La relazione dell’Osservatorio regionale antimafia

L’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia Giulia ha presentato ieri, 27 marzo, la relazione del 2018. In attesa di leggerla integralmente, pubblico l’articolo di Nicolò Giraldi per Trieste Prima:

Michele Penta, Coordinatore dell’Osservatorio regionale antimafia (fonte)

“L’infiltrazione mafiosa in Friuli Venezia Giulia è realtà, anche se a mancare ad oggi – perché non disponibile – è proprio il numero dei condannati, in regione, al regime di 416 bis, il carcere “riservato”ai colpevoli per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso. A dirlo è l’Osservatorio Regionale Antimafia che oggi 27 marzo presso la sede del Consiglio regionale a Trieste ha presentato la sua relazione del 2018. Alla conferenza stampa sono intervenuti il presidente del Consiglio del Friuli Venezia Giulia, Pier Mauro Zanin, il presidente dell’ORA Michele Penta e il Governatore Massimiliano Fedriga.
“E’ indubbio che ci siano alcuni campanelli d’allarme – ha introdotto Zanin – rispetto alla situazione di un tempo in cui la nostra regione veniva considerata immune alle infiltrazioni mafiose. Oggi non è più così anche perché le mafie utilizzano risorse finanziarie, elusione e un sistema per poi poter avere una finalità precisa, vale a dire l’utilizzo di regioni lontane per fare la lavatrice delle risorse illecite”.
Riciclaggio, droga, armi e prostituzione
Le mafie riciclano al nord i soldi che arrivano dal traffico d’armi, dallo sfruttamento delle condizioni personali, dalla droga e da molte altre attività illegali. I meccanismi di inserimento della malavita nei processi che riguardano l’uso delle risorse pubbliche sono sottili e per questo le amministrazioni dovrebbero lavorare molto di più di ciò che viene fatto ad oggi, nella turnazione dei propri dipendenti.
Il lavoro basato sulle relazioni antimafia
Michele Penta ha poi illustrato i dati della relazione 2018. “Abbiamo letto centinaia di migliaia di pagine. Da quelle derivanti dalla Direzione Investigativa Antimafia fino a quelle delle commissioni parlamentari. Sembravamo immuni ma, come cambiano le società, cambiano i metodi mafiosi. Dal 2014 si è infatti scatenata un’escalation di notizie relative alle infiltrazioni mafiose”. Nato il 5 febbraio del 2017, il compito dell’Osservatorio è “fotografare la realtà della consistenza del fenomeno criminale di stampo mafioso, sia esso riconducibile ad ambienti di camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita, più quello che localmente viene a determinarsi” ha continuato Penta. “Oggi sul panorama territoriale esiste una mafia locale e tante piccole mafie, che adottano il metodo mafioso“.
Il metodo mafioso: si corrompe e si minaccia
Il sistema utilizzato è è quello delle scatole cinesi e trova nel riciclaggio di denaro sporco la sua ragion d’essere. “Il riciclaggio – secondo l’Osservatorio – si fa anche con la Slovenia e la Croazia. La criminalità si arricchisce attraverso il traffico di droga e armi, un’enorme quantità di denaro che usa in attività lecite, in realtà ha una provenienza illegale”. “Prima si corrompe, si minaccia la persona in questione, poi la famiglia per poi arrivare, nel caso la mafia non raggiunga il suo scopo, a conseguenze anche molto pesanti. Quando la persona minacciata chiede il trasferimento e viene spostato, allora la criminalità organizzata ha raggiunto il suo scopo.
Nessun caso di usura e “pizzo”
La difficoltà più grande per gli investigatori è quella di arrivare a determinare l’esatto meccanismo delle attività criminali. I reati per riciclaggio sono in misura più alta rispetto agli altri. L’attenzione sugli appalti e sui sub-appalti è costante, come d’altronde anche quella sulle forme di contrattualistica, i grandi traffici, i trasporti, i porti e molto altro. “Non si sono verificati – non sono stati oggetto di indagine o di condanna – episodi di usura o pizzo” sempre secondo l’ORA.
Individuano le società e le acquisiscono
“Un efficace metodo di infiltrazione – secondo l’ORA – si basa sull’individuazione di società alle prese con problemi finanziari e vengono aggiunti capitali. Si crea debito e alla fine si acquisiscono”. Ciò che serve è “un programma di formazione anche per gli addetti degli uffici pubblici, dove deve essere sempre consentita una formazione più elevata. La turnazione del personale può essere facilmente gestita da comuni come Trieste o Udine, mentre per i medi o piccoli enti locali tutto ciò diventa molto difficile.
“Non possiamo dormire sonni tranquilli”
Il Governatore Fedriga è intervenuto nella conferenza stampa. “Motivo di soddisfazione è rappresentato dall’esserci mossi con anticipo rispetto ad una situazione preoccupante, sempre se paragonata ad altre regioni. L’Osservatorio è fondamentale come termine dissuasivo agli interessi della malavita sul territorio”. “Il successo – ha concluso Fedriga – è quello di andare a colpire chi commette i reati, ma anche e soprattutto che non si verifichino situazioni delittuose. Dobbiamo tutelare la nostra comunità”. Secondo l’Osservatorio Regionale Anitmafia tuttavia “non possiamo dormire sonni tranquilli”.

Il servizio di 7Gold

Così invece ne ha scritto la redazione del Diario di Trieste:

“TRIESTE – Non siamo una regione con presenza di criminalità organizzata e di stampo mafioso forte come quella che si registra in Lombardia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, ma non possiamo dormire ‘sonni tranquilli’ neppure qua. Dal 2014, c’è stata una escalation di fenomeni legati alle associazioni criminali nazionali e non da meno locali. È come se quel sistema sociale chiuso che caratterizzava il Friuli Venezia Giulia fosse venuto meno nella sua funzione di isolamento, che in questo caso significava protezione.
La relazione
È quanto è stato evidenziato e che emerge dalla prima relazione annuale dell’Osservatorio regionale antimafia, istituito ai sensi della legge regionale 21/2017 ‘per il contrasto e la prevenzione dei fenomeni di criminalità organizzata e di stampo mafioso’. Il comitato è costituito da cinque componenti, nominati dal consiglio regionale il 22 novembre 2017 e prorogati sino ad aprile 2020. Si tratta di un organismo istituito in molte regioni d’Italia ma non in tutte, è stato fatto presente a sottolineare come il consiglio regionale del Fvg, a cui l’Osservatorio fa diretto riferimento, sia in prima linea in questo aspetto offrendo un deterrente all’insediamento delle organizzazioni malavitose nel nostro territorio. Diversi i settori in cui la criminalità organizzata si è infiltrata in Fvg, a cominciare da quello del riciclaggio del denaro sporco per passare agli appalti e soprattutto ai subappalti, ai grandi traffici e ai trasporti, attraverso soggetti locali compiacenti ma anche stranieri, in particolare dell’Est Europa.
Le indagini
Dall’Osservatorio è poi stato esposto un elenco delle evidenze investigative e giudiziarie più significative degli ultimi 20 anni: come i provvedimenti cautelari eseguiti nei confronti di alcuni componenti della famiglia Emmanuello di Gela, attivi nell’esecuzione di opere edili nel comune di Aviano; le indagini sull’insediamento di alcuni esponenti della camorra presso il mercato di Tarvisio; la confisca di beni a Pordenone, Aviano e Tavagnacco all’imprenditore edile palermitano Pecora e a componenti della famiglia Graziano; il sequestro della Sermac di Budoia, risultata di proprietà di un gruppo criminale comprendente esponenti della camorra, della ndrangheta e del clan Casamonica; l’indagine a Monfalcone sulla presenza di un clan della ndrangheta di origine crotonese con a capo Giuseppe Iona, attivo nel settore del traffico di stupefacenti e armi; l’indagine, avviata dalla Direzione investigativa antimafia di Palermo, sui tentativi di infiltrazione di un imprenditore palermitano legato a ‘Cosa nostra’ e operante a Monfalcone; l’indagine sulla presenza della camorra al Porto di Trieste, con l’arresto dei vertici della società ‘Depositi Costieri’ e molte altre ancora, che hanno coinvolto il territorio regionale sino ad oggi. Come si evince da tale sintetica panoramica – è riportato nella relazione – non si può più parlare di tentativi di infiltrazione, né di sporadiche incursioni criminali in alcuni settori economico-produttivi, bensì di un consolidamento strutturato e radicato in alcuni specifici ambiti, quali quello del riciclaggio, accresciutosi negli anni.
Come prevenire
Ma l’allarme che tale situazione oggi determina, peraltro ancora da taluni sottovalutato, non è certo di quest’ultimo periodo o di un passato recente, è un allarme lanciato ben trenta anni fa dell’allora procuratore della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino. Due i livelli su cui intervenire – è stato spiegato -, creando una rete di relazioni: da una parte supportare gli enti locali, in particolare i piccoli Comuni, meno strutturati rispetto agli altri ma dove il sindaco svolge una funzione preminente di sentinella e osservatore privilegiato di ogni novità, dall’altra operare con le scuole attraverso l’informazione ma anche la formazione. Che questa sia la via è stato confermato dall’Associazione nazionale comuni italiani e dall’Ufficio scolastico regionale durante la presentazione della relazione annuale 2018-2019 dell’Osservatorio, che si è scelto di rendere pubblica ogni 21 marzo in occasione della ‘Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie’. Riciclaggio, dunque, con denaro proveniente da droga e armi che viene ‘ripulito’ con attività lecite, le quali però finanziano altre attività illegali, secondo un sistema che si rinnova ogni volta. E poi l’infiltrazione nelle società ‘decotte’, ovvero in difficoltà economica, che vengono fatte fallire e poi acquisite per finalità indebite. E ancora la corruzione, attraverso le minacce prima alla persona poi alla sua famiglia. Il colloquio con il territorio deve essere costante – avverte l’Osservatorio – per la capacità camaleontica che hanno le organizzazioni criminali di mutare una volta scoperte, e di re-infiltrarsi nel tessuto sociale ed economico del luogo. Siamo i primi interessati a collaborare con l’Osservatorio antimafia – ha detto l’Anci – come amministratori ma anche come operatori e professionisti. La scuola già opera con le forze di polizia – ha aggiunto l’ufficio scolastico – con progetti per la legalità economica: l’auspicio è raccordare le azioni soprattutto per la prevenzione, che qui è strategica. Non si tratta solo di proteggerci da appalti truccati che creano riciclaggio – ha chiosato la giunta regionale -, ma tutelare la sicurezza dei nostri cittadini, perché un appalto truccato vuol dire anche utilizzo di materiali scadenti o contraffatti.”

Infine, questo è l’intervento del coordinatore Michele Penta ai microfoni del TG3 lo scorso 22 marzo.

Tessuti sani non ce ne sono più

Fonte

“E’ fondamentale capire come si iniziano a raccontare le mafie e come si inizia a raccontare quello che c’è attorno. Il racconto dell’economia, il racconto del tessuto sociale ci permettono di capire quali sono gli agganci che queste organizzazioni poi hanno. In Lombardia, in Piemonte e in Emilia Romagna sono caduti molto luoghi comuni: se abbiamo l’immagine di un mafioso che arriva e infetta un tessuto sano stiamo già facendo un’operazione di disinformazione perché di tessuti sani non ce ne sono più. Non è un caso se nelle inchieste di Milano e di Bologna si usa il termine “colonizzazione”, intendendo non quella di carattere militare ma quella di carattere economico: è la capacità che le organizzazioni criminali hanno, in questo tempo di crisi, di attirare persone che normalmente non si sarebbero rivolte a un mafioso, ma sarebbero andate in banca o dal patronato o dalle forze dell’ordine. Quando cambia questo tipo di racconto, allora c’è l’inizio di un possibile contrasto anche a livello sociale; se invece continuiamo a raccontarcela come il virus che infetta un tessuto sano, non cambiamo. Credo che oggi, in questo territorio, sia questo il passaggio da fare”. In questi termini, alla fine della mattinata del 2 febbraio a Trieste, si è espresso Lorenzo Frigerio, che poi ha continuato: “L’utilizzo del termine “colonizzazione economica”, usato per la prima volta dai magistrati di Milano e poi dalla Procura Nazionale a proposito di “Crimine infinito”, ha un ulteriore evoluzione nell’inchiesta Aemilia, in cui si parla di “colonizzazione delle menti”. E’ l’idea che, soprattutto in una fase di crisi e in un ambiente contraddistinto da un certo tenore di vita, dove il concetto della fatica e della piccola impresa non basta più a tenere il passo del mercato, il denaro, proveniente da contesti che so essere illeciti, sia indispensabile perché i circuiti normali si sono chiusi. Lì sta il salto di qualità. Il Triveneto sta subendo lo stesso processo che Veneto, Lombardia, Emilia, Liguria hanno vissuto in precedenza: svegliarsi e scoprirsi non diversi dagli altri. Quelli che erano i tradizionali anticorpi sono stati persi per strada.”

E’ quindi intervenuta Fabiana Martini di Articolo 21 sul ruolo del giornalismo in questo periodo storico: “siamo in una fase abbastanza singolare, più che altro perché gli attacchi all’informazione e ai giornalisti arrivano proprio dai vertici delle Istituzioni. Pur sapendo che spesso c’è anche una responsabilità del giornalista che non fa fino in fondo il proprio lavoro e quindi contribuisce a delegittimare la professione, va detto che se si fa il cane da guardia “correttamente” il ruolo è accettato in un contesto democratico; delegittimare l’informazione significa delegittimare la democrazia. Il potere non contrastato è la fine della democrazia. Facendo autocritica dobbiamo anche ammettere che esistono colleghi che si limitano a porre il microfono davanti al potente o al rappresentante di turno senza fare le domande giuste: anche questo significa non fare fino in fondo il proprio lavoro. L’atteggiamento di ostilità e la delegittimazione a cui assistiamo quotidianamente, non solo qui (si pensi agli Stati Uniti, all’Ungheria…), ci fa dire che siamo in un momento difficile e singolare”.

Il Sostituto Distrettuale Antimafia di Trieste Antonio Miggiani ha risposto a una domanda del pubblico in merito a trasparenza e onestà: “Non penso che la popolazione del Friuli Venezia Giulia sia molto più coraggiosa o meno coraggiosa della popolazione siciliana, ma è diversa la percezione. Un siciliano si rende conto del pericolo, il friulano no. In Sicilia nessuno va a fare una denuncia ai carabinieri, mentre qua qualche denuncia c’è. Questa differenza strutturale ha fatto sì che le nostre mafie agiscono in modo diverso al nord. Come detto, sono mafie imprenditrici che si presentano con un aspetto borghese, normale. Il coraggio… sono ben pochi che ce l’hanno. Di fronte a un criminale è normale avere paura.
Un altro aspetto è il finanziamento bancario: le mafie hanno rapporti continui con gli istituti bancari. Se questi ultimi perdono la loro autorevolezza, è ovvio che la mafia viene fuori; il fatto stesso che il nostro sistema bancario da sistema pubblico è diventato privato ha comportato, ad esempio, la scomparsa della figura del pubblico ufficiale all’interno del rapporto. Il Direttore di Banca che si fa dare una tangente per rilasciare un mutuo, non commette reato come se fosse anche pubblico ufficiale. Il sistema bancario è pertanto uno snodo delicatissimo all’interno del quale andrebbero pensate delle forme di reato attualmente inesistenti. Se in questo settore vengono meno la trasparenza e l’onestà, le mafie hanno facile gioco nel portare avanti i loro progetti di espansione economica e di potere”.

Sul rapporto tra magistratura e giornalismo si è infine concentrato l’intervento del Sostituto Procuratore di Venezia Lucia D’Alessandro: “voglio intervenire in merito alla colonizzazione da parte dei sodalizi tradizionali di matrice mafiosa nel nord-est. In particolare vorrei porre l’accento sul rapporto tra informazione e percezione: se non c’è una giusta informazione, corretta ed esaustiva, non possiamo pretendere che la popolazione sia attenta. E’ molto importante che si crei una interlocuzione schietta, serena, costruttiva tra le procure e l’informazione; devo ammettere che se l’informazione non viene in qualche modo soccorsa, agevolata dalle forze dell’ordine, dalle procure, nell’adeguatezza dell’informazione che si accinge a rendere, rischia di incorrere nell’errore e nel dispiacere di fornire notizie, se non false, almeno fuorvianti e scorrette. E’ auspicabile un dialogo asciutto, che consenta di veicolare informazioni non coperte da segreto istruttorio e che pertanto diano il via a una corretta percezione, da parte della popolazione, del fenomeno mafioso che si è combattuto o che si sta continuando a combattere. Il rischio, altrimenti, è quello di avere una percezione fuorviata che è peggio di nessuna percezione”.

Il fascino del dimenticatoio

Ho seguito con molta attenzione la mezz’ora con cui la giornalista Luana De Francisco ha presentato la situazione del Friuli Venezia Giulia. L’ha introdotta Lorenzo Frigerio: “E’ autrice, insieme a Ugo Dinello e Giampiero Rossi, del libro Mafie a nord-est, del 2015, Rizzoli. Nell’introduzione del libro si legge: “Sono tanti i segnali di una progressiva penetrazione mafiosa nel nord-est che non può più essere trascurata né brandita dalla politica soltanto come strumento nel gioco delle parti. Li abbiamo voluti riunire e raccontare nelle pagine che seguono, nell’intento di offrire a tutti, finalmente, gli strumenti e potersi fare un’opinione.”” Quindi ha preso la parola la giornalista:

“Sono qui in quanto giornalista e quindi voglio ribadire ancora una volta l’importanza del ruolo della nostra professione; non siamo certamente degli oracoli, ma intermediari che hanno la funzione di raccontare. Io mi occupo di cronaca giudiziaria, non sono un’esperta di mafia, ma mi ci sono inciampata. Ho necessità indispensabile di attingere alle carte, ai documenti, alle fonti certe. Accanto poi ci sono le storie da raccontare, quelle della gente, dei testimoni. Nel nostro territorio questo è molto poco presente: le informazioni circolano molto poco proprio perché la mafia non è un fenomeno roboante, non ci sono manifestazioni pirotecniche. Un collaboratore di giustizia, qui a Trieste, ha dichiarato che già 10, 15, 20 anni fa, quando la ‘ndrina Iona salì con tutti i suoi sodali, la parola d’ordine era quella di non farsi notare, di non dare nell’occhio, “la gente non deve sapere che ci siamo”. Da qui la difficoltà per noi giornalisti di raccontare queste cose.
In merito alla questione che i giornali ne scrivono poco o non ne scrivono affatto, vorrei dire che non è proprio così: se quel libro c’è è anche perché parte da una raccolta di articoli pubblicati, solo che poi un quotidiano vive di notizie, per cui un giorno dai la notizia, quello successivo la riprendi perché ci sono le reazioni, ma il terzo giorno è già vecchia la notizia. La forza di un libro, invece, è che resta lì, fa meditare e può far scattare la molla del senso civico. Aggiungo anche che è vero che ogni giorno raccontiamo qualcosa, e anche se non riguarda specificatamente mafiosi, camorristi e ndranghetisti, è comunque prezioso ai fini della descrizione della cornice in cui viviamo. Tutto quello che scriviamo serve a rappresentare il territorio nel quale sono germinati elementi mafiosi: saper riconoscere lo stato di salute o lo stato di crisi di un territorio è molto importante. Ad esempio, ogni anno raccontiamo di quante sono state le segnalazioni all’Ufficio Finanziario della Banca d’Italia di operazioni sospette, il numero di fallimenti, di sequestri di droga o di armi…: tutto questo contribuisce a descrivere i numeri di un territorio che si configura come terra ideale per le colonizzazioni mafiose.
Mi sono accorta tra ieri e oggi che quando si faceva riferimento a storie di 4 o 5 anni fa, c’era molto stupore, segno che queste storie non sono granché conosciute, per cui vale la pena raccontarle. Visto che si è parlato di droga, si è parlato di sud America e si è parlato della scarsa percezione che il territorio ha del problema e vista la scarsa volontà di sapere determinate cose da parte dei cittadini (perché non interessa, perché non fa notizia; spesso indigna di più una ciclabile sconnessa rispetto alla condanna per bancarotta fraudolenta di un imprenditore) ho pensato di accennare prima di tutto alla vicenda di Paolo il Friulano, così chiamato dai camorristi coi quali entrò in affari. Siamo a metà degli anni ‘90, Udine centro. Il suo vero nome era Luciano De Sario, un emigrante di ritorno, partito da bambino insieme alla famiglia palmarina per l’Argentina. In sud America aveva intessuto tutta una serie di rapporti, conoscenze e amicizie e si era sposato con Fadia, una donna venezuelana. A neanche 50 anni decide di tornare in Friuli e torna pieno di soldi; apre un’azienda a Lauzacco, paese alla periferia sud di Udine. Si occupa di import-export di grossi macchinari per il settore edile ed estrattivo, in particolare in e dalla Colombia. Era sostanzialmente diventato il punto di intermediazione tra il cartello di Cali e la camorra di Pasquale Centore (ex funzionari di banca, ex sindaco di San Nicola la Strada). Da questo momento comincia a vivere da nababbo e la gente che vive accanto a lui non si pone nessuna domanda, anzi, si apre la corsa a farsi invitare a casa sua, nell’attico di Palazzo Moretti (oggi confiscato e dato in uso ai servizi sociali del Comune di Udine). Chi ci entrò narra di tappeti in oro zecchino, pezzi di antiquariato… Le macchine erano di lusso, gli ambienti frequentati erano tra i più esclusivi. La domanda “come può un piccolo imprenditore permettersi tutto questo?” però non scattava. Succedeva che dentro quei macchinari transitavano ogni settimana 50 kg di cocaina. A stupire è il fatto che nessuno, né allora, né quando scoppiò lo scandalo, né successivamente, lo abbia mai condannato, anzi: ci si continua, tuttora, a fare vanto di averlo conosciuto, di aver avuto rapporti con “uno che ci sapeva fare”. Poi è stato processato all’interno di un’inchiesta partita dal sud Italia (va detto che anche a questo è legata la scarsa percezione del fenomeno mafioso: poche le inchieste che partivano dal territorio e rimanevano sul territorio). Viene anche da chiedersi: ma tutti questi soldi che guadagnava, dove li metteva? In banca. E’ provato che versasse somme tra 100 e 200 milioni di lire in contanti: non scattava alcun sospetto. L’inchiesta si è poi chiusa con il patteggiamento a 4 anno e 8 mesi, poi ridotti in appello per l’incensuratezza e per il comportamento processuale collaborativo.
Ricordo anche un’altra inchiesta partita da degli accertamenti della Guardia di Finanza di Udine su movimenti bancari di alcuni Istituti di Credito: sono risultati sospetti dei trasferimenti di denaro piuttosto numerosi da Vibo Valentia. L’inchiesta si è trasferita poi per competenza territoriale a Cosenza e ha perso per strada gli elementi friulani che avevano dato il via alle indagini per l’impossibilità di dimostrarne il coinvolgimento; è comunque culminata nel 2015 in un processo che decapitato i Mancuso.
Vi sono anche inchieste che partono dal Sud, come quella che portò a scoprire un affiliato degli Emmanuello (si stava indagando sulla latitanza di Emmanuello di Gela) insieme a degli imprenditori edili trasferitisi da Gela al pordenonese: qui si aggiudicavano appalti funzionali a lavare denaro e a generare compensi per mantenere la latitanza dorata di Emmanuello.
Raccontare queste cose è tremendamente difficile se non si trova un interlocutore disponibile a raccontartele. Se il giornalista ha un barlume di notizia, comunque deve farla uscire perché suo dovere è raccontare i fatti; se non c’è collaborazione, fondata sul rapporto di fiducia reciproco tra giornalista e magistratura e sul rispetto dei ruoli, ci sarà uno svantaggio per entrambe le parti.
In merito al voto di scambio, è in corso un’inchiesta della DDA di Trieste che ipotizza un accordo pre elettorale sulle elezioni amministrative di Lignano del 2012. Un amministratore uscente, di origini napoletane, avrebbe preso accordo con 400 persone del napoletano per avere il loro voto di preferenza in cambio di residenza facili; il tutto con il favore del capo dei vigili urbani di Lignano.
Un’altra inchiesta ha riguardato la ricostituzione di una ‘ndrina nel monfalconese per mano di Giuseppe Iona. Ci sono gli interessi della camorra su Monfalcone e su Fincantieri con il fenomeno dei trasfertisti napoletani.
Insomma, i fatti non mancano; solo che o non si possono raccontare o sono finiti in breve nel dimenticatoio.”

La mafia si evolve

Fonte

Lucia D’Alessandro, sostituto Procuratore della Repubblica di Venezia, è intervenuta, meno di un mese fa, agli Stati generali di Libera contro le mafie. Molto numerosi sono gli spunti di riflessione emergenti dalla sua fotografia del nord-est italiano.

“Il Veneto non può certo essere considerata un’isola felice, neppure per il passato: mi riferisco all’esperienza drammatica e violenta della mala del Brenta. Di recente si sta assistendo a una nuova riorganizzazione, a una sorta di rigenerazione di tale fenomeno. Ieri don Ciotti ha parlato di una reiterazione nei nostri discorsi da 150 anni del fenomeno mafioso. Giovanni Falcone diceva che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Tutto ciò è vero, ma va detto che la mafia si evolve senza che si estinguano tutte le sue specifiche caratteristiche: soltanto alcune si estinguono e quindi il fenomeno mafioso purtroppo non muore, anzi, si evolve. Oggi assistiamo a un profondo dinamismo evolutivo, un adattamento costante, continuo, intelligente, efficace, alle caratteristiche peculiari del territorio che la mafia intende colonizzare. Così assistiamo ai locali, che altro non sono che una propaggine, una clonazione, una replicazione, filiali vere e proprie delle mafie tradizionalmente nate, vissute e viventi nei territori tipici di provenienza (ndrangheta, camorra, cosa nostra, sacra corona unita e camorra barese). Le tradizionali mafie tendono oggi a deterritorializzarsi, a globalizzarsi: perdono quel sistema di orizzontalità sul quale si erano sempre basate (operazioni “Crimine-Infinito”, “Alba chiara”, “Minotauro”) a favore di una configurazione proteiforme, multiforme e globale. Abbiamo vere e proprie partnership tra mafie tradizionali del territorio e quelle colonizzatrici, tra mafie locali e mafie straniere, vere e proprie mafie miste e anche fenomeni di transnazionalità (la ndrangheta leader internazionale del narcotraffico).
Qui la mafia assume sempre più un volto imprenditoriale: non è immateriale, ma è liquida, osmotica rispetto al tessuto economico, sociale e politico delle regioni più ricche. Il distretto veneto costituisce un terreno particolarmente appetibile, molto aggredibile dagli interessi delle mafie tradizionali che in maniera molto subdola, surrettizia, sotterranea (mafia invisibile o mafia silente) si insinuano nel tessuto economico, sociale, politico e anche culturale. Lo colonizzano andando a captare le caratteristiche socio-ambientali e andando a subentrare in maniera furba e brillante, in un sistema di economia legale, a quelle aziende sottoposte a pressioni e a depauperazioni. I fenomeni di crisi economica vengono sfruttati dalle tradizionali organizzazioni di tipo mafioso per penetrare il tessuto in difficoltà delle aziende locali lecite subentrando ad esse. E’ un subentro che viene per certi versi sfruttato dai destinatari di questa aggressione, che vanno distinti in due macro categorie: coloro che la subiscono e coloro che vi colludono. Il concetto di metodo mafioso sta subendo delle evoluzioni: non si estrinseca necessariamente attraverso attività delittuose di tipo aggressivo, violento, con il sangue, con le estorsioni, con le usure e con gli incendi. Una certa parte di estrinsecazione attraverso una manovalanza di tipo gangsteristico continua anche al nord, ma accanto assistiamo sempre più a una penetrazione osmotica del territorio soprattutto economico. E’ una mafia imprenditrice che sfrutta le imprese legali per cercare di riciclare i propri proventi ottenuti con le attività delittuose tipiche delle regioni meridionali: un reinvestimento ammantato di apparente liceità.
In Veneto stanno penetrando sotto forma di una vera e propria colonizzazione le organizzazioni mafiose tradizionali, in particolare la ‘ndrangheta. Cosa si intende per Locali? Si tratta di vere e proprie gemmazioni, proliferazioni, propaggini, filiali della cosiddetta casa madre, Crimine o Provincia che dir si voglia, localizzata in Calabria. La Provincia in pratica decentra, delocalizza, deterritorializza la propria attività mafiosa in questi Locali al nord. La caratteristica saliente di questi locali è l’acquisizione di una autonomia organizzativa e gestionale pur nel rispetto del legame molto forte e pregnante con la provincia o crimine di cui conservano il Dna e da cui mutuano il know how operativo ed esecutivo. Si tratta quindi di un’autonomia parziale: il legame con la casa madre resta indissolubile per un duplice motivo. E’ utile per il reclutamento di manodopera in grado di gestire e guidare i membri stanziatisi al nord o nativi del nord. Ed è utile per l’assistenza, sia legale, sia per l’eventuale necessità di dover nascondere qualche latitante.
Nel momento in cui assistiamo a una mutazione genetica della mafia, pur nella manutenzione del suo Dna proprio, dobbiamo trovare sempre nuovi strumenti di contrasto, anch’essi in grado di evolversi. Ad esempio è necessario colpire il patrimonio delle mafie. Il mafioso tipico è avvezzo ad essere catturato; il vero punto debole è il patrimonio, non tanto la privazione delle libertà personali. La confisca dei beni è molto importante. Un altro esempio riguarda l’evoluzione comunicativa e l’adozione di nuove strategie dal punto di vista tecnico. Quando vengono svolte attività di intercettazione, i sospettati al telefono fischiettano e in macchina canticchiano: dobbiamo dotarci di strumenti in grado di captare le conversazioni che tengono avvalendosi delle moderne tecnologie, dei social, di whatsapp, di skype… I trojan horse dobbiamo poterli utilizzare…
Passando a quanto è stato, non potendo concentrarmi sulla contemporaneità, non si può dimenticare che oltre alla mala del Brenta, nell’ultimo decennio si sono raggiunti dei risultati. Va detto che in Veneto si assiste alla presenza di una pluralità di mafie: mafie endogene, mafie allogene, di tipo misto, straniere (moldave ad esempio, con un processo arrivato in Cassazione). Questo è il dato. Altro è il tasso di percezione del fenomeno mafioso; il 47,3% della popolazione del Triveneto considera la mafia un fenomeno marginale nel proprio territorio e solo il 17% ne percepisce la pericolosità sociale. Questo anche perché in questi territori la mafia uccide sempre meno, utilizza il sangue e gli incendi sempre meno: utilizza il metodo dell’insinuazione nelle attività cardine del territorio. Ad esempio, il territorio veneziano è caratterizzato da importanti reti e infrastrutture con una serie di porti e aeroporti molto rilevanti accanto a una rete economico-finanziaria poderosa. Questo sono tutti obiettivi per le mafie, che, avvalendosi di tanti importanti snodi, aggrediscono il territorio andando a captare anche il sistema politico. Ovviamente porti e aeroporti significano anche possibilità di intrecci con le mafie estere (sud America, Olanda, Spagna…). A questo proposito è evidente quanto siano importanti gli strumenti di cooperazione internazionale (Eurojust) e la figura di un procuratore europeo.
La Mala del Brenta si sta riorganizzando, si sta rigenerando; alcuni degli esponenti storici stanno uscendo dal carcere e, vuoi per vendetta, vuoi per vocazione a delinquere, si stanno organizzando. Abbiamo già avvisaglie in questo senso. Nell’ultimo biennio ricordo poi una brillante operazione in merito al cosiddetto tesoretto di Felice Maniero: 17 mln di euro. A proposito degli ex componenti della Mala del Brenta posso fare un cenno a un’operazione interforze contro il narcotraffico per sostanze provenienti dall’Olanda e dai paesi balcanici (cocaina, oppiacei, marijuana, hashish); si è scoperta una partnership tra una frangia chioggiotta e una frangia di origine siciliana legata ai calabresi.
Un ultimo cenno al fenomeno della tratta: colonizzazione dei nostri territori da parte della mafia albanese e sodalizi nigeriani. La prima agisce soprattutto con figure maschili molto forti, aggressivi e violenti verso le donne che vengono sfruttate sessualmente e fisicamente; i secondi vedono figure femminili nelle posizioni apicali dell’organizzazione, ex vittime che diventano carnefici e aguzzine di altre donne attraverso anche meccanismi magico-esoterici e minacce di tipo rituale. A proposito di questo voglio ricordare il progetto N.A.Ve., Network Antitratta per il Veneto. Spesso mafia e migrazione si intrecciano nel senso che sodalizi di stampo mafioso sfruttano il fenomeno migratorio per i proprio fini.”

Dobbiamo essere attenti

Questa mattina il quotidiano locale Messaggero Veneto ha dato molto rilievo al blitz svoltosi ieri in Veneto ai danni della camorra. La notizia è apparsa in prima pagina e all’interno del giornale sono state dedicate all’argomento 4 pagine. Mentre leggevo gli articoli, mi sono tornate alla mente le parole di Carlo Pieroni, Capocentro della Direzione Investigativa Antimafia di Padova, che a Trieste, sabato 2 febbraio, a Contromafie, così si esprimeva: “Quando intervengo in situazioni come queste, tutti si aspettano che il rappresentante delle Forze dell’Ordine parli della criminalità organizzata nel Triveneto andando dettagliatamente a raccontare quello che sta succedendo. Ma è una cosa che non si può fare. Parlerò però di come le mafie fanno infiltrazione”. Chissà se nella sua mente c’era tutto quello che sta succedendo in questi giorni…

Ecco come ha proseguito il suo intervento: “L’infiltrazione delle mafie a nord est non è diversa da quella che fanno in Germania, in Australia o in altre parti del mondo o in altre parti d’Italia. Le mafie si infiltrano dove ci sono attività economiche redditizie che danno la possibilità di riciclare gli enormi capitali prodotti illecitamente. Quando operavo in Puglia, Campania e Calabria mi chiedevo come mai qui al nord non si capissero alcune cose della criminalità organizzata: qualsiasi attività investigativa legata al 416 bis (associazione di tipo mafioso) trovava difficoltà di comprensione al nord. Non si capiva bene cosa fosse l’attività criminale organizzata. Il nord est è la sesta zona più ricca d’Europa, qui sono presenti le aziende produttive e quindi si attraggono gli investimenti. Qui sono presenti delle famiglie legate ad alcune regioni del sud Italia che fanno un’apparente attività economica legale con la quale riciclano capitali sporchi.
La mafia al nord si manifesta in modo diverso; anche qui esistono le locali, le ‘ndrine… Il fatto che la struttura “militare” non si scopra, non si evidenzi, è perché non c’è bisogno di usare la forza militare per andare a imporre il potere. Il classico modo è questo: l’imprenditore in difficoltà con i canali finanziari consueti si presenta o si fa presentare (da commercialisti, da amici) o semplicemente si rivolge a una finanziaria che gli presta del denaro. A questo punto però gli vengono imposte delle condizioni che non necessariamente sono quelle dell’usura o dell’estorsione. Tutto questo, in un ambiente di economia sana, crea una concorrenza sleale; è evidente che un’impresa regolare che paga le tasse, che prende finanziamenti da enti autorizzati a darli, che rispetta le regole, si trova sostanzialmente fuori mercato.
Per combattere tutto ciò è necessario credere che esiste la criminalità organizzata e che è influente. Uno dei rischi è vedere i fatti come singoli eventi.
In molte regioni meridionali la mafia ha trovato spazio perché molte strutture dello Stato non sono efficienti; nel corso degli anni si è creato uno Stato alternativo per avere ciò che normalmente ad un cittadino spetta di diritto. Al nord c’è efficienza, ma dentro l’efficienza si rischia di perdere di vista l’insieme delle cose: ognuno fa bene il proprio lavoro senza capire qual è il tutto e quindi il valore di quello che fa. Il mafioso vive il territorio, fa sempre la parte dello “stupido”, di quello che non sa niente, che chiede, che occupa i posti meno visibili, ma in realtà ha l’occhio attento e sveglio e riesce a capire e a capitalizzare a favore dell’associazione a cui appartiene.
Volendo parlare di camorra, proiettata al nord e all’estero, possiamo parlare dei cosiddetti “magliari”, mercanti del tessile che si muovono su furgoncini e ai mercati vendono calzini, scarpe false ecc ecc. I magliari agivano anche a Washington, a San Francisco con la vendita porta a porta. Questo per dire che non esiste una grande criminalità organizzata e una piccola criminalità organizzata. La criminalità organizzata è criminalità organizzata e si infiltra in tutti i settori: riciclaggio, banche, traffico di sostanze stupefacenti, agricoltura col caporalato… La cosiddetta area grigia si trova proprio tra quelle persone che investono i soldi.
Quello che dobbiamo fare è essere attenti, capire il quotidiano, segnalare quello che appare strano. Dobbiamo capire di essere cittadini parte di un sistema: se faccio una cosa, essa ha un risvolto grandissimo, soprattutto se ho un ruolo pubblico. E non posso dire di non capire o di non vedere, anche se non faccio parte di un’associazione di impegno sociale. Vale per i cittadini e vale per le istituzioni.”

Una mano che strozza in guanti bianchi

Fonte

Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe.
Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…

“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? …
I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.

  1. Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
  2. Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
  3. Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.

Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:

  1. progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
  2. profili organizzativi: presidi reticolari
  3. più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
  4. promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.

Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano.
Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose.
Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi…
Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota.
Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità.
Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.

La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”

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