato in estrazione di diamanti. Sono business in forte crescita, che il Cremlino vuole tutelare garantendosi una leadership religiosa nella regione. Se in Africa meridionale Zimbabwe, Angola e Mozambico restano sotto il controllo del patriarcato di Alessandria, che in quest’area conta sull’arcivescovo cipriota Seraphim, la sfida è aperta in Repubblica Centrafricana. La piccola comunità ortodossa del paese è passata recentemente sotto la sfera d’influenza russa. E nella capitale Bangui è in fase di costruzione il settimo centro russo per la scienza e la cultura, sotto lo sguardo vigile della compagnia di sicurezza privata Wagner. Segno, anche questo, che quella in corso non è solo una campagna religiosa.

Un concilio poco conciliante?

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Poche ore fa il Presidente ucraino Petro Oleksijovyč Porošenko ha annunciato che il concilio per l’unificazione della Chiesa ortodossa autocefala dell’Ucraina si terrà il 15 dicembre. Proprio domenica mi è capitato di leggere sul numero de La Lettura del 25 novembre un articolo di Marco Ventura che trattava l’argomento. Vi sono vari passaggi che mi lasciano perplesso, ma, come ho spesso fatto, sul blog do spazio a chi fa pensare e stimola la riflessione. Ecco dunque il suo pezzo che ho reperito qui.

Il Concilio annunciato in Ucraina rischia di determinare una rottura traumatica fra il patriarca di Costantinopoli, che ha un primato d’onore in quella confessione, e il patriarca di Mosca, che vanta il maggior numero di fedeli. La posta in palio è il diritto all’autogoverno, «autocefalia», delle autorità ecclesiastiche schierate con Kiev.
È annunciato per le prossime settimane il Sobor, il santo Concilio che cercherà di dare all’Ucraina un’unica Chiesa ortodossa. Competono le tre maggiori Chiese del Paese. Quella fedele al Patriarcato di Mosca, circa il 20 per cento dei credenti sul totale, e le due vicine al governo ucraino presiedute rispettivamente dal patriarca di Kiev Filarete e dal metropolita Macario. La tensione ha raggiunto livelli clamorosi dopo che l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, primo tra pari tra i patriarchi del mondo ortodosso, ha ammesso Filarete e Macario alla comunione con le altre Chiese.
Tecnicamente non è il «riconoscimento» delle due Chiese di cui ha parlato la stampa internazionale. Costantinopoli ha invece preannunciato in un comunicato del 19 novembre il rilascio del tomos, il documento specifico con cui si riconoscerà il diritto all’autogoverno, l’«autocefalia» ortodossa, della Chiesa che nascerà dal Concilio. Il passo è grave per il Patriarcato di Mosca, che si sente debole nel processo verso un’unica Chiesa autocefala ucraina. «È stata attraversata la linea rossa», ha dichiarato il portavoce del patriarca Kirill, che ha anche parlato di «catastrofe»e di rischio che si interrompa la comunione eucaristica tra Mosca e Costantinopoli.
Il conflitto ucraino ha gli ingredienti delle grandi storie di religione e potere. I protagonisti si sfidano in ambizione e avidità: ricattano e comprano,sussurrano e gridano, trattano e sparano. Tutti vanno a letto con tutti; tutti avvelenano tutti. Il copione potrebbe funzionare sempre, ovunque. In questo inizio di terzo millennio, tra Kiev, Mosca e Istanbul, esso prende una forma peculiare. Lo spazio è decisivo. Il controllo del territorio attribuisce proprietà e finanze, popolazione e cariche, ricchezza economica e politica. Nel mondo ortodosso la questione è particolarmente cruciale.
Dalla sua ridotta di Istanbul, il patriarca di Costantinopoli ha un primato di onore e non di giurisdizione. Le Chiese sono autocefale, hanno ciascuna un proprio vertice, un capo. Lo spazio dell’ortodossia è concepito come diviso infette controllate dall’una o dall’altra Chiesa. Il territorio canonico è un sofisticato congegno teologico e giuridico il cui funzionamento implica una feroce lotta contro ogni rivale interno al mondo ortodosso ed esterno ad esso,specie cattolici e musulmani. La coesistenza nello stesso territorio di più di una Chiesa, e di più di un capo, è una patologia. L’unità del potere politico segue il medesimo principio: un sovrano, una Chiesa, un territorio.
Le condizioni in cui nei secoli si sono trovati a vivere gli ortodossi hanno spesso contraddetto il principio. Nell’Impero ottomano, gli ortodossi arabi e serbi, greci e bulgari hanno formato comunità mobili e sparse, sotto governanti musulmani. Nel corso delle guerre russo-polacche, l’Ucraina è stata fatta a pezzi tra cattolici e ortodossi. Mentre il puzzle si disfaceva e si ricomponeva, ogni volta in modo nuovo, ogni volta in riferimento a un mitico passato, mentre nell’era della comunicazione digitale il territorio si disperdeva online, l’unità di potere politico ed ecclesiastico sul territorio canonico diveniva tanto più ambita quanto più lontana dalla realtà.
Dopo il crollo del comunismo, gli ortodossi si sono dovuti impegnare soprattutto contro i nemici atei e musulmani. Al centro della battaglia, il patriarca di Belgrado resisteva sotto le bombe degli occidentali secolarizzati e dava battaglia in Bosnia contro i mujaheddin venuti dall’Afghanistan, dalKashmir e dall’Algeria. Lo schema dello scontro mondiale tra cristiani e musulmani ha dominato negli ultimi trent’anni la percezione del ruolo geopolitico degli ortodossi. È stato il caso delle Chiese ortodosse che non accettano il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), gli armeni sotto costante minaccia azera e turca, e i copti egiziani. È stato il caso dei russi che,dalla guerra contro i musulmani ceceni e dal controllo dei musulmani nelle proprie frontiere, il 10 per cento del totale della popolazione russa, hanno tratto le risorse per la strategia di influenza sul mondo islamico culminata con l’intervento in Siria.
Il grande scontro con l’islam di cui sono stati protagonisti gli ortodossi ha lasciato in secondo piano altre tensioni. Dei 25 mila morti in Croazia tra il 1991 e il 1995, dei 55 mila caduti in Bosnia tra il 1992 e il 1995, delle centinaia di morti della guerra in Georgia, Ossezia del Sud e Abcasia tra 1988 e 1993 non si è parlato in termini di vittime di una guerra tra cristiani.Invece lo erano. Nel caso della Croazia e almeno in parte della Bosnia, le violenze ebbero luogo tra cristiani di diversa confessione, cattolici e ortodossi. In Georgia, ortodossi uccisero ortodossi. La pace intervenuta successivamente,negli stessi mesi degli accordi che misero fine al conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti, rese le violenze tra cristiani ancor più invisibili.Se c’erano state, e se anche si fossero davvero potute catalogare come«violenze tra cristiani», il loro tempo era finito.
A vent’anni di distanza, l’esplosione della guerra del Donbass nell’Ucraina orientale, ha nuovamente sfidato la convinzione che la violenza religiosa contemporanea abbia soltanto a che fare con l’islam. Come in Georgia negli anni Novanta, e con una magnitudine enormemente maggiore, cristiani hanno ucciso cristiani; addirittura, cristiani ortodossi hanno ucciso cristiani ortodossi. E continuano a farlo.
Il conflitto tra patriarchi e Chiese ortodosse in Ucraina mette allora davanti a un bivio. Lo scontro può essere visto e gustato quale lotta di potere politico ed economico, come fa la maggior parte degli osservatori. Si inseguono le sfumature, si pesano le mosse, si stringe il microscopio sugli attori locali, si allarga il campo a Kirill e a Bartolomeo. Ecco irrompere gli alleati: gli ortodossi americani in gran parte vicini a Costantinopoli, i serbi tradizionalmente amici di Mosca. Ecco i governi mettere mano al portafoglio: a Kiev per strappare qualche vescovo al Patriarcato di Mosca o per far sedere i dignitari filorussi al tavolo del Consiglio interreligioso; a Mosca per boicottare l’imminente Concilio. Ecco pesare gli interessi economici, i gasdotti, le risorse naturali e la diplomazia internazionale, l’Unione Europea, la Nato.
Solletica, questo modo di leggere la crisi ecclesiastica ucraina, ma resta in superfice e induce a sbagliare sui dettagli. La grande stampa internazionale lo fa proprio: perciò commette l’errore di annunciare un inesistente«riconoscimento» delle Chiese ucraine da parte del patriarca di Costantinopoli e trascura la posta in palio nel prossimo Concilio. Appiattiti su polemiche e trame, si resta ciechi davanti alla grande questione per i cristiani in Ucraina, dove dal 2014 sono morti in quasi 10 mila, e le violenze continuano. S’ignora cioè il nesso tra la crisi delle Chiese e questi morti, le migliaia di feriti, gli sfollati: i cristiani ucraini e russi, greci e serbi, appaiono privi di responsabilità, impotenti; in balia della politica e dell’economia,locali e globali.
Ecco il punto. Il processo che condurrà al Concilio sarà il test della capacità degli ortodossi, in Ucraina e altrove, di essere plurali e uniti, senza violenze. Sbaglierebbe, in proposito, chi snobbasse la vicenda come solo ortodossa. L’onda delle decisioni delle prossime settimane a Kiev, Mosca e Istanbul investirà in pieno tutti i cristiani che in Europa e in America, in Asia e in Africa, cercano il proprio posto nel futuro.”

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