Tessuti sani non ce ne sono più


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“E’ fondamentale capire come si iniziano a raccontare le mafie e come si inizia a raccontare quello che c’è attorno. Il racconto dell’economia, il racconto del tessuto sociale ci permettono di capire quali sono gli agganci che queste organizzazioni poi hanno. In Lombardia, in Piemonte e in Emilia Romagna sono caduti molto luoghi comuni: se abbiamo l’immagine di un mafioso che arriva e infetta un tessuto sano stiamo già facendo un’operazione di disinformazione perché di tessuti sani non ce ne sono più. Non è un caso se nelle inchieste di Milano e di Bologna si usa il termine “colonizzazione”, intendendo non quella di carattere militare ma quella di carattere economico: è la capacità che le organizzazioni criminali hanno, in questo tempo di crisi, di attirare persone che normalmente non si sarebbero rivolte a un mafioso, ma sarebbero andate in banca o dal patronato o dalle forze dell’ordine. Quando cambia questo tipo di racconto, allora c’è l’inizio di un possibile contrasto anche a livello sociale; se invece continuiamo a raccontarcela come il virus che infetta un tessuto sano, non cambiamo. Credo che oggi, in questo territorio, sia questo il passaggio da fare”. In questi termini, alla fine della mattinata del 2 febbraio a Trieste, si è espresso Lorenzo Frigerio, che poi ha continuato: “L’utilizzo del termine “colonizzazione economica”, usato per la prima volta dai magistrati di Milano e poi dalla Procura Nazionale a proposito di “Crimine infinito”, ha un ulteriore evoluzione nell’inchiesta Aemilia, in cui si parla di “colonizzazione delle menti”. E’ l’idea che, soprattutto in una fase di crisi e in un ambiente contraddistinto da un certo tenore di vita, dove il concetto della fatica e della piccola impresa non basta più a tenere il passo del mercato, il denaro, proveniente da contesti che so essere illeciti, sia indispensabile perché i circuiti normali si sono chiusi. Lì sta il salto di qualità. Il Triveneto sta subendo lo stesso processo che Veneto, Lombardia, Emilia, Liguria hanno vissuto in precedenza: svegliarsi e scoprirsi non diversi dagli altri. Quelli che erano i tradizionali anticorpi sono stati persi per strada.”

E’ quindi intervenuta Fabiana Martini di Articolo 21 sul ruolo del giornalismo in questo periodo storico: “siamo in una fase abbastanza singolare, più che altro perché gli attacchi all’informazione e ai giornalisti arrivano proprio dai vertici delle Istituzioni. Pur sapendo che spesso c’è anche una responsabilità del giornalista che non fa fino in fondo il proprio lavoro e quindi contribuisce a delegittimare la professione, va detto che se si fa il cane da guardia “correttamente” il ruolo è accettato in un contesto democratico; delegittimare l’informazione significa delegittimare la democrazia. Il potere non contrastato è la fine della democrazia. Facendo autocritica dobbiamo anche ammettere che esistono colleghi che si limitano a porre il microfono davanti al potente o al rappresentante di turno senza fare le domande giuste: anche questo significa non fare fino in fondo il proprio lavoro. L’atteggiamento di ostilità e la delegittimazione a cui assistiamo quotidianamente, non solo qui (si pensi agli Stati Uniti, all’Ungheria…), ci fa dire che siamo in un momento difficile e singolare”.

Il Sostituto Distrettuale Antimafia di Trieste Antonio Miggiani ha risposto a una domanda del pubblico in merito a trasparenza e onestà: “Non penso che la popolazione del Friuli Venezia Giulia sia molto più coraggiosa o meno coraggiosa della popolazione siciliana, ma è diversa la percezione. Un siciliano si rende conto del pericolo, il friulano no. In Sicilia nessuno va a fare una denuncia ai carabinieri, mentre qua qualche denuncia c’è. Questa differenza strutturale ha fatto sì che le nostre mafie agiscono in modo diverso al nord. Come detto, sono mafie imprenditrici che si presentano con un aspetto borghese, normale. Il coraggio… sono ben pochi che ce l’hanno. Di fronte a un criminale è normale avere paura.
Un altro aspetto è il finanziamento bancario: le mafie hanno rapporti continui con gli istituti bancari. Se questi ultimi perdono la loro autorevolezza, è ovvio che la mafia viene fuori; il fatto stesso che il nostro sistema bancario da sistema pubblico è diventato privato ha comportato, ad esempio, la scomparsa della figura del pubblico ufficiale all’interno del rapporto. Il Direttore di Banca che si fa dare una tangente per rilasciare un mutuo, non commette reato come se fosse anche pubblico ufficiale. Il sistema bancario è pertanto uno snodo delicatissimo all’interno del quale andrebbero pensate delle forme di reato attualmente inesistenti. Se in questo settore vengono meno la trasparenza e l’onestà, le mafie hanno facile gioco nel portare avanti i loro progetti di espansione economica e di potere”.

Sul rapporto tra magistratura e giornalismo si è infine concentrato l’intervento del Sostituto Procuratore di Venezia Lucia D’Alessandro: “voglio intervenire in merito alla colonizzazione da parte dei sodalizi tradizionali di matrice mafiosa nel nord-est. In particolare vorrei porre l’accento sul rapporto tra informazione e percezione: se non c’è una giusta informazione, corretta ed esaustiva, non possiamo pretendere che la popolazione sia attenta. E’ molto importante che si crei una interlocuzione schietta, serena, costruttiva tra le procure e l’informazione; devo ammettere che se l’informazione non viene in qualche modo soccorsa, agevolata dalle forze dell’ordine, dalle procure, nell’adeguatezza dell’informazione che si accinge a rendere, rischia di incorrere nell’errore e nel dispiacere di fornire notizie, se non false, almeno fuorvianti e scorrette. E’ auspicabile un dialogo asciutto, che consenta di veicolare informazioni non coperte da segreto istruttorio e che pertanto diano il via a una corretta percezione, da parte della popolazione, del fenomeno mafioso che si è combattuto o che si sta continuando a combattere. Il rischio, altrimenti, è quello di avere una percezione fuorviata che è peggio di nessuna percezione”.

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