Rischio narco-Stato in Europa

Il porto di Anversa (fonte)

Oggi condivido una notizia che arriva dal Belgio e che parla di criminalità. Un giudice istruttore di Anversa, in una lettera aperta pubblicata anonimamente sul sito del tribunale, ha denunciato l’infiltrazione crescente della criminalità organizzata e la corruzione sistemica legata al traffico di droga nel Paese. Prendo la notizia da L’Opinione delle libertà.

“Per fare un narcotraffico ci vuole un narco-Stato. Che è quello che rischia diventare il Belgio, secondo una lettera aperta, pubblicata il 27 ottobre sul sito dei cours et tribunaux, di una dei 17 giudici istruttori di Anversa. Che ha scelto l’anonimato per lanciare un avvertimento che non è passato inosservato al ministero federale della giustizia.
“Siamo di fronte a una minaccia organizzata che sta minando le nostre istituzioni”, ha scritto la donna. Nella sua lettera aperta, il magistrato fa sapere di aver condotto diverse indagini negli ultimi anni, che hanno portato all’arresto di dipendenti del porto di Anversa, funzionari doganali, agenti di polizia, funzionari amministrativi di diverse città e comuni, agenti penitenziari e funzionari assegnati al tribunale di Anversa. Secondo il giudice, tutti questi individui avevano legami con organizzazioni criminali attive nel traffico di droga. La donna sostiene che “vaste strutture mafiose hanno messo radici”, sono “diventate una forza parallela che sfida non solo la polizia, ma anche il sistema giudiziario”. Da qui la domanda: “Stiamo diventando un narco-Stato?”. Secondo lei e i suoi colleghi, “questa evoluzione è iniziata”.
Un’evoluzione che la funzionaria dimostra con i criteri e lo scrupolo propri dell’inquirente. Cosa definisce un narco-Stato? Economia illegale, corruzione e violenza. Il Belgio, secondo la lettera, soddisfa tutte e tre queste caratteristiche. L’inchiesta denominata Sky Ecc, ricorda il magistrato, ha rivelato l’esistenza di una “economia parallela multimiliardaria” nel porto di Anversa. Il “denaro nero si sta infiltrando nel settore immobiliare, facendo salire i prezzi per i cittadini comuni”, sottolinea. Si tratta di circuiti che rimangono ancora “intoccabili”. E così anche la corruzione non può che essere “diffusa”. Le organizzazioni criminali, infatti, “corrompono o minacciano di corrompere i dipendenti portuali”. Spostare un container, “un compito che richiede 10 minuti, fa guadagnare al lavoratore corrotto 100mila euro”, afferma la magistrata. Anche per contrabbandare una semplice borsa sportiva, si osserva, i narcotrafficanti sarebbero disposti a pagare decine di migliaia di euro. Di fronte a tale realtà, il terzo “pilastro” della violenza appare quasi una conseguenza naturale.
“Queste organizzazioni criminali ricorrono alla violenza a comando”, afferma il giudice istruttore, citando “omicidi, torture, rapimenti, minacce o attacchi, a volte contro civili innocenti, utilizzati per mantenere il potere ed eliminare i rivali”. Anche la magistratura, secondo la denuncia, “sta subendo minacce e intimidazioni”. L’inquirente dice di aver dovuto trascorrere diversi mesi in una casa di sicurezza a causa di minacce contro di lei e la sua famiglia. Diversi altri giudici inquirenti sono sotto protezione giudiziaria. Ciò nonostante, “nessun governo ci contatta, nessuno ci offre attivamente supporto, non c’è alcun risarcimento”.
Più di una volta, continua, “ci viene chiesto: ‘Perché lo fai?’ o, come mi ha chiesto un politico, sei un nobile cavaliere dello Stato di diritto o Don Chisciotte? Perché? Beh, condividiamo un impegno, una convinzione nell’importanza delle conquiste del nostro Stato di diritto. Ci rifiutiamo di arrenderci”. Se “il sistema giudiziario inizia a funzionare male, si tratta di un pericoloso attacco alla nostra democrazia”, osserva, non fosse altro perché “sta già diventando difficile trovare giudici disposti a pronunciarsi su casi del genere”.
La lettera non si limita alla denuncia, ma dà spazio ad alcune proposte per combattere il traffico di droga. Il magistrato propone un emendamento legislativo che consenta ai giudici inquirenti di lavorare in forma anonima, e chiede inoltre la creazione di un punto di contatto all’interno dei ministeri dell’interno e della giustizia, un’assicurazione per i danni subiti dai magistrati e dalle loro famiglie e l’occultamento degli indirizzi dei magistrati in banche dati come il registro nazionale. Il giudice istruttore ritiene inoltre che sia necessario istituire un sistema per impedire la comunicazione tra i membri delle reti criminali nelle carceri belghe.
“Le nostre indagini − rileva − sono compromesse dall’invio di copie dei nostri fascicoli a Dubai e in Turchia, e dalle carceri continuano a essere orchestrate massicce importazioni di cocaina”. Lo Stato di diritto, osserva, “non è un concetto astratto”, ma “si basa su persone come giudici, agenti di polizia e guardie carcerarie, che svolgono il loro lavoro con convinzione, ma che meritano anche un governo che li sostenga”. Non si tratta, dunque, di stabilire “se lo Stato di diritto sia minacciato”, perché “lo è già”, ma di capire “come si difenderà”.
La politica federale ha preso molto sul serio la denuncia. Il ministro della giustizia Annelies Verlinden considera le minacce contro i giudici e il personale penitenziario “gravi e preoccupanti”, perché si tratta di persone che “sono ogni giorno in prima linea per il nostro Stato di diritto”, riporta il sito 7sur7. “È inaccettabile che siano il bersaglio di reti criminali, anche all’interno del carcere”. La lettera anonima è servita ad annunciare alcune misure: “Stiamo rafforzando la sicurezza nei tribunali, raddoppiando il numero di varchi di sicurezza all’ingresso e garantendo maggiore sorveglianza da parte della polizia. Stiamo lavorando per rendere anonimi i dati personali nei documenti giudiziari in modo che magistrati e personale siano meno esposti a intimidazioni”. Verranno poi installati dei disturbatori di frequenza (jammer) per bloccare le comunicazioni Gsm nelle carceri. Il ministero promette anche investimenti per carceri “più sicure e meglio protette” per i criminali più pericolosi, “ai quali potrebbe essere imposto un regime più severo”.”

Dopo l’Isis l’Iswap?

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Negli ultimi anni, durante le prime lezioni del nuovo anno scolastico, ho dedicato un po’ di tempo ad approfondimenti sulla situazione internazionale. “Cosa ci siamo persi in estate?” è solitamente la domanda di partenza. Due anni fa ricordo che avevamo parlato della crisi del Sahel, di alcuni colpi di stato che si erano verificati, del dismpegno francese dalla zona, dal rischio terroristico. Cinque giorni fa la rivista Nigrizia ha pubblicato questo interessante articolo.

“Il mondo del terrorismo internazionale sta assistendo a una trasformazione radicale. Per la prima volta nella storia dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), le sue ramificazioni africane non si limitano più a ricevere ordini e finanziamenti dal “centro” mediorientale. Ma sono diventate il motore economico e operativo dell’intera organizzazione.
Un cambiamento che dovrebbe indurre a puntare ancora di più i riflettori sulla minaccia jihadista nel continente africano, sottovalutata cronicamente.

Il capovolgimento dei rapporti di forza
L’annuncio delle autorità irachene del 1° settembre ha rivelato uno scenario inedito: una rete di finanziamento dell’Isis, responsabile del “traffico di terroristi in diversi paesi del mondo”, gestita principalmente dall’Africa occidentale.
Il servizio di intelligence nazionale iracheno (INIS) ha parlato di una rete che si estende su tre paesi africani non specificati. Secondo i resoconti dei media iracheni, l’operazione è stata la prima del suo genere da parte dell’INIS nel continente africano.
Dieci agenti sono stati arrestati in Iraq e in tre paesi del continente facenti tutti parte di una sofisticata operazione che supportava piani di attacchi sul suolo europeo.
Al centro di questa rete si trova la Provincia dell’Africa occidentale dello stato islamico (Iswap, Islamic State’s West Africa Province), con base nel nordest della Nigeria e nelle zone limitrofe di Camerun, Niger e Ciad. Quello che una volta era considerato un semplice “affiliato” locale è oggi ritenuta la branca più influente dell’Isis, che guadagna oltre 191 milioni di dollari annualmente attraverso un sistema fiscale altamente organizzato.

Un modello di governance alternativo
La capacità finanziaria di Iswap non è frutto del caso, ma di una strategia deliberata di costruzione statuale. Il gruppo ha sviluppato quello che i ricercatori, citati nell’inchiesta di New Humanitarian, definiscono un vero e proprio sistema di governance parallelo, con quattro governatorati centrati sul Lago Ciad, la Foresta di Sambisa, Timbuktu e Tumbuma, ognuno guidato da un wali con proprie strutture di governo.
Questa organizzazione quasi-statale si basa su un principio fondamentale: fornire servizi che lo stato nigeriano non riesce a garantire. Dove le istituzioni ufficiali sono assenti o inefficienti, Iswap ha costruito semi-ministeri che supervisionano la governance sociale, religiosa, politica ed economica, oltre alle operazioni militari.
Il risultato è una macchina fiscale che tassa pescatori e allevatori, generando entrate superiori al bilancio di molti stati africani.

La minaccia digitale sottovalutata
Un aspetto particolarmente preoccupante emerge dalla sofisticazione tecnologica raggiunta da questi gruppi. Iswap spende circa 4.500 sterline al mese per servizi internet ad alta velocità, utilizzando droni sofisticati e comunicazioni satellitari per coordinare le proprie operazioni.
Questa capacità tecnologica non solo facilita le attività terroristiche locali, ma permette anche di mantenere collegamenti costanti con le cellule internazionali.
La debolezza della sovranità digitale nigeriana sta di fatto agevolando il terrorismo, fornendo alle organizzazioni jihadiste gli strumenti per operare in uno spazio cibernetico largamente non regolamentato.
Una vulnerabilità che si estende a tutto il Sahel e che rappresenta una delle sfide più complesse per le forze di sicurezza regionali.

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Il crollo delle alleanze regionali
La situazione è aggravata dalla crescente instabilità geopolitica della regione. Il ritiro del Niger dalla Forza Congiunta Multinazionale (MNJTF) nel marzo 2025, seguito al colpo di stato del 2023, ha compromesso gli sforzi di condivisione intelligence e interrotto le operazioni militari congiunte.
Anche il Ciad ha minacciato di abbandonare l’alleanza nel 2024, evidenziando le difficoltà nel mantenere una cooperazione efficace contro una minaccia che non conosce confini. Le relazioni diplomatiche tese tra Abuja e Niamey dopo la transizione nigerina verso una giunta militare hanno ulteriormente indebolito il fronte anti-terrorismo regionale.

Implicazioni per la sicurezza globale
Il caso dello smantellamento della rete irachena dimostra che la minaccia di Iswap si estende ben oltre i confini africani. La capacità del gruppo di finanziare operazioni in Medioriente e di pianificare attacchi in Europa rappresenta un salto qualitativo nella minaccia terroristica globale. Non si tratta più di prevenire l’esportazione del terrorismo dall’Africa, ma di riconoscere che l’Africa è diventata il nuovo epicentro del jihadismo internazionale.
Le autorità nigeriane stanno intensificando i controlli sia sulle criptovalute che sui sistemi hawala tradizionali utilizzati dai gruppi terroristici per i loro finanziamenti. Tuttavia, la complessità della rete finanziaria di Iswap, che combina metodi moderni e tradizionali, rende estremamente difficile intercettare tutti i flussi di denaro.

La lezione ignorata
La trasformazione di Iswap da affiliato periferico a centro nevralgico dell’Isis mondiale obbliga sempre più governi e analisti a spostare l’attenzione internazionale sull’Africa come terreno prioritario nella lotta al terrorismo.
Mentre i fari mediatici puntavano su Siria e Iraq, i jihadisti africani hanno costruito pazientemente strutture statali alternative, sviluppato economie parallele e creato reti internazionali sofisticate.
E da tempo tutte le ricerche e i report che studiano il fenomeno, come il Global Terrorism Index, indicano la regione africana del Sahel “l’epicentro del terrorismo globale” e per la prima volta rappresenta “oltre la metà di tutti i decessi legati al terrorismo”.

Le opportunità che la Nigeria offre a Iswap
La Nigeria, con i suoi 220 milioni di abitanti e le sue enormi disparità socio-economiche, offre a Iswap un bacino demografico e territoriale che i gruppi mediorientali non hanno mai posseduto.
La combinazione di esplosione demografica, fallimento della governance e povertà endemica ha creato le condizioni perfette per l’emergere di uno stato jihadista che guadagna dieci volte di più del governo dello Stato di Borno.
Per sconfiggere Iswap, come osservano gli esperti, la Nigeria ha bisogno di una strategia politica, non militare. Finché il gruppo continuerà a fornire servizi che lo stato non riesce a garantire e a presentarsi come alternativa credibile alla corruzione endemica, manterrà il sostegno delle popolazioni locali e la sua capacità di autofinanziarsi.
La partita decisiva contro il terrorismo jihadista, quindi, si gioca oggi nelle savane del Sahel e sulle rive del Lago Ciad, non più tra le rovine di Raqqa o Mosul.”

Gemma n° 2174

“Come gemma ho portato questa foto dove ci siamo io e mio papà. Per me è una persona molto importante e fin da piccola ho avuto un bellissimo rapporto con lui. Soprattutto in questo periodo, quando non mi sono sentita tanto bene, mi è stato sempre accanto e l’ho apprezzato veramente tanto perché per me è molto importante sapere di poter contare su una persona quando sto male sia che sia un familiare sia che sia un amico. Quando ho dei momenti di sconforto dove mi sembra che non mi vada niente bene vado da mio papà e passo un po’ di tempo con lui e anche solo stare lì mi tranquillizza e mi rassicura. Una cosa che ci accomuna è la musica; fin da quando ero piccola mio papà mi faceva ascoltare le canzoni che gli piacevano e le metteva in macchina, questa è una cosa che facciamo tutt’ora; infatti mi piace molto viaggiare in macchina con lui perché questi per me sono dei momenti dove riesco a distrarmi e a stare tranquilla, cosa che per una persona ansiosa come me è un po’ difficile” (A. classe seconda).

Gemma n° 2095

“Oggi come gemma, ho deciso di portare il mio braccialetto preferito, un bracciale Pandora che mi è stato regalato in occasione della mia Comunione.
Agli occhi degli altri può sembrare un oggetto banale e puramente estetico, ma per me non è così! Ogni pendente infatti ha un significato ben preciso e rappresenta una persona o un momento particolare del mio percorso.
Da quando mi è stato regalato si è già arricchito di diversi elementi e spero in futuro di riuscire a mettere tanti altri charms quanti saranno i sogni che spero di realizzare.
Per me indossarlo significa un po’ portare con me tutte le cose più care: la famiglia, gli amici, il mio cane, il mare, la pallavolo…

Tra tutti i charms quello a cui tengo di più è indubbiamente quello che mi hanno regalato i miei genitori in occasione dell’esame di terza media. E’ un ciondolo composto da due cerchi uniti con all’interno una piccola targhetta con incisa una frase che mi sta molto a cuore: “always together”, ossia “per sempre insieme”, molto semplice ma dal grande significato.
Mi fa sentire protetta, al sicuro, qualunque strada io sceglierò di intraprendere, soprattutto facendo un indirizzo linguistico, che potrebbe portarmi a viaggiare in paesi lontani. Guardare questo pendente mi rassicura perchè so che qualunque cosa succeda non l’affronterò da sola. Questa sicurezza è la mia gemma più preziosa!” (G. classe prima).

Gemme n° 402

Punte

Ho portato le mie punte di danza; ho praticato tanti sport ma la danza è quello che mi è piaciuto di più e a cui tenevo di più. Mi è dispiaciuto moltissimo non andarci più, anche perché nella scuola che frequentavo avevo trovato una specie di seconda famiglia. Queste sono state le prime e le ultime punte. Ho iniziato tardi a fare classica e il fatto di riuscire a raggiungere comunque un traguardo mi ha dato sicurezza e fiducia in me stessa”. Questa la gemma di E. (classe seconda).
Ho avuto un’unica sequenza davanti aglio occhi mentre E. parlava:

Mica è morto per finta

Su Sette ho trovato la triste storia di Mattia, raccontata da Cesare Fiumi e recuperata dal sito dell’Inail.

lavoro, morti bianche, sicurezza“Ci sono storie già accadute che qualcosa dovrebbero insegnare e che trovarsi di nuovo a raccontare fa più male. Storie di tragiche cadute per le quali una Repubblica “fondata sul lavoro” si dovrebbe vergognare e portare il lutto stretto per il patto disdettato nei confronti di un diritto proclamato. Storie di caduti sul mestiere improvvisato, senza rete, vada come vada – perché di lavoro non ce n’è e quando lo trovi, fosse solo per qualche ora, non puoi lasciartelo scappare. A costo di salire, in scarpe da ginnastica e senza protezione, sul tetto di un capannone da ripulire. Due anni fa, alla vigilia di Natale, toccò a Daniele Floris, sardo dell’Ogliastra. Daniele aveva vent’anni «ed era al suo primo giorno di lavoro» – spiegò chi era stato il suo titolare per un pugno di minuti, altro che ore – quando volò giù dal tetto di un cantiere dove c’erano da installare alcuni pannelli fotovoltaici. L’indomani avrebbe dovuto fare il figurante, vestito da pastore, nel presepio vivente di Villagrande. Lo portarono morente all’ospedale con un polmone perforato e in coma cerebrale: il giorno seguente, più nulla da fare. Quella tettoia non era fatta per reggerne il peso. Si era sbriciolata e quattro operai, tutti senza imbragatura di sicurezza, erano precipitati di sotto. Chi se la cavò con delle fratture, chi finì in prognosi riservata: ma Daniele, lì al cantiere, ci lasciò la vita. Accompagnato dal solito ritornello di belle parole: «Basta, un’altra fine così non si può tollerare». Salvo accatastare le due/tre lapidi giornaliere: tante sono le croci bianche che, in Italia, ci tocca quotidianamente piantare. Ma i117 ottobre scorso succede qualcosa che, tornando con la mente a Daniele Floris, lascia sconfitti e sconsolati. Appena tre giorni prima, domenica 14 ottobre, è stata celebrata in ogni sede istituzionale, compreso il Quirinale, la “Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro” per onorarne la memoria e «richiamare l’attenzione della pubblica opinione su questa drammatica realtà sociale». Ed ecco, mercoledì mattina, un altro 25enne pieno di vita, il futuro davanti, si ritrova anch’egli coniugato al passato remoto. Declinato con un “fu”. Mattia Pascai era di Quartu. Anche lui sardo. E anche lui precipitato dal tetto di un capannone dove era stato ingaggiato per pulire pannelli solari: di nuovo, beffardo contrappasso, le “fonti di energia alternativa” a fare da obitorio a formidabili energie disoccupate e inutilizzabili. A dispetto delle “rinnovabili” che sono chiamate a installare e mantenere. Mattia Pascai è volato giù da dieci meni, quando un pannello che doveva pulire è andato in frantumi. È morto perché doveva lavorare, pena non mangiare e non poter dare da mangiare, ché era sposato e aspettava solo un figlio. Oltre che una chiamata, anche a giornata, ché lui non si faceva pregare. Neanche se si trattava di salire lassù, senza ponteggio, senza casco e senza assicurazione: né quella di un’imbragatura, «né quella di una polizza», secondo quanto scrive l’Osservatorio indipendente dei morti sul lavoro. Guarda caso, un altro caduto “il primo giorno di lavoro”, come s’è affrettato a spiegare il suo datore. Ed è quello che il magistrato ora vorrà capire: se Mattia Pascai era saldato o meno in nero. Sì, perché l’ultimo giorno di vita di un operaio che la perde sul lavoro, corrisponde sempre più spesso al “suo primo giorno” di cantiere: troppe morti bianche da perenni esordienti. Bianche come i contratti mai vidimati, in perenne attesa di una firma rimasta sempre negli intenti. Quello stesso giorno sono morti sul lavoro anche altri cinque operai, tra Catania e Torino, Lodi e Leggiuno e, proprio quel giorno, le morti bianche nel 2012 hanno toccato e superato quota 1000, anche se Mattia Pascai non verrà conteggiato nel dato ufficiale dei decessi in cantiere, visto che non aveva neppure un’assicurazione. Ma mica è morto per finta, anche se di storie come la sua, di solito, non si parla. Piuttosto, è morto per nulla. Lui, che era un tipo fiducioso e si accontentava del lavoro che trovava. Lui, che aveva solo 25 anni e non era certo schizzinoso.”