Gemma n° 2571

“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare uno tra i miei film preferiti: Inception di Christopher Nolan.
In breve, questo film tratta della storia di un uomo in grado di inserirsi nei sogni altrui per prelevare i segreti nascosti nel più profondo del subconscio e fa capire anche come i sogni di una notte possano talvolta essere collegati l’uno all’altro. Di questo film non mi ha colpito solo la trama (già molto avvincente) ma il significato che vi si cela dietro: i sogni come percezione della realtà.
Questa definizione mi appartiene molto perché sono sempre stata una ragazza “sognatrice” ma decisa a far sì che un giorno ciascuno di essi si realizzi; sognare o viaggiare con la mente mi aiuta a essere determinata perché mi stimola ad andare fino in fondo (non amo lasciare le cose sospese). I sogni poi mi hanno sempre affascinato: da piccola mi chiedevo continuamente come la nostra mente potesse proiettarci delle immagini nel momento in cui siamo tranquilli e liberi da qualsiasi preoccupazione (il sonno) e proprio per questo mi sento molto rappresentata dal messaggio di questo film che continua a cambiarmi ogni anno”.
(S. classe seconda).

Mondi altri

E’ ora di iniziare a scriverne… Intanto ripubblicherò articoli di persone esperte per cominciare a farsene un’idea, anche se non è così facile a proposito di qualcosa che deve ancora venire. Fa parte di quelle cose che per essere ben comprese hanno forse bisogno di essere vissute. Mi sto riferendo al metaverso. Non mi metto qui a scrivere cosa sia, lo accenna già Luca Di Bartolomei in questo articolo apparso su Il Mulino.

“Partiamo dalla fine: giovedì 21 ottobre per gioco decido di scommettere 50 dollari su Dwac, il veicolo societario nel quale Donald Trump sta convogliando gli sforzi per far nascere «Truth», la sua piattaforma online. Il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, infatti, dopo aver subito il ban da parte dei principali social network ha deciso di costruirsene uno tutto suo, per propagandare idee politiche e pubblicizzare interessi economici. Se aveste investito 10 dollari insieme a me oggi ve ne trovereste oltre 80 sul conto. Se aveste deciso di vendere al loro massimo avreste più che decuplicato il vostro investimento.
Questo piccolo aneddoto ci racconta due cose. La prima è che diversamente dal passato (quando pure le banche gli hanno prestato soldi) questa volta il biondo tycoon viene reputato credibile dalla comunità finanziaria americana, che investe in una sua intrapresa economica. Il perché è presto detto: il largo, larghissimo consenso di cui gode e che ne fa probabilmente l’unico leader «repubblicano» (ammesso che abbia ancora senso definirlo così) oggi sulla scena. La seconda è che i suoi strateghi hanno capito (e dimostrato) che la politica non si gioca fuori dal digitale e a breve dal metaverso.
Trump ha vissuto – e vinto – sui social sfruttando una narrazione che l’alt-right (la destra alternativa) aveva prodotto fin dalla prima presidenza Obama: il mare in cui navigavano i birthers, le culture complottiste alla QAnon, la foresta delle fake news che si trasformano in realtà alternative. E abbiamo visto come da questo mondo siano salpati gli assalitori del Campidoglio. In questo spazio Trump e i suoi finanziatori si stanno scatenando per disintermediare definitivamente il rapporto con il cittadino/elettore/consumatore/propagatore: una grande partita, democratica ed economica.
Nei giorni scorsi, sul «New York Times», faceva impressione leggere uno dei guru della comunicazione democratica, David Brock: nella sua percezione la politica americana che abbiamo davanti sarà un mare ulteriormente avvelenato nel quale i punti delicati della trama della democrazia saranno i luoghi dove si legittima il voto. Sostanzialmente, concludeva Brock, i risultati elettorali verranno contestati di default nelle commissioni statali elettorali; quello che abbiamo visto dopo le elezioni presidenziali del 2020 sarà la normalità. Qui, in una democrazia che rischia una torsione prossima alla rottura, Trump ha deciso di combattere in quello che fino a pochissimo tempo fa sembrava a tantissimi analisti un «altrove». Possiamo permetterci di ignorarlo? Possono permettersi di ignorarlo la politica o gli attori del discorso pubblico? Credo di no, ma forse bisogna prima capire cosa sia questo altrove, cosa sia il «metaverso».
Per provare a spiegare cosa sia faccio sempre questo esempio. Credo sia stato tre anni fa: mio figlio vide suo cugino più grande giocare a Fortnite e mi chiese di scaricarlo per giocarci insieme. Non temo i videogiochi, ci sono cresciuto: da quarantenne ho sostanzialmente attraversato tutte le fasi del gaming fin dai primissimi albori. Qualche settimana dopo Andrea mi disse che avremmo dovuto comprare una nuova «skin» per il nostro «avatar» perché ne era uscita una bellissima e forse ne sarebbe uscita anche una della nostra squadra del cuore. Le «skin» sono sostanzialmente dei vestiti, gli «avatar» i nostri corrispettivi digitali; le «skin per gli avatar» si comprano direttamente in una area del gioco chiamata «Marketplace». Si trova proprio accanto alle «room» nelle quali i giocatori – ragazzi e non – passano il tempo in attesa di una partita o semplicemente si incontrano per parlare.
Già adesso, insomma, esistono interi universi nei quali la nostra individualità vive, si esprime e consuma in un altrove diversamente reale. Può sembrare un linguaggio esoterico o da bambini, ma è solo due passi più avanti di quando compriamo le cose su Amazon o vediamo i film su Netflix e uno soltanto dei nostri post su Facebook. E poi se vogliamo il voto dei sedicenni, beh, allora dovremo pur parlarci!
Per capire quanto occuparsi di questa vicenda sia importante facciamo un passo indietro. La prima volta che ricevetti un invito a iscrivermi a Facebook eravamo a dicembre del 2006; alla fine dell’anno successivo insieme con Marco Laudonio, che oggi insegna Comunicazione digitale alla Sapienza, facemmo sbarcare sulla piattaforma di Zuckerberg l’allora leader del centrosinistra italiano. L’anno successivo trasformammo quel bagliore di attivismo digitale in un evento reale riempiendo uno spazio romano con oltre duemila persone, soprattutto giovani, provenienti da tutta Italia. Molte delle idee immaginate in quel breve periodo con il supporto di professionisti della comunicazione digitale come Stefano Peppucci ed Emanuele Fini trovarono spazio solo più avanti, spesso in contesti politici differenti. Ne cito due che ebbero un incredibile successo: le pubblicità elettorali di Obama all’interno di alcuni videogame nel 2008 e l’organizzazione territoriale basata e coordinata su gruppi di attivisti che partivano costituendo gruppi online. Di lì a poco li avrebbero chiamati meet-up.
Diversamente da Second Life – che è finito per diventare un gioco di ruolo – le piattaforme social dal 2004 hanno avuto successo perché hanno parallelizzato le nostre esistenze offrendo alle nostre opinioni ed emozioni una possibilità simultanea di massima audience. La moltiplicazione delle piattaforme e il loro soddisfare un precipuo aspetto della nostra socialità quotidiana hanno finito per fare il resto: ci alziamo sfogliando le news sui profili Twitter dei giornali, poi leggiamo i messaggi arrivati su WhatsApp, mentre postiamo una foto del nostro cane su Instagram, giriamo un video sciocco su Tik Tok e, salutando gli amici su Facebook, guardiamo gli aggiornamenti della nostra comunità finanziaria di piccoli risparmiatori su Reddit, giusto prima di farci una risata su un video recuperato su YouTube o vedere gli score di Fortnite.
Per quanto l’invenzione della parola metaverso sia da attribuire a Neal Stephenson, che per primo la conia nel suo romanzo Snow Crash, esempi di metaversi si potevano già ritrovare in dozzine di opere letterarie di fama mondiale, in particolare nelle linee editoriali create dai principali disegnatori e sceneggiatori di fumetti e di graphic novel. Nell’immaginazione di Stephenson, però, il metaverso è un universo che corre intorno al pianeta in cui ciascuno poteva vivere esperienze di ogni genere. Un «verso» altro ma in qualche modo legato a quello noto, all’universo naturale in cui siamo immersi. Mondo fisico e mondo digitale girano nell’idea di Stephenson come fossero due sfere una nell’altra.
In queste settimane il concetto di metaverso sta diventandoci familiare anche grazie ai disegni di Facebook. La società annuncia che ci saranno migliaia di persone assunte in Europa per realizzare questo progetto. Da un punto di vista economico può apparire come la nascita di una holding – non diversamente da quanto avvenuto con Alphabet di Google nel 2015 – destinata a incorporare l’impero di Mark Zuckerberg and Co. con tutti i suoi social. Ma le cose non sono così semplici: il metaverso che verrà molto probabilmente si concentrerà sulla integrazione di queste piattaforme diverse e sulla possibilità per l’utente di costruire un proprio frame narrativo da condividere in ognuna delle stesse. Insomma se saremo arrabbiati molto probabilmente la nostra user experience varierà su ognuna di queste piattaforme: su Spotify ci verrà proposta musica dal ritmo più incalzante, su YouTube video più violenti, mentre su Facebook leggeremo i post con le opinioni politiche più nette e nel frattempo il nostro avatar si presenterà con un’espressione più affilata.
Come tutto questo finirà per impattare sul discorso pubblico e sulla vita politica e partitica è presto detto: da 15 anni Facebook e i social hanno cambiato la comunicazione, piegando i media tradizionali e costringendo la comunicazione politica a un faticoso e mai completato inseguimento. La politica che nel tempo ha cessato di avere i legami tradizionali con le persone (e che intendiamoci, oggi, probabilmente non funzionerebbero più) è stata costretta a cercarle nella loro veste di utenti e non in quella di cittadini.
In questo senso i social media hanno piegato anche la politica non solo nella sua comunicazione ma anche più radicalmente nella connessione con gli elettori e con i loro bisogni che sono sempre più cercati tra i «trending topic» e non nelle condizioni reali di vita. Oggi siamo davanti a un passaggio nuovo, perché se nel 2005 non capire quello che sarebbe successo poteva essere nelle cose adesso sarebbe un errore non giustificabile. Quando le persone «vivranno» nel metaverso – che non è alternativo all’universo reale ma finisce per esserne il rovescio della medaglia nella dimensione della comunicazione e forse anche dell’immaginario e del desiderio – chi sarà rimasto fuori non conoscerà più neanche la lingua con cui rivolgersi agli altri.
Qualcuno potrebbe obiettare: esagerazioni. Io credo di no, anzi ci scommetto altri 50 dollari”.

Gemme n° 237

In realtà avrei voluto portare un altro spezzone, ma il sito è bloccato. So che vista così questa sequenza on ha molto senso ma l’ho scelto perché avevo appena visto il film quando abbiamo iniziato a fare le gemme e mie era molto piaciuto; l’immaginazione e i numerosi livelli della realtà mi interessano. Siate liberi di immaginare e di dare sfogo alla vostra fantasia.” Questo il messaggio della gemma di K. (classe quarta).
Pablo Picasso diceva che “Qualsiasi cosa tu puoi immaginare è reale”.

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Gemme n° 88

Ho portato una canzone che è la colonna sonora di un anime. Quando la ascolto mi sento come estratto dalla realtà. Questo è anche il motivo per cui amo fantasy, anime e manga: tralasciare la realtà e scoprire altro mondo. Devo però ammettere che è piuttosto complicato, anche se ci si sforza di capire.” Sono state le parole di A. (classe quarta).

Riporto come ulteriore spunto di riflessione una frase di Tsubasa Reservoir Chronicle.
«Kurogane: “Se ci si sforza di non piangere, è inevitabile che poi ci si rafforzi… è bene cavarsela senza piangere, qualsiasi cosa succeda…”
Fay: “Sì… però… quando si vuole piangere, bisogna pure possedere la forza per farlo!”».

Un orizzonte nuovo

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Capita spesso in classe di parlare dei social a vari livelli, a seconda delle classi. Ecco, questo articolo, preso dal sito di Giovanni Grandi, ricercatore in filosofia morale, è per le classi più esperte, ma con un po’ di concentrazione è utile a tutti 🙂

“Non occorre trovarsi ad un incontro con il Papa: basta essere ad uno spettacolo di fine anno alla scuola dell’infanzia – l’asilo, per la mia generazione – per vedersi levare immancabilmente una selva di schermi tra telecamere (sempre meno) tablet e smartphone (sempre più). Impossibile vedere oltre. Che alle volte è più semplice guardare la scena dallo schermo del tablet di chi sta due file più avanti. Provavo a sorridere a proposito della funzione dello “schermo”, che originariamente è quella di proteggere, di riparare, di mettersi in mezzo ma proprio per creare distanza. Oppure per impedire dispersioni, specialmente – e non senza umorismo – nel caso dei “cavi schermati” che impieghiamo nelle telecomunicazioni. Questo significa “schermare”. È allora paradossale la funzione dello schermo delle nostre appendici tecnologiche: si mette di mezzo tra noi e quel che ci sta di fronte non più per proteggere e custodire, ma per esporre e diffondere esponenzialmente.
Alessandra de Paola (@amedepaola) da twitter suggeriva che si tratta di un’eco della nostra solitudine: «Se qualcosa non sta sulla tua timeline esiste solo per te: è la foto di quanto ci sentiamo soli e abbiamo bisogno di comunicare».
È interessante l’idea per cui oggi rischia di esistere solo quello che riusciamo ad esibire, a mostrare, anche dei nostri vissuti. Alle radici di questa deriva non vedo però il demone della tecnologia, ma forse qualcosa di meno appariscente su cui varrebbe la pena di sostare.
Il raccontare e il raccontarsi è un elemento strutturale della nostra umanità. È nella narrazione che si creano relazioni, che si strutturano eredità e tradizioni. Se la cultura semita puntava sull’ascolto, la cultura greca ha fin da principio fatto leva sulla visione: dalla prima abbiamo ereditato l’opzione preferenziale per la scrittura, dalla seconda quella per la monumentalità. In entrambi i casi però quel che veniva trasmesso non era la riproduzione immediata del reale. La Sacra Scrittura non è una cronaca di eventi, neppure quando fa riferimento a fatti attestabili secondo i moderni criteri storiografici. Neanche i monumenti greci, con le loro storiografie visuali volevano essere una riproduzione pedissequa del reale. I media antichi non erano semplicemente cronache: erano narrazioni in cui il cuore era costituto da un tassello di sapienza. Come dire: attraverso questi eventi, rielaborando queste esperienze, abbiamo compreso che…
Quello che mi colpisce di molte nostre narrazioni contemporanee è che somigliano sempre di più a delle telecronache, in cui il messaggio di fondo rischia di essere semplicemente “io c’ero”, “io sono qui” (I’m at…) o “guardate che bello”. Nulla di discutibile nel realizzare un’istantanea, il punto non è questo.
Il punto è se, nel tempo, ho modo di ritornare su quell’esperienza che ho avvertito la necessità o di condividere in diretta, per estrarne un tassello di sapienza, di maggiore comprensione della vita. Il punto è se dietro all’evento c’è una scoperta, che a sua volta vale la pena di condividere, di far circolare. Quel che mi lascia perplesso nelle nostre narrazioni è l’inflazione di eventi e la deflazione delle scoperte di sapienza. Se impieghiamo tutto il nostro tempo a far rimbalzare in diretta telecronache di eventi, quanta attenzione ci rimane per sostare sui vissuti e perlustrarli con pazienza, alla scoperta di profondità meno appariscenti, di significati e lezioni stimolanti per maturare in umanità?
Potrebbe essere allora interessante mettersi alla prova: tra gli eventi di cui ho riferito e che ho esibito nella mia timeline (specialmente sui social) della scorsa settimana, ce n’è almeno uno che oggi posso raccontare nuovamente, perché non ha il gusto stantio della cosa passata ma quello frizzante di un orizzonte nuovo che ho scoperto?
Riabilitare (o quantomeno sostenere) la capacità narrativa come rielaborazione del messaggio dei vissuti potrebbe essere una sfida interessante. Perché non pensare qualche workshop in questo senso, specialmente lì dove si lavora sulla valorizzazione dei social media e degli strumenti di interazione che oggi abbiamo a disposizione?
Gran cosa se il social fosse un amplificatore di human wisdom…”

1984 2013

Pochi mesi fa ho letto con molto piacere “1984” di Orwell. Erano anni che lo puntavo e finalmente ci sono riuscito. Ho così potuto apprezzare ancora di più il fumetto che ho da poco terminato: “Pyongyang” di Guy Delisle, in cui il protagonista, durante un viaggio di lavoro in Corea del Nord, porta con sé proprio l’opera orwelliana.

orwell 1984“Raccontare deliberatamente menzogne ed allo stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile.” Una sintetica ma perfetta descrizione della demagogia, del lavorio di ogni fondamentalismo e ideologia, compresi i rapporti umani, professionali e interpersonali nel momento in cui si ammalano (a me è capitato proprio sabato).

Occhio!

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Ne avevo scritto il 24 aprile. Ora, ho appena sentito la notizia: una ragazzina inglese di 14 anni si è impiccata dopo i mesi di insulti subiti su ask.fm. E non è la prima: in autunno una quindicenne e una tredicenne irlandesi, in primavera un quindicenne. Non riporto quanto avevo già scritto in aprile. Mi sento solo di dire, ancora una volta, ai miei studenti, soprattutto quelli più giovani: OCCHIO!

Il cuoco di Ulisse

Ho una t-shirt blu, ormai consunta, con una scritta tratta dal libro “Il mondo di Sofia” di Jostein Gaarder: Chi sei tu? Il libro è uno dei miei preferiti. Sono andato a ripescare la risposta della protagonista, Sofia Amundsen.

“Non lo sapeva di preciso. Era Sofia Amundsen, naturalmente, ma chi era? Non era ancora riuscita a scoprirlo del tutto. E se si fosse chiamata con un altro nome? Anne Knutsen, per esempio. In quel caso sarebbe stata un’altra persona? Di colpo le venne in mente che, quando era nata, suo padre voleva chiamarla Synneve. Sofia cercò di immaginarsi mentre stringeva la mano a qualcuno e si presentava come Synneve Amundsen… No, non era possibile. Quella ragazza era una persona completamente diversa. Si alzò di scatto e andò in bagno con la strana lettera in mano. Si mise davanti allo specchio e cominciò a fissarsi negli occhi. «Io sono Sofia Amundsen», disse. La ragazza nello specchio rispose con una piccola smorfia. Faceva tutto quello che faceva Sofia. Sofia cercò di precedere l’immagine con un movimento fulmineo, ma l’altra fu altrettanto veloce. «Chi sei tu?» chiese. Non ricevette alcuna risposta, ma per una frazione di secondo si domandò sconcertata se era stata lei o l’immagine ad aver posto la domanda. Sofia premette l’indice sul naso riflesso nello specchio e disse: «Tu sei me». Dal momento che neanche questa volta aveva avuto risposta, capovolse la frase: «Io sono te». Sofia Amundsen non era mai stata soddisfatta del suo aspetto. Spesso le facevano complimenti per i suoi occhi a mandorla, ma senza dubbio le dicevano così soltanto perché il naso era troppo piccolo e la bocca troppo grande. Le orecchie poi erano esageratamente vicine agli occhi. La cosa peggiore erano i capelli lisci che non le stavano mai a posto. A volte suo padre le accarezzava la testa e la chiamava «la bambina dai capelli di lino», riferendosi al titolo di un preludio di Claude Debussy. Facile a dirsi per uno che non era condannato per tutta la vita ad avere capelli neri che penzolano diritti come spaghetti. Perfino la lacca e il gel non servivano a niente. A volte pensava di essere fisicamente così strana che si chiedeva se non fosse nata deforme. La mamma aveva parlato di un parto difficile. Ma era solo la nascita a determinare l’aspetto di una persona? Non era strano che lei non sapesse neanche chi fosse? Non era assurdo che non potesse neppure decidere il proprio aspetto? Quello, invece, era arrivato bello e pronto. Forse poteva scegliersi gli amici, ma non aveva scelto se stessa. Non aveva neanche scelto di essere un essere umano. Che cos’era un essere umano? Sofia fissò nuovamente la ragazza dello specchio. «Forse è meglio che vada di sopra a fare i compiti di scienze», mormorò. No, meglio andare in giardino, decise. «Micio, micio, micio, micio!» Sofîa spinse il gatto sulla scala e chiuse la porta. Nel momento in cui si trovò sul sentierino ghiaioso con la misteriosa lettera in mano, avvertì una strana sensazione. Si sentiva come una bambola diventata viva per incanto.”

Questo brano mi è tornato alla mente poco fa, quando ho ripreso in mano una canzone di Jovanotti che da tempo volevo affrontare con calma. E ho deciso di farlo veramente con calma: spezzetterò il testo musicale in piccole parti, soffermandomi brevemente su ciascuna di esse. La canzone è Buon Sangue, tratta dall’omonimo album del 2005. Il concetto di fondo è piuttosto semplice: siamo uomini poco originali nel senso che abbiamo preso un po’ da tutti i nostri parenti vicini o lontani nel tempo, comunque venuti prima di noi. Eppure abbiamo una nostra specificità: “niente accade due volte” canta alla fine della canzone Jovanotti. Sta di fatto che tutto il pezzo sembra una continua risposta alla domanda posta a Sofia Amundsen. Parto con la prima strofa.

ulisse_sirene.jpgIl primo parente è un cuoco imbarcato sulla stessa nave di Ulisse, il prototipo di tutti i viaggiatori: mentre tutti i marinai si mettono la cera nelle orecchie per non sentire il canto delle sirene, il cuoco si addormenta e pensa di aver sognato il canto delle sirene, e di averlo pure dimenticato. Canta Jovanotti: “Restò dentro di lui quel richiamo del vuoto che hanno tutti gli uomini che hanno vissuto un tuffo inconsapevole nell’assoluto”. Dal cuoco ha imparato alcune cose: che i sogni e la vita spesso si confondono tra loro e non sempre è facile distinguere realtà e sogno, anzi spesso si alimentano a vicenda; che il viaggio è sempre un ritorno, magari a se stessi, alla propria identità, non sempre identica a se stessa e in continua evoluzione; che di quella nave ci si ricorda di Ulisse, ma che Ulisse aveva avuto bisogno anche di lui, di un cuoco…

“Un mio parente era il cuoco sulla nave di Ulisse

al grande eroe e ai suoi uomini faceva pranzi e cene

anche a lui fu dato l’ordine che non ascoltasse

passando da quell’isola il canto delle sirene.

Ma lui si addormentò e non si mise la cera

e quando si svegliò credette di avere sognato,

ma invece l’esperienza era stata vera:

quel canto misterioso lui l’aveva ascoltato

e misteriosamente anche dimenticato.

Restò dentro di lui quel richiamo del vuoto

che hanno tutti gli uomini che hanno vissuto

un tuffo inconsapevole nell’assoluto.

Da lui ho imparato a vivere la realtà come un sogno

e i sogni come fossero una cosa reale,

a vivere ogni viaggio come fosse un ritorno

e che anche i grandi eroi han bisogno di mangiare.”

Domani continuo…

Nudi nella rete?

Sono convinto che internet sia un’opportunità molto importante per incrementare le conoscenze in vari ambiti e la circolazione di idee e opinioni. Sono altresì convinto che sia una risorsa da maneggiare con cura e che possa nascondere insidie non sempre chiaramente identificabili. Mi riferisco, in particolare, all’utilizzo che può essere fatto dei social network, o comunque di tutti quei siti che offrono la possibilità di esposizione personale. Sento la necessità, per la mia professione, di interessarmi dei mezzi che i ragazzi di oggi utilizzano per relazionarsi o semplicemente per svagarsi e devo confessare che non è sempre facile stare al passo con i tempi. Basti pensare che le differenze tra le varie età sono notevoli: alcuni degli studenti che ho in quinta non conoscono gli spazi web utilizzati da quelli delle medie o del primo biennio delle superiori… Figuriamoci io… Quello che mi preoccupa è che troppo spesso vedo i ragazzi esporsi in maniera personale sulla rete: sono loro, con le loro foto, i loro luoghi, le loro famiglie, i loro animali, i loro gusti, le loro passioni, i loro amori, le loro rabbie, i loro sfoghi. E spesso compaiono nomi e cognomi di amici, amori, nemici, rivali, parenti, conoscenti, insegnanti, allenatori… E in tutto ciò si espongono con il loro essere e le loro emozioni, piangono o ridono per quello che si scrive su di loro. Di frequente quanto appena descritto è pubblico, visibile a tutti. Ho amici scafati a proposito della rete, che utilizzano pseudonimi per gestire blog o profili e che si divertono a provocare discussioni o confronti, scrivendo spesso anche ciò che non condividono a livello ideale, solo per osservare le reazioni; e se ricevono insulti sanno regolarsi, sanno mettere una distanza di sicurezza tra la propria realtà e quella virtuale. La paura che ho, invece, nei confronti dei ragazzi è che questa distanza non ci sia e più avanti vanno le cose più il virtuale diventerà parte della realtà. Basta vedere quello che è successo ieri negli States: su twitter è apparso questo messaggio

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La reazione immediata di Wall Street è stata questa

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Si è risolto tutto in pochi attimi, quando si è scoperto che The Associated Press era vittima di hackeraggio. Un ragazzo che viene offeso in rete perché goffo o eccessivamente sensibile, una ragazza accusata di essere una poco di buono o di avere chili di troppo avranno lo stesso crollo di Wall Street. Avranno la stessa capacità di risollevarsi?