Oggi dedico il post a una delle cose che mi piace fare di più: rallentare, alzare il piede dall’acceleratore della frenesia delle mille incombenze quotidiane, mettere un limitatore della velocità. Per farlo mi giovo delle parole di Giuseppe Riggio che, nel numero di agosto-settembre di Aggiornamenti Sociali, ha dedicato il suo editoriale a questo tema.
“Ogni anno migliaia di persone percorrono a piedi Cammini noti da tempo o tracciati solo di recente. Perché lo fanno? Quali pensieri ed emozioni le accompagnano quando ritornano a casa in poche ore, viaggiando in pullman o in treno? La crescente popolarità che riscuotono questi itinerari accende i riflettori su un fenomeno singolare del mondo occidentale. In effetti, l’esperienza vissuta dai camminatori si compone di due dimensioni a prima vista opposte: all’andata si sperimentano la lentezza e la fatica del camminare per un lungo tempo; mentre nel tragitto a ritroso, generalmente, ci si affida alla velocità e comodità assicurata dai mezzi di trasporto. Così, quanti scelgono di percorrere i centrotrenta chilometri della Via degli Dèi, che va da piazza Maggiore a Bologna a piazza della Signoria a Firenze, camminano per cinque o sei giorni, immersi nella natura dell’Appennino tosco-emiliano. Per rientrare possono poi salire su uno dei frequentissimi treni ad alta velocità che collegano le due città e fare il viaggio, quasi per intero in galleria, in circa quaranta minuti. Si tratta di un’unica esperienza, ma con modalità e logiche distinte: l’andata e il ritorno, come i due pannelli di un dittico che si completano, offrono spunti per riflettere sulla nostra società, sul rapporto che abbiamo con il tempo, con i miti che popolano il nostro immaginario e gli equilibri, inevitabilmente provvisori, che troviamo.
Nel segno di un progresso ambiguo Il primo pannello su cui ci soffermiamo è quello del viaggio di ritorno, in cui ritroviamo la dimensione più comune della nostra quotidianità. Qualunque sia il mezzo di trasporto scelto, si tratterà di sicuro di un viaggio più rapido e confortevole di quello che si sarebbe potuto fare solo cinquant’anni fa. Sono evidenti gli sforzi che in questi decenni sono stati compiuti nel campo dei trasporti per migliorare la qualità dei servizi a disposizione, accrescerne la presenza sul territorio, ampliare il numero di persone che vi possono accedere. I risultati raggiunti sono il frutto di un insieme di scelte – alcune ascrivibili alle politiche adottate dalle istituzioni pubbliche, altre riconducibili alle iniziative delle imprese – che si sono condizionate e potenziate reciprocamente. Lo si coglie bene osservando quanto è accaduto nel settore dell’aviazione, con le strategie tariffarie delle compagnie low cost rese possibili anche dagli incentivi pubblici erogati per rendere più competitivo uno scalo secondario. Al contempo, non mancano i risvolti negativi di questi cambiamenti, ispirati dal mito del progresso che ha segnato la nostra epoca. Il miglioramento della rete dei trasporti, ad esempio, non è avvenuto in modo uniforme, ma è stato condizionato da diverse scelte, non ultime di convenienza economica. Alcuni territori sono stati privilegiati e altri trascurati: le differenze si colgono non solo tra il Nord e il Sud dell’Italia, ma anche tra i nodi urbani e le periferie, tra i grandi assi di comunicazione e le aree interne. Ogni intervento realizzato ha avuto un impatto sulle comunità e sui territori, con una ripartizione dei benefici e dei costi economici, sociali e ambientali che non sempre è stata pianificata ed equa. Quanto abbiamo visto per i trasporti si può estendere ad altri ambiti della nostra vita. Nella Laudato si’papa Francesco ha fatto ricorso a un neologismo spagnolo per descrivere le dinamiche in atto nella nostra casa comune: rapidación, che è stato tradotto in italiano con rapidizzazione ed indica un’accelerazione crescente. È questa una chiave interpretativa per i cambiamenti che viviamo: l’enciclica fa riferimento «all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro» e al contempo richiama il contrasto che esiste «con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica», e soprattutto riconosce che non sempre gli obiettivi che ci si propone di raggiungere «sono orientati al bene comune e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale» (LS, n. 18). In altri termini, c’è una tensione intrinseca che spinge a conseguire risultati sempre più ambiziosi, in modo sempre più veloce, che in qualche misura ripudia l’esistenza dei limiti fisici, che tuttavia ci sono, e non prende in considerazione quelli di carattere etico.
Una vita accelerata Pochi anni prima della pubblicazione della Laudato si’, il sociologo tedesco Hartmut Rosa aveva ragionato sullo stesso tema nel saggio Accelerazione e alienazione (Einaudi, Torino 2015; ed. or. 2010), partendo dalla constatazione che il connubio tra modernità, velocità e accelerazione del tempo sia un dato ricorrente nelle analisi sociali. Come altri fenomeni che contraddistinguono la nostra epoca, anche questo processo si presta a letture diverse e stratificate per via della sua complessità. Vi è senz’altro un’accelerazione sul piano tecnologico, i cui riflessi si colgono in modo evidente non solo nei trasporti, ma anche nei processi di produzione e di consumo o nella comunicazione, per fare qualche esempio. Questi cambiamenti hanno mutato la nostra percezione del tempo e dello spazio: quest’ultimo, in particolare, pare «virtualmente “contrarsi” per effetto della velocità dei trasporti e della comunicazione» (ivi, p. 10) e si smaterializza per effetto delle tecnologie digitali. A livello sociale, le continue innovazioni culturali si traducono nella fragilità e rapida caducità di quelle conoscenze ed esperienze su cui si poggia la nostra esistenza. È così per aspetti pratici, quasi banali, della quotidianità (gli orari dei negozi o i riferimenti di cultura popolare), ma lo è soprattutto per alcuni capitoli strutturanti le nostre vite, come il lavoro, che le giovani generazioni cambiano a un ritmo impensabile per quelle precedenti, o le relazioni di coppia, dove il “per sempre” del passato, che si inquadrava in una certa concezione sociale dei legami, cede spesso il posto alla provvisorietà del “finché dura”. Più in generale sono i nostri ritmi a essere mutati, a essere incredibilmente accelerati: possiamo fare più cose in meno tempo o farle contemporaneamente, divenendo maestri del multitasking, o almeno provandoci. Ci troviamo perciò nella situazione di avere a disposizione numerosi strumenti che semplificano e rendono più veloce il compimento di un’ampia serie di azioni quotidiane, mentre, paradossalmente, sperimentiamo una «spettacolare e contagiosa “carestia di tempo”», abbiamo «l’impressione che il tempo [ci] stia sfuggendo, che sia troppo breve» (ivi, p. 15). Senza dubbio, le possibilità di cui disponiamo ci sono state dischiuse dai progressi tecnologici, a cui non possiamo tuttavia addebitare il paradosso in cui ci troviamo. La fame di tempo o l’affanno di fronte alla lunga lista di incombenze di cui occuparsi a casa, al lavoro, negli impegni sociali e pubblici non dipendono tanto dal fatto che le tecnologie rendono più veloci le nostre azioni, quanto dalla rapidità con cui riteniamo che tutti questi compiti vadano assolti. È in questo snodo che ha origine il senso di alienazione che spesso ci accompagna, l’esperienza «che facciamo “volontariamente” qualcosa che non “vorremmo fare”» (ivi, p. 96) e per questo proviamo una fatica che ci lascia prosciugati e insoddisfatti. A essere chiamate in causa sono le nostre scelte come singoli e collettività, condizionate da un clima culturale che premia coloro che appaiono a loro agio nell’accelerazione continua. Nel suo saggio, Rosa individua infatti una trappola che rischia di alimentare questo meccanismo, alla fine perverso: «Dobbiamo essere veloci e flessibili per guadagnare (e preservare) il riconoscimento sociale, ma allo stesso tempo è proprio il nostro desiderio di riconoscimento a muovere incessantemente le ruote dell’accelerazione» (ivi, p. 66). Dietro queste parole vi è un appello al senso di responsabilità, senz’altro nei confronti di se stessi, ma anche dell’intera società.
Avanzare con un passo lento A questo punto, torniamo al primo pannello del dittico evocato in precedenza, quel camminare a piedi per giorni. Di fronte al ritmo incalzante in cui siamo immersi, si fa strada il desiderio di vivere, anche solo per poco, un’esperienza diversa. Ne abbiamo bisogno come di un momento necessario e non a lungo procrastinabile, per poter beneficiare di un tempo altro, di un tempo “nostro”, in cui si combinano gli spazi personali e quelli condivisi. Lo testimoniano anche le motivazioni date da chi ha intrapreso un Cammino, dove spesso ricorrono parole come bisogno, ricerca, senso, spiritualità, amicizia, contatto con la natura, ricentrarsi, disintossicarsi, ecc. Questa dimensione non è esclusiva dei Cammini, ma si ritrova in tutte quelle esperienze che permettono di accedere a un ritmo di vita dilatato, in cui è possibile procedere senza avere la sensazione di affondare tra gli impegni da assolvere e le scadenze da rispettare, in cui soprattutto si torna a essere padroni del proprio tempo, almeno a livello di percezione, potendo scegliere di che cosa occuparsi e di quando farlo. Per lo più queste esperienze sono associate al tempo libero, che talora è vissuto come un vuoto che va in qualche modo riempito. Ne abbiamo una conferma indiretta dal significativo sviluppo che ha registrato il variegato settore che intercetta e risponde con diverse proposte alla domanda di benessere e di evasione, in particolare da parte di chi dispone di adeguate risorse economiche. Tuttavia, questa visione è monca e miope, perché spezza e finisce con il contrapporre le due parti del dittico, avvalorando l’idea che vi sia un’alternanza tra un ordinario, inteso come tempo accelerato, e uno straordinario, concepito come una parentesi più o meno lunga, finendo così per alimentare la sensazione di essere in realtà continuamente incalzati e sballottati.
Alla ricerca di un ritmo diverso Una prospettiva diversa è quella che ci consegna la Bibbia nel racconto della creazione, scandito nel succedersi progressivo dei giorni, fino a giungere al momento in cui Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto (Genesi 2,2). Nella visione biblica il tempo necessario per compiere la creazione non si esaurisce con i sei primi giorni, in cui vengono creati la luce e il firmamento, la terra e le acque, il sole e la luna, le piante e gli animali, l’uomo e la donna, ma include il riposo del settimo giorno, oggetto di una specifica benedizione, come prima erano stati benedetti gli esseri viventi. C’è un ulteriore elemento che va segnalato: per ogni giorno il testo biblico riporta l’indicazione che Dio vide che era cosa buona quanto aveva fatto, quale ultimo momento del lavoro compiuto. Il fare lascia il posto all’osservare, al gustare e contemplare, per non smarrirne il senso. La Bibbia ci presenta quindi un senso del riposo che non è slegato da quello dell’azione, ma ne è nutrito e a sua volta lo illumina. Il Signore rallenta perché non passi inosservato ciò che è importante, perché non sia trascurato ciò che necessita di essere curato, perché i legami tra le creature non siano mortificati o non si traducano in occasioni di violenza e sopraffazione. Soprattutto vi è l’indicazione di un ritmo in cui l’azione e il riposo si integrano, che si può vivere sia nei tempi brevi, come il singolo giorno, sia in quelli più lunghi, evocati dai sette giorni della creazione. Questa indicazione è consegnata poi agli israeliti, che camminano nel deserto verso la Terra promessa: è il comandamento di rispettare il riposo del sabato, che consiste nel saper contemplare il cammino compiuto fino a quel momento, per rialzare lo sguardo verso ciò che li attende. E a farlo insieme agli schiavi e ai forestieri che stanno con loro, invito a vivere non solo come singoli ma come una comunità inclusiva. È anche l’indicazione di saper riconoscere e rispettare tanto i diversi tempi della vita umana – ognuno dei quali ha ritmi propri, dall’infanzia alla vecchiaia, quando rallentare non è più l’esito di una scelta, ma l’aderire alla realtà di ciò che si vive – quanto quelli della natura, segnati dalla lentezza nel rinnovarsi delle risorse di cui beneficiamo e dai fragili equilibri degli ecosistemi. Quando questo avviene, il lento viaggio dell’andata e il veloce ritorno di un Cammino – la diversità di questi tempi che si ritrova in ogni nostra attività che facciamo e soprattutto nelle fasi della vita che attraversiamo – non sono separati, né in opposizione, ma in dialogo. Si realizza così quel rallentare che non consiste in uno stato momentaneo, una parentesi nel flusso degli impegni, bensì è un atteggiamento interiore e una maniera di cogliere la realtà, dove l’andare spedito e il sapersi fermare possono convivere per il bene del singolo e della comunità.”
Il 4 ottobre è stata firmata “Dilexi te” la prima esortazione apostolica da Robert Francis Prevost, papa Leone XIV. Prendo la notizia e un articolo di presentazione da Vatican News. Il testo integrale si può trovare qui, sul sito della Santa Sede.
“Dilexi te, “Ti ho amato”. L’amore di Cristo che si fa carne nell’amore ai poveri, inteso come cura dei malati; lotta alle schiavitù; difesa delle donne che soffrono esclusione e violenza; diritto all’istruzione; accompagnamento ai migranti; elemosina che “è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo”; equità, la cui mancanza è “radice di tutti i mali sociali”. Leone XIV firma la sua prima esortazione apostolica, Dilexi te, testo in 121 punti che sgorga dal Vangelo del Figlio di Dio che si è fatto povero sin dal suo ingresso nel mondo e che rilancia il Magistero della Chiesa sui poveri negli ultimi centocinquant’anni. “Una vera miniera di insegnamenti”.
Sul solco dei predecessori Il Pontefice agostiniano con questo documento firmato il 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, il cui titolo è tratto dal Libro dell’Apocalisse (Ap 3,9), si inserisce così sul solco dei predecessori: Giovanni XXIII con l’appello ai Paesi ricchi nella Mater et Magistra a non rimanere indifferenti davanti ai Paesi oppressi da fame e miseria (83); Paolo VI, la Populorum progressio e l’intervento all’Onu “come avvocato dei popoli poveri”; Giovanni Paolo II che consolidò dottrinalmente “il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri”; Benedetto XVI e la Caritas in Veritate con la sua lettura “più marcatamente politica” delle crisi del terzo millennio. Infine, Francesco che della cura “per i poveri” e “con i poveri” ha fatto uno dei capisaldi del pontificato.
Un lavoro iniziato da Francesco e rilanciato da Leone Proprio Francesco aveva iniziato nei mesi prima della morte il lavoro sull’esortazione apostolica. Come con la Lumen Fidei di Benedetto XVI, nel 2013 raccolta da Jorge Mario Bergoglio, anche questa volta è il successore a completare l’opera che rappresenta una prosecuzione della Dilexit Nos, l’ultima enciclica del Papa argentino sul Cuore di Gesù. Perché è forte il “nesso” tra amore di Dio e amore per i poveri: tramite loro Dio “ha ancora qualcosa da dirci”, afferma Papa Leone. E richiama il tema della “opzione preferenziale” per i poveri, espressione nata in America Latina (16) non per indicare “un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi”, bensì “l’agire di Dio” che si muove a compassione per la debolezza dell’umanità. Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo (9).
I “volti” della povertà Numerosi gli spunti per la riflessione, numerose le spinte all’azione nella esortazione di Robert Francis Prevost, in cui vengono analizzati i “volti” della povertà. La povertà di “chi non ha mezzi di sostentamento materiale”, di “chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità”; la povertà “morale”, “spirituale”,“culturale”; la povertà “di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà” (9).
Nuove povertà e mancanza di equità Di fronte a questo scenario, il Papa giudica “insufficiente” l’impegno per rimuovere le cause strutturali della povertà in società segnate “da numerose disuguaglianze”, dall’emergere di nuove povertà “più sottili e pericolose” (10), da regole economiche che hanno fatto aumentare la ricchezza, “ma senza equità”. La mancanza di equità è la radice dei mali sociali (94).
La dittatura di un’economia che uccide “Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale”, afferma Leone XIV (13). Da questo punto di vista, saluta “con favore” il fatto che “le Nazioni Unite abbiano posto la sconfitta della povertà come uno degli obiettivi del Millennio”. La strada tuttavia è lunga, specie in un’epoca in cui continua a vigere la “dittatura di un’economia che uccide”, in cui i guadagni di pochi “crescono esponenzialmente” mentre quelli della maggioranza sono “sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice” e in cui sono diffuse le “ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria” (92).
Cultura dello scarto, libertà del mercato, pastorale delle élite È segno, tutto questo, che ancora persiste – “a volte ben mascherata” – una cultura dello scarto che “tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano” (11). Il Papa stigmatizza allora i “criteri pseudoscientifici” per cui sarà “la libertà del mercato” a portare alla “soluzione” del problema povertà, come pure quella “pastorale delle cosiddette élite”, secondo la quale “al posto di perdere tempo con i poveri, è meglio prendersi cura dei ricchi, dei potenti e dei professionisti” (114). Di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti (94).
Trasformare la mentalità Ciò che invoca il Papa è, dunque, una “trasformazione di mentalità”, affrancandosi anzitutto dalla “illusione di una felicità che deriva da una vita agiata”. Cosa che spinge molte persone a una visione dell’esistenza imperniata su ricchezza e successo “a tutti i costi”, anche a scapito degli altri e attraverso “sistemi politico-economico ingiusti” (11). La dignità di ogni persona umana dev’essere rispettata adesso, non domani (92).
In ogni migrante respinto c’è Cristo che bussa Ampio lo spazio che Leone XIV dedica poi al tema delle migrazioni. A corredare le sue parole, l’immagine del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni divenuto nel 2015 simbolo della crisi europea dei migranti con la foto del corpicino senza vita su una spiaggia. “Purtroppo, a parte una qualche momentanea emozione, fatti simili stanno diventando sempre più irrilevanti come notizie marginali” (11), constata il Pontefice. Al contempo ricorda l’opera secolare della Chiesa verso quanti sono costretti ad abbandonare le proprie terre, espressa in centri accoglienza, missioni di frontiera, sforzi di Caritas Internazionale e altre istituzioni (75). La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità (75). Sempre in tema migrazioni, Robert Prevost fa suoi i famosi “quattro verbi” di Papa Francesco: “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. E di Papa Francesco mutua pure la definizione dei poveri non solo oggetto della nostra compassione ma “maestri del Vangelo”. Servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari… La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata (79).
Le donne vittime di violenza ed esclusione Il Successore di Pietro guarda poi all’attualità segnata da migliaia di persone che ogni giorno muoiono “per cause legate alla malnutrizione” (12). “Doppiamente povere”, aggiunge, sono “le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti” (12).
“I poveri non ci sono per caso…” Papa Leone XIV traccia una approfondita riflessione sulle cause stesse della povertà: “I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà”, sottolinea (14). “Ovviamente tra i poveri c’è pure chi non vuole lavorare”, ma ci sono anche tanti uomini e donne che magari raccolgono cartoni dalla mattina alla sera giusto per “sopravvivere” e mai per “migliorare” la vita. Insomma, si legge in uno dei punti focali di Dilexi te, non si può dire “che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno acquistato dei meriti, secondo quella falsa visione della meritocrazia dove sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita” (14).
Ideologie e orientamenti politici Talvolta, osserva Papa Leone, sono gli stessi cristiani a lasciarsi “contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti”. C’è chi continua a dire: “Il nostro compito è di pregare e di insegnare la vera dottrina”. Ma, svincolando questo aspetto religioso dalla promozione integrale, aggiungono che solo il governo dovrebbe prendersi cura di loro, oppure che sarebbe meglio lasciarli nella miseria, insegnando loro piuttosto a lavorare (114)
L’elemosina spesso disdegnata Sintomo di questa mentalità è il fatto che l’esercizio della carità risulti talvolta “disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale” (15). A lungo il Papa si sofferma sulla elemosina, raramente praticata e spesso disdegnata (115). Come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore. Non sarà la soluzione alla povertà nel mondo, che va cercata con intelligenza, tenacia, impegno sociale. Ma noi abbiamo bisogno di esercitarci nell’elemosina per toccare la carne sofferente dei poveri (119).
Indifferenza da parte dei cristiani Sulla stessa scia, il Papa denota “la carenza o addirittura l’assenza dell’impegno” per la difesa e promozione dei più svantaggiati in alcuni gruppi cristiani (112). Se una comunità della Chiesa non coopera per l’inclusione di tutti, ammonisce, “correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti” (113). Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri (36)
La testimonianza di santi, beati e ordini religiosi A controbilanciare questo atteggiamento di indifferenza, c’è un mondo di santi, beati, missionari che, nei secoli, hanno incarnato l’immagine di “una Chiesa povera per i poveri” (35). Da Francesco d’Assisi e il suo gesto di abbracciare un lebbroso (7) a Madre Teresa, icona universale della carità dedita ai moribondi dell’India “con una tenerezza che era preghiera” (77). E ancora San Lorenzo, San Giustino, Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, il suo Sant’Agostino che affermava: “Chi dice di amare Dio e non ha compassione per i bisognosi mente” (45). Leone ricorda ancora l’opera dei Camilliani per i malati (49), delle congregazioni femminili in ospedali e case di cura (51). Ricorda l’accoglienza nei monasteri benedettini a vedove, bambini abbandonati, pellegrini e mendicanti (55). E ricorda pure francescani, domenicani, carmelitani, agostiniani che hanno avviato “una rivoluzione evangelica” attraverso uno “stile di vita semplice e povero” (63), insieme a trinitari e mercedari che, battendosi per la liberazione dei prigionieri, hanno espresso l’amore di “un Dio che libera non solo dalla schiavitù spirituale, ma anche dall’oppressione concreta” (60). La tradizione di questi Ordini non si è conclusa. Al contrario, ha ispirato nuove forme di azione di fronte alle schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza. La carità cristiana, quando si incarna, diventa liberatrice (61).
Il diritto all’educazione Il Pontefice richiama inoltre l’esempio di San Giuseppe Calasanzio, che diede vita alla prima scuola popolare gratuita d’Europa (69), per rimarcare l’importanza dell’educazione dei poveri: “Non è un favore, ma un dovere”. I piccoli hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana (72).
La lotta dei movimenti popolari Nell’esortazione il Papa fa cenno pure alla lotta contro gli “effetti distruttori dell’impero del denaro” da parte dei movimenti popolari, guidati da leader “tante volte sospettati e addirittura perseguitati” (80). Essi, scrive, “invitano a superare quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri” (81).
Una voce che svegli e denunci Nelle ultime pagine del documento, Leone XIV fa appello all’intero Popolo di Dio a “far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli stupidi”. Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società (97).
I poveri, non un problema sociale ma il centro della Chiesa È necessario che “tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri”, esorta il Papa (102). “Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una questione familiare. Sono dei nostri”. Pertanto “il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa” (104). I poveri sono nel centro stesso della Chiesa (111).”
Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE
Ho tenuto per ultimo l’articolo più corposo e meno recente. Non è una lettura leggera, ma la ritengo interessante e adatta a concludere questo trittico sulle polarizzazioni. Si tratta di un testo di Diego Fares e Austen Ivereigh, pubblicato sul Quaderno 4047 de La Civiltà Cattolica il 2 febbraio 2019. E’ importante sapere la data perché vi sono alcune cose che vanno contestualizzate. “Comunicare in una società polarizzata, essere promotori di unione, di incontro, di riconciliazione, di corrispondenza nella diversità: qual è l’atteggiamento, la forma mentis necessaria per essere buoni comunicatori in un contesto in cui la polarizzazione vuole imporre la propria legge a ogni discorso pubblico o privato? La polarizzazione è un fenomeno antico quanto l’uomo, ma che oggi tende a incrementarsi esponenzialmente di fronte a cambiamenti e incertezze su vasta scala. Negli Usa, Paese in cui attualmente quasi la metà degli elettori, sia democratici sia repubblicani, vedono i propri avversari politici come una minaccia al benessere della nazione, la crescente polarizzazione ha dato origine a studi e progetti finalizzati a superarla (Cfr i risultati dell’inchiesta del Pew Research Center, «Partisanship and Political Animosity in 2016», 22 giugno 2016). In questo ambito spicca lo psicologo sociale Jonathan Haidt [noto ultimamente per il best seller “La generazione ansiosa” ndr], che in The Righteous Mind ha sottolineato l’importanza delle «intuizioni morali» e il fatto che le persone cerchino argomenti per difenderle (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Torino, Codice, 2013). Per oltrepassare il fossato che li separa, liberali e conservatori hanno bisogno di apprendere quali sono le intuizioni morali che rispettivamente li motivano. L’organizzazione civica Better Angels cerca di «depolarizzare l’America», attuando progetti pratici nei quali riunisce sostenitori dei democratici e dei repubblicani. Il fondatore, David Blankenhorn, che descrive se stesso come una persona ferita dalle culture wars americane, ha individuato sette «atteggiamenti» per «depolarizzare» il conflitto, deducendoli dalle sette virtù classiche del cristianesimo. Le tre virtù più elevate, secondo Blankenhorn, sono: 1) «criticare da dentro», vale a dire criticare l’altro a partire da un valore che si ha in comune (riconoscendo che le intuizioni morali di solito sono universali); 2) «guardare ai beni in gioco», cioè riconoscere che, mentre alcuni conflitti riguardano il bene in contrasto con il male, la maggior parte di essi avvengono tra beni, e l’incombenza pertanto non consiste tanto nel separare il bene dal male, quanto nel riconoscere e soppesare beni in competizione tra loro; 3) «contare più di due», cioè superare la tendenza a dividere per binomi antagonistici, che conducono a pseudo-contrasti. (Gli altri quattro atteggiamenti riguardano l’importanza di dubitare, di precisare, di sfumare e di mantenere la conversazione. Cfr «The Seven Habits of Highly Depolarizing People», in ; D. Blankenhorn, «Why polarization matters»). Anche nella Chiesa cattolica americana possiamo riscontrare tentativi di superare le acute divisioni intraecclesiali tra praticanti «progressisti» e «conservatori». Nel giugno del 2018, per esempio, la Georgetown University ha patrocinato un incontro di 80 autorevoli esponenti cattolici con lo scopo di superare la polarizzazione sulla base della dottrina sociale della Chiesa e dell’insegnamento di papa Francesco. Uno dei relatori, il cardinale e arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, ha fatto notare la distinzione tra «parteggiare» e «polarizzarsi». Il primo atteggiamento comporta divisione o disaccordo, e tuttavia consente di lavorare assieme per raggiungere finalità condivise; invece, nel secondo caso, l’isolamento e la sfiducia degli uni verso gli altri rende impossibile la cooperazione. Cupich ha fatto riferimento a san Giovanni Paolo II e alla sua equiparazione della polarizzazione a un peccato, perché suscita ostacoli che paiono insuperabili rispetto all’attuazione del piano di Dio per l’umanità.
La posizione di papa Francesco nei confronti della polarizzazione Papa Francesco ha osservato che «ci capita di attraversare un tempo in cui risorgono epidemicamente, nelle nostre società, la polarizzazione e l’esclusione come unico modo possibile per risolvere i conflitti» (Omelia nel Concistoro, 19 novembre 2016). Nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ha affermato: «Nei social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)» («Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Dalle «community» alle comunità. Messaggio per la 53a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019). Il Papa ha riflettuto sull’essere membra gli uni degli altri come la motivazione più profonda del dovere di custodire la verità, la quale infatti si rivela nella comunione. E ha descritto la Chiesa come «una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri». Uno dei discorsi più importanti pronunciati da papa Francesco al riguardo è stato quello al Congresso degli Stati Uniti: «Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi». Il Papa proseguiva esponendo un possibile paradosso: «Nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate» (Discorso all’ Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, 24 settembre 2015. In un’altra occasione il Papa ha anche detto: «Il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ricchezza e l’universalità della Chiesa» (Francesco, Omelia nel Concistoro, cit.). Sotto il profilo cristiano, questo rifiuto, questa resistenza è un «criterio di sanità e ortodossia cristiana [che] non sta tanto nel modo di agire quanto nel modo di resistere». Una resistenza personale, che riconosce che la polarizzazione nasce anzitutto nel cuore umano, per essere successivamente alimentata dai media e dalla politica. Nel Messaggio per la 50a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il Papa ha precisato che il cattivo uso dei mezzi di comunicazione può «condurre a un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo. Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016). Allo stesso modo, una politica è malsana se prospera in funzione dei conflitti, accentuandoli per accrescere il potere o l’influenza del politico «intermediario», diversamente da una politica sana, che si sforza di conciliare le persone per il bene comune e nella quale il politico «mediatore» sacrifica se stesso a favore del popolo (J. M. Bergoglio, trascrizione della lezione inaugurale del Corso di formazione e riflessione politica, Cefas, 1 giugno 2004). Già nel 1974, quando era stato da poco nominato provinciale dei gesuiti, Bergoglio metteva in risalto che negli Esercizi Spirituali il peccato è «fondamento disgregatore della nostra appartenenza al Signore e alla nostra santa madre, la Chiesa» (Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 139). Il peccato disintegra anche la nostra appartenenza all’umanità. Inoltre affermava che «l’unico nemico reale è il nemico del piano di Dio», perché, come dice Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E concludeva: «È questa l’ermeneutica per discernere ciò che è principale da ciò che è accessorio, ciò che è autentico da ciò che è falso», le «contraddizioni del momento» dal tempo di Dio, che è «più grande delle nostre contraddizioni».
Una «forma mentis» depolarizzatrice Analizzeremo ora quattro atteggiamenti di papa Francesco che possono aiutarci a configurare la forma mentis necessaria per discernere come comunicare bene in una società polarizzata. Si tratta di due «no» e di due «sì». Innanzitutto, non discutere con chi cerca di polarizzare, e non lasciarsi confondere da false contraddizioni. Poi, dire di sì, più con le opere che a parole, alla misericordia come paradigma ultimo, e dirlo in quel dialetto materno che raggiunge il cuore di ogni persona nella sua specifica cultura. Consideriamo innanzitutto alcune situazioni in cui il Papa, con poche parole (a volte gli sono bastati un gesto, una pausa o un silenzio significativo), ha comunicato bene in un contesto di polarizzazione. Nell’incontro che si è tenuto all’Augustinianum sul dialogo intergenerazionale, in occasione della presentazione del libro La saggezza del tempo (Francesco, La saggezza del tempo. In dialogo con papa Francesco sulle grandi questioni della vita, Milano, Rizzoli, 2018), papa Francesco ha dialogato con una coppia di nonni che gli esprimevano la necessità di essere aiutati per riuscire a parlare bene con i loro figli. Gli dicevano: «Nonostante i nostri sforzi, come genitori, di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro?». Il Papa ha fatto una brevissima pausa, e poi ha risposto con fermezza: «C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa» (Dialogo intergenerazionale, Incontro con i giovani e anziani all’Augustinianum, Roma, 23 ottobre 2018). Poi ha aggiunto: «Mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono». La forza di quel breve dialogo tra il Papa e la coppia di genitori-nonni contiene un nucleo comunicativo che disarma chi, intenzionalmente o involontariamente, polarizza. Si tratta di adottare questi due atteggiamenti: dare testimonianza in dialetto e non discutere. Non discutere presuppone che si faccia un discernimento: dire «no» a una falsa polarizzazione e dire «sì» a un paradigma che la supera, quello della misericordia. Questi atteggiamenti affiorano in altri due episodi del pontificato di Francesco. Il primo durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Irlanda. Una giornalista gli fece una domanda a proposito delle accuse di copertura lanciate quella mattina dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò (Conferenza stampa durante il volo di ritorno dall’Irlanda, 26 agosto 2018). La domanda sollecitava il Papa a dichiarare se quelle accuse (sulla vicenda di abusi sessuali in cui era coinvolto l’ex cardinale McCarrick) fossero effettivamente vere. Anziché rispondere secondo i termini tratteggiati da Viganò, Francesco replicò che per il momento non avrebbe detto nemmeno una parola: invitava piuttosto i giornalisti a indagare in prima persona sulla verità delle accuse. Il suo silenzio è stata interpretato in vario modo, più o meno favorevolmente; ma l’importante è stato il fatto che il Papa abbia scelto di mantenere il silenzio. Su questo torneremo più avanti. L’altro episodio ha avuto luogo nel volo di ritorno dal viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh (Saluto ai giornalisti durante il volo di ritorno dal Bangladesh, 2 dicembre 2017). Durante la visita si era creata una polarizzazione rispetto all’eventualità di pronunciare il termine rohingya, un’etnia che le autorità militari del Myanmar non riconoscono. Il Papa aveva evitato di usare quel termine in Myanmar ma, una volta giunto in Bangladesh, ha avuto un commovente incontro con 16 rifugiati di quella etnia, nel quale ha detto che «la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya» (A. Tornielli, «Il Papa: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”», in Vatican Insider, 1 dicembre 2017). Nella conferenza stampa a bordo dell’aereo, il Papa ha spiegato che usare quel termine nei suoi discorsi ufficiali sarebbe equivalso a sbattere la porta in faccia all’interlocutore, e «simili atti di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva». Piuttosto, nei suoi discorsi in Myanmar aveva parlato dell’importanza di includere tutti, dei diritti e della cittadinanza, e questo successivamente, nei suoi incontri privati, gli aveva consentito di «andare oltre». Poi, nell’incontro interreligioso di Dacca, quel termine gli era sfuggito spontaneamente quando aveva salutato i rifugiati. Riferisce il Papa: «Io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. […] Io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano pure». Francesco ha completato così la sua riflessione: «E, visto tutto il trascorso, tutto il cammino, io ho sentito che il messaggio era arrivato». Egli aveva un messaggio da comunicare, un messaggio incentrato sulla misericordia e sull’inclusione e, per comunicarlo, era stato capace di superare le polarizzazioni.
Non discutere con chi accusa La testimonianza e il consiglio di Francesco sono di non discutere in un contesto polarizzato, sia che si tratti di un contesto familiare, con la raccomandazione rivolta ai genitori quando i figli cercano di trascinarli in una discussione, sia che si tratti di discussioni pubbliche, in cui si lanciano accuse cariche di aggressività mediatica, come quelle del caso Viganò. Il contesto familiare nel quale il Papa ha messo in luce il criterio di «non discutere» ci mostra come il «virus della polarizzazione» si annidi perfino tra coloro che si amano. Questo stesso fatto aiuta a comprendere il tranello in cui solitamente cadiamo quando ci lasciamo trasportare dallo spirito di discussione. Con coloro che ci amano, il non discutere si congiunge con il parlare loro «in dialetto», sapendo che essi comprenderanno questo linguaggio d’amore. Con coloro che non ci amano e ci attaccano, il non discutere si accompagna, invece, al fare silenzio e, come si comportava il Signore quando non rispondeva alle provocazioni degli scribi e dei farisei, a lasciarli «cuocere nel loro brodo». Afferma il Papa: «Con le persone che non hanno buona volontà, con le persone che cercano soltanto lo scandalo, che cercano soltanto la divisione, che cercano soltanto la distruzione, anche nelle famiglie: silenzio. E preghiera» (Francesco, Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Il silenzio evita che si rimanga impigliati nella spirale di accuse e condanne, dietro le quali c’è sempre lo spirito cattivo del «grande Accusatore» (fra il 3 e il 20 settembre 2018, dopo il silenzio mediatico che si era imposto riguardo alle accuse di Viganò, il Papa ha pronunciato otto omelie contro «il grande Accusatore», del quale ha descritto ampiamente l’atteggiamento nel contesto adeguato, quello della predicazione della parola di Dio). Di fronte all’accanimento aggressivo è possibile soltanto un atteggiamento: quello di Gesù. «Il pastore, nei momenti difficili, nei momenti in cui si scatena il diavolo, dove il pastore è accusato, ma accusato dal grande Accusatore tramite tanta gente, tanti potenti, soffre, offre la vita e prega» (Omelia in Santa Marta, 18 settembre 2018). È un silenzio che svela l’unica contraddizione reale: quella che si instaura tra il padre della menzogna e Cristo crocifisso (Satana «vide Gesù così disfatto, stracciato e, come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo, lui è andato lì e ingoiò Gesù […], ma in quel momento ingoiò pure la divinità, perché era l’esca attaccata all’amo col pesce» (ivi, 14 settembre 2018). «In momenti di oscurità e grande tribolazione, quando i “grovigli” e i “nodi” non si possono sciogliere, e neppure le cose chiarirsi, allora bisogna tacere: la mansuetudine del silenzio ci mostrerà ancora più deboli, e allora sarà lo stesso demonio che, facendosi baldanzoso, si manifesterà in piena luce, mostrerà le sue reali intenzioni, non più camuffato da angelo della luce, ma in modo palese» (Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85-108). Contro il grande Accusatore il criterio è quello del Signore, che non parla di sé, ma lo vince con la parola di Dio (Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Questo atteggiamento di «non discutere» non ha nulla a che vedere con la pace quietista e con il falso irenismo che, secondo la logica della polarizzazione, implicherebbero parzialità («chi tace acconsente») o fuga dal conflitto. Niente è più lontano dal pensiero del Papa e dal suo atteggiamento. Non soltanto egli accoglie il conflitto e la tensione come opportunità creative, ma discerne l’azione dello spirito cattivo nel suo tentativo di camuffare la vera contraddizione e di proporre la pace come se fosse un affare e non un lungo cammino. In una meditazione proposta agli studenti del Colegio Máximo, in occasione della fine dell’anno 1980 (J. M. Bergoglio, Natale, Milano, Corriere della Sera, 2014, 107 ss), Bergoglio faceva notare che le tentazioni contro l’unità possono essere molte, ma la principale «si fonda nel rifiuto del modello bellico della vita spirituale; e si può respingerlo o perché si vagheggia un irenismo, o perché ci si affretta dietro al prurito di un raccolto prematuro, accentuando le contraddizioni». E affermava: «L’irenismo delinea una specie d’illusoria “pace a qualsiasi costo”, in ossequio alla quale si negozia ciò che non è negoziabile e si perde la capacità di condannare. […] L’altra tentazione è una caricatura del senso bellico della vita». Allo stesso modo egli in seguito dirà nell’Evangelii gaudium (EG): «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227). Di fronte a un mondo polarizzato, quella di astrarsi o di disinteressarsi non è un’opzione, ma piuttosto una tentazione. Essa è comprensibile, forse, in un contesto mimetico in cui il rischio di restare contaminati è molto grande, e tuttavia il suggerimento di Francesco è di entrare, ma con discernimento. Egli invita ad assumere un atteggiamento chiaramente missionario: l’accusa di se stessi, che ci porta a dialogare con la Misericordia di Dio, invece di entrare nella dinamica del sentirci vittime e di accusare gli altri («Accusare se stesso è il sentimento della mia miseria, di sentirsi miserabili, misero, davanti al Signore. Il sentimento della vergogna. E infatti accusare se stesso non si può fare a parole, bisogna sentirlo nel cuore», Omelia in Santa Marta, 6 settembre 2018), va di pari passo con l’uscita missionaria ad annunciare il Vangelo. Anziché restarsene chiusa nella discussione e operare «contromosse», la Chiesa fa un passo «verso coloro che hanno più bisogno di lei», verso quelli che ancora non hanno ascoltato il Vangelo. La Chiesa, quando venne perseguitata, diventò missionaria.
Non vedere contraddizioni dove ci sono solo contrasti Invece di discutere, bisogna discernere. Infatti, quando è in atto una polarizzazione, non si tratta soltanto di uno scontro di idee, ma anche di spiriti (Cfr J. M. Bergoglio, «La dottrina della tribolazione», in Civ. Catt. 2018 II 214). Lo spirito cattivo, soprattutto in un contesto di tribolazione, cerca di trasformare i dissensi in conflitti. Come dice Gustave Thibon, «uno dei segni fondamentali della mediocrità di spirito è vedere contraddizioni dove ci sono soltanto contrasti». I quattro princìpi di papa Francesco, in particolare due di essi, sono i criteri per tale discernimento. La lucidità che è richiesta per discernere che «l’unità prevale sul conflitto»[39] è una lucidità paziente, che «accetta di sopportare il conflitto» per riuscire a risolverlo, senza rimanerne imprigionati. È richiesta lucidità anche per discernere che «la realtà è più importante dell’idea». È più importante, perché la realtà non è mai contraddittoria. Per Guardini, la contraddizione è qualcosa che si dà soltanto nel pensiero e nel linguaggio, non nella realtà. La realtà – quella che egli chiama il «concreto vivente» – è sempre complessa; tutti i poli vi trovano posto; ogni essere vivente è una trama di relazioni che sono tra loro in contrasto, ma non in contraddizione. Guardini descrive le tensioni tra sopra-dentro, interno-esterno, forma-pienezza, struttura-forza vitale. Una realtà non contraddice quella precedente, ma la assume, la trasforma o se la lascia dietro. Per questo, come scriveva il Papa al popolo cileno, «discernere presuppone imparare ad ascoltare ciò che lo Spirito vuole dirci. E potremo farlo soltanto se siamo capaci di ascoltare la realtà di ciò che accade» (Francesco, Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile). Nel suo scritto «Alcune riflessioni sull’unione degli animi», pubblicato nel 1990, Bergoglio chiarisce la differenza tra contraddizione e contrapposizione o contrasto: la contraddizione è sempre escludente, non concede spazio alle alternative, è disgiuntiva. La contrapposizione, invece, indicherebbe piuttosto le cose che, apparentemente e/o realmente contrarie, possono accordarsi (J. M. Bergoglio, Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 152). Le diversità di idee, di affetti, di immaginazioni e di mozioni che affiorano quando si prega e si discerne possono raggiungere «una nuova unità interiore, continua ma distinta da quella che c’era prima che avesse inizio il processo di discernimento» (il processo avviene nel dialogo interiore, contraddistinto dalla pace. Bergoglio afferma che, «se esaminiamo con attenzione la nostra esperienza interiore, possiamo notare che le tensioni si risolvono su un piano superiore, mantenendo – nella nuova armonia raggiunta – la potenzialità delle diverse particolarità»). La nuova armonia si può sempre «disarmonizzare», e ciò richiede che noi siamo costantemente aperti a nuove sintesi. «Tutto questo processo configura ciò che potremmo definire etimologicamente un “conflitto” («Sant’Ignazio non teme il conflitto. Anzi, si insospettisce quando, negli Esercizi spirituali, luogo privilegiato di discernimento e di lotta di spiriti, non lo riscontra») […]. Questo conflitto interiore, che preferisco chiamare “contrapposizione” piuttosto che “contraddizione”, è il riferimento interiore che abbiamo di unità nella diversità per capire cos’è, nel corpo della Compagnia, l’unità nella diversità» e, per analogia, ciò che è unità nella diversità nella Chiesa e nella società. Per questo il Papa ha potuto riporre fiducia nel processo sinodale, a volte turbolento e conflittuale, che ha dato luogo alla nuova prassi pastorale dell’Amoris laetitia. Attraverso la riflessione, lo scambio di punti di vista, la preghiera e il discernimento «lo spirito buono ha prevalso», nonostante le tentazioni lungo il percorso.
Il «sì» al paradigma della Misericordia Il discernimento che ci rafforza nel dire «no» alla discussione che polarizza ha il suo principio e fondamento in un «sì» più profondo e radicale: il «sì» della Misericordia divina a tutto il creato. La Misericordia incondizionata di Dio, che per noi è divenuta concreta in Gesù, è l’unica realtà capace di risanare e armonizzare ogni falsa contraddizione con la forza dell’amore di Dio che, «per sua natura, è comunicazione» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). La Misericordia «è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (GE 105), come afferma efficacemente il Pontefice. È il paradigma ultimo, il più alto, e la nostra missione è annunciarlo con le opere e con le parole. Ne troviamo il modello nella parabola del Buon Samaritano insegnataci da Gesù. Questa non contiene soltanto una rivelazione soprannaturale, ma anche una rivelazione di ciò che è più teneramente umano. Alla pratica delle opere di misericordia cosiddette «corporali», in quanto riguardano la carne del prossimo, è complementare quella delle opere di misericordia «spirituali», che consistono nella buona comunicazione: insegnare a chi non sa, dare un buon consiglio a chi ne ha bisogno, correggere colui che sbaglia, perdonare le offese, consolare chi è afflitto, sopportare pazientemente i difetti degli altri e pregare per tutti. Praticare queste opere di misericordia significa lanciare un messaggio chiaro, che tocca il cuore di chi ne viene a conoscenza. Il Papa fa notare: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti. […] La mite misericordia [di Cristo] è la misura della nostra maniera di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia. È nostro precipuo compito affermare la verità con amore (cfr Ef 4,15). Solo parole pronunciate con amore e accompagnate da mitezza e misericordia toccano i cuori di noi peccatori» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). Francesco vuole che «lo stile della nostra comunicazione sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti» e che al tempo stesso generi «prossimità […] in un mondo diviso, frammentato, polarizzato». Il criterio di discernimento della buona comunicazione è lo stesso di quello della vita di ogni cristiano, e della vita della Chiesa in generale: è quello di verificare se la misericordia cresce. «Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia» (GE 105).
Dare testimonianza «in dialetto» Si tratta, dunque, di dire e di fare le cose «nello stile di Gesù», con un spirito buono, come diceva san Pietro Favre. L’espressione che usa Francesco è «dare testimonianza in dialetto». Il contenuto di tale testimonianza è ciò che il Papa chiama «dottrina»: verità sentite, non meramente conosciute. La dottrina forgia l’unità vera, perché «le cose di Dio sommano sempre. Non sottraggono. Radunano» (J. M. Bergoglio, Natale). Ma per la stessa ragione essa genera opposizione e resistenza: «È soltanto quando la Chiesa afferma la dottrina che affiora il vero scisma». Il pensiero e la testimonianza di Francesco offrono, pertanto, un percorso di depolarizzazione che si potrebbe applicare a molti contesti in cui ci sono «partiti» contrapposti: per esempio, tra liberali e conservatori nella Chiesa o, in Inghilterra, tra i sostenitori di Remain e Leave, divisi sulla Brexit. È un cammino che accoglie la tensione e il disaccordo come opportunità per creare qualcosa di superiore in base a una diversità conciliata e al paradigma della misericordia, evitando le trappole mortifere della sterile polarizzazione. È una maniera di dialogare non a partire dai disaccordi, ma ascoltando gli uni i sogni degli altri. Trovare il modo di dare testimonianza dell’amore e della misericordia nel «dialetto materno» è il nucleo di un comportamento che vale sia nell’ambito ristretto del dialogo familiare sia in quello ampio delle discussioni pubbliche. In sostanza, per comunicare bene, il punto decisivo è trovare il filo di quel linguaggio che è alla base della vita, là dove dietro le parole si nasconde la fonte della tenerezza che ha reso possibile la vita in comune di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolo. Questa è la sfida: trovare e non perdere il filo di tale linguaggio materno che unisce ogni realtà, per fronteggiare il linguaggio astratto delle ideologie che separano. «Fratelli, le idee si discutono, le situazioni si discernono. Siamo riuniti per discernere, non per discutere» (Francesco, Lettera ai vescovi cileni, 15 maggio 2018).”
E’ da tanto che purtroppo non fotografo con la reflex, ancora di più da quando non post-produco uno scatto. Ricordo però che una delle cose a cui prestavo più attenzione e che ancora oggi mi fa apprezzare o meno una foto è la saturazione dei colori. Spingerla al minino (arrivando al bianco, nero, grigio) o al massimo significa allontanarsi dalla realtà: non è un male, basta saperlo. Il 14 settembre esprimevo il mio disagio nei confronti di un modo polarizzato e polarizzante di vedere tutto, un approccio che tende a strumentalizzare qualsiasi cosa pur di affermare la propria idea facendo scomparire i colori intermedi, i “dipende”, i “distinguo”, i “capiamo meglio”. Ho allora deciso di pubblicare in rapida successione tre articoli che trattano argomenti diversi ma che possono essere ricondotti a questo tema. Parto da quello più vicino nel tempo: è del 20 settembre, a firma di Fabrizio Mastrofini, e pubblicato su Settimana News, sito in continuità con il Centro editoriale dehoniano. L’articolo, prendendo spunto dall’omicidio di Charlie Kirk, affronta il tema della polarizzazione all’interno della chiesa statunitense e il ruolo di Papa Leone XIV.
“Si approfondisce nel Nord America la polarizzazione politica, con effetti sul ruolo della religione e della Chiesa cattolica, dopo l’uccisione violenta di Charlie Kirk. Prima di passare in rassegna episodi e fatti che ne danno conto, è opportuno ricordare cosa disse Papa Leone XIV agli operatori dei media, all’indomani della sua elezione. «Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana». Era il 12 maggio, poco più di 4 mesi fa, appena. E la situazione è peggiorata.
L’omicidio di Charlie Kirk ha modificato il panorama. Dice a La Repubblica del 20 settembre lo studioso belga naturalizzato canadese Derrick De Kerckhove, allievo e prosecutore del lavoro di Marshall McLuhan: «Gli americani vengono licenziati a destra, sinistra e centro, solo per le opinioni che esprimono, una mail, un messaggio sui social. È una farsa: l’unica libertà di espressione rimasta è quella di elogiare Trump». «Quanto accade è frutto di una lunga storia nel trascurare la frase “We the people”, con cui comincia la Costituzione. Soprattutto il Partito democratico ha dimenticato il popolo, creando le condizioni per la rabbia che ha favorito l’elezione di Trump nel primo mandato. Lui è stato molto abile a sfruttarla, soprattutto con la comunicazione, attraverso i social. I democratici poi hanno avuto l’occasione di fermarlo con Biden, ma hanno fallito l’obiettivo, accelerando rabbia e risentimento. Lui ha sfruttato molto bene la debolezza degli avversari, ottenendo quello che loro ritenevano impossibile, ossia la rielezione». Sul The New York Times International Edition del 20 settembre, l’analista politica Lydia Polgren rileva «l’ossessione» politica e sociale di vedere una minaccia «transgender» dietro l’omicidio di Charlie Kirk (perché l’assassinio conviveva con una persona transgender). A ciò si aggiunge la politica presidenziale aggressiva verso i media, giornali e TV, percepiti come ostili, sostanziatasi nell’apertura di una causa per danni per 15 miliardi di dollari al The New York Times, bloccata da un giudice federale il 19 settembre perché inconsistente. La religione ha molto a che fare con la politica negli USA, per il sostegno evangelico alla destra repubblicana, per il cattolicesimo esibito dal vicepresidente Vance, per l’avere oggi sul Soglio di Pietro un papa statunitense. Il movimento Turning Point USA fondato da Charlie Kirk ha, tra gli altri, il sostegno di The Post Millennial, sito conservatore canadese, abbastanza ossessionato dalle presenze criminali «transgender» e di Human Events, altro sito conservatore di analisi politica che combatte accanitamente contro i movimenti di sinistra, soprattutto Antifa, dichiarato terrorista da Trump il 18 settembre. Sono siti, i primi due, ascrivibili all’area religiosa dei post-millennials, coloro i quali credono nel ritorno di Gesù alla fine del Millennio in corso, secondo un’interpretazione letterale del capitolo 20 dell’Apocalisse.
Papa Leone XIV entra in questa dinamica, che si svolge sui social media e attraverso i siti citati e gli altri del conservatorismo cattolico, in quanto da lui ci si attende la sconfessione del magistero di Papa Francesco. Avere ricevuto il 1° settembre il gesuita americano James Martin, in prima fila nella pastorale di accoglienza del mondo LGBTQ, è stato visto con sconcerto. A parziale correzione è arrivata l’intervista pubblicata in Perù nel libro biografico su Robert Prevost, in quanto sembra chiudere su una serie di questioni spinose per i conservatori. Sulla questione LGBTQ, ha detto Papa Leone XIV, la Chiesa continua a essere aperta, e ha citato Papa Francesco. Però – ha aggiunto – «trovo altamente improbabile, certamente nel prossimo futuro, che la dottrina della Chiesa, in termini di ciò che insegna sulla sessualità, ciò che la Chiesa insegna sul matrimonio, cambierà». «Ho già parlato di matrimonio, come ha fatto Papa Francesco quando era Papa, di una famiglia composta da un uomo e una donna in un impegno solenne, benedetti nel sacramento del matrimonio. Ma anche solo dirlo, capisco che alcuni lo prenderanno male». Niente spiragli per il diaconato alle donne. «Al momento non ho intenzione di cambiare l’insegnamento della Chiesa sull’argomento», anche perché «ci sono parti del mondo che non hanno mai veramente promosso il diaconato permanente, e questo di per sé è diventato una domanda: perché dovremmo parlare di ordinare donne al diaconato se il diaconato stesso non è ancora adeguatamente compreso, sviluppato e promosso all’interno della Chiesa?».
Una linea che sembra ispirata alla cauta prudenza. Ma non basta per la destra USA, collegando su questi temi in modo trasversale evangelicals e conservatori cattolici. Dopo l’uccisione di Charlie Kirk il mondo evangelico ha ripreso grande visibilità nel chiedere un ritorno ai valori cristiani nella vita pubblica. E i media conservatori cattolici hanno ripreso fiato, hanno intervistato il cardinale Mueller, che ha definito Charlie Kirk un martire di Cristo. Il prelato era già in prima fila tra gli oppositori di Papa Francesco, chiede di tornare alla messa in latino, all’ostracismo verso l’Islam e il mondo LGBTQ. Né mancano le forti spinte affinché Leone XIV sconfessi apertamente il suo predecessore. Come scrive Carol Zimmermann, opinionista del National Catholic Reporter, settimanale progressista USA, «tra le attuali convinzioni fortemente radicate e contestate a sinistra e a destra, spesso sembra che non ci sia davvero spazio per una via di mezzo: si viene etichettati come Democratici o Repubblicani, Conservatori o Liberali senza molto margine di manovra. Anche se questa polarizzazione gioca un ruolo importante nei talk show e nelle proteste di piazza, dobbiamo ancora capire come andare d’accordo con chi ha opinioni diverse e sederci allo stesso tavolo». The Pillar, testata on line notoriamente schierata su posizioni conservatrici, notava il silenzio dei vescovi USA sull’omicidio di Kirk e lo attribuiva al fatto che la Conferenza episcopale «è guidata da un diplomatico di carriera (l’arcivescovo Timothy Broglio – ndr) e da un dirigente (il segretario generale Michael Fuller – ndr) plasmato in modo unico dalla tempesta di polemiche. E le reazioni all’assassinio di Kirk sono state emotivamente intense da entrambe le parti, il che significa che qualsiasi cosa la conferenza episcopale avesse detto a riguardo avrebbe probabilmente portato a ulteriori controversie, esattamente ciò che i suoi attuali dirigenti sembrano intenzionati a evitare sulle questioni pubbliche». In realtà, diversi vescovi cattolici si sono espressi nei giorni successivi al fatto.
Come scrive Stan Chu Ilu sul National Catholic Reporter, «in un’epoca in cui la vita politica sembra dominata dalla paura e dalla rabbia, la testimonianza cattolica di un discorso ragionato, della dignità umana, di un’etica di vita coerente e della nonviolenza evangelica potrebbe rappresentare una delle ultime speranze per l’esperimento americano. I cattolici americani possono applicare ciò che stanno imparando attraverso le pratiche della sinodalità per influenzare il discorso politico, contribuendo a creare uno spazio ampio e stimolante in cui la voce di tutti sia ascoltata con rispetto e in cui le persone possano crescere reciprocamente nella comprensione della verità». Sui social accade di tutto, a dispetto di ogni moderazione. Lo si vede seguendo su X Mike Lewis, fondatore ed editor del sito Where Peter Is o anche il commentatore britannico Austin Ivereigh. Il mondo conservatore cattolico sta moltiplicando gli account che con la scusa di riprendere il pontificato di Leone XIV in realtà danno voce alle richieste di cancellare l’insegnamento di papa Francesco. Altri (niente nomi, no pubblicità) postano messaggi in cui assicurano di «aver ricevuto conferma da fonti attendibili che Papa Leone XIV è disposto a ripensare e rivedere la politica di Francesco». Al centro del dibattito: la sessualità e la messa in latino. E soprattutto il National Catholic Register – testata conservatrice del gruppo EWTN – rilancia in tutti i modi l’appello di una Catholic Coalition affinché papa Leone XIV si impegni contro la «lobby» che vuole sdoganare le unioni tra persone dello stesso sesso. Ma a leggere bene articolo e appello, si scopre che la «coalizione» ha 25 associazioni, senza nomi, ed è collegata al movimento «Tradizione Famiglia Proprietà» del brasiliano Plinio de Correa (qui il sito italiano del movimento). Movimento e fondatore ben noti negli anni Ottanta e Novanta dello scorso Millennio per sostenere l’impegno contro la teologia della liberazione e qualunque forma di impegno collegata alla Dottrina sociale della Chiesa. Dopo 130 giorni di pontificato, dunque, la polarizzazione è in pieno sviluppo”.
Pubblico il testo integrale dell’omelia del cardinal Re, decano del Collegio Cardinalizio, durante i funerali di Papa Francesco, il 26 aprile 2025 (fonte sito del Vaticano).
“In questa maestosa piazza di San Pietro, nella quale Papa Francesco tante volte ha celebrato l’Eucarestia e presieduto grandi incontri nel corso di questi 12 anni, siamo raccolti in preghiera attorno alle sue spoglie mortali col cuore triste, ma sorretti dalle certezze della fede, che ci assicura che l’esistenza umana non termina nella tomba, ma nella casa del Padre in una vita di felicità che non conoscerà tramonto. A nome del Collegio dei Cardinali ringrazio cordialmente tutti per la vostra presenza. Con intensità di sentimento rivolgo un deferente saluto e vivo ringraziamento ai Capi di Stato, ai Capi di Governo e alle Delegazioni ufficiali venute da numerosi Paesi ad esprimere affetto, venerazione e stima verso il Papa che ci ha lasciati. Il plebiscito di manifestazioni di affetto e di partecipazione, che abbiamo visto in questi giorni dopo il suo passaggio da questa terra all’eternità, ci dice quanto l’intenso Pontificato di Papa Francesco abbia toccato le menti ed i cuori. La sua ultima immagine, che rimarrà nei nostri occhi e nel nostro cuore, è quella di domenica scorsa, Solennità di Pasqua, quando Papa Francesco, nonostante i gravi problemi di salute, ha voluto impartirci la benedizione dal balcone della Basilica di San Pietro e poi è sceso in questa piazza per salutare dalla papamobile scoperta tutta la grande folla convenuta per la Messa di Pasqua. Con la nostra preghiera vogliamo ora affidare l’anima dell’amato Pontefice a Dio, perché Gli conceda l’eterna felicità nell’orizzonte luminoso e glorioso del suo immenso amore. Ci illumina e ci guida la pagina del Vangelo, nella quale è risuonata la voce stessa di Cristo che interpellava il primo degli Apostoli: “Pietro, mi ami tu più di costoro?”. E la risposta di Pietro era stata pronta e sincera: “Signore, Tu conosci tutto; Tu sai che ti voglio bene!”. E Gesù gli affidò la grande missione: “Pasci le mie pecore”. Sarà questo il compito costante di Pietro e dei suoi Successori, un servizio di amore sulla scia del Maestro e Signore Cristo che “non era venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc.10,45). Nonostante la sua finale fragilità e sofferenza, Papa Francesco ha scelto di percorrere questa via di donazione fino all’ultimo giorno della sua vita terrena. Egli ha seguito le orme del suo Signore, il buon Pastore, che ha amato le sue pecore fino a dare per loro la sua stessa vita. E lo ha fatto con forza e serenità, vicino al suo gregge, la Chiesa di Dio, memore della frase di Gesù citata dall’Apostolo Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti, 20,35). Quando il Card. Bergoglio, il 13 marzo del 2013, fu eletto dal Conclave a succedere a Papa Benedetto XVI, aveva alle spalle gli anni di vita religiosa nella Compagnia di Gesù e soprattutto era arricchito dall’esperienza di 21 anni di ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Buenos Aires, prima come Ausiliare, poi come Coadiutore e in seguito, soprattutto, come Arcivescovo. La decisione di prendere il nome Francesco apparve subito come la scelta di un programma e di uno stile su cui egli voleva impostare il suo Pontificato, cercando di ispirarsi allo spirito di San Francesco d’Assisi. Conservò il suo temperamento e la sua forma di guida pastorale, e diede subito l’impronta della sua forte personalità nel governo della Chiesa, instaurando un contatto diretto con le singole persone e con le popolazioni, desideroso di essere vicino a tutti, con spiccata attenzione alle persone in difficoltà, spendendosi senza misura, in particolare per gli ultimi della terra, gli emarginati. È stato un Papa in mezzo alla gente con cuore aperto verso tutti. Inoltre è stato un Papa attento al nuovo che emergeva nella società ed a quanto lo Spirito Santo suscitava nella Chiesa. Con il vocabolario che gli era caratteristico e col suo linguaggio ricco di immagini e di metafore, ha sempre cercato di illuminare con la sapienza del Vangelo i problemi del nostro tempo, offrendo una risposta alla luce della fede e incoraggiando a vivere da cristiani le sfide e le contraddizioni di questi nostri anni di cambiamenti, che amava qualificare “cambiamento di epoca”. Aveva grande spontaneità e una maniera informale di rivolgersi a tutti, anche alle persone lontane dalla Chiesa. Ricco di calore umano e profondamente sensibile ai drammi odierni, Papa Francesco ha realmente condiviso le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo della globalizzazione, e si è donato nel confortare e incoraggiare con un messaggio capace di raggiungere il cuore delle persone in modo diretto e immediato. Il suo carisma dell’accoglienza e dell’ascolto, unito ad un modo di comportarsi proprio della sensibilità del giorno d’oggi, ha toccato i cuori, cercando di risvegliare le energie morali e spirituali. Il primato dell’evangelizzazione è stato la guida del suo Pontificato, diffondendo, con una chiara impronta missionaria, la gioia del Vangelo, che è stata il titolo della sua prima Esortazione Apostolica Evangelii gaudium. Una gioia che colma di fiducia e speranza il cuore di tutti coloro che si affidano a Dio. Filo conduttore della sua missione è stata anche la convinzione che la Chiesa è una casa per tutti; una casa dalle porte sempre aperte. Ha più volte fatto ricorso all’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” dopo una battaglia in cui vi sono stati molti feriti; una Chiesa desiderosa di prendersi cura con determinazione dei problemi delle persone e dei grandi affanni che lacerano il mondo contemporaneo; una Chiesa capace di chinarsi su ogni uomo, al di là di ogni credo o condizione, curandone le ferite. Innumerevoli sono i suoi gesti e le sue esortazioni in favore dei rifugiati e dei profughi. Costante è stata anche l’insistenza nell’operare a favore dei poveri. È significativo che il primo viaggio di Papa Francesco sia stato quello a Lampedusa, isola simbolo del dramma dell’emigrazione con migliaia di persone annegate in mare. Nella stessa linea è stato anche il viaggio a Lesbo, insieme con il Patriarca Ecumenico e con l’Arcivescovo di Atene, come pure la celebrazione di una Messa al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in occasione del suo viaggio in Messico. Dei suoi 47 faticosi Viaggi Apostolici resterà nella storia in modo particolare quello in Iraq nel 2021, compiuto sfidando ogni rischio. Quella difficile Visita Apostolica è stata un balsamo sulle ferite aperte della popolazione irachena, che tanto aveva sofferto per l’opera disumana dell’ISIS. È stato questo un Viaggio importante anche per il dialogo interreligioso, un’altra dimensione rilevante della sua opera pastorale. Con la Visita Apostolica del 2024 a quattro Nazioni dell’Asia-Oceania, il Papa ha raggiunto “la periferia più periferica del mondo”. Papa Francesco ha sempre messo al centro il Vangelo della misericordia, sottolineando ripetutamente che Dio non si stanca di perdonarci: Egli perdona sempre qualunque sia la situazione di chi chiede perdono e ritorna sulla retta via. Volle il Giubileo Straordinario della Misericordia, mettendo in luce che la misericordia è “il cuore del Vangelo”. Misericordia e gioia del Vangelo sono due parole chiave di Papa Francesco. In contrasto con quella che ha definito “la cultura dello scarto”, ha parlato della cultura dell’incontro e della solidarietà. Il tema della fraternità ha attraversato tutto il suo Pontificato con toni vibranti. Nella Lettera Enciclica “Fratelli tutti” ha voluto far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità, perché tutti figli del medesimo Padre che sta nei cieli. Con forza ha spesso ricordato che apparteniamo tutti alla medesima famiglia umana. Nel 2019, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, Papa Francesco ha firmato un documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, richiamando la comune paternità di Dio. Rivolgendosi agli uomini e alle donne di tutto il mondo, con la Lettera Enciclica Laudato si’ ha richiamato l’attenzione sui doveri e sulla corresponsabilità nei riguardi della casa comune. “Nessuno si salva da solo”. Di fronte all’infuriare delle tante guerre di questi anni, con orrori disumani e con innumerevoli morti e distruzioni, Papa Francesco ha incessantemente elevata la sua voce implorando la pace e invitando alla ragionevolezza, all’onesta trattativa per trovare le soluzioni possibili, perché la guerra – diceva – è solo morte di persone, distruzioni di case, ospedali e scuole. La guerra lascia sempre il mondo peggiore di come era precedentemente: essa è per tutti sempre una dolorosa e tragica sconfitta. “Costruire ponti e non muri” è un’esortazione che egli ha più volte ripetuto e il servizio di fede come Successore dell’Apostolo Pietro è stato sempre congiunto al servizio dell’uomo in tutte le sue dimensioni. In unione spirituale con tutta la Cristianità siamo qui numerosi a pregare per Papa Francesco perché Dio lo accolga nell’immensità del suo amore. Papa Francesco soleva concludere i suoi discorsi ed i suoi incontri dicendo: “Non dimenticatevi di pregare per me”. Caro Papa Francesco, ora chiediamo a Te di pregare per noi e che dal cielo Tu benedica la Chiesa, benedica Roma, benedica il mondo intero, come domenica scorsa hai fatto dal balcone di questa Basilica in un ultimo abbraccio con tutto il popolo di Dio, ma idealmente anche con l’umanità che cerca la verità con cuore sincero e tiene alta la fiaccola della speranza.”
Era il 2005, sempre aprile, il 2. Non avevo ancora iniziato a tenere un blog, Facebook esisteva ma non impattava ancora, gli altri social praticamente non c’erano. Le notizie non le cercavi su internet, ma usavi tv, radio, televideo e giornali (di carta). Quel 2 aprile 2005 se ne andava Giovanni Paolo II, l’ultima volta che è morto un papa “in carica”. Poi c’è stato il 28 febbraio 2013, la data in cui Benedetto XVI diede le dimissioni: l’impatto sul web fu ben diverso, anche perché enorme fu la sorpresa… (personalmente ricordo ancora quello che stavo facendo quando seppi la notizia). Della morte di Francesco ho saputo da un vicino mentre stavo andando a passare la Pasquetta a Lignano con la famiglia. Durante il giorno ho letto pochissimo dallo smartphone, poi, in tarda serata, ho avuto un po’ di tempo, ho fatto accesso ai social e sono scappato. Stiamo trasformando tutto in uno scontro, in una discussione in un conflitto: e deve essere immediato, estremo, forte, certo. Stiamo diventando esperti di polarizzazione. Non voglio farne parte. Ne esco senza parole e usando un linguaggio che da un po’ non bazzico ma che riconosco come vicino al mio sentire: quello della fotografia. Era la fine di aprile del 2013 e Jorge Mario Bergoglio era da poco diventato Francesco e aveva stupito il mondo con un semplice “Buonasera”. Sara ed io eravamo in piazza San Pietro e ho fatto questi scatti. Letteralmente Mandi Francesco.
Sabato 13 novembre sarà la giornata della gentilezza. “Voglio che tutti voi siate coraggiosi nel praticare la ‘piccola gentilezza’, creando così un’ondata di gentilezza che un giorno investirà tutta la società giapponese”. E’ il marzo del 1963 e il rettore dell’Università di Tokyo Seiji Kaya pronuncia queste parole all’interno del discorso d’addio agli studenti il giorno della laurea. Da lì partirà il Movimento Piccola Gentilezza che porterà alla creazione di questa giornata. Una decina di giorni fa, Riccardo Maccioni scriveva così su Avvenire: “Da un po’ di tempo le panchine sono diventate uno strumento di denuncia. Vengono colorate di arcobaleno contro l’omofobia, di rosso per dire no alla violenza sulle donne e, adesso, anche di viola, a reclamizzare la gentilezza, quella vera, intesa come habitus di vita. Non il manierismo affettato o il semplice gusto delle buone maniere, ma la cultura delle relazioni, il riconoscimento che l’altro è un valore. A questo scopo nascono associazioni, assessorati, corsi universitari, studi di psicologia secondo cui essere gentili fa stare meglio. Il presupposto di una rivoluzione, che rovescia il credo nell’aggressività come strumento di persuasione, nella durezza verbale come autodifesa. In realtà è forte chi sembra debole. Lo dice benissimo il Papa nella “Fratelli tutti”: «La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici». Non il gusto per il quieto vivere dunque ma il coraggio di guardare oltre noi stessi, di allargare il cuore a chi ci sta davanti, consapevoli della sua e nostra fragilità. Significa cura del tempo, è tenere in mano le redini della propria vita, senza bisogno di urlare e sgomitare per dire chi siamo”.
Due notizie che riguardano la terza compagnia estrattiva al mondo, l’anglo-australiana Rio Tinto Group (ricerca, estrae e lavora vari materiali, dalla bauxite al rame, dall’oro ai diamanti, dal carbone all’uranio…). Entrambe sono tratte dal numero di agosto di Rocca.
La prima riguarda gli Stati Uniti e in particolare l’Arizona: qui, nella parte centrale dello Stato, c’è Oak Flat, terra sacra agli Apache. Oak Flat ha la sfortuna di trovarsi “sopra uno dei più grandi giacimenti di rame al mondo. L’area rischia di essere venduta a una compagnia legata alla multinazionale estrattiva Rio Tinto. A fronte di questa notizia è sorto un movimento di protesta, per affermare il diritto del popolo apache alla difesa della terra e del suo patrimonio culturale e religioso.”
La seconda notizia ci porta invece in Australia: qui “durante i lavori di ampliamento della miniera di ferro di Marandoo, di proprietà della Rio Tinto Group, è stato distrutto un sito che gli aborigeni considerano sacro, le grotte nella gola di Juukan. In queste grotte diversi scavi hanno rinvenuto manufatti risalenti a 28.000 anni fa, tra cui strumenti, oggetti sacri e una ciocca di capelli umani intrecciati di 4.000 anni fa, dimostrando l’esistenza degli antenati diretti degli attuali custodi della zona, il popolo Puutu Kunti Kurrama e Pinikura (Pkkp). Per capire la dimensione del danno culturale, basta riferirsi alla dichiarazione dell’Unesco, secondo cui «la distruzione archeologica nella gola di Juukan è paragonabile alle statue dei Buddha Bamiyan buttate giù dai talebani in Afghanistan o all’annientamento della città siriana di Palmira voluto dall’Isis».”
Non mi è difficile accostare a queste notizie le parole poste all’inizio di Querida Amazonia, l’esortazione apostolica dell’attuale papa: “Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa. Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana. Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste”. Che bello se Jakob Stausholm, CEO della Rio Tinto Group, facesse sue queste parole (e tanti altri con lui…)
Pubblico un articolo non per studenti. E’ per addetti o appassionati. L’ha scritto Marcello Neri (professore incaricato di Teologia cattolica presso l’Università di Flensburg, Germania) e l’ho recuperato grazie a una segnalazione su Fb da Settimana News. Al centro della riflessione il rapporto tra il proemio della Veritatis Gaudium e il resto del testo.
“Il proemio di Veritatis gaudium (VG) è sicuramente ambizioso, perché non mira a una semplice riorganizzazione degli studi teologici all’interno di istituzioni legate alla Santa Sede. Ben altra è la prospettiva di queste poche pagine uscite dalla penna (o mente) di Francesco: l’orgoglio di una riattivazione dell’efficacia degli studi ecclesiastici che sia all’altezza della loro migliore tradizione, in un contesto però del tutto inedito rispetto alla storia recente della Chiesa e, quindi, mancante di referenzialità esemplari. Liberare la teologia da scorie del passato che ne impediscono il passo sciolto nel presente; rammemorarle che essa non si inventa da sé a ogni dato momento, ma che può sapientemente attingere da un’intelligenza che può essere stata magari marginalizzata, ma non si è certo affievolita; esercitare con libertà e passione una forma del sapere la cui razionalità avanza la pretesa di porre la questione della verità del Dio di Gesù senza volerla imporre come sistema dominante e sintetico di ogni umana ricerca di verità. L’ambizione dell’intento inscritto in queste poche pagine va onorata, da parte della teologia, assumendosi la responsabilità di dare forma concreta all’auspicio e al desiderio di papa Francesco. Vedremo poi come una sorta di schizofrenia del registro linguistico interno del documento rappresenti proprio l’ostacolo maggiore in vista dell’attuazione effettiva dell’idea di studi ecclesiastici e di teologia contenuta nel proemio.
Mi è stato chiesto uno sguardo su VG dalla «periferia»: non solo lontano dal centro romano delle cose e vicende ecclesiali, ma anche in una condizione di estrema marginalità del cattolicesimo e della sua teologia. Come può essere quella di insegnarla in una piccola università del profondo nord tedesco, non in una facoltà ma all’interno di un dipartimento ridotto all’essenziale (dove bisogna arrangiarsi a fare un po’ di tutto, insomma), a sua volta lontano e periferico (geograficamente) rispetto alla sede della diocesi. Da un lato, a mio avviso si tratta di condizioni ideali per guardare a VG come a qualcosa di più di un bel sogno, di un «sarebbe bello, ma…». L’estrema destrutturazione, il disincanto e il realismo cui costringe un contesto di diaspora marcata in condizione di secolarizzazione avanzata, apre praterie alla fantasia della ragione teologica (ammesso che essa ne abbia ancora un po’ in riserva, e non si sia completamente esaurita nelle estenuanti polemiche interne alla compagine ecclesiale). In questo momento, proprio leggendo il proemio di VG, essere piccoli e senza storia, essere periferici e un po’ dimenticati (da Dio, dal tempo e dall’istituzione ecclesiale), essere marginali rispetto all’impianto complessivo di una già piccola università (che non vuol dire essere irrilevanti, però), può essere un vantaggio e, quindi, compete proprio a periferie simili a questa, anche in tutt’altri contesti, farsi carico esplicito dell’impegno per una riattivazione dell’efficacia culturale degli studi ecclesiastici. D’altro lato, la periferia da cui proviene questo sguardo su VG è strana – appunto, perché rimane comunque piantata nel cuore dell’Europa sebbene sia caratterizzata da disimmetrie relazionali con il «centro» – o, almeno, con quanto prima di Bergoglio era il centro effettivo del cattolicesimo; e che con lui, a mio avviso, è stato fortemente relativizzato sebbene tutti continuino a fare come se fosse ancora tale. Tutto questo diventa evidente quando si sta davvero in una periferia, quando si abita un margine reale del cattolicesimo contemporaneo: quello che si considera il «centro», nonostante l’opera di ridislocamento in atto delle coordinate fondamentali della Chiesa cattolica, appare essere immediatamente tale solo in forma nominale. In realtà, il «centro» è solo uno dei molti margini possibili attualmente che delineano l’altrove insituabile del periferico. Questa attrazione che assorbe apparentemente su di sé l’interno è, a mio avviso, ancora la funzione virtuosa del «centro» (margine fra i margini) della Chiesa cattolica, in quanto permette ampi spazi di movimento nelle sue zone periferiche.
L’esperienza della periferia da cui si muove la mia prospettiva è come quella di chi è uscito da lungo tempo da casa e ha percorso molti sentieri non lineari (alcuni anche interrotti, come è bene che sia), e che ora – voltandosi indietro – non riesce a intravedere più o non ha alcuna memoria della porta dalla quale si è usciti. Letta a partire da questa esperienza di periferia, VG è come se si stesse ancora cercando la porta giusta da cui uscire; fino al passo decisivo che compie il proemio di Francesco di decidere che, piuttosto che continuare a tergiversare in attesa della giusta via di uscita, è molto meglio fare un bel buco nel muro (anche perché molto probabilmente quella porta non esiste affatto). Poco importa dove si faccia saltare il bastione per generare un’apertura, perché sarà sempre più fruttuoso che estenuarsi nel trovare l’uscita che non c’è. Il proemio di VG rappresenta la consapevolezza raggiunta da papa Francesco che, per quanto riguarda gli studi ecclesiastici, o si procede un po’ brutalmente in questa maniera oppure essi perderanno definitivamente il treno che potrebbe condurli nell’aperto della loro destinazione (anziché continuare a stare comodamente in pantofole nell’ambiente familiare in cui abitano oramai solo loro – e, al più, i cloni che essi auto-generano). Ma è proprio qui che la contraddizione tra proemio (ispirativo, pronto a sparigliare senza timore le carte in gioco) e il resto del documento (giuridico, preoccupato di organizzare l’esistente) si fa non solo più evidente, ma appare quasi comica. Alla fin fine, sembra di essere dentro un cartone animato di Willy il Coyote: mentre il nostro anti-eroe sfortunato ci ha messo l’anima, e ogni ingegno possibile, per aprire una breccia nel muro di cinta, il perfido Road Runner del massimalismo normativo-giuridico ha già provveduto a costruirne un altro tutt’attorno – più alto e più solido di quello così faticosamente abbattuto. L’ampliamento caparbiamente voluto dal buon Willy-Francesco è ridotto a semplice illusione ottica dall’ossessione di controllo del Road Runner vaticano di turno (in questo caso la Congregazione per l’educazione cattolica).
Qual è il testo di Veritatis gaudium?
Si pone, quindi, la questione di quale testo sia VG: il proemio o la parte normativo-canonica? O l’adesione degli studi ecclesiastici al vissuto quotidiano della fede, nel quale il «perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture» è già «messo in atto dal popolo di Dio» (VG 3), oppure l’indistinzione onnipervasiva del dettato giuridico che omologa centralmente gli studi ecclesiastici stessi? Non si tratta solo del fatto che i due testi parlano di cose diverse e inconciliabili fra di loro, ma anche che con l’attuale impianto normativo (che fa il secondo testo) degli studi ecclesiastici la figura del poliedro, così centrale nella visione ecclesiologica e culturale di Francesco, è semplicemente impossibile: per la forma canonica asserita, esso è semplicemente inconcepibile. Non solo gli studi ecclesiastici vengono considerati come una sfera indifferenziata, ma tutti i punti della superficie che la compongono sono dei cloni del centro onnipresente. Questo effetto artificiale di rispecchiamento narcisistico permette al centro di immaginarsi di poter essere efficacemente presente ovunque; ma appunto, si tratta solo di un’illusione che può essere tenuta in vita unicamente mortificando la realtà delle cose.
Dalla teologia della liberazione alla liberazione della teologia
Se e in quale misura papa Francesco sia influenzato dalla teologia della liberazione è questione che può rimanere tranquillamente aperta per quanto riguarda queste considerazioni su VG (ritengo quindi che il testo di VG sia esclusivamente il proemio). Tenendo conto di alcuni aspetti di semplice correttezza metodologica. In primo luogo, che il singolare sotto cui si sussumono tutta una serie di percorsi teologici, pastorali e personali è un raccoglitore ideal-tipico che non rende ragione alla vivacità del dibattito critico acceso da quegli stessi diversi itinerari della fede. In secondo luogo, bisognerebbe chiedersi se il termine «teologia della liberazione», così come esso viene usato nell’Occidente europeo, non sia alla fin fine una sorta di denominazione colonizzante di un pensiero non omologabile a quello del centro europeista. Fatte queste brevi premesse, mi sembra possibile affermare che VG miri esplicitamente alla liberazione della teologia da se stessa; il che vuol dire anche dall’apparato istituzionale e canonico che le sta impedendo di essere quello che Francesco si auspica che essa sia. VG non dice cosa la teologia deve essere dopo questo processo di liberazione; non lo dice perché, una volta che esso si sia effettivamente realizzato, non sarà possibile definire univocamente la teologia approdata a questo esito (se non in termini così generici e astratti da non voler dire sostanzialmente nulla). Piuttosto, VG si limita, con un gesto tipico di Francesco, a indicare un metodo procedurale che necessariamente si realizza in una multiformità di modi concreti: gli studi ecclesiastici «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo (…)» (VG 3). Se così si pratica la teologia, allora è chiaro che essa, entrando nel laboratorio della vita umana cui si destina l’evento cristiano, non sa né come ne uscirà lei, né cosa ne uscirà da questa impresa performativa della fede. Ossia, la teologia non sa mai a monte come di fatto si realizza, in un dato luogo e tempo, la realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo. E non lo sa neanche a valle, perché questa realtà è, come la sua adeguata interpretazione teologica, squisitamente performativa: ossia, si genera in atto; si dà in quanto pratica di vissuti umani contingenti.
Per una declericalizzazione degli studi ecclesiastici
Ogni possibile riattivazione degli studi ecclesiastici che voglia essere all’altezza di una destinazione che non si consuma nel proprio rispecchiamento e auto-conferma, passa attraverso la possibilità, capacità e volontà di disinnescare la simbiosi con l’itinerario di formazione al ministero ordinato, che ne ha sequestrato in toto la loro ragion d’essere. In questo momento, tale sovrapposizione non fa bene né al sapere teologico né al ministero ordinato; lasciando da parte la questione scottante del fatto che gli studi ecclesiastici sono al massimo «sopportati», ma non certo supportati, dalle istituzioni ecclesiali attuali preposte alla formazione di quello che sarà il corpo clericale della comunità cristiana (seminaristi inclusi). Nella direzione di uno scioglimento della cattiva simbiosi fra studi ecclesiastici e introduzione allo stato presbiterale della vita cristiana muove, con estrema chiarezza e lucidità, il proemio stesso di VG: «il vasto e pluriforme sistema degli studi ecclesiastici è fiorito lungo i secoli dalla sapienza del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nel dialogo e discernimento dei segni dei tempi e delle diverse espressioni culturali» (VG 1). Francesco auspica dunque una restituzione degli studi ecclesiastici al loro soggetto generatore, ossia al popolo di Dio nella sua sagacia, che nella prospettiva di Bergoglio è sicuramente una categoria non immediatamente definibile, ma plastica e storicamente determinata. La forza che istituisce questo luogo genetico degli studi ecclesiastici è quella dello Spirito Santo, attualizzazione e concretizzazione dell’evento cristiano di Dio nel distendersi della storia umana. Infine, la loro ragion d’essere è quella del discernimento dei segni dei tempi, ossia dell’attualità evangelica della storia nelle sue molte complessità, e di un’intelligenza delle esperienze culturali, cioè della pluralità e multiformità di cui deve essere capace la performatività dell’evento cristiano. Riconsegnati a questa scena originaria della loro genesi, quindi a un’attuazione non servile né funzionale, gli studi ecclesiastici nella loro riattivazione efficace faranno bene anche al momento di introduzione al ministero ordinato nella Chiesa, educato da essi a non comprendersi come corpo separato, o a sé stante, all’interno della comunità cristiana. L’ordinamento canonico che non solo garantisce, ma addirittura richiede una separazione clericale degli studi teologici risulta incompatibile non solo con questo quadro di restituzione allo spazio genetico dell’insieme degli studi ecclesiastici, ma rende di fatto impraticabile un’effettiva introduzione al criterio della «inter- e trans-disciplinarietà», da esercitare «con sapienza e creatività nella luce della rivelazione» (VG 4c), che dovrebbe organizzarne l’architettura complessiva.
Non c’è possibilità di riattivare l’efficacia storica degli studi ecclesiastici se non si lascia spazio a un «tentare» che non può controllare, né predeterminare, l’esito dell’impresa a cui si mette mano. Francesco parla esplicitamente della forma «aperta, cioè incompleta» (VG 3) del buon pensiero che scaturisce dall’intelligenza storica del vangelo di Gesù. Ancora una volta, tra il testo di VG e quello che chiamerei l’apparato canonico a lui giustapposto c’è una sostanziale contraddizione di termini – dove il secondo ha esattamente l’ossessione di non lasciare aperto alcuno spazio, né indeterminata alcuna possibilità. Senza dover scendere in questioni di merito sicuramente decisive, come quella di cosa voglia dire dal punto di vista canonistico la libertà accademica, cui a questo punto neanche gli studi ecclesiastici possono rinunciare se vogliono essere riattivati nel senso di VG, è proprio la forma mentis di base che porta all’elisione di una delle due parti del documento. Detta in altre parole: il proemio richiede in questo momento agli studi ecclesiastici uno scarto che si può realizzare solo nella forma della loro anomia, stante il quadro giuridico preposto al loro governo. Non vi è altro modo di esercitare effettivamente un pensiero incompleto, esattamente perché l’iper-tonicità del quadro giuridico-canonico mira a eliminare qualsiasi possibile incompletezza. Solo assumendo il dovere di questa anomia, gli studi ecclesiastici verranno finalmente liberati dall’ossessione di essere il tutto (del sapere) e di avere l’ultima parola da dire (sulla verità).
25 anni fa la Camorra uccise don Peppe Diana . “Nel 1991, il giorno di Natale, don Peppe Diana aveva diffuso uno scritto, letto in tutte le chiese della zona, intitolato “Per amore del mio popolo”. Era un manifesto che annunciava, a voce alta, l’impegno contro la criminalità organizzata, definita una forma di terrorismo che provava a diventare componente endemica della società. Parole ed impegno che gli sono costati cari. Il 19 marzo del 1994, giorno anche suo onomastico, Don Peppe Diana venne freddato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre stava per celebrare la messa. Il parroco morì all’istante, colpito da cinque proiettili: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo” (da Rainews24).
Con queste parole lo ricorda don Luigi Ciotti: “25 anni. Non c’è stato un giorno, in questo quarto di secolo, in cui non abbiamo sentito la presenza di don Peppe Diana attraverso l’impegno di chi, con tenacia e spesso coraggio – essendo un impegno, ahinoi, ancora troppo controcorrente – cerca non solo di “seguire” il Vangelo ma di viverlo, di tradurlo in scelte, atti e comportamenti, dentro e fuori dalla Chiesa. Ma se c’è stato un giorno in cui don Diana lo abbiamo sentito non solo presente, ma vivo, è stato il 21 marzo del 2014 nella Chiesa di San Gregorio a Roma, alla vigilia della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si svolse quell’anno a Latina. Quel giorno, a San Gregorio, Papa Francesco incontrò un migliaio di famigliari delle vittime, tra cui quelli di don Diana e don Pino Puglisi. E al momento della benedizione, appoggiai con commozione sulle spalle del Papa la stola di don Peppe. Francesco parlò ai famigliari con grande trasporto, ringraziandoli per la loro quotidiana testimonianza, per la scelta difficile di non chiudersi ma di trasformare vuoti tanto strazianti in impegno per la giustizia. E poi si rivolse a quelli che definì i “grandi assenti”, gli uomini e le donne della mafia, esortandoli “in ginocchio”, a una conversione: il potere e il denaro che accumulate è sporco di sangue, sottolineò, e non potrete portarlo nell’altra vita. Don Peppe quel giorno era vivo nelle parole e nello slancio di un Papa che incarnava la Chiesa che Peppe aveva sognato e per la quale aveva messo in gioco la sua vita, una Chiesa che non si limita appunto a predicare il Vangelo ma lo vive, facendone un concreto strumento di liberazione e di giustizia a partire da questa Terra. Ecco perché oggi, a 25 anni dal suo assassinio, è essenziale non limitarsi a ricordare: bisogna fare del ricordo un pungolo di coscienza, una memoria viva. E un grande stimolo ci viene, in questo frangente in cui la sacra parola “popolo” rischia di diventare un concetto ambiguo, strumentale, una foglia di fico alla sete di potere dei “populisti”, proprio il documento “Per amore del mio popolo non tacerò”, che don Peppe scrisse e pubblicò insieme ai sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe nel Natale del 1991, pochi mesi prima delle stragi di mafia, di quella storia di immane violenza che la mattina del 19 marzo 1994 uccise il corpo ma non lo spirito di quel giovane, scomodo prete che si apprestava a celebrare la Messa. Colpisce, di quel testo, la profezia e la profondità di sguardo. Don Peppe non si limita a denunciare il male, ma ne mette in luce il legame con un più generale vuoto di coscienza e di civiltà. C’è la descrizione puntuale della mafia camorristica, il suo evolversi già come mafia imprenditoriale, mafia non solo delle armi, ma della tangente e dell’appalto. Ci sono le responsabilità politiche, i vuoti amministrativi e istituzionali, la burocrazia, il clientelismo, il dilagare della corruzione. C’è l’invito alla Chiesa a “farsi più tagliente e meno neutrale”, più coerente con “la prima beatitudine del Vangelo che è la povertà”, in quanto “distacco dal superfluo, da ogni ambiguo compromesso e privilegio”. Ci sono insomma le indicazioni essenziali per costruire comunità in cui tutti contribuiscano alla libertà e dignità di ciascuno. Per ricordare don Diana è allora importante meditare sulle sue parole, ma occorre anche trasformare la meditazione in azione, occorre fare del suo messaggio il nostro impegno, la nostra credibile testimonianza di vita.” (Famiglia Cristiana 17/03/2019, reperito su Libera).
E’ un argomento che affrontiamo specificatamente in quinta quello della globalizzazione, dello sviluppo e delle risorse del nostro pianeta. Ma cerco di pubblicare spesso articoli sul tema, in modo che anche studenti delle altre classi possano leggere qualcosa. Oggi, su Vatican Insider, l’approfondimento de La Stampa dedicato a quanto succede intorno al pianeta-Chiesa, Iacopo Scaramuzzi ha scritto dell’incontro tra Papa Francesco e i partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals”.
“Il Papa ha messo in guardia dal «sentiero pericoloso» di ridurre lo sviluppo alla crescita del Prodotto interno lordo (PIL), una convenzione che porta a «sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani», in un discorso dedicato all’Agenda internazionale 2030 per uno sviluppo sostenibile, ricordando che, invece, è necessaria una «impostazione integrata degli obiettivi» e bisogna «rispondere adeguatamente sia al grido della terra sia al grido dei poveri». Francesco ha citato in particolare il modello delle popolazioni indigene, in vista del Sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre, mettendo in evidenza che «sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre». «Proporre un dialogo su uno sviluppo inclusivo e sostenibile richiede anche di riconoscere che “sviluppo” è un concetto complesso, spesso strumentalizzato», ha detto il Papa nell’udienza ai partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals (SDGs): Listening to the cry of the earth and of the poor” (Le religioni e gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile: ascoltare il grido della terra e del povero), organizzata da ieri a domani dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale e dal pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso. «Quando parliamo di sviluppo dobbiamo sempre chiarire: sviluppo di cosa? Sviluppo per chi? Per troppo tempo l’idea convenzionale di sviluppo è stata quasi interamente limitata alla crescita economica», ha sottolineato Francesco. «Gli indicatori di sviluppo nazionale si sono basati sugli indici del prodotto interno lordo (PIL). Ciò ha guidato il sistema economico moderno su un sentiero pericoloso, che ha valutato il progresso solo in termini di crescita materiale, per il quale siamo quasi obbligati a sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani». E invece, «come ha messo in risalto il mio predecessore San Paolo VI – ha proseguito il Pontefice – parlare di sviluppo umano significa riferirsi a tutte le persone – non solo a pochi – e all’intera persona umana – non alla sola dimensione materiale». Pertanto, «una fruttuosa discussione sullo sviluppo dovrebbe offrire modelli praticabili di integrazione sociale e di conversione ecologica, perché non possiamo svilupparci come esseri umani fomentando crescenti disuguaglianze e il degrado dell’ambiente». Papa Francesco, che ha citato ampiamente la Caritas in veritate di Benedetto XVI ed ha menzionato l’appello di Giovanni Paolo II ad una «conversione ecologica», ha notato che «l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite propone di integrare tutti gli obiettivi attraverso le “cinque P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership», una «impostazione integrata», ripresa anche dalla conferenza vaticana, che, ha proseguito Francesco citando la sua enciclica Laudato si’ «può servire anche a preservare da una concezione della prosperità basata sul mito della crescita e del consumo illimitati, per la cui sostenibilità dipenderemmo solo dal progresso tecnologico. Possiamo ancora trovare alcuni che sostengono ostinatamente questo mito, e dicono che i problemi sociali ed ecologici si risolvono semplicemente con l’applicazione di nuove tecnologie e senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo», e invece «un approccio integrale ci insegna che questo non è vero» poiché «gli obiettivi economici e politici devono essere sostenuti da obiettivi etici, che presuppongono un cambiamento di atteggiamento, la Bibbia direbbe un cambiamento di cuore». Quanto alla risposta delle «persone religiose», il Papa ha messo in evidenza, in particolare, il ruolo delle popolazioni indigene: «Sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre. Vivendo in aree quali l’Amazzonia e l’Artico, aiutano a proteggere circa l’80% della biodiversità del pianeta». Inoltre, «in un mondo fortemente secolarizzato, tali popolazioni ricordano a tutti la sacralità della nostra terra. Per questi motivi, la loro voce e le loro preoccupazioni dovrebbero essere al centro dell’attuazione dell’Agenda 2030 e al centro della ricerca di nuove strade per un futuro sostenibile. Ne discuterò anche – ha sottolineato il Papa – con i miei fratelli Vescovi al Sinodo della Regione Panamazzonica, alla fine di ottobre di quest’anno». Papa Francesco ha concluso il suo discorso evidenziando che «le sfide sono complesse e hanno molteplici cause; la risposta pertanto non può che essere a sua volta complessa e articolata, rispettosa delle diverse ricchezze culturali dei popoli. Se siamo veramente preoccupati di sviluppare un’ecologia capace di rimediare al danno che abbiamo fatto, nessuna branca delle scienze e nessuna forma di saggezza dovrebbero essere tralasciate, e ciò include le religioni e i linguaggi ad esse peculiari. Le religioni – ha detto Jorge Mario Bergoglio citando la Popolorum progressio di Paolo VI – possono aiutarci a camminare sulla via di un reale sviluppo integrale, che è il nuovo nome della pace».
“Roboetica: Persone, Macchine, Salute” è il titolo del Workshop aperto al pubblico che si è svolto il 25 e 26 febbraio 2019, all’interno dell’Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita. Papa Francesco ha ricevuto in udienza i partecipanti alla plenaria e Salvatore Cernuzio ne ha scritto su La Stampa.
“La macchina che domina l’uomo, i robot che sostituiscono la persona umana, la logica del dispositivo che soppianta la ragione umana. Il futuro distopico prefigurato da cinema e letteratura già mezzo secolo fa rischia di divenire un pericolo reale con l’avvento e l’aumento delle nuove tecnologie. Il monito non giunge da scienziati e antropologi ma da Papa Francesco, il quale […] avverte: «L’odierna evoluzione della capacità tecnica produce un incantamento pericoloso: invece di consegnare alla vita umana gli strumenti che ne migliorano la cura, si corre il rischio di consegnare la vita alla logica dei dispositivi che ne decidono il valore». Un vero e proprio «rovesciamento» che, secondo Bergoglio, è destinato a produrre «esiti nefasti: la macchina non si limita a guidarsi da sola, ma finisce per guidare l’uomo. La ragione umana viene così ridotta a una razionalità alienata degli effetti, che non può essere considerata degna dell’uomo». In questo senso va rivista la denominazione stessa di “intelligenza artificiale” che, «pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante», annota Francesco. «I termini occultano il fatto che – a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) –, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi». È del resto già reale «il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata»: lo si vede già adesso che «a “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane». Bisogna allora «comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale», dice il Pontefice. «I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana», aggiunge. «Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine» che si diffondono a vista d’occhio nel mondo e «trasformano radicalmente lo scenario della nostra esistenza». «Se sapremo far valere anche nei fatti questi riferimenti, le straordinarie potenzialità dei nuovi ritrovati potranno irradiare i loro benefici su ogni persona e sull’umanità intera», assicura il Papa. Il primo passo è ricominciare a comprendere la tecnologia non come forza «estranea e ostile» all’uomo, ma come «prodotto del suo ingegno attraverso cui provvede alle esigenze del vivere per sé e per gli altri». La tecnologia dovrebbe apparire «una modalità specificamente umana di abitare il mondo», sottolinea il Pontefice. Oggi invece si assiste ad un «drammatico paradosso»: «Proprio quando l’umanità possiede le capacità scientifiche e tecniche per ottenere un benessere equamente diffuso, secondo la consegna di Dio, osserviamo un inasprimento dei conflitti e una crescita delle disuguaglianze». Declina così «il mito illuminista del progresso» e «l’accumularsi delle potenzialità che la scienza e la tecnica ci hanno fornito non sempre ottiene i risultati sperati». Anzi, mentre da un lato «lo sviluppo tecnologico ci ha permesso di risolvere problemi fino a pochi anni fa insormontabili», dall’altro emergono «difficoltà e minacce talvolta più insidiose delle precedenti», afferma Papa Francesco. «Il “poter fare” rischia di oscurare il chi fa e il per chi si fa. Il sistema tecnocratico basato sul criterio dell’efficienza non risponde ai più profondi interrogativi che l’uomo si pone; e se da una parte non è possibile fare a meno delle sue risorse, dall’altra esso impone la sua logica a chi le usa».” Non solo. Si assiste anche ad un progressivo «logorarsi» del tessuto delle relazioni familiari e sociali e si diffonde sempre di più «una tendenza a chiudersi su di sé e sui propri interessi individuali, con gravi conseguenze sulla grande e decisiva questione dell’unità della famiglia umana e del suo futuro». E se a tutto ciò aggiungiamo anche «i gravi danni causati al pianeta, nostra casa comune, dall’impiego indiscriminato dei mezzi tecnici», risulta chiaro che le prospettive del futuro siano piuttosto negative. Il Papa esorta allora a ripristinare quel concetto di «ecologia integrale» descritto e promosso nella Laudato si’: nel mondo odierno, «segnato da una stretta interazione tra diverse culture», occorre portare lo specifico contributo dei credenti alla ricerca di «criteri operativi universalmente condivisibili, che siano punti di riferimento comuni per le scelte di chi ha la grave responsabilità di decisioni da prendere sul piano nazionale e internazionale», afferma. In quest’ottica, «l’intelligenza artificiale, la robotica e le altre innovazioni tecnologiche» vanno impiegate «al servizio dell’umanità e alla protezione della nostra casa comune invece che per l’esatto opposto, come purtroppo prevedono alcune stime», chiosa il Pontefice. «L’inerente dignità di ogni essere umano va posta tenacemente al centro della nostra riflessione e della nostra azione».”
Come ogni anno, nelle classi terze, affrontiamo l’argomento della pena di morte. In una vi siamo dentro già da un po’, nelle altre stiamo per iniziare. Poco fa è stato rilanciato dai social un brevissimo video di papa Francesco sul tema. Così ne scrive Paolo Petrini su La Stampa:
“«Ogni vita è un bene e la sua dignità deve essere custodita senza eccezioni. La pena di morte è quindi una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona». Lo afferma Papa Francesco nel videomessaggio inviato al VII Congresso mondiale contro la pena di morte, in corso al Parlamento europeo a Bruxelles fino al 1° marzo, promosso dalla Ong “Ecpm” (Together Against the Death Penalty – Insieme contro la pena di morte), in collaborazione con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte. «Vi accompagno con la mia preghiera e incoraggio il vostro lavoro e quello dei governanti e di tutti coloro che hanno responsabilità nei loro Paesi a compiere i passi necessari verso l’abolizione totale della pena di morte», dice Francesco nel filmato. «È vero che le società e le comunità umane devono affrontare spesso problemi molto gravi che minacciano il bene comune e la sicurezza delle persone, ma oggi ci sono altri mezzi per espiare il danno causato, la detenzione è sempre più efficace nel proteggere la società». «Non si può mai abbandonare la convinzione di offrire a chi si è macchiato di crimini la possibilità di pentirsi», insiste ancora il Pontefice, «nessuno può essere ucciso e privato dell’opportunità di abbracciare nuovamente la comunità che ha ferito e fatto soffrire». La pena di morte, infatti, è «una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona». «L’obiettivo dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo rappresenta una coraggiosa difesa della dignità della persona e la convinzione che l’uomo può affrontare il crimine, così come respingere il male, offrendo al condannato il possibilità e il tempo per riparare il danno commesso, pensare alla sue azione e quindi essere in grado di cambiare la vita, almeno interiormente». Nel video messaggio Francesco cita anche la recente modifica al testo del Catechismo della Chiesa cattolica relativo alla pena capitale. «La Chiesa insegna alla luce del Vangelo che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo». Per il Papa, è un fattore positivo «il fatto che sempre più Paesi scommettano sulla vita e non sulla pena di morte o addirittura l’abbiano completamente eliminata dalla loro legislazione penale». Per continuare a procedere in questa direzione, Papa Francesco esorta a «riconoscere la dignità di ogni persona» e a «lavorare in modo che non vengano eliminate altre vite, ma guadagnate per il bene della società nel suo complesso».
Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe. Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…
“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? … I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.
Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.
Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:
progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
profili organizzativi: presidi reticolari
più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.
Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano. Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose. Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi… Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota. Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità. Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.
La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”
Un breve articolo di Giuseppe Lorizio a margine del viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti. E’ tratto da Avvenire del 5 febbraio.
“Il fatto che il Vescovo di Roma partecipi, in una terra di cultura islamica, a un importante evento di dialogo interreligioso a tutto campo, è certamente un segno da leggere, interpretare e vivere con simpatetica partecipazione. Che non siano gli islamici a recarsi ad Assisi per il dialogo interreligioso, ma il Papa ad andare “fuori” dal proprio ambiente culturale e religioso non è irrilevante, né da considerarsi in termini meramente propagandistici o alternativi rispetto ad altri momenti singolari ed eccentrici rispetto alla nostra tradizione. Il raccoglimento di papa Benedetto XVI nella moschea blu di Istanbul nel 2006 è un precedente indimenticabile. Il gesto/segno e l’evento che stiamo seguendo con attenzione e pathos hanno qualcosa da dire al mondo intero, e all’Occidente in particolare: le religioni hanno un messaggio da lanciare a questa società che rischia la perdita dell’umano e l’abisso della dispersione: c’è un unico Dio, in una dimensione di trascendenza assoluta, che ci porta a relativizzare il nostro assolutismo antropocentrico ed etnocentrico. In particolare le religioni abramitiche non possono non allearsi in questo contesto conflittuale: le stesse radici veterotestamentarie e cristiano-nestoriane della religione coranica affermano qualcosa di decisivo. La moschea dedicata alla madre di Gesù, che richiama la sura XIX del Corano è un simbolo significativo per tutti. Lo dobbiamo abitare e sperimentare per poterlo esprimere nell’oggi della nostra storia. Da soli non andiamo da nessuna parte e siamo tutti destinati al declino e alla sconfitta. E se l’Europa, terra di antica cultura cristiana, appare in difficoltà nel confronto con l’islam , questo avviene – come ha sottolineato giustamente il vescovo Camillo Ballin, vicario apostolico in Arabia – «perché l’Europa non fa figli». Non fa figli – e non solo in senso biologico, ma di fatto non genera persone strutturate – e non custodisce e trasmette le proprie radici ebraico-cristiane, in nome di un laicismo deteriore, che nulla ha a che fare con l’autentica laicità, che invece denomina l’appartenenza a un popolo. Del resto senza l’ebraismo e il cristianesimo l’islam risulterebbe del tutto incomprensibile. In rapporto poi alle esperienze religiose che fanno riferimento alla natura e propongono modelli olistici di integrazione dell’uomo con l’universo degli esseri, non possiamo solo proporci in direzione alternativa e critica, bensì siamo chiamati a recuperare ed elaborare, anche teologicamente, quella che oggi denominiamo la dimensione cosmicoantropologica della rivelazione, dove il peccato ha rotto l’armonia dell’uomo con Dio e con gli altri, e ha anche lacerato la relazione uomo-natura. Questo è un orizzonte significativo e fecondo per l’alleanza di tutte le esperienze religiose che in questi giorni si stanno incontrando negli Emirati Arabi Uniti. Il tema della creatività, che la sfida della tecnica propone e ripropone in ogni passaggio epocale, non può mettere in ombra il legame creaturale e il senso del limite, da cui ogni esperienza religiosa trae origine. Ciascuno è chiamato a guardare e andare oltre, accompagnando questo evento e quelli che seguiranno con la riflessione e l’orazione, ma soprattutto declinando la parola chiave, che lo guida e lo anima: pace”.
Difficile non imbattersi in questi giorni nella notizia del viaggio di Papa Francesco negli Emirati Arabi. Oggi sono state poste delle importanti firme.
Prendo dal sito di Avvenire di oggi, a firma di Stefania Falasca.
“Abu Dhabi 4 febbraio 2019: «In nome di Dio Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Non solo. È messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze. Nero su bianco la condanna dell’estremismo e l’uso politico delle religioni, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto e il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti». E ancora: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione». È questo l’epilogo di un incontro interreligioso decisamente coraggioso in un lacerato Medio Oriente che ha visto protagonisti nel Paese-ponte del Golfo Persico papa Francesco e il Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib. Una solenne quanto impegnativa doppia firma a un documento comune sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», che sigla un’appello congiunto senza precedenti rivolto a «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Una dichiarazione non annunciata, resa pubblica solo alla fine dal Founder’s Memorial, dedicato al padre fondatore degli Emirati arabi, dove davanti ai rappresentanti delle diverse religioni il Successore di Pietro e un leader musulmano hanno sottoscritto la lista di punti “non negoziabili” e chiesto a loro stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di invertire la rotta delle violenze e «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace».
Foto tratta da Eastwest
Un gesto forte, di parole altrettanto forti, soprattutto per la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad al-Tayyib, che già nell’incontro con il Papa all’Università di al-Azhar a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita, aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione. La dichiarazione comune che muove «da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea» condanna l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – che porta a far «morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – in «un silenzio internazionale inaccettabile». Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e chiede di «smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Perché Dio «non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati» nella loro vita e nella loro esistenza», «non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Si dichiara perciò «fermamente» che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. «Queste sciagure – è scritto – sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione». Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le atre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale». Tutto questo è affermato in nome di Dio – come è ribadito – che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. In nome dunque della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali – ma che è lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato, dalle tendenze ideologiche che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome «dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità». In nome dei poveri, dei più vulnerabili. «In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre». La scossa doveva arrivare ed è arrivata. Inshallah.”
Papa Francesco tiene il suo discorso al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Qui faccio un tuffo nel passato, a quando ho dato l’esame di Ecumenismo col prof. Ermanno Lizzi. L’articolo che pubblico è per appassionati di dialogo religioso (ma non è eccessivamente tecnico); è il resoconto della visita di papa Francesco al CEC (la dicitura inglese è WCC, World Council of Churches, ma nella mia memoria di studente è CEC). Le parole sono di Brunetto Salvarani, contenute nel suo articolo di ieri su Settimananews.
“Un viaggio verso l’unità, aveva detto papa Francesco salutando i giornalisti in aereo, in volo verso Ginevra, abbinando felicemente l’idea di un tragitto geografico con quella di un itinerario ecumenico in atto.
Nel parlare di ecumenismo, ci siamo ormai assuefatti a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le Chiese. Così, negli anni subito dopo il concilio prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione – in effetti diffusa in molti ambienti – che il tempo si stesse mettendo al bello; mentre nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), si è fatto luogo comune il riferimento a un autunno, o addirittura ad un inverno, ecumenico, ben distante dal clima conciliare. Peraltro, ora, è legittimo pensare che, quanto meno, stia chiudendosi l’inverno più cupo, e si vada aprendo una stagione primaverile ricca di potenziali ulteriori sviluppi.
Il pellegrinaggio ecumenico di papa Francesco, svoltosi giovedì 21 giugno nella città di Giovanni Calvino, va in effetti in tale direzione, contribuendo a porre al cuore delle identità delle Chiese la loro relazione fraterna. I 70 anni del CEC
L’occasione dell’evento erano le celebrazioni per il 70° anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC, o WCC dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di Chiese cristiane su scala mondiale (la Chiesa cattolica, è noto, vi partecipa da osservatrice), apertesi, sempre a Ginevra, nello scorso febbraio. Si tratta dell’organismo più ampio e inclusivo tra le diverse organizzazioni del movimento ecumenico moderno, fondato ad Amsterdam il 22 agosto del 1948 e formato oggi da 348 Chiese membro in 110 paesi del mondo, in rappresentanza di oltre 560 milioni di cristiani.
Esso comprende la maggior parte delle Chiese ortodosse, numerose Chiese protestanti storiche (anglicane, battiste, luterane, metodiste, riformate) e diverse Chiese indipendenti: una comunione di Chiese riunite per promuovere il dialogo e la riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane.
Si noti: i suoi membri fondatori provengono principalmente dall’Europa e dal Nord America, ma oggi la maggior parte dei membri si trova in Africa, Asia, Caraibi, America Latina, Medio Oriente e Oceania.
Per statuto, lo scopo primario del CEC è «chiamarsi gli uni gli altri all’unità visibile in un’unica fede e in un’unica comunione eucaristica». Il CEC è per i suoi membri uno spazio di riflessione, azione, preghiera e impegno comune.
La sua 10ª assemblea si è svolta a Busan, seconda città della Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre 2013, con il motto Dio della vita, guidaci alla pace e alla giustizia: si trattò di un’occasione preziosa per misurare il ruolo cruciale dell’Asia nel panorama geopolitico, in chiave sia economica sia religiosa: si pensi, ad esempio, alla notevole tenuta delle grandi tradizioni spirituali di marca asiatica ma anche all’emergere della terza Chiesa nel quadro di un cristianesimo ormai globale. Una visita non di cortesia
Ora, la scelta di papa Francesco di recarsi in Svizzera per rendere omaggio al lavoro ecumenico del CEC non è stata senza significati, tutt’altro, rappresentando un riconoscimento al contributo unico che tale organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico.
Già il 2 marzo, durante una conferenza stampa congiunta in Vaticano, alla presenza del cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, il reverendo Olav Fykse Tveit, pastore luterano e segretario generale del CEC, aveva detto che «la notizia della visita del papa è un segno di come le Chiese cristiane possano affermare la nostra chiamata e missione comune di servire insieme Dio».
E se – come si diceva – fino a pochi anni fa eravamo rassegnati all’inverno ecumenico, lo stesso Tveit, che viene dalla Norvegia, ama dire che nell’inverno non c’è nulla di sbagliato: c’è soltanto bisogno di guanti e vestiti che tengano caldo. E che con Bergoglio e le sue iniziative sta arrivando una nuova primavera (fino a riferirvisi come a «una pietra miliare storica nella ricerca dell’unità dei cristiani e della cooperazione tra le Chiese per un mondo di giustizia e di pace»).
La sua partecipazione, a Lund, alla preghiera per la celebrazione del 5° centenario della Riforma (31 ottobre – 1° novembre 2016) ha molto incoraggiato il movimento ecumenico diffuso: in quel frangente il motto delle celebrazioni, Dal conflitto alla comunione, si è fatto vita.
Certo, recandosi a Ginevra, Bergoglio ha seguito le orme di due suoi predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984). Tuttavia, non si è trattato di un appuntamento di pura cortesia, bensì del frutto dell’impegno personale del papa per raggiungere l’obiettivo dell’unità dei cristiani. Mentre i viaggi precedenti dei due papi erano stati dedicati anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di Stato, Francesco – scegliendo di non visitare alcuna delle agenzie internazionali che vi hanno sede – vi si è recato prima di tutto come capo della Chiesa cattolica, vescovo di Roma e successore di Pietro. Camminare pregare e lavorare insieme
Papa Francesco partecipa alla preghiera ecumenica al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Il motto della giornata è stato Camminare pregare e lavorare insieme, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del CEC; ma anche slogan particolarmente caro a Francesco – camminare insieme – che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che, a suo parere, è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. E che ha trovato a Ginevra un’altra tappa, per nulla secondaria: come è apparso evidente sin dal discorso papale della mattina, nella cappella nella sede del CEC, destinato a diventare una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico.
Francesco ha recitato la preghiera di pentimento e ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati.
Ed è proprio sulla scorta della situazione dei Galati descritta da Paolo, i quali «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che il papa ha preso la parola per una puntuale meditazione, indicando cosa significasse per l’apostolo camminare insieme secondo lo Spirito, rigettare la mondanità, scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono.
A suo parere, l’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale. In effetti, nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», facendo prevalere i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo». Sì, «stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».
In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane».
Camminare secondo lo Spirito – ha dunque ripetuto – significa perciò scegliere con santa ostinazione la via del vangelo, e rifiutare le scorciatoie del mondo. Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi lavorare in perdita, non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o ad orientamenti consolidati, siano essi maggiormente conservatori o progressisti». È necessario invece «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché se stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica».
La meta è l’unità, mentre la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni, oltre a danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del vangelo a ogni creatura».
E «le distanze che esistono non siano scuse – ha concluso con risolutezza Bergoglio –, perché è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!». Il diritto di sperare per tutti
Nel pomeriggio, ci si è spostati nella Visser’t Hooft Hall. Qui Tveit ha sottolineato che, per arrivare a questo giorno, molte persone in tutto il mondo hanno pregato e che, con questa visita, è palpabile la dimostrazione che è possibile superare le divisioni e le distanze, così come i profondi conflitti causati dalle diverse tradizioni e convinzioni di fede: «Il mondo in cui viviamo ha un disperato bisogno di segni che ci permettono di riconciliarci e di vivere insieme come un’unica umanità, preoccupata per la vita dell’unica terra, la nostra casa comune. Vediamo così tante cose che potrebbero dividerci, che creano conflitti, violenza e guerre. Anche la religione viene usata in modo improprio per questi scopi. I divari tra ricchi e poveri, tra popoli di gruppi e razze diverse, permangono e addirittura aumentano. Il nostro pianeta viene continuamente sfruttato e distrutto, e la dignità degli esseri umani costantemente attaccata, minando i loro diritti e le loro possibilità di sperare in un futuro migliore insieme in questo mondo. Dobbiamo essere uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso per tutti. Abbiamo tutti il diritto di sperare».
Per poi concludere che «non ci fermeremo qui. Continueremo, potremo fare molto di più insieme per coloro che hanno bisogno di noi. Visto che oggi noi condividiamo sempre di più, facciamo in modo che le prossime generazioni possano creare nuove espressioni di unità, giustizia e pace!».
È toccato alla moderatrice del CEC, la teologa anglicana, originaria del Kenya, Agnes Abuom, portare un saluto particolare all’illustre ospite: «Lei è venuto da Roma a Ginevra – ha detto – e ci auguriamo di poter proseguire la nostra strada insieme a lei come compagni di pellegrinaggio: portando conforto a chi soffre, celebrando il dono della vita di Dio e impegnandosi insieme in azioni trasformative che migliorino la vita delle persone ovunque vi sia bisogno di giustizia e di pace». Per poterlo fare davvero, è indispensabile che le Chiese del CEC e la Chiesa cattolica lavorino bene insieme a livello internazionale e locale.
Nel suo discorso la teologa ha ripercorso l’impegno delle Chiese nei vari Paesi del mondo: «Speriamo – ha concluso – che la sua visita segni davvero una nuova fase di cooperazione e di unità cristiana». Cosa possiamo fare insieme?
Ha ripreso quindi la parola il papa, nel suo secondo discorso, pure assai denso: «Il CEC è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro?».
Tracciando un bilancio dei settant’anni del CEC, Francesco ha espresso un vivo ringraziamento per l’impegno che viene profuso per l’unità, ma anche una preoccupazione derivante dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine (il riferimento implicito era al Congresso missionario di Edimburgo del 1910, considerato unanimemente l’atto d’avvio del movimento ecumenico).
Infatti, il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato: ne va della nostra identità, e l’annuncio del vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certo, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda di tempi e luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione, e non per le nostre idee, strategie o programmi.
Un «nuovo slancio evangelizzatore»: è questo, per il papa, «il tesoro che noi, fragili vasi di creta, dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi».
«Camminare pregare, lavorare insieme». Nella parte centrale del suo secondo discorso ginevrino, Francesco si è soffermato sui tre verbi contenuti nel motto della giornata.
«Camminare in entrata», ha spiegato, rilanciando temi che gli sono particolarmente cari, «per dirigerci costantemente al centro», che è Gesù, e «in uscita», cioè «verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del vangelo all’umanità sofferente».
Anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli», ecco il secondo imperativo, «perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano». «Quando diciamo Padre nostro risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli», l’esempio scelto dal papa: «La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti». «Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri?», l’esortazione in chiave ecumenica: «Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?».
Infine, «lavorare insieme», ha raccomandato Francesco. «La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti».
È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, il fatto che i deboli siano sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi: «Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione», perché «il programma del cristiano è un cuore che vede»: «Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?». In relazione all’altro
Al termine della densa giornata ginevrina, conclusasi con una festosa eucaristia celebrata per la Chiesa locale ma anche occasione per toccare con mano la perdurante divisione dei cristiani in tale ambito cruciale e i passi avanti ancora da compiere, non pochi sono apparsi i motivi di consolazione per il popolo del dialogo.
Lo si è colto bene, infatti: procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani possono apprezzare al meglio il loro patrimonio comune, e farsi più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potranno affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Un dialogo la cui prospettiva sembrerebbe risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare un linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità.
Per papa Francesco, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle Chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi.
E di una strada – come Francesco ha detto e mostrato concretamente una volta ancora a Ginevra – oggi non è più possibile prescindere.”
Quello che segue è un post piuttosto lungo. Si tratta dell’articolo uscito su La Civiltà Cattolica 4010 a firma Antonio Spadaro (direttore della rivista) e Marcelo Figueroa (pastore presbiteriano e direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano). Ho deciso di pubblicarlo perché lo trovo ricchissimo di spunti di riflessione.
“In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia. Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male. A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche». Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.
Lyman Stewart
Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush. Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati». Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli. Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto. Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione». In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova». Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».
Rushdoony
Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca [sollevato dall’incarico il 18 agosto 2017] e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1]. «La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa. La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden. Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici. È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano. Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna. Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato. L’ecumenismo fondamentalista Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica. Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici. La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica. È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione». La tentazione della «guerra spirituale» L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiettare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana. Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico. Colpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3]. Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces. Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto. Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista. Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza». Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali. Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico». Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista». Contro la paura Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’alleanza spuria tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo. La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa. Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4]. ******** [1]. Bannon crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny. Cfr anche N. Howe, «Where did Steve Bannon get his worldview? From my book», in The Washington Post, 24 febbraio 2017. [2]. Cfr A. Aresu, «Pope Francis against the Apocalypse», in Macrogeo, 9 giugno 2017. [3]. Cfr «Donald “Constantine” Trump? Could Heaven be intervening directly in the election?», in Church Militant. [4]. Per approfondire queste riflessioni, cfr D. J. Fares, «L’antropologia politica di Papa Francesco», in Civ. Catt. 2014 I 345-360; A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», ivi 2016 I 209-226; D. J. Fares, «Papa Francesco e la politica», ivi 2016 I 373-385; J. L. Narvaja, «La crisi di ogni politica cristiana. Erich Przywara e l’“idea di Europa”», ivi 2016 I 437-448; Id., «Il significato della politica internazionale di Francesco», ivi 2017 III 8-15.
Un articolo breve che tocca diversi temi, da quello della prossima visita del papa in Egitto a quello dei recenti attentati contro la chiesa copta, dal radicalismo islamico all’islam del grande imam di al-Azhar. E’ il frutto dell’intervista di Riccardo Cristiano al professor Antoine Courban, pubblicata su Vatican Insider.
Nel suo appartamento al primo piano di una palazzina moderna nel cuore di Ashrafyyeh, il “quartiere cristiano per eccellenza” di Beirut, il professor Antoine Courban, docente all’Università Saint Joseph, storica istituzione dei gesuiti in Libano, tra icone bizantine e commentari coranici attende con ansia che Papa Francesco giunga al Cairo.
«Per capire la portata di un evento occorre collocarlo nel suo contesto. E il contesto nel quale avverrà questo viaggio è certamente segnato dal duplice attentato contro le Chiese e i fedeli copti d’Egitto. Un attentato? No, piuttosto direi un atto di guerra. Ma quale guerra? La guerra dichiarata dai radicali ai “moderati”, tutti i moderati. Ci si può chiedere come possa una guerra essere dichiarata anche all’islam moderato e avvenire con lo spargimento di sangue cristiano. La mia risposta è semplice: perché aprendo il recente convegno del Cairo sulla cittadinanza il grande imam di al-Azhar ha detto che è giunto il momento di sfidare il fanatismo e l’estremismo che usa la religione come una maschera con un vero scontro culturale, ed ha indicato come farlo. I terroristi hanno capito e trasferito il combattimento sul loro terreno, colpendo il fianco debole, la carne tenera del nemico, le chiese e i fedeli copti». Ci può spiegare? Se è chiaro l’atto di guerra, sembra proprio un atto di guerra contro i cristiani, definiti “infedeli”…
«Per rispondere devo tornare al convegno promosso da al-Azhar poco prima della strage. E per capire bene dobbiamo partire da una parola. Questa parola è “umma”. La conoscono tutti. Nella storia questa parola è stata usata per indicare la comunità dei fedeli musulmani, quindi in senso religioso. Indica una “ecclesia”, o una comunità universale religiosa. Poi è stata usata in senso etnico, l’umma araba, cioè la comunità di tutti i popoli arabi. Queste due concezioni di umma, religiosa o etnica, hanno dato forma alle due prevalenti correnti politiche: il panislamismo e il panarabismo. Nel documento conclusivo del recente convegno di al-Azhar, al quale ho partecipato come inviato come altri 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi come me, si parla però di un’altra umma, alla cui base non c’è la religione né l’etnicità, ma la geografia: l’umma della patria, cioè la comunità di chi vive un territorio. È fondamentale leggere il primo articolo della dichiarazione di al-Azhar, dove si parla di “eguali diritti di musulmani e cristiani nei loro paesi, considerandoli una umma/nazione”. Ma non è tutto. L’articolo 6 dice che l’ambizione è quella di promuovere un nuovo partenariato, “un nuovo contratto tra i cittadini di paesi arabi, musulmani, cristiani o di altra fedeltà”. Tale contratto è basato sul “reciproco riconoscimento, sulla cittadinanza e sulla libertà”. La dichiarazione sottolinea che tutto questo è “una necessità vitale” e specifica che tutti nella patria comune si è sottoposti a un dettato costituzionale. E le costituzioni, si sa, non le scrivono i teologi. È un passaggio importantissimo. Nel paragrafo finale poi si afferma che in questa Patria fondata su una Costituzione “il nostro obiettivo, vivendo sulla stessa barca e facendo parte della stessa società, [….] è garantire un migliore futuro ai nostri figli e alle nostre figlie”». Si indica qui la parità uomo-donna?
«Come vede parliamo di novità storiche, epocali: è da secoli che si cerca di plasmare il concetto di cittadinanza nelle nostre società, la comune cittadinanza senza distinzioni di sesso, di etnia, di fede. Il concetto di nazione, vocabolo che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato interpretato in termini etnici o religiosi. Ora la più importante istituzione sunnita, al-Azhar, lo plasma in termini geografici, nella patria comune, dove vivere insieme, da uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. E, par di capire, di sesso. Ecco perché l’imam di al-Azhar ha voluto parlare di sfida culturale e si capisce perché gli odiosi attentati contro le Chiese copte siano un atto di guerra dei fanatici contro tutti i moderati. Mi preme sottolineare un ultimo aspetto, molto importante per me. Questo testo redatto alla fine della conferenza di marzo e che pone la base per la conferenza sulla pace alla quale parteciperà Papa Francesco è stato letto, in aula, davanti a tutti i delegati e gli ospiti, dal grande imam in persona. Alcuni ulema conservatori di al-Azhar, parte cioè di quella che potremmo definire per capirci “la Curia” di al-Azhar, preferivano che fosse letto da uno speaker. L’intento poteva essere quello di depotenziare il testo, il suo valore vincolante. Lui però ha insistito, ha voluto leggerlo personalmente, e credo che questo abbia un enorme significato. Dunque il viaggio del Papa al Cairo arriva sulla scia di questo, in un contesto nel quale l’islam moderato dice che non ci sono più minoranze etniche o religiose, ma cittadini. E il cardinale Rahi rientrando qui dal Cairo lo ha detto benissimo: non siamo più minoranze». Lei crede che il Libano abbia svolto un ruolo in questo?
«Osservo la platea degli invitati al convegno di marzo: 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi. Credo che il Libano del vivere insieme, non del convivere tra comunità, ma del vivere insieme, del legame, della cittadinanza, abbia costituito il nucleo concettuale, il messaggio di partenza di questo incontro che proseguirà a fine mese, alla presenza di Papa Francesco».
Interessante iniziativa di avvicinamento tra cattolici e protestanti in Austria per questo inizio di Quaresima. Ne scrive su Vatican Insider Maria Teresa Pontara Pederiva.
“L’ecumenismo «in cammino» indicato da Papa Francesco comincia a produrre i suoi frutti anche nella pastorale ordinaria. I tanti incontri con cui Bergoglio ha sorpreso la sua Chiesa e il mondo – la visita all’amico protestante a Caserta, l’incontro di Cuba con il patriarca Kirill, la visita a Lund in Svezia, fino all’ultima nella chiesa anglicana di All Saints a Roma con l’ipotesi di un viaggio in Sud Sudan insieme al primate Welby – non rappresentano solo gesti riservati ai leader delle chiese, ma un esempio da seguire nel quotidiano. «Non si può fare il dialogo ecumenico stando fermi» perché «le cose teologiche si discutono in cammino» e allora le comunità sono chiamate a mettersi in marcia insieme a partire dalle diverse attività feriali. Un ecumenismo, che potremmo anche definire semplice o spicciolo, ma che nelle intenzioni del Pontefice rappresenta una modalità ineludibile per testimoniare l’unico Vangelo di Cristo: un aiuto reciproco, secondo le necessità. E un esempio arriva fresco dall’Austria dove, in nome della collegialità episcopale col Vescovo di Roma, l’arcivescovo di Salisburgo ha raccolto la sfida e nelle scorse settimane ha proposto al sovrintendente evangelico di stendere insieme la tradizionale Lettera di Quaresima che verrà presentata alle rispettive comunità domenica 5 marzo. Franz Lackner, 60 anni, già provinciale dei Frati Minori austriaci e un passato nelle fila dei caschi blu dell’Onu, dal 2014 alla guida dell’antica diocesi di Salisburgo (eretta nel 798), ha inteso in tal modo unire con questo gesto due ricorrenze significative: l’anniversario dei 500 anni dalla Riforma di Lutero e la Giornata della Bibbia che in Austria si celebra la prima domenica di marzo. «L’uomo non vive di solo pane» non è allora solo una Lettera pastorale di Quaresima (28 pagine), ma rappresenta soprattutto uno stile. Una modalità, forse per alcuni inedita, che parla da sola perché porta l’ecumenismo fra la gente: non si tratta di annullare le differenze, che restano ambito del dialogo teologico, ma di rimarcare l’unico Vangelo di Cristo a partire dalle comunità di vita delle persone: cattolici e protestanti sono i destinatari di un unico testo e questa è già la prima riflessione. «Dio è il nostro fondamento», scrive Lackner nell’introduzione richiamando la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani celebrata a gennaio e in particolare alcune espressioni del Vangelo di Giovanni «Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,5) e ancora «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), «Io sono la porta» (Gv 10, 9) o «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). La vite è una pianta caratterizzata da una grande adattabilità anche a terreni aridi perché le sue radici possono estendersi anche a 20 metri di profondità per raggiungere l’acqua: l’immagine della vite è significativa e rappresenta il desiderio di vita da parte dell’uomo, un anelito che la Parola di Dio può colmare. «L’Occidente cristiano ha una lunga storia alle spalle, una storia di salvezza, ma anche di tanti disastri, guerre e ingiustizia e il nostro cammino non può dirsi mai concluso, come ci ricorda Paolo. Una parte del Paese e dell’Europa intera non trova nella fede la propria guida e la partecipazione alla vita della comunità cristiana è in calo, le città sono prese a ostaggio dalla minaccia del terrorismo e la sicurezza che credevamo acquisita da decenni si è trasformata in paura, ma questo non significa che nella nostra società non esista il bene». Con il ricordo di una recente esercitazione di soccorso alpino in condizioni atmosferiche proibitive cui ha assistito, Lackner indica tutto il mondo del volontariato sociale, i gesti di condivisione e accoglienza ai nuovi arrivati e l’azione della Caritas lasciando al giudizio della storia se l’Occidente sarà ritenuto all’altezza di superare la sfida di oggi. Per questo è importante il camminare insieme anche all’interno di un dialogo ecumenico che deve farsi ogni giorno più serrato: il germoglio dal tronco di Jesse è diventato un ceppo di vite che continuerà a dare frutti. «La condivisione della Scrittura è una modalità ormai collaudata», aggiunge il sovrintendente Olivier Dantine con riferimento al Vaticano II. Nonostante le differenze di selezione dei testi e la disposizione dei Libri, la Bibbia resta il fondamento comune che lega tutte le chiese cristiane alla radice. La lettura della Parola ha giocato un ruolo fondamentale nella fede della Riforma: la traduzione di Lutero trovava posto in ogni casa e ogni discussione, anche su temi sociali, faceva riferimento ultimo alla Scrittura, spesso con il rischio di interpretazioni di parte. Con il Concilio la sua importanza è stata rimarcata anche da parte cattolica e da 50 anni si può procedere sulla medesima strada. Ecco allora che la Lettera si fa ancora più originale e le pagine che seguono costituiscono un invito alla lettura: in coppia, in famiglia, in gruppi la condivisione della Parola è un modo per accostarsi a ciò che chiede il Vangelo, una via di conversione per questa Quaresima 2017. L’invito è quello di formare Gruppi della Parola (i «Bibelteilens») in ogni comunità parrocchiale per andare alle fonti della propria fede, per individuare insieme la strada e testimoniare Gesù Cristo nel proprio ambiente di lavoro, nella società intera. Non si tratta di quello che conosciamo più propriamente come Lectio Divina, ma qualcosa forse di più accessibile, già sperimentato in diverse sedi, specialmente giovanili: un momento di preghiera anche in forma di canto, una lettura a voce alta dove ciascuno può rimarcare un versetto o approfondire con una riflessione personale, un momento di silenzio per interiorizzare e quindi una condivisione per giungere a ciò che la Parola chiede per la propria vita, la famiglia, il lavoro, la comunità civile per concludere poi con una preghiera o un canto finale. Citando una celebre espressione dello scrittore americano Mark Twain («Molte persone sono preoccupate di non capire la Bibbia. Io sono più preoccupato di ciò che ho capito») il testo fa seguire alcuni esempi di lettura e comprensione biblica firmati da Matthias Hohla e Eduard Baumann. Mentre venerdì 3 marzo, a Salisburgo, verrà presentata la Nuova traduzione interconfessionale della Bibbia cui ha lavorato da parte cattolica anche l’arcivescovo emerito Alois Kothgasser a fianco della pastora Jutta Henner della Società Biblica d’Austria.”