Scuola, tra prestazionali e impressionisti

Dopo i due articoli dell’altroieri sulla scuola, pubblico questo pezzo di Christian Raimo che una collega ha condiviso su fb dal sito di Internazionale.
Il dibattito sulla scuola rischia sempre di alimentare due retoriche contrapposte: una, quella dell’innovazione come panacea di tutti mali, dei tablet in classe, dei prof 2.0, dei test Invalsi come unico metro di misura dell’esistente; e l’altra, quella dello studio come si affrontava una volta, della missione salvifica degli insegnanti, degli studenti svogliati e distanti da riavvicinare alla conoscenza.
Da una parte c’è un gruppo di persone che potremmo chiamare “prestazionali”, quelle che vivono con un’ansia da risultati mescolata al feticismo della tecnologia, che insieme danno vita a un perverso pedagogismo, sempre in cerca di una presunta misurabilità dei metodi educativi.
Dall’altra ci sono gli impressionisti – quelli che prendono la propria esperienza personale e ne ricavano un paradigma, a prescindere da qualunque confronto con i dibattiti pedagogici, dal dovere di considerare i dati che abbiamo sull’istruzione, dal fondamentale confronto con bibliografie aggiornate.
scuola-2.0Queste due retoriche sono due scorciatoie. E siccome aggiornarsi, fare bene il mestiere del professore è impegnativo, chi non ha tempo, e voglia, è meno capace di mettersi in discussione e di pensare l’istruzione come una forma continua di autocritica, e imbocca una delle due scorciatoie sentendosi rassicurato: sta nel giusto, si pensa innovativo, è migliore degli altri, ai quali spesso addirittura fa la morale.
La maggior parte degli insegnanti per fortuna non è così. La maggior parte degli insegnanti in Italia è sottopagata e nonostante questo prepara bene le lezioni, è dubbiosa, si forma, studia, segue corsi d’aggiornamento, cerca di capire come rispondere al meglio ai problemi degli studenti, capitalizza quello che impara in classe per provare a immaginare strategie d’istruzione: seria, dedicata, professionale.
Perciò queste due retoriche sono dannose. Perché di fronte ai veri bisogni dei docenti – più soldi, più formazione qualificata, più conoscenza del mondo, più libertà pedagogica – rispondono con la fiacca illusione di due vie facili. E gli insegnanti meno critici, o anche semplicemente quelli più stanchi, si lasciano abbindolare.
Ecco che così, proprio in questi giorni, la maggior parte dei collegi docenti – invece di pensare a come reclamare più reddito e più aggiornamento, a strutturare un serio piano formativo – si trova ad avere a che fare con l’inutilissima bega della formazione dei cosiddetti comitati di valutazione dei docenti stessi.
Questi organismi – presieduti dal dirigente scolastico, e formati da tre insegnanti, due rappresentanti dei genitori, e un componente esterno – sono pensati dalla riforma della Buona scuola per fare in modo che la scuola si uniformi alle aziende, quelle aziende dove già dagli anni novanta si è affermato il management per obiettivi.
È ormai pacifico che i presidi e i comitati di valutazione hanno a loro disposizione i risultati dei test Invalsi, e in base a quelli improntano le loro decisioni.
Ma se ci riflettiamo, i test Invalsi si concentrano sulle prestazioni e di fatto trascurano completamente i contesti sociali, storici, culturali degli studenti, sottovalutano la complessità dei rapporti umani e dei processi sociali, non tengono conto del fatto che le interazioni nel contesto educativo sono dinamiche e in continua evoluzione. A che servono veramente?
Qualunque sociologo metterebbe in discussione la loro validità svincolata dal contesto; e invece – cosa terribile – i test Invalsi finiscono per trasformare i numeri in minacce. Mettiamo che la scuola A abbia più studenti con voti alti della scuola B – gli insegnanti delle scuola B sono chiamati a recuperare. In base ai risultati si riceveranno più fondi, bonus, premi. Come si sposa tutto questo con la libertà del docente?
E soprattutto cosa ha a che fare tutto questo con la ricerca pedagogica? Come fa notare un recente articolo di Alain Goussot, non è tanto l’arretratezza dei docenti ma l’approccio pedagogico a sembrare l’unica vittima delle ultime riforme della scuola.
Molti insegnanti hanno spesso una scarsa preparazione pedagogica, non conoscono i fondamentali delle varie correnti metodologiche in educazione, hanno un grosso deficit di sapere sul piano delle didattiche vive che sanno inventare e creare situazioni di apprendimento lì dove sembrava impossibile.
Quanti insegnanti oggi sono mai entrati in contatto con i testi e il pensiero, e quindi le pratiche, dei grandi pedagogisti ed educatori del passato? Quanti hanno letto non solo Rousseau e Pestalozzi, ma anche Maria Montessori, Ovide Decroly, John Dewey (…) Ernesto Codignola, Giovanni Maria Bertin, Mario Lodi?
È come se questo patrimonio storico-pedagogico di esperienze vive nel campo educativo non fosse parte del loro bagaglio culturale: invece nel loro bagaglio troviamo i manuali di una didattica meccanica e standardizzata, i vari trattamenti provenienti dalle correnti comportamentali e cognitivistiche, i kit applicativi con tanto di griglie e schede che funzionano come tanti schermi che gli impediscono di vedere e vivere la realtà scolastica e relazionale per quello che è.
A questa smania valutativa che nasconde – nemmeno troppo – forme di controllo si affianca la reazione scomposta di rimpiangere la scuola com’era una volta. La paladina di questa ideologia nostalgica è Paola Mastrocola. Il suo libro appena uscito, La passione ribelle, è la summa di una serie di pregiudizi che la mastrocola_R400probabile buona fede e il consenso di cui gode la sua voce non rendono meno pericolosi.
Mastrocola guarda al mondo dei ragazzi e descrive un panorama distopico, un paesaggio postapocalittico in cui nessuno studia più.
In classe nessuno segue, a casa nessuno fa i compiti, davanti a un libro nessuno riesce a capire nulla, in biblioteca perdono tutti tempo. Per affermare questo genere di tesi, Mastrocola però non cita nemmeno un dato, non pensa sia doveroso fornire una bibliografia pur minima a conferma, si avventura in campi come la neuroscienza o l’economia che evidentemente non padroneggia senza però temere di essere imprecisa, scrive in modo così trasandato che le accuse di approssimazione e sciatteria che muove ai ragazzi in generale risultano poco credibili.
Eppure i suoi interventi sono letti. I suoi libri sono citati, circolano nelle sale insegnanti. Perché? Perché consolano. Perché danno a quei professori sostanzialmente reazionari e poco volenterosi una sorta di credito morale, in nome del quale possono lanciare strali sul mondo moderno con le sue diavolerie (le lavagne interattive! I registri elettronici! Perfino le macchine fotocopiatrici!).
È un vero peccato insomma che il dibattito sulla scuola si sia ridotto a questo. Perché invece saper leggere i dati e usarli per progetti pedagogici coraggiosi ci farebbe comprendere come la politica scolastica può rappresentare la vera leva dello sviluppo di questo paese.
Per esempio? Non pensando di ridurre l’alunno a una unità di misura identificabile con il suo comportamento.
Per esempio? Rivalutando la psicanalisi, e imbracciando la sfida delle difficoltà di apprendimento senza appiattirla a un problema di medicalizzazione attraverso la pioggia di diagnosi di bisogni educativi speciali (Bes) e disturbi dell’apprendimento (Dsa), evitando che tutto passi da una rilevazione di “comportamenti problema”, di difficoltà e di sintomi da incasellare in qualche griglia prefabbricata e prodotta dagli esperti del comportamentismo e del cognitivismo.
Per esempio? Pensando che la scuola non è separata dalla società. La scuola è la società. E le problematiche sociali devono essere affrontate con una politica scolastica studiata.
Per dire: la questione meridionale – tornata nei dibattiti in questi mesi – è un nodo ancora irrisolto perché in Italia esiste un’asimmetria sociale talmente ampia che nemmeno centocinquant’anni di scuola unitaria sono riusciti a modificare; un interessante libro appena edito da Donzelli, L’istruzione difficile, a cura della Fondazione Res lo conferma, dati alla mano.
E se vogliamo problematizzare quella che ormai è una weasel word – una parola che vuol dire tutto e niente – come valutazione, possiamo rileggerci il bel numero di Aut aut dedicato al tema (qui trovate l’intero pdf).
Mentre, per rispondere ai catastrofismi sulla scuola e sull’educazione in generale con qualcosa di più della nostalgia dei tempi antichi, è utile riprendere un libro uscito nel 2014 che ha avuto poca fortuna, La congiura contro i giovani di Stefano Laffi.
Ossia uno dei pochissimi testi recenti che – invece di costruire un alibi per gli educatori liquidando i giovani con un ritratto da nichilisti, disimpegnati, ripiegati su stessi – sottolinea una mancanza evidente di molti dibattiti sulla scuola: quando si parla di educazione non possiamo sottrarci al dovere di criticare con radicalità i capisaldi della società in cui viviamo.
Sulla scorta di Paul Goodman e del suo meraviglioso La gioventù assurda (Einaudi 1971; tra l’altro perché nessun editore italiano lo ripubblica?), Laffi ci mostra che fare scuola, pensare la scuola, è, o dovrebbe essere, sempre un atto di critica politica: e la critica non può essere rivolta a quello che fanno i ragazzi ma a coloro che evidentemente hanno il potere, e che vogliono – attraverso l’educazione – replicare un universo pieno di merci, tecnocratico, ipercompetitivo.
L’inutile versione in piccolo del brutto mondo che già noi adulti abitiamo.”

Prof, a cosa serve?

Prof, a cosa serve?”

astrazioneAmmetto di averlo pensato spesso quando ero al liceo, in riferimento a varie materie, o a vari argomenti di singole discipline. Ne ho anche parlato al volo oggi, uscendo da scuola con un mio collega di matematica e fisica a cui una studentessa aveva appena rivolto la stessa domanda. E proprio ieri sera, un’altra collega scriveva così su fb: “… la scuola sta sempre più diventando un’azienda in cui si inseguono vuote competenze, si deve insegnare solo ciò che è utile, si valuta la prestazione. Certo che serve anche contestualizzare quello che si insegna e far intuire quali possono esserne le applicazioni nel reale. Ma i ragazzi avranno una vita intera per imparare a fare, a lavorare, ad affrontare e risolvere problemi. Mentre per molti di loro la scuola sarà l’ultima occasione per imparare per il piacere di imparare, per godere del bello del sapere che non per forza deve essere utile, per sorprendersi, per intraprendere esperienze intellettuali, per sapersi porre problemi prima di imparare a risolverli. La matematica che io insegno ha innumerevoli e importanti applicazioni, è bene farlo sapere agli allievi. Ma io la amo per la sua straordinaria bellezza, per le creazioni astratte e fantasiose di menti non soggiogate dalla sola ricerca dell’utile”.

Leggo le perplessità di molti colleghi davanti a forzature a cui sono sottoposti, davanti a metodologie di programmazione per nulla condivise. Ne riconosco il disorientamento e talvolta la frustazione. C’è da riflettere, e molto. Pubblico il post di un altro collega, Riccardo Giannitrapani, che sul suo blog ha scritto una lettera aperta al ministro un po’ più lunga e articolata: da ex studente di liceo scientifico e di due anni di Scienze Geologiche mi ci ritrovo pienamente. Lascio spazio alle sue parole, magari un giorno scriverò completamente ciò che penso, aggiungendolo a quanto ho già digitato sul mio blog.

Lettera aperta al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Gentile Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (l’aggettivo Pubblica si è perso da tempo, peccato). Le scrivo poche righe nonostante mi fossi imposto, anni fa, di non contaminare questo mio spazio privato con nulla che fosse attinente al reale. Ma il reale trova sempre il modo di rompere l’esilio, ed ecco questa lettera. Lei non mi conosce, ma per la simmetria dello scrivere pubblico io non conosco lei. So vagamente che aspetto ha in questo tempo, se mi sforzo riesco persino a ricordare il suo nome. Non è molto importante, come non è importante il partito a cui lei fa riferimento, il governo che la sostiene, le idee che sta mettendo in atto. Sono colpevole, mi rendo conto, di non interessarmi a tutto questo; sconto da anni la pena subendo qualsiasi tipo di riforma, modifica, riduzione, decurtamento, avvilimento, umiliazione della mia categoria senza lamentarmi. Ed infatti sono qui a scriverle non per motivi legati alla mia professione, ma in difesa dell’unica cosa che ormai mi lega alle aulee ed ai miei studenti e studentesse: la matematica. Da anni ho intuito un disegno, studiato o casuale non so, per diluire e sminuire il ruolo culturale che la matematica ha nel nostro insegnamento e nella nostra società in generale. Di nuovo colpevole, sono stato zitto, pensando di poter opporre silenziosa resistenza ogni mattina nel mio lavoro quotidiano con i ragazzi e le ragazze a cui parlo (la parola insegno mi sembra esagerata) di matematica. Qualche giorno fa però ho subito (non mi vengono in mente termini diversi) la simulazione della prova di matematica che il Ministero (quindi lei) ha inviato alle scuole italiane per preparare studenti e studentesse del Liceo Scientifico al nuovo esame finale. Ho resistito qualche giorno, ma ora non riesco più a mantenere il mio amato esilio e le scrivo. Lacerò perdere ogni considerazione sul contenuto matematico e sulla facilità della simulazione (che era facile oltre ogni modo); non credo da anni agli esami e tantomento alla valutazione, quindi se è intenzione del Ministero ridurre la difficoltà degli esami finali non posso che gioirne ed essere felice per i miei ragazzi e le mie ragazze. Vorrei invece parlarle della forma e di due aspetti per me fondamentali che questa simulazione, probabilmente indicativa delle linee future governative in materia di matematica nell’istruzione superiore, ha sollevato. Premetto che questa (sembra ridicolo doverlo affermare, ma in un’epoca di proclami apodittici di tutti su tutto credo sia doveroso) è sola la mia umile opinione, il pensiero di un professore marginale di una materia ormai considerata (o almeno a me così sembra) marginale. Altri colleghi, probabilmente più accorti ed esperti di me, avranno diverso orientamento, diverso entusiasmo. Nondimeno è la mia opinione e siccome questo spazio è mio, la esprimo (a lei la insindacabile libertà di non leggere, le concedo lo stesso diritto all’esilio dalle mie idee che io mi sono arrogato anni fa rispetto alle vostre idee).
Prima di tutto la forma delle domande; le riporto qui solo la prima del primo problema, è estratta dal contesto, ma emerge in ogni caso in tutta la sua pochezza: “Aiuta Marco e Luca a determinare l’equazione che rappresenta la curva…”.
Le risparmio il seguito della storia (anche perché come Ministro probabilmente l’avrà avvallata, se non approvata). Io sono una persona mediamente altruista e con me anche i miei studenti e le mie studentesse; tutti noi aiutiamo volentieri persone reali o immaginarie, come Marco e Luca. Ma lei deve aiutare me a capire come si possa presentare ad un ragazzo od una ragazza di 19 anni, persona ormai adulta come me e come lei, un quesito sotto forma di simpatica sfida alla Geronimo Stilton. Molte volte con mio figlio, che però ha 9 anni, ho allegramente abbracciato la sfida di un “Aiuta Geronimo a trovare l’uscita dal labirinto .. “. Sono l’unico a trovare non dignitoso un compito di matematica messo in questa forma? Forse sì, nel qual caso si conferma la mia inadeguatezza all’insegnamento o a cercare di aiutare Marco e Luca.
Ma lasciamo pure perdere la forma dei quesiti, che a me comunque pare importante (la scuola si rende KANDINSKY-Composizione-VIIItacitamente complice, in questo modo, di alimentare una società dell’apparenza in cui la sostanza nessuno sa più dove si trovi). Il secondo aspetto che mi preme può apparire di nuovo legato alla forma esteriore, ma non lo è, secondo me. Cambio prospettiva e le parlo del secondo quesito dove si chiedeva allo studente di aiutare (sic) Mario a progettare una teca di vetro di forma conica che contenesse un antico e prezioso mappamondo. Il succo della sostanza era il seguente: “trovare il cono di superficie minima che inscriva una sfera di raggio R fissato”. È una domanda matematica, semplice, lineare, diretta, comprensibile, ma prima di tutto matematica. Qual’è il valore aggiunto di travestire questa domanda con una implausibile storia di mastri vetrai e di teche di cristallo? Io non lo vedo. O meglio, vedo un ulteriore tentativo (in atto da anni a dire il vero) di impoverire il discorso matematico facendo credere (addirittura insegnando) che la matematica è un linguaggio con cui si possono risolvere problemi quotidiani, di tutti giorni. Vede Ministro, io credo che dietro questa impostazione ci sia un pensiero pericoloso ed avvilente: la matematica ha senso farla, studiarla, impararla solo in quanto utile a qualcosa. È un discorso che si inquadra perfettamente nel nostro tempo dove alla vecchia domanda “cos’è” si sostiuisce ormai immancabilmente un terribile “a cosa serve”, riducendo la curiosità a mera lista della spesa degli attrezzi utili. A cosa serve? A cosa serve trovare il cono di area minima? Allora inventiamoci una matematica del fantabosco che invece serva: troviamo la forma della teca di cristallo che il mastro vetraio deve inventarsi.
Perché non è più pensabile insegnare la matematica per il valore della matematica? Perché dobbiamo diluirla in problemi fintamente quotidiani? Le svelo un segreto, Ministro, nessun mastro vetraio al mondo farà mai una derivata per trovare il minimo di una superficie. Così come nessun matematico al mondo usa la matematica per fare la spesa, guidare la macchina, trovare la morosa, giocare ad un videogioco. Perché non possiamo insegnare, e chiedere, ai nostri ragazzi ed alle nostre ragazze, un ragionamento puramente e meravigliosamente matematico? Perché dobbiamo forzatamente costruire dei contesti quotidiani del tutto inventati e privi di fondamento? Riscopriamo la gioia dell’inutile, del concetto astratto senza applicazione che è proprio della poesia più alta. È il problem solving, mi dicono i colleghi. Dobbiamo insegnare a risolvere problemi, la lettura di un testo, sono le competenze. Ed in nome delle competenze (qualcuno un giorno mi spiegherà cosa sono le competenze, se ne parla da anni e ancora non ho sentito una definizione ragionevole e ragionata, ma solo tante parole per riempire carta, convegni, documenti e le tasche di chi si costruisce una fortuna con l’idea del momento), in nome delle competenze possiamo buttare via una delle più grandi conquiste intellettuali dell’umanità: l’astrazione matematica. Ci sono voluti più di duemila anni per renderci conto che la matematica non parla (solo) del mondo reale, ma è un’attività che ha una sua dignità astratta indipendente da qualsiasi applicazione. Fare matematica significa saper risolvere un’equazione di secondo grado (per dire) indipendentemente dal fatto che rappresenti il moto di un corpo soggetto ad accelerazione costante, l’energia potenziale di un oscillatore armonico, le piccole oscillazioni dell’asse di una trottola durante il moto di precessione, l’andamento di un certo titolo in borsa o il segnale elettrico del cuore di un topo della Birmania. Ed è proprio nell’astrazione dal problema specifico che risiede la sua natura più profonda e la sua bellezza (si può ancora parlare di bellezza a scuola? anche se non serve a nulla?).
Prevengo la critica dicendo subito che non sono ovviamente contrario ad insegnare anche la matematica in un contesto applicativo. Anche. I miei studenti e le mie studentesse sanno lo sforzo che faccio quotidianamente per inquadrare la matematica anche nel suo contesto di linguaggio scientifico, con applicazioni in fisica, economia, biologia etc. Ma lo si faccia non in modo esclusivo, ma a supporto di un’idea comunque astratta e dignitosa ed indipendente della matematica. Altrimenti la si tolga dall’insegnamento come materia fondante, si può tranquillamente fare durante le ore di fisica (o di altra materia) tutta la matematica che serve. Ma se si decide di avventurarsi sugli aspetti applicativi (ed io sono favorevole), lo si faccia sul serio e per bene. Non si inventino problemi assolutamente improbabili e (mi scusi) ridicoli su mastri vetrai o su meteoriti che si scontrano (parlo del primo problema; bisognerebbe accertarsi, al Ministero, sul significato delle parole, provi a capire cos’è un meteorite e perché non può scontrarsi con alcunché se non il suolo terrestre. Ma questo è un altro discorso.). Si pretenda da chi costruisce problemi da dare ai nostri ragazzi ed alle nostre ragazze serietà e competenza. Si costruisca un problema reale, anche di fisica perché no, in cui la matematica sia un punto cardine per la soluzione. Altrimenti si farà solo una parodia, piuttosto indigesta a mio avviso, della matematica e delle sue applicazioni.
Mi sono dilungato anche troppo e non sono nemmeno sicuro che il messaggio che volevo far arrivare sia arrivato. Le chiedo solo questo, Ministro, da insegnante e da padre. Non privateci della matematica pura nell’insegnamento superiore, non togliete uno degli ultimi fertili terreni di fantasia che il reale ancora non è riuscito a corrompere. Lasciateci la poesia dell’inutile, almeno a scuola.
Cordiali saluti, un professore confuso.”