La kippah

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“Due sono le interpretazioni simboliche della kippah. Secondo la prima, essa significa l’atto di adorazione e di umiltà nei confronti della grandezza di Dio. La seconda suggerisce, invece, che essa serve per evitare che il lezzo dei nostri pensieri abbia a salire fino a Dio.” (Moni Ovadia)

Quell’uno sei tu

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Solita passeggiata per i campi in compagnia di Mou. Ascolto un podacast di Uomini e profeti di Radiotre con Moni Ovadia che cita i “Racconti dei chassidim” di Martin Buber.

Rabbi Mosche Löb diceva: «Non esiste qualità o forza nell’uomo che sia stata creata inutilmente. E anche tutte le qualità, anche quelle basse e malvagie, possono essere sollevate al servizio di Dio. Così, per esempio, l’orgoglio: quando viene innalzato, si trasforma in nobile coraggio nelle vie di Dio. Ma a che scopo sarà stato creato l’ateismo? Anch’esso ha il suo innalzamento: nell’atto di pietà. Poiché quando uno viene da te e ti chiede aiuto, allora tu non devi raccomandargli di avere fiducia e rivolgere la sua pena a Dio. Ma devi agire come se Dio non ci fosse, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo: e quell’uno sei tu».

Questione di centesimi

25 gradi, una passeggiata per i campi con Mou e le riflessioni di Moni Ovadia nello smart-phone con questo racconto che mi ha fatto sorridere:

photofinish.jpg“Un rabbino, ogni venerdì sera si mette davanti all’armadietto di santità, dove sono riposti i testi sacri, e comincia a invocare il Santo Benedetto, con la sua voce terribilmente petulante: «Senti, mi ascolti? Qui le cose vanno male: viviamo nella miseria più nera e io sono pieno di acciacchi. Ma sono un buon servo e tutti noi siamo pii». E continuava: «Perché non mi mandi un milione di dollari, che sistemiamo tutto e finalmente anch’io avrò qualcosa di buono!?». Alla fine, dopo giorni e giorni – forse mesi o anni – il Santo Benedetto decide di parlargli. «Sono qui, Samuelino, ti ascolto», gli dice. «Davvero, sei tu!?», urla il rabbino, petulante. «Sono io. Ma che voce fastidiosa hai!? Te l’ho data io? Beh, è proprio vero che tutti sbagliano. Ti ascolto, Samuelino. Cosa vuoi?». E il rabbino: «Niente, niente, Santo Benedetto. Voglio solo fare un ragionamento con te. Ascoltami. Che cosa sono per te un milione di anni?». L’Eterno risponde: «E cosa vuoi che siano per me un milione di anni? Meno di un centesimo di secondo». E il rabbino: «E dimmi: cosa sono per te un milione di dollari?». E il Santo: «E cosa vuoi che siano per me un milione di dollari? Meno di un centesimo di dollaro». «Allora», incalzò il rabbino, «ti costa così tanto mandarmi quello che per te è meno di un centesimo di dollaro?». E l’Eterno: «Perché pensi che non te lo voglia dare? Ti chiedo solo di aspettare un centesimo di secondo».”

Sorridere

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Sono un po’ musone. Me lo dicono diversi colleghi, quando, la mattina, mi vedono in portineria. Non me lo dicono gli studenti; ma devo ammettere che la mia espressione in classe è diversa, più serena e spesso sorridente. Il fatto è che quando mi concentro sulle cose da fare e mi organizzo mentalmente assumo l’aria corrucciata. In fondo a questo pezzo Enzo Bianchi dice: “Per togliersi il muso, bisogna imparare a vivere senza strategie. Bisogna ritrovare lo stupore e l’ascolto, altrimenti ci si ammala.” Ci provo, anche perchè lui mi dà due anni di tempo…

Il pezzo è una simpatica intervista sul sorriso a Bianchi e a Moni Ovadia pubblicata da Maurizio Crosetti su La Repubblica.

In cosa consiste, secondo voi, “la sapienza del sorriso”?

M.O.: «All’inizio dell’avventura del monoteismo ebraico, c’è un’annunciazione che precede di 1.500 anni quella cristiana. Abramo, circonciso e centenario, è in comunicazione col divino e apprende che sua moglie Sara, novantenne e sterile, gli darà un figlio. Per tutta reazione, Abramo si scompiscia dalle risate, è ovvio che non ci crede, mentre il riso di Sara è più vergognoso ma non meno scettico. Nove mesi dopo, il Santo Benedetto si presenta per annunciare che il nascituro si chiamerà Isacco, nome che in italiano dice poco ma in ebraico è il futuro del verbo ridere. Eccolo, il figlio per quei due che tanto risero nel momento dell’annunciazione. L’identità ebraica è uno scoppio di risa, come l’aprirsi all’utopia, al cortocircuito tra senso e controsenso. Magari, la risata ebraica comincia con Caino che chiede “Sono forse io il custode di mio fratello?”, dopo averlo ucciso. Ma Dio raccoglie la provocazione, dicendo “nessuno tocchi Caino”».

E.B.: «Noi cristiani siamo sempre sorpresi per come gli ebrei, leggendo la Bibbia, siano capaci di humour e sorriso. Il Nuovo Testamento non dice mai che Gesù rise o sorrise, eppure ricordo che Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo” fa aprire un gran sorriso sul volto di Gesù nel momento dell’entrata in Gerusalemme, al cospetto dei bambini. Quando vidi quell’immagine fu come una rivelazione. I cristiani, a differenza degli ebrei, non sono capaci di sorridere di Dio e neppure di litigarci. Gli unici a sorriderne sono i cosiddetti “santi folli”, soprattutto nella tradizione ortodossa, personaggi che oggi chiameremmo disturbati. Predicatori nudi, col fiasco in mano, capaci di sputare sulle candele per spegnerle o di abbracciare le mura dei postriboli: provocatori, dissacratori del potere. Alcuni, addirittura modelli di virtù. Meglio loro di un certo sorriso stereotipato da immaginetta, da paccottiglia religiosa».

Il Dio della Bibbia è spesso truce e vendicatore, altro che sorrisi. Perché?

M.O.: «Si tratta di un grosso equivoco, frutto di letture errate e traduzioni approssimative. La famosa vendicatività di Dio, altro non è che l’estremo tentativo di mettere l’uomo di fronte al suo destino. Non una minaccia, semmai un grido di richiamo. Qualche volta sembra addirittura che Dio alzi le mani e si arrenda davanti a certe beghe umane, quando lo tirano in mezzo come giudice e lui ride con misericordia, non certo con cattiveria. Può forse Dio essere cattivo?».

E.B.: «Nell’Antico Testamento esistono forti immagini di collera divina, la proverbiale ira di Dio. Non sappiamo sopportarla, però dovremmo capire che quel linguaggio rivela la passione di Dio, la sua emotività. Dio sa indignarsi, è un appassionato del bene. Ma quando promette a Noè che non manderà un altro diluvio, e anzi guarderà l’arcobaleno come un arco deposto tra le nubi, come non immaginare il suo sorriso? Chi, tra noi, può osservare la fine della tempesta e il ritorno del sereno senza sorridere? Finché l’uomo è qui, sulla Terra, Dio non può castigarlo, altrimenti gli toglierebbe la libertà. Siamo noi a sbagliare strada, quando accade. E nessuno viene spedito all’inferno con nome e cognome, mentre ci sono uomini che vengono mandati in paradiso, i santi».

Il sorriso è spesso scambiato per debolezza, quasi un pregiudizio riduttivo. Come se fosse una forma di carineria. Non è profondamente ingiusto, questo?

M.O.: «E’ come l’equivoco opposto, cioè confondere serietà e seriosità. Oppure, non sorridere ma irridere o deridere. Esistono fragili confini. C’è chi ride per offendere, per sottolineare un difetto fisico o una mancanza di carattere, c’è chi irride le donne o i poveri. E c’è il sorriso ipocrita, falso. Come non sorridere, invece, pieni di luce, di fronte a certi comportamenti geniali dei bambini? La risata ebraica è di altra natura, spesso nasce dalla tragedia, è un bagliore di luce che spiazza. Ma è sempre leggerezza e salute, non pesantezza e malattia. Non fa forse ridere che il popolo eletto fosse composto dagli ultimi tra gli ultimi, e guidato da un profeta balbuziente come Mosè? Per questo Dio gli mise accanto Aronne, che invece aveva la lingua sciolta: erano come i due carabinieri».

E.B.: «Il sorriso non è mai debole. Per sorridere occorre una grande padronanza di cuore, bisogna esercitarsi molto. E’ facile irridere o deridere, ha ragione il mio amico Moni, oppure sfoderare un mezzo sorrisino di superiorità. Ma il vero sorriso è accoglienza, è apertura del volto all’altro: si muovono tutti i muscoli del viso, e si aprono di più gli occhi. Il vero sorriso parla senza bisogno di parole, anzi le precede, altrimenti è solo egoismo e freddezza. Il linguaggio del sorriso è il più carnale, il più corporeo: nessuno può dire buongiorno facendo il muso. Purtroppo si è scambiata la bontà col buonismo, ed è diabolico, è come spogliare l’uomo delle sue più profonde capacità. Lo stesso trattamento riservato alla mitezza. Io penso che la vera crisi non sia la mancanza di fede in Dio, ma negli altri. Fede e fiducia sono la stessa parola, nella Bibbia. E gli altri si accolgono sorridendo».

Qual è il vostro personale rapporto con il sorriso?

M.O.: «Io, come autore e attore, ne faccio collezione. Ho il privilegio di incontrare tanta gente, e quando sorrido è come se aprissi loro la porta. Non mando indietro mai nessuno. Capisco com’è andato lo spettacolo dal sorriso del pubblico. Ricordo quando mi innamorai di mia moglie, tre anni prima di fidanzarmi: all’inizio, lei mi guardava come un carciofo. Poi la rividi, appunto tre anni dopo, a una festa, e la guardai sorridendo. Lei un giorno mi ha detto: nessuno, né prima né dopo quella volta, mi ha mai sorriso come te».

E.B.: «Io sorrido molto volentieri, e allo stesso modo mi piace ridere. Non di storielle o barzellette che non so raccontare, ma del piacere del ricordo con gli amici, della sorpresa del passato. Mi hanno educato così da piccolo. Rammento mia madre ormai morente, io avevo otto anni e lei mi ripeteva “Enzo, sorridi”. Non lo dimenticherò mai. Però devo ammettere di essere anche molto tentato dalla collera, specialmente di fronte alla menzogna e all’ingiustizia: in quel casi, la mia faccia può diventare assai dura. E se nella Bibbia non si parla mai del sorriso di Gesù, si dice invece che “indurì il suo volto” verso Gerusalemme, quando vide i nemici all’orizzonte ma decise ugualmente di proseguire».

Siamo sempre più musoni, viviamo di mugugni, insoddisfazioni e lamenti continui. Un sorriso può guarirci?

M.O.: «Gli ebrei sanno sorridere di se stessi anche sull’orlo dell’abisso. Qui, però, c’è poco da ridere, tutto è competizione, individualismo e mercato. Non viviamo, sopravviviamo. Si corre come criceti nella ruota, il sorriso è imploso in una smorfia oppure si è plastificato. Senza poi dimenticare quella perversione che è il lifting: c’è gente imbalsamata in vita, almeno i faraoni aspettavano di essere morti”.

E.B.: «Per togliersi il muso, bisogna imparare a vivere senza strategie. Bisogna ritrovare lo stupore e l’ascolto, altrimenti ci si ammala. La faccia si deforma, e dopo i quarant’anni non c’è più niente da fare, la bocca diventa una lamentosa U capovolta. E dopo i quarant’anni, come dicono i saggi, ognuno ha la faccia che si merita».