Rivoluzione in Ucraina, rivoluzione in Siria, rivoluzione in Egitto, rivoluzione in Venezuela. Sui social network qualcuno scrive: “E da noi quando?”. Ecco un articolo per gli alunni più “grandicelli” sulla rivoluzione, scritto da Massimo Carlo Giannini per le pagine culturali di Treccani.
“Nei titoli di testa di uno fra i più bei film di Sergio Leone, Giù la testa! (1971), ambientato durante la rivoluzione in Messico nel 1913, compare un aforisma tratto dal Libretto rosso di Mao Zedong: «La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo […]. La Rivoluzione è un atto di violenza» . Sarebbe interessante sapere se tutti coloro che in Italia, sempre più spesso, evocano la rivoluzione abbiano mai letto quelle parole o almeno visto quel film. E se politici, giornalisti e blogger che commentano quei discorsi abbiano in gioventù scandito slogan inneggianti alla “rivoluzione”, russa, cinese o cubana che fosse.
Peraltro questa parola non ha sempre avuto il significato che comunemente le attribuiamo: nel XVII secolo esso deriva dal linguaggio dell’astronomia, ove indica il moto di corpo celeste intorno al suo centro di gravitazione (ad esempio quella della Terra intorno al Sole). Allora indicava un cambiamento dei vertici dello Stato che, al pari del moto degli astri, rientrava in qualche modo nell’ordine naturale delle cose. È la Rivoluzione francese (1789) per prima a presentare sé stessa come una rottura radicale dell’ordine politico e sociale tradizionale, quello dell’antico regime.
Nel caso italiano molti ricordano “Mani pulite” e l’implosione del sistema dei partiti che avevano edificato la Repubblica italiana (1992-93). Nell’immaginario collettivo di quegli anni le inchieste della magistratura sul mondo politico e i processi presso il Tribunale di Milano, trasmessi dalle televisioni, costituivano una sorta di palingenesi, se non un surrogato della rivoluzione, auspicata o temuta, a seconda dei punti di vista.
Il vocabolo oggi è fra i più usati: non vi è imprenditore, amministratore pubblico, esperto di nuove tecnologie o del web, che non prometta mensilmente una rivoluzione (“culturale”) prossima ventura. In tale apparente trionfo dell’idea di rivoluzione si avverte però un che di posticcio, plasticamente esemplificato dall’immagine del leader di una protesta di piazza contro il sistema, che si allontana a bordo di una Jaguar.
Questo divorzio fra discorsi e fatti trova una spiegazione nell’elemento generazionale: le persone che compongono il ceto politico e il mondo dei mass-media dell’Italia odierna si sono formate per lo più negli anni Sessanta, Settanta e, in parte, Ottanta del XX secolo, allorché la rivoluzione apparteneva all’orizzonte degli ideali politici reali o considerati realizzabili. In un’epoca in cui si poteva teorizzare la costruzione di sistemi economici e politici radicalmente opposti all’economia di mercato e alla democrazia liberale. Ed esistevano paesi che si autodefinivano del “socialismo realizzato” attraverso la rivoluzione del proletariato (anche se non era certo così).
Il prestigio diffuso della parola rivoluzione è provato anche dal fatto che, nel corso degli anni Ottanta, le politiche di drastica riduzione dell’intervento pubblico nell’economia da parte dei governi di Margaret Thatcher in Gran Bretagna (1979-90) e di Ronald Reagan negli Stati Uniti (1981-89) furono spesso etichettate, da sostenitori e detrattori, con l’espressione “rivoluzione neo-liberista”.
Quando – a partire da metà degli anni Novanta – quella generazione è arrivata in Italia a occupare posti di potere, la rivoluzione è entrata a far parte del lessico pubblico, ma depotenziata e depurata. Priva di ogni addentellato con la possibilità e la volontà di pensarla e attuarla, essa è diventata sinonimo di cambiamento, nel contesto dell’eterna transizione della politica italiana verso riforme sempre promesse e mai realizzate.
Forse basterebbe guardare al di fuori dei nostri confini, per accorgerci che i drammatici avvenimenti in corso in Nord Africa o in Ucraina sono essi sì rivoluzionari (nel bene e nel male). E con il loro bagaglio di speranza e desiderio di riscatto, ma anche di morti e guerre civili, ci fanno vedere che, nel mondo reale, ogni rivoluzione «non è un pranzo di gala».”
Sull’Ucraina
Riporto alcuni link su quanto sta accadendo in Ucraina. I primi articoli sono tutti tratti da Limes.
Storia del nazionalismo e della russofobia in Ucraina di Andrea Franco
Il popolo dell’Ucraina sta versando il sangue per i valori europei di Jurij Andruchovych
Russia o Europa? Rivoluzioni, oligarchi e il futuro dell’Ucraina di Stefano Grazioli
Non solo Ucraina: il disastro storico dell’Ue al vertice Vilnius di Stefano Grazioli
Lenin, l’Ucraina contro la Russia e la scelta dell’Europa di Lucio Caracciolo
La Russia batte l’Unione Europea e si riprende l’Ucraina di Stefano Grazioli
Il ricatto di Mosca che tiene Kiev fuori dall’Ue di Lucio Caracciolo
La guerra a tavola: l’embargo della Russia sui prodotti alimentari dei vicini di Cecilia Tosi
In Ucraina si gioca la partita energetica tra Russia e Ue di Lorenzo Colantoni
Agri, la chiave energetica dell’Europa contro la Russia di Fabio Indeo
Kiev sogna l’indipendenza energetica ma rischia un brusco risveglio di Stefano Grazioli
A tu per tu con Marco Cilento: lo scenario ucraino da EuroMaidan ai giorni nostri di Piero De Luca
Speciale Ucraina su Linkiesta
Non è ancora primavera
Seguo da un po’ di tempo gli scritti di Matteo Tacconi su twitter. Da Europa prendo un suo articolo sulle proteste svoltesi in Bosnia in questi giorni, dal quale emerge chiara l’dea che bisogna stare attenti prima di attribuire comodi slogan a tali manifestazioni.
“Dopo quattro giorni di tensioni, non senza qualche finestra di violenza, la Bosnia in queste ore è tornata alla calma. Ma questo non significa né che sia tutto finito, né che non si debba riflettere su quanto accaduto. D’altronde – come annotato da Andrea Rossini su Osservatorio Balcani e Caucaso, in un articolo ripreso anche dal Manifesto – in settimana ha preso corpo il più importante movimento di protesta mai registrato dalla fine della guerra civile che, tra il 1992 e il 1995, dilaniò il paese.
Tutto è iniziato mercoledì, a Tuzla, centro urbano dall’antica vocazione industriale, oggi in fase di declino. C’è stato un corteo, a cui hanno preso parte circa diecimila persone, così si riporta, organizzato dai lavoratori di alcune aziende locali che hanno recentemente dichiarato il fallimento. I dimostranti hanno accusato le istituzioni locali di passività e immobilismo, davanti a questi casi. Non solo. S’è riavvolto il nastro degli ultimi e ci si è ricordati che la politica ha dato il via libera a processi di privatizzazione opachi e controversi, molto spesso anche in funzione dell’arricchimento personale.
Rabbia e frustrazione hanno preso il sopravvento, portando i dimostranti a recarsi davanti alla sede del governo del cantone di Tuzla, su cui è stato scagliato di tutto: dai sassi alle uova. La polizia, schierata in difesa dell’edificio, ha risposto caricando. Ci sono stati dei feriti.
L’intervento degli agenti non ha fatto che peggiorare le cose. Giovedì la gente è scesa in piazza, ancora più imbufalita, non solo a Tuzla, ma in molte altre città del paese: Brcko, Sanski Most, Bihac, Zenica, Mostar e via dicendo. In tutti i casi i manifestanti hanno preso di mira i palazzi cantonali. Venerdì alcuni sono stati addirittura dati alle fiamme. Quello di Sarajevo (ha preso fuoco anche la sede della presidenza), quello di Zenica e quello di Tuzla, il cui inquilino ha rassegnato le dimissioni.
Inevitabilmente, come ogni volta che in Bosnia succede qualcosa, qualcuno ha subito cercato una chiave di lettura etnica, attingendo a qualche memoria di guerra.
Approccio, questo, fuori misura. Di confronti etnici e vecchi conti in sospeso, neanche l’ombra. Le rivolte sono scoppiate in città dove la popolazione è in larga misura bosgnacca (musulmana). L’unica eccezione è stata Mostar, dove i croati sono in lieve maggioranza. Ma in ogni caso il sisma non è andato oltre i confini della Federacija Bosne i Hercegovine, l’entità croato-musulmana del paese. In quella serba (Republika Srpska) non s’è rilevato nulla di particolare. Nel capoluogo, Banja Luka, c’è stato un piccolo presidio di solidarietà nei confronti dei dimostranti di Sarajevo, Tuzla e delle altre città. Così riferiscono le cronache.
Con ogni probabilità il fattore che più di ogni altro ha contribuito a queste proteste è stato il pessimo stato dell’economia. La Bosnia vive una fase di stagnazione (grafico). Il Pil è sceso considerevolmente quando è scoppiata la crisi globale, poi c’è stata una ripresina (0,7% nel 2010 e 1,3% nel 2011), seguita dalla recessione del 2012 (-0,7% ) e dallo 0,5% di quest’anno. Ma non è l’unico problema. La disoccupazione ufficiale si attesta sul 25%, ma da molti è ritenuta più alta, con tassi che lambirebbero il 60% tra i giovani. Tutto questo si aggrava se analizzato in un contesto più ampio, di mancate opportunità e stallo a livello di riforme. Questa, d’altronde, è la Bosnia.
Molto dipende dal sistema istituzionale partorito dalla pace di Dayton, mediata dagli americani. Fu concepito allo scopo di tamponare l’emergenza, ma ha creato un carrozzone burocratico impressionante, con moltiplicazione di cariche, pesi e contrappesi, tutti pensati sulla base di principi etnici, che hanno reso il fluire della vita politica lento, pieno di strozzature. Ma anche la classe dirigente bosniaca ha le sue responsabilità (facile d’altronde scaricare tutto sugli “internazionali”). I serbi si sono trincerati nella loro entità, fregandosene della Bosnia in quanto tale. I bosgnacchi e i croati hanno più o meno fatto lo stesso nei loro cantoni. Tutti però hanno messo le mani nella marmellata, favorendo la sovrapposizione tra affari e politica, con benefici agli uni e all’altra. Corruzione, criminalità organizzata, assenza di trasparenza, privatizzazioni à la carte: la Bosnia è diventato un grosso pantano. In pochi si arricchiscono, in molti stentano.
La bomba sociale, già preannunciata da una recente ondata di scioperi, poteva tranquillamente scoppiare. Ed è scoppiata.
C’è chi ha subito evocato il concetto di “primavera bosniaca”, vedendo nelle rivolte una scossa della società civile, il possibile grimaldello che porta al possibile scardinamento del sistema.
Se mai primavera dovrà essere, sarà confinata a una delle due parti del corpaccione bosniaco. L’entità serba, che pure nel 2012 aveva visto diverse proteste contro le tendenze cleptomani del suo uomo forte, Milorad Dodik, è rimasta sostanzialmente ferma a guardare. Può darsi che cambi orientamento, ma al momento questa è la fotografia. E la domanda è: fino a che punto può dirsi primavera una rivolta che coinvolge solo uno dei due emisferi del paese, quando uno dei grossi problemi della Bosnia è proprio la cortina interna tra le due entità?
In ogni caso, prima di guardare in avanti e confidare in una nuova stagione, è il caso di volgersi indietro. Negli ultimi anni ogni volta che è scoccata una scintilla ci si è aggrappati alla speranza che questa stessa scintilla potesse trasformare la Bosnia, salvo poi restare delusi. È stato così anche recentemente, con la bebolucija, una protesta esplosa contro una paralisi legislativa che ha fortemente discriminato i nuovi nati. Una protesta, rarità in Bosnia, potenzialmente multietnica. Tempo poche settimane e la cosa è scemata. Insomma: anche stavolta, fino a prova contraria, è lecito nutrire qualche ragionevole dubbio sull’esito delle rivolte contro la casta. Perché di questo, fondamentalmente, si tratta.
Qualche altro dubbio viene se si considera che, come tra gli altri ha scritto anche Stefano Giantin, collaboratore del Piccolo di Trieste di base a Belgrado, negli assalti alle sedi dei governi dei cantoni a schierarsi in prima linea sono stati spesso dei giovani disoccupati, in apparenza abbastanza manovrabili. Oltre a questo, ha scritto sempre Giantin, sui social network, era stato anticipato nei giorni addietro l’arrivo della tempesta. Suona un po’ sospetta, infine, la rapida diffusione a macchia d’olio della protesta e l’assalto contemporaneo ai palazzi del potere, in quella che è sembrata una sorta di riedizione in salsa bosniaca della tattica seguita dai dimostranti ucraini, protagonisti di occupazioni di edifici governativi sia nella capitale Kiev che in periferia.
Insomma, c’è qualche elemento che indurrebbe a credere che dietro queste proteste possa esserci una regia. Ma, se davvero c’è stata, chi l’ha coordinata? C’è uno scopo elettorale, legato al voto generale di ottobre? C’è la volontà di mettere all’angolo i partiti tradizionali? C’è, in ultima analisi, una guerra di potere, al momento catacombale, ma destinata a deflagrare, in corso in Bosnia? Se la risposta a queste ultime tre domanda è sì, allora i bosniaci saranno stati ancora una volta ingannati.”
Dalla Turchia con…?
A volte è difficile farsi un’idea, un’opinione riguardo a una situazione. Già è difficile informarsi, tanto che spesso si parla, a torto o a ragione, di buona e cattiva informazione; troppo spesso buona informazione è quella che va a confermare le proprie opinione e cattiva quella che le disattende. L’unica strada, in ogni caso, che ritengo possibile è quella cercare notizie. Poco fa sfogliavo i vari tweet della giornata e uno dei più recenti accennava al rinfocolare delle proteste a Istanbul. La notizia, nei giorni scorsi mi era sfuggita. E pochi tweet prima ho trovato l’invito di un amico blogger a diffondere una testimonianza diretta (del 1° giugno). La metto sul blog, magari spinge qualcun altro a cercare di sapere di più, come cercherò di fare io stanotte; anche perché la situazione è in continua evoluzione e in veloce allargamento.
“Ai miei amici che vivono fuori dalla Turchia: scrivo per farvi sapere cosa sta succedendo a Istanbul da cinque giorni. Personalmente sento di dover scrivere perché la maggior parte della stampa è stata messa sotto silenzio dal governo e il passaparola e internet sono i soli mezzi che ci restano per raccontare e chiedere sostegno. Quattro giorni fa un gruppo di persone non appartenenti a nessuna specifica organizzazione o ideologia si sono ritrovate nel parco Gezi di Istanbul. Tra loro c’erano molti miei amici e miei studenti. Il loro obiettivo era semplice: evitare la demolizione del parco per la costruzione di un altro centro commerciale nel centro della città. Ci sono tantissimi centri commerciali a Istanbul, almeno uno in ogni quartiere. Il taglio degli alberi sarebbe dovuto cominciare giovedì mattina. La gente è andata al parco con le coperte, i libri e i bambini. Hanno messo su delle tende e passato la notte sotto gli alberi. La mattina presto quando i bulldozer hanno iniziato a radere al suolo alberi secolari, la gente si è messa di mezzo per fermare l’operazione. Non hanno fatto altro che restare in piedi di fronte alle macchine. Nessun giornale né emittente televisiva era lì per raccontare la protesta. Un blackout informativo totale. Ma la polizia è attivata con i cannoni d’acqua e lo spray al peperoncino. Hanno spinto la folla fuori dal parco.
Nel pomeriggio il numero di manifestanti si è moltiplicato. Così anche il numero di poliziotti, mentre il governo locale di Istanbul chiudeva tutte le vie d’accesso a piazza Taksim, dove si trova il parco Gezi. La metro è stata chiusa, i treni cancellati, le strade bloccate. Ma sempre più gente ha raggiunto a piedi il centro della città. Sono arrivati da tutta Istanbul. Sono giunti da diversi background, da diverse ideologie, da diverse religioni. Si sono ritrovati per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere dignitosamente come cittadini di questo Paese. Hanno marciato. La polizia li ha respinti con spray al peperoncino e gas lacrimogeni e ha guidato i tank contro la folla che offriva ai poliziotti cibo. Due giovani sono stati colpiti dai tank e sono stati uccisi. Un’altra giovane donna, una mia amica, è stata colpita alla testa da uno dei candelotti lacrimogeni. La polizia li lanciava in mezzo alla folla. Dopo tre ore di operazione chirurgica, è ancora in terapia intensiva in condizioni critiche. Mentre scrivo, non so ancora se ce la farà. Questo post è per lei.
Queste persone sono miei amici. Sono i miei studenti, i miei familiari. Non hanno
“un’agenda nascosta”, come dice lo Stato. La loro agenda è là fuori, è chiara. L’intero Paese viene venduto alle corporazioni dal governo, per la costruzione di centri commerciali, condomìni di lusso, autostrade, dighe e impianti nucleari. Il governo cerca (e quando è necessario, crea) ogni scusa per attaccare la Siria contro la volontà del suo popolo. E, ancora più importante, il controllo del governo sulle vite personali della sua gente è diventato insopportabile. Lo Stato, dietro la sua agenda conservatrice, ha approvato molte leggi e regolamenti sull’aborto, il parto cesareo, la vendita e l’utilizzo di alcol e anche il colore del rossetto delle hostess delle compagnie aeree. La gente che sta marciando verso il centro di Istanbul chiede il diritto a vivere liberamente e a ottenere giustizia, protezione e rispetto dallo Stato. Chiede di essere coinvolta nel processo decisionale della città in cui vive. Quello che invece ha ricevuto è violenza e un enorme numero di gas lacrimogeni lanciati dritti in faccia. Tre persone hanno perso la vista. Eppure continuano a marciare. Centinaia di migliaia si stanno unendo. Duemila persone sono passate sul ponte del Bosforo a piedi per sostenere la gente di Taksim. Nessun giornale né tv era lì a raccontare cosa accadeva. Erano occupati con le notizie su Miss Turchia e “il gatto più strano del mondo”. La polizia ha continuato con la repressione, spruzzando spray al peperoncino tanto da uccidere cani e gatti randagi. Scuole, ospedali e anche hotel a cinque stelle intorno a piazza Taksim hanno aperto le porte ai feriti. I dottori hanno riempito le classi e le camere di albergo per dare primo soccorso. Alcuni poliziotti si sono rifiutati di spruzzare lo spray e lanciare lacrimogeni contro persone innocenti e hanno smesso di lavorare. Intorno alla piazza hanno posto dei disturbatori per impedire la connessione internet e i network 3G sono stati bloccati. I residenti e i negozi della zona hanno dato alla gente in strada accesso alle loro reti wireless, i ristoranti hanno offerto cibo e bevande gratis. La gente di Ankara e Izmir si è ritrovata nelle strade per sostenere la resistenza di Istanbul. I media mainstream continuano a raccontare di Miss Turchia e del “gatto più strano del mondo”.
Scrivo questa lettera così che possiate sapere cosa succede a Istanbul. I mass media non ve lo diranno. Almeno non nel mio Paese. Per favore postate più articoli possibile su internet e fatelo sapere al mondo. Mentre pubblicavo articoli che spiegavano quanto sta avvenendo ad Istanbul sulla mia pagina Facebook la scorsa notte, qualcuno mi ha chiesto: “Cosa speri di ottenere lamentandoti del tuo Paese con gli stranieri?”. Questa lettera è la mia risposta. Con il cosiddetto “lamentarmi” del mio Paese, io spero di ottenere:
Libertà di parola e espressione,
Rispetto per i diritti umani,
Controllo sulle decisione che riguardano il mio corpo,
Diritto a radunarsi legalmente in qualsiasi parte della città senza essere considerato un terrorista.
Ma soprattutto dicendolo al mondo, ai miei amici che vivono nel resto del globo, spero di aprire i loro occhi, di aver sostegno e aiuto.”
Per concludere, forse…
All’inizio di quest’anno scolastico abbiamo parlato in classe, approfondendola da più punti di vista, della situazione calda creatasi in molti paesi islamisti in seguito alla diffusione in rete di un film anti-islamico. Ecco che oggi è arrivata la sentenza della Corte d’Assise del Cairo, che ha condannato a morte sette cittadini egiziani copti residenti negli Usa per il coinvolgimento nel film “L’innocenza di Maometto”. La Corte ha condannato a cinque anni il reverendo Usa Terry Jones. L’accusa è di oltraggio all’Islam e di minaccia all’unità nazionale. Fra di loro anche Nikolas Bassili, autore della film.
Dalla primavera di Praga a quella araba
Condivido questo bell’articolo di Nello Scavo preso da Avvenire.
“Con gli occhi appiccicati allo schermo del suo smartphone, il ragazzo birmano sosta ai piedi del Museo Nazionale. Laddove nel ’69 Jan Palach si diede fuoco in segno di protesta antisovietica, Aung Zaw risponde ai messaggi degli altri “cospiratori” della dissidenza globale. Chi avrebbe immaginato che la bisbetica capitale dell’allora Cecoslovacchia sarebbe diventata la casa comune dei “signor no” di ogni dove. Dai protagonisti delle primavere arabe agli attivisti russi. Dai blogger cinesi alla nuova generazione di intellettuali birmani. Si ritrovano nella città che fu di Kafka e Kundera, nel nome del loro capostipite: Václav Havel. Sono arrivati al Forum2000 che per la prima volta si è svolto senza il suo fondatore, morto un anno fa. «I nostri sogni si spengono quando voi accendete il riscaldamento». Con le sue provocazioni Yuri Zhibladze, presidente del Centro per lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani di Mosca, si è cacciato in un sacco di guai. «Parlate di libertà, di regimi antidemocratici, ma poi – domanda – sareste disposti a restare al freddo per mettere in crisi il potere di Putin? Lui lo sa. E lascia che d’estate vi scaldiate con le buone intenzioni. Tanto l’inverno arriva sempre». Alle prime gelate la storia si ripete. Il Cremlino gioca al gatto con i topi freddolosi del Vecchio Continente. «La dipendenza energetica dal gas russo è una questione che pregiudica ogni vostra buona intenzione». La bruma che dall’alba galleggia sulle anse della Moldava annuncia la proverbiale inversione termica. Quando la nebbia e i camini della Parigi boema trasformano il tramonto sulla città magica e romantica in uno scenario mistico, dalla cui caligine sbucano i campanili e i trenta santi sul Ponte Carlo, protetti dalla spada scintillante di Bruncvík, il leggendario “cavaliere buono” che sconfisse il drago a nove teste.
Tarik Nesh Nash, noto cyberattivista marocchino, non ha dubbi. Oggi Bruncvík impugnerebbe un tablet: «Internet è un mezzo per coinvolgere i cittadini nella costruzione della democrazia, e i media ne sono uno dei pilastri». Dalle primavere arabe Tarik ha imparato che non bisogna solo combattere “il drago a nove teste” del potere incontrollato, «ma sconfiggere l’analfabetismo tecnologico e il divario digitale grazie al quale i regimi limitano la circolazione delle informazioni». Come in Birmania, dove secondo il cyberdissidente Min Yan Naing è ancora troppo presto per tirare il fiato. Le aperture concesse dalla giunta militare e la leadership indiscussa di una grande amica di Havel, l’indomita Aung San Suu Kyi, «devono fare i conti – spiega Naing – con un ritardo tecnologico voluto dai militari per isolare il Paese». Nei villaggi sperduti a ridosso delle risaie come nelle città più popolose «l’accesso al web è un miraggio. Crediamo – sostengono i giornalisti e attivisti Aung Zaw e Kyaw Thu – che in certe aree la gente neanche sappia dell’esistenza di internet». A Praga i dissidenti sono di casa. Alcuni vi trascorrono lunghi periodi grazie a finanziatori internazionali e programmi di scambio culturale. Soprattutto tra i vicoli della Città Vecchia possono fare due passi senza doversi guardare le spalle. Lo raccontano esorcizzando la paura sorseggiando una cioccolata calda nella sala da tè del Na Zábradlí, quel “teatro ringhiera” dal quale Vaclav Havel ha animato la “Rivoluzione di velluto” e nel quale è tornato dopo ogni carcerazione. Un luogo che non ha ancora perso quell’atmosfera da covo di sovversivi.
«Chi ha detto che in Russia non c’è libertà di parola? – gioca ancora con le parole Yuri Zhibladze –. Non è affatto vero. Noi a Mosca abbiamo libertà di parola. Il problema è che non c’è libertà “dopo” aver parlato». La prassi è la medesima dai tempi dell’Unione Sovietica. «Le intimidazioni, le minacce ai familiari, gli avvertimenti e i pedinamenti sono la nostra quotidianità», riferisce Yuri con l’espressione spersa di chi, almeno al chiuso di un albergo ben sorvegliato, è riuscito finalmente a trascorrere una notte tranquilla. Il sistema Putin è collaudato, «ma non reggerà molto a lungo», preconizza. I giovanotti “ovunque connessi” a volte ostentano fin troppa fiducia nelle proprie armi tecnologiche. Ci pensa un vecchio filosofo a mettere in discussione la «religione mediatica». Con i suoi 87 anni Zygmunt Bauman non ci sta a recitare il ruolo del vecchio arnese tagliato fuori dalla scarsa confidenza con i post i tweet né i blog. «I social media? Vengono usati regolarmente dai governi per stroncare le rivolte popolari sul nascere. Sapete cosa penso? Che invece – sottolinea l’intellettuale di origine polacca – stiamo abusando dei media». I ragazzi terribili delle primavere arabe o i “guerriglieri virtuali” delle periferie asiatiche, alla fine devono ammetterlo: «Applicazioni come Facebook e Twitter – ricorda Jaroslav Valuch, che nell’Est Europa guida una campagna contro i crimini basati sull’odio – non sono stati progettati per gli attivisti, e sarebbe sciocco pensare che possano essere utilizzati in modo totalmente sicuro».
Internet e i social network stanno mettendo a nudo i potenti ovunque essi siano. «I servizi segreti si sono dovuti specializzare nella guerra informatica. Ma strumenti come twitter sono difficili da filtrare», assicura l’americano David Keyes, trentenne cofondatore di cyberdissident.org. Sarà, ma per dirla con il blogger cinese Michael Anti, il limite è che «internet può liberare le menti delle persone, ma non fare della Cina una democrazia». Ma cos’è che davvero fa scendere in piazza per mostrare il petto ai fucili degli eserciti? L’attivista egiziano Abu Bakr Shawky ha una sua chiave di lettura. E l’ha trovata in una piccola libreria di Mala Strana, il “quartiere piccolo” che sale verso il Castello. Sul suo iPad indica il testo appena messo in rete. È di un giovane Havel: «Ho letto molti libri arguti sul socialismo. Mi sono reso conto che tutti quei grandi concetti sull’ordine più perfetto che esista sono solo ridicole costruzioni di carta, se per i loro araldi non è naturale cedere il posto in tram a una signora anziana o aiutare una vecchina a raccogliere le mele cadute lungo il marciapiede».”
Da dove nasce tutto?
Prendo da Limes un bellissimo e interessante articolo di Bernard Selwan el Khoury, vicedirettore dell’Osservatorio Geopolitico Medio Orientale (Ogmo) e responsabile di Cosmo (Center for Oriental Strategic Monitoring) e docente di questioni arabe e mediorientali presso vari istituti.
“Innocence of Muslims è il titolo del controverso film che lo scorso 11 settembre, undicesimo anniversario degli attacchi alle Torri Gemelle, ha fatto piombare l’Occidente – e assieme ad esso il mondo arabo-islamico – in un nuovo “autunno” che mette a repentaglio i già delicati rapporti fra i due mondi e soprattutto le rinate società arabe post-rivoluzioni. Può il trailer di un film aver scatenato tutto ciò? Cosa ha spinto milioni di musulmani in tutto il mondo, sunniti e sciiti, a condannare un video che probabilmente non avevano neanche visto? Infine, cosa è accaduto nei giorni precedenti l’11 settembre 2012 e cosa potrebbe accadere da domani?
Innocence of Muslims è un film indipendente statunitense della cui produzione e regia era stato inizialmente accreditato un certo Sam Bacile, qualificatosi come immobiliarista 56enne di fede ebraica. Per la produzione del film, Bacile avrebbe raccolto circa 5 milioni di dollari da oltre cento donatori; tra questi sembra ci fosse anche il discusso pastore americano Terry Jones, noto alle cronache per la sua proposta di incendiare il Corano. Successivamente è emerso che il vero nome di Sam Bacile sarebbe Nakoula Basseley Nakoula e che non si tratterebbe di un immobiliarista ebreo ma di un copto egiziano. Per comprendere cosa sia realmente accaduto, è bene partire dal primo luglio 2012. Quel giorno un estratto del film di 13 minuti fu pubblicato sul canale Youtube di “Sam Bacile”, che si era iscritto il 4 aprile 2012. Il video portava il titolo The Real Life of Muhammad. Il giorno successivo il presunto Bacile (probabilmente lo stesso Nakolua) ripubblica lo stesso filmato, intitolandolo stavolta Muhammad Movie Trailer. Fino al mese di settembre il filmato non aveva destato l’attenzione delle masse arabe e nessuno si era preoccupato di farlo notare. Nei primi giorni di settembre, tuttavia, inizia a circolare su Youtube lo stesso filmato doppiato stavolta in dialetto egiziano. Il link a questo video, oggi rimosso, è stato pubblicato il 5 settembre scorso sul sito della Naca (National American Coptic Assembly-Usa), un’associazione copta con base a Washington DC e presieduta dall’avvocato Morris Sadek. Nello stesso annuncio veniva lanciato un appello, per l’11 settembre 2012, al “giorno internazionale del giudizio di Muhammad” a Gainesville in Florida. Lì Terry Jones avrebbe dovuto presentare in anteprima il film. Questo non desta stupore in quanto già nel 2010, in occasione dell’anniversario dell’11 settembre, Jones aveva fatto appello al “giorno del rogo del Corano” scatenando polemiche nel mondo arabo-islamico. Da una parte, alcuni esponenti della corrente anti-islamica negli Stati Uniti (Jones, Sadek e Bacile) avevano premeditato il “giorno del giudizio” per l’11 settembre 2012. Dall’altra, i media egiziani – in particolare quelli vicini ai movimenti islamisti – nella prima settimana di settembre avevano posto all’attenzione dell’opinione pubblica il filmato doppiato in dialetto egiziano, condannandone il carattere blasfemo e accusando i “copti all’estero” di aver giocato un qualche ruolo nella vicenda. La miccia è stata accesa in Egitto il 10 settembre, quando diversi esponenti della corrente salafita nazionale – in primis Muhammad al-Zawahiri, fratello del leader di al Qaida Ayman e rilasciato lo scorso marzo – hanno invitato a prendere parte a una manifestazione di condanna del film, programmata per il giorno dopo davanti all’ambasciata americana. Qualche ora dopo alcuni manifestanti libici, fra cui numerosi salafiti, si sono radunati di fronte al consolato statunitense di Bengasi: il drammatico epilogo di quella giornata, conclusasi con la morte dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens, ci è noto.
A una settimana da questo nuovo undici settembre, è bene fare una riflessione serena e matura per comprendere cosa spinga le masse islamiche a rispondere con la violenza a un atto che buona parte degli occidentali percepisce come “libertà d’espressione”. Era già accaduto con le vignette satiriche sul profeta Maometto (Muhammad) nel 2005, e a seguito della lectio magistralis di papa Benedetto XVI nel 2006, a Ratisbona, per citare gli episodi più noti. Ma è bene ricordare che cose del genere avvengono ogni giorno, lontano dalle cronache, in tutti i paesi arabo-islamici. L’istinto profondamente intollerante, coltivato dal pensiero salafita-jihadista nei confronti di ogni ragionamento critico su questioni religiose, è costato la vita (e continua a farlo) a decine di fedeli musulmani. Se nella storia del Cristianesimo è stata già affrontata e superata, seppure a caro prezzo, la questione della revisione critica di alcuni concetti religiosi, l’Islam – una fede più giovane rispetto a quella cristiana – non ha invece ancora attraversato questa delicata fase. Perché? Innanzitutto per l’assenza di un’autorità quale può essere il Vaticano, che è in grado di esprimersi con autorevolezza e soprattutto di rappresentare un punto di riferimento per milioni di cattolici. Nell’Islam sunnita esiste al-Azhar, come per il mondo sciita ci sono Qom e Najaf, ma i tre istituti religiosi non sono comparabili al Vaticano sotto l’aspetto dell’incisività dottrinale. Può accadere dunque che un Bin Laden e un Al-Zawahiri, citando alla lettera alcuni versetti del Corano e soprattutto diversi passi della Sunna – la raccolta dei detti e dei comportamenti in vita di Maometto, il secondo testo sacro dell’Islam dopo il Corano – diventino a loro volta una sorta di al-Azhar per soggetti che si ispirano al salafismo, divenuto oggi e in particolare a seguito delle rivolte arabe l’ala politica e dottrinale dell’azione jihadista. Detto questo, se un Imam o un predicatore salafita di un certo carisma incitano le masse a scendere in strada e a dare alle fiamme le bandiere americane (avvalorando il loro discorso con citazioni religiose presenti nei testi sacri), istituzioni come Al-Azhar possono fare ben poco. Se non si comprende questa realtà del mondo islamico diventa difficile analizzare quanto è accaduto lo scorso 11 settembre al Cairo, e ciò che potrebbe accadere in futuro. Due sono i concetti chiave per esaminare la crisi del nuovo 11 settembre, partita dal Cairo e non ancora rientrata.
In primis, il rapporto fra Islam e idolatria. Fin dalla nascita della fede musulmana, il profeta Maometto aveva compreso che una delle principali minacce teologiche al monoteismo era rappresentata dall’idolatria. L’accusa di idolatria è più grave rispetto a quella di miscredenza, in quanto intacca il primo dei cinque pilastri dell’Islam, la professione di fede (shahada), che recita: “Non vi è altro dio all’infuori di Allah e Muhammad è il suo messaggero”. Da qui il divieto assoluto di rappresentare con immagini o statue non tanto Allah quanto il profeta Maometto, che è anche uomo. La distruzione da parte dei talebani delle due statue di Buddha di Bamiyan, in Afghanistan nel 2001, le violente manifestazioni contro le vignette satiriche nel 2005, la recente distruzione di tombe e mausolei in Libia e, da ultime, le proteste contro il film statunitense, sono solo alcuni fra i più celebri esempi di traduzione in pratica del divieto sopra accennato.
In secondo luogo, bisogna considerare le proteste in base alle circostanze geopolitiche e sociologiche in cui hanno avuto luogo. A oltre un anno dalla cosiddetta “primavera araba”, che per obbligo di correttezza dovremmo cominciare a chiamare “primavera islamista”, il risultato è stato che i vecchi regimi totalitari sono stati sostituiti da governi islamisti chiaramente ispirati alla Fratellanza musulmana. È infatti quest’organizzazione che è riuscita a raccogliere sistematicamente il frutto delle proteste giovanili. Ciò ha creato un terreno fertile per il proliferare delle correnti salafite che, pur esistendo già durante i regimi deposti, ancora non si vedevano. È probabilmente a questo che fa riferimento l’attuale leader di al Qaida nel suo recente messaggio dello scorso 11 settembre, diffuso apparentemente per confermare la morte, avvenuta a giugno, di Abu Yahya al-Libi (il libico), alto leader della storica organizzazione qaidista. “Al Qaida è divenuta oggi un messaggio per la Umma islamica affinché combatta contro l’oppressione crociato-sionista e la corruzione interna”, sostiene lo sceicco egiziano. “Più sangue viene versato tra gli esponenti di Al-Qa’ida, più i loro messaggi e le loro parole si ravvivano”. In quella che è già stata definita la quarta fase di al Qaida si evidenzia il trionfo del jihad della parola (in arabo jihad al-kalam): una lotta non più combattuta con la meticolosa pianificazione di azioni teatrali come quelle del World Trade Center, ma attraverso le parole e dunque con il web, i social media, le manifestazioni, i sit-in e gli slogan. È il modo di al Qaida per dire che ad aver trionfato in queste rivoluzioni non sono né le masse arabe né, tantomeno, gli americani, ma lo spirito del jihad – inteso come lotta dell’intera Umma, la comunità dei fedeli islamici, contro “l’oppressione, la tirannia e l’arroganza occidentale”, che ricorda quanto dichiarato dal profeta Maometto in risposta a una domanda di un suo Compagno su quale fosse la migliore forma di jihad: “Dire una parola di verità al cospetto di un tiranno”. Non a caso, prima di lanciare i loro slogan contro l’America, i salafiti che hanno assaltato le ambasciate al Cairo e a Bengasi dichiaravano all’unisono: “Non vi è altro dio all’infuori di Allah e Muhammad è il suo messaggero”, innalzando la bandiera nera su cui è riportata questa testimonianza di fede. Proprio tale bandiera è la stessa utilizzata da tutte le formazioni jihadiste per chiedere il ritorno del Califfato: un’unità islamica globale e solidale, in nome dell’Islam come religione e Stato.”
La Francia ferma le proteste
Altro articolo interessante preso da Il sussidiario.
“Mentre nel resto del mondo le proteste per il film Innocence of Muslims pian piano sembrano placarsi,
in Francia un’iniziativa del premier Jean-Marc Ayrault rischia di rinfocolare la tensione. E’ stato disposto il divieto, infatti, di protestare, a Parigi, contro il film ritenuto dai fedeli islamici blasfemo. «È stata presentata una richiesta di manifestazione, ma sarà seguita da un divieto», ha dichiarato Ayrault, facendo presente che la Repubblica non alcuna intenzione di lasciarsi intimidire. Così, mentre il settimanale satirico francese Charlie Hebdo ha pubblicato oggi diverse vignette su Maometto e per precauzione, venerdì, saranno chiuse decine di scuole e ambasciate in una ventina di paesi islamici, Ayrault ha ribadito che in Francia è «garantita la libertà d’espressione, compresa la libertà di satira». Chi si sente offeso dal film o dalle vignette, ha concluso, potrà rivolgersi ai tribunali. Khaled Fouad Allam, islamologo e profondo conoscitore dei recenti fenomeni relativi al mondo musulmano (ha appena pubblicato Avere vent’anni a Tunisi e al Cairo. Letture delle rivolte arabe, Marsilio), ci spiega come interpretare la decisione francese.
Che idea si è fatto, anzitutto, della vicenda legata al film e alle successive sommosse?
Da una parte, non possiamo non registrare come il film rappresenti un’offesa per popoli musulmani e per l’Islam, che reputano Maometto persona sacra e inviolabile; d’altro canto, le manifestazioni non sono nient’altro che il frutto di una strategia politica di alcuni movimenti e gruppi radicali che, nel contesto delle primavere arabe, cercano di sfruttare l’occasione per esacerbare i rapporti tra le parti. E’ la prima volta, del resto, che i gruppi in causa si trovano al potere. E sono costretti a confrontarsi con la democrazia, con minoranze, diritti, e diverse religioni.
Chi, in particolare, trae vantaggio dalla situazione?
Siamo in una fase di incognite rispetto al futuro dei Paesi islamici che devono decidere la forma di governo e le istituzioni che assumeranno nei prossimi anni; in un tale scenario di incertezza, i salafiti cercano di creare scompiglio per contare, nel futuro delle società islamiche, il più possibile.
Che impressione le suscita la decisione della Francia?
Forse, sarebbe l’ora che si iniziasse a distinguere, a livello concettuale, la sana laicità dall’esasperazione degli effetti della secolarizzazione. D’altro canto, è pur vero che la Francia moderna si è costituita contro la sua stessa identità religiosa. Sta di fatto che Parigi, fino a pochi decenni fa una delle “capitali” del mondo arabo in occidente, non è più in grado di governare il rapporto tra identità e religione dei suoi abitanti, perché intrappolata in una visione ideologica del concetto di laicità tipicamente francese; tale visione afferma, in sostanza, che la religione deve essere relegata unicamente nella sfera privata. Ovvero, a casa propria. Se questo concetto, di per sé sbagliato, era tuttavia sostenibile a livello pratico fino a trent’anni fa, oggi non lo è più.
Perché?
Il mondo è cambiato, e sotto impulso della globalizzazione la Francia ha al suo interno diverse popolazioni che, ormai, fanno integralmente parte del Paese. Ci sono milioni di persone con la cittadinanza francese che si professano islamici, ma anche buddisti, animisti, indù e via dicendo.
Tornando alla manifestazione: cosa si sarebbe dovuto fare?
La satira è nata nel periodo della Rivoluzione francese, proprio in Francia, dove nessuno mette in discussione la libertà d’espressione. I suoi contenuti possono rattristare un’intera popolazione, ma questo fa parte della stessa democrazia. Ora, se viene accettato un tale principio, coerenza vorrebbe che si accettasse anche il risvolto della medaglia. Che si consentisse, cioè, a chi è contrario, di poter manifestare il proprio pensiero.
Quindi?
Si doveva permettere a chi voleva protestare di farlo. Ovviamente, mettendo in piedi le dovute misure di sicurezza, e consentendo di manifestare unicamente a chi intendeva farlo pacificamente. Vietare la manifestazione, oltretutto, fa il gioco dei salafiti; consente loro di giustificare, in seno alla comunità islamica, l’odio contro l’occidente. Questi episodi, infine, creano sacche di emarginazione e incomunicabilità dentro la nazione.”
Satira o blasfemia?
Nel triennio stiamo approfondendo quello che sta succedendo in questi giorni nel mondo islamico. Ecco un articolo su quanto ho segnalato stamattina in alcune classi, magari per riflettere insieme se possa o debba esserci un limite tra umorismo, satira e blasfemia, se tale limite possa essere uguale o diverso a seconda delle religioni, se ci debba essere un rapporto tra laicità dello stato e rispetto delle religioni o, più largamente, delle opinioni, ecc ecc
“Mentre ancora il mondo islamico è in subbuglio per il film che attaccava la figura del Profeta Maometto, la situazione potrebbe tornare a incendiarsi. Il settimanale satirico francese Charlie Hebdo infatti ha pubblicato alcune vignette satiriche con soggetto proprio Maometto. Non è la prima volta che succede e anche allora ci furono proteste. Questa volta è intervenuto però anche il primo ministro francese chiedendo a tutti, con riferimento al giornale, senso di responsabilità nell’evitare di provocare i credenti di fede islamica. La replica del direttore del giornale è stata esplicita: le vignette sconvolgeranno solo chi vuole farsi sconvolgere, ha detto. Intanto il sito web della rivista è offline, oscurato da questa mattina all’alba. Si pensa a un attacco da parte di hacker islamici: la polizia francese è stata messa a difesa della sede del giornale che in passato per un episodio analogo fu attaccata e data alle fiamme da estremisti islamici. E’ intervenuto anche l’imam della moschea più importante di Parigi per chiedere ai musulmani di non reagire e di comportarsi in modo sensato, allo stesso tempo si è dichiarato stupito e intristito per quanto pubblicato dal giornale: “Questa pubblicazione rischia di aumentare l’oltraggio percepito nel mondo musulmano, dopo il caso del film islamofobo realizzato negli Usa, ma io mi appello affinché i fedeli non versino benzina sul fuoco” ha detto. Intervento anche del presidente del Consiglio francese di culto musulmano dicendo che la pubblicazione di queste vignette sono un insulto nei confronti del profeta dell’Islam (si vede ritratto in atteggiamenti sessualmente espliciti): condanna per un nuovo atto islamofobico, ma allo stesso tempo ha chiesto ai musulmani francesi di non cedere a quella che ha definito una provocazione. Proprio ieri Al Qaeda ha invitato gli islamici di tutto il mondo a riprendere gli attacchi contro le ambasciate occidentali, che la settimana scorsa hanno causato diversi morti tra cui l’ambasciatore americano in Libia. Folle di migliaia di persone hanno scatenato attacchi dalla Tunisia all’Indonesia.”
Qualche spunto
Segnalo alcuni articoli che ho preso dalla rete e che possono essere utili per avvicinarsi a capire la situazione creatasi dopo l’uccisione dell’ambasciatore statunitense in Libia e le reazioni alla pubblicazione in rete di alcune sequenze del film su Maometto.
Hezbollah lancia una settimana di proteste contro il film anti-islam Asia News.pdf
INDONESIA Jakarta, violente proteste contro il film blasfemo su Maometto Asia News.pdf
Le conseguenze internazionali dell’assalto alle ambasciate.pdf
Libia, il fuoco dell’estremismo sulla primavera araba.pdf
PAKISTAN Cristiani e musulmani pakistani condannano il film blasfemo su Maometto Asia News.pdf
Questo qui sotto è un articolo che ricorda quanto successo diversi anni fa in occasione della pubblicazione del libro “I versetti satanici”:
Quando le piazze islamiche si riempirono contro Rushdie _ Linkiesta.it.pdf


