Camminare sull’abisso, oltre il sepolcro

Antonio De Paoli, Eros e thanatos (qui)

Ho letto, sul nuovo numero di Rocca (n. 7 del 1 aprile 2024) un articolo molto bello e interessante di Selene Zorzi dal titolo La morte come buco nero. Vengono trattati argomenti di teologia e di scienze, di morte, amore e di buchi neri e bianchi. Vengono citati Carlo Rovelli, Shelly Rambo e Hans Urs von Balthasar. Attenzione, però, non ha niente a che vedere con l’ambito delle dimostrazioni scientifiche. “Possiamo usare le parole della scienza in analogia…”: sono esplicite le parole della teologa. E molto affascinanti: “Il filo dell’amore non si spezza al bordo della realtà, anzi accade che mentre procediamo in quel tempo e spazio deformati nel trauma del dolore, ha luogo una trasformazione. Ci accorgiamo che lo stiamo costeggiando quel bordo, poi ci ritroviamo a camminare accanto ad esso, infine ci accorgiamo di aver camminato sull’abisso e di aver ripreso a vivere”. Buona lettura. La fonte è qui.

“La teologia è fede che vuole comprendersi e dirsi con le parole, i concetti e le conoscenze del proprio tempo, per parlare ai contemporanei e per – come si dice nella prima lezione di teologia – rendere ragione della fede (cfr. 1Pt 3,15: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»).
Cosa può dire la fisica quantistica alla teologia? Può forse offrire un linguaggio o delle metafore per poter parlare alla fede? In un entusiasmante testo, il fisico teorico e divulgatore scientifico Carlo Rovelli, nel suo recente libro Buchi bianchi parla dello spazio come granulare, come una rete, dicendo che la struttura profonda della stessa materia dell’universo è fatta di relazione. Non è in fondo ciò che intende dire la Bibbia quando dice che l’essere umano è «ad immagine» di Dio (Gn 1,26) e che siccome il Logos è costitutivamente pros ton theon, rivolto verso il seno del Padre (Gv 1,1;18) l’essere «presso» è il costitutivo creaturale, infatti tutto è fatto «in vista di lui» (Col 1,16).
Scienza e fede sono due discipline autonome ma anche intrecciate nei loro contenuti e nelle loro dinamiche.
Se consideriamo il buco nero come l’orizzonte dell’esistenza oltre il quale nessuno riesce a guardare e dal quale «nessuno è tornato mai a raccontare» (Buchi bianchi p. 47) esso può ben essere una metafora di quello che la teologia cristiana prova a dire sulla morte. Rovelli lavora «sull’ipotesi che i buchi neri si possano trasformare in bianchi» (p.17).
La fisica dell’infinitamente piccolo, la fisica quantistica, ci dice che la tessitura del mondo, la realtà è una rete tessuta all’interno di una relazione; che «la struttura profonda della materia è granulare» (p. 68), dunque non si spezza perché il suo fondamento è la relazione.
Immaginando quindi una massa che cada in un buco nero essa si condenserà sempre. Secondo Rovelli tuttavia questa caduta non sarà infinita. Perché lo spazio che è fatto di questa materia relazionale non si può spezzare.

La relazione come struttura del tutto
Anche la prospettiva cristiana afferma che la struttura profonda del tutto è relazionale; la Scrittura lo dice affermando che siamo fatti «ad immagine di Dio» (Gn 1,26) che questo Dio è relazione in se stesso (Trinità). Quando diciamo che «Dio è amore» (1 Gv 4,16) intendiamo dire questo.
Propongo quindi un’interpretazione della Risurrezione secondo il paradigma della testimonianza: un modello diverso da quello che abbiamo imparato a vedere nelle figurine dei catechismi.
Non si tratta cioè di seguire il modello trionfalistico della risurrezione, che contrappone la vita alla morte, che salta direttamente dalla crocifissione alla risurrezione, dal Venerdì Santo alla Domenica, che vedrebbe un Gesù risorgere in carne e ossa «più bello che pria», con la bandierina in mano, salire folgorante e vittorioso verso il cielo. Questo modello non prende sul serio né il dolore, né la morte, né i nostri traumi.
Ripropongo la lettura dalla teologa femminista Shelly Rambo, in Quel che resta del dolore. Il trauma e la testimonianza dello Spirito (Ed. San Paolo, 2013).
Il fisico ipotizza che la materia assorbita dal buco nero, cadendo dentro questo campo, dove spazio e tempo sono deformati, entrerebbe in una sorta di imbuto che tuttavia non è infinito: in fondo c’è ancora qualcosa e questo qualcosa è la rete granulare dello spazio che non si spezza e che forse potrebbe trasformarsi in un buco bianco. Secondo la fisica quantistica la materia presenta una tessitura profonda, come una rete granulosa che non può bucarsi (p. 68)?
La Tradizione cristiana parla della Discesa agli inferi di Cristo (1Pt 3,19), e l’arte ha dipinto questa discesa al fondo della morte dove Cristo ha ritrovato Adamo che era caduto nel vuoto e con esso ha liberato tutti, proprio tutti (Adam è l’umanità), dalla morsa della morte, risalendo alla vita. La liturgia parla di un amore divino che non ha potuto abbandonare Cristo nel sonno della morte (cfr. Sal 15).

Il vuoto del Sabato santo
Il teologo H. U. v. Balthasar parlava del Subabbraccio dell’amore di Dio nel vuoto del Sabato santo. Tra il Venerdì di passione e la domenica della vita c’è, infatti, un interim del Sabato santo, un luogo strano dove c’è ancora la morte, non c’è la vita risorta ma resta ancora l’amore.
Per il credente è lo Spirito, il tra dell’amore divino, che delicatamente vibra sul caos (come all’inizio della creazione, Gn 1,1), che si esprime nel linguaggio balbettato (i gemiti inesprimibili dello Spirito, Rm 8,26) perché quando la vita va a finire in un buco nero, la vita di chi rimane sul bordo è una vita costantemente segnata dall’esperienza della morte. Questa continua sofferenza di una vita che continua dopo una morte, è l’enigma del trauma (cfr. S. Rambo).
Nel trauma la morte persiste nella vita; vita e morte non hanno più confini precisi così come spazio e tempo sono deformati. Il tempo del lutto è un tempo che si riferisce a chi è fuori. Dentro non c’è tempo lineare.
Chi ama oscilla continuamente tra le fratture della vita, resistendo agli strappi. Così al fondo della morte, resta l’eros, il legame dell’amore, la relazione alla persona amata.
La struttura profonda dell’esistenza è la relazione.
Ecco perché abbiamo bisogno della testimonianza di Maria Maddalena, ecco perché lei è la prima. Maria resta al bordo del sepolcro dimora nell’amore, senza comprendere, né vedere bene (Gv 20,11), ma rivolgendosi a quell’intimità della relazione con Gesù che, sebbene sia stato inghiottito dal buco nero della morte, non sarà assorbita all’infinito nel nulla. Quella relazione resta (Gv 20,16). La morte non può assorbire l’amore (non più come diceva il Primo Testamento: «forte come la morte è l’amore», Ct 2,8): così anche al bordo della vita può continuare la relazione con Colui che è stato per lei il senso della sua vita. Il filo dell’amore non si spezza al bordo della realtà, anzi accade che mentre procediamo in quel tempo e spazio deformati nel trauma del dolore, ha luogo una trasformazione.
Ci accorgiamo che lo stiamo costeggiando quel bordo, poi ci ritroviamo a camminare accanto ad esso, infine ci accorgiamo di aver camminato sull’abisso e di aver ripreso a vivere. Perché lo Spirito cova sull’abisso (Gn 1,2). Certo è un amore debole, un filo, come il «mormorio di un soffio leggero» (1Re 19,12): in fondo abbiamo semplicemente continuato a respirare nonostante il dolore.
La Ruah mantiene il ponte dell’amore nel suo punto più fragile e ci rende capaci di rimanere (menein Gv 15), di persistere; non di trionfare o di conquistare. Tra morte e vita persiste lo Spirito Paracleto, promesso da Gesù come continua presenza di Dio con i discepoli, nell’assenza fisica di Gesù. Essi stessi ora dovranno essere il luogo della nuova forma di vita in cui Dio verrà ad abitare: rimanete nel mio amore (Gv 15,9); «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).
Dice Rambo che tutta la forza dello Spirito sta nella capacità di farci immaginare una vita quando non la si riesce più a concepire. Una vita riconcepita attraverso, dentro la tempesta stessa.
Tornando al nostro fisico teorico: «la struttura quantistica dello spazio del tempo impedisce alla materia di schiacciarsi ulteriormente. È diventata una stella di Planck, che rimbalza e inizia ad esplodere» (p. 126).

Il buco bianco della Risurrezione
Il buco bianco della Risurrezione «potrebbe essere – cito il fisico – come un pezzettino di capello che fluttua» (p. 129) e siccome «non interagisce con la luce, non la si vede». Eppure ciò che non vediamo potrebbe essere costituito da «miliardi e miliardi di questi delicati piccoli buchi bianchi che ribaltano il tempo dei buchi neri ma non troppo e fluttuano lievi nell’universo come libellule» (p. 130).
La struttura quantistica dello spazio e del tempo impedisce lo schiacciarsi ulteriormente dell’amore nel nulla da cui Dio mantiene permanentemente in essere l’universo.
La trasformazione da morte a vita non può essere semplicemente vista. Nessuno vide l’ora della tua Risurrezione.
Forse la nostra vita è piena di tanti fili di Resurrezione che non vediamo. Il credente sa che la struttura stessa della vita è relazione: è relazione il Dio trinitario, è relazione la creazione, è relazione quel restare amoroso al bordo della morte. Questa relazione amorosa che resta come un sottile alito di vita è il Tra del Padre e del Figlio, è l’alito dello Spirito, che in ebraico è femminile. È il debole amore che resta nei traumi di quando perdiamo qualcuno che amiamo e che è finito oltre l’orizzonte.
Questo «restare attaccati all’inferno» (come diceva Serafino di Sarov) può diventare una spinta che spinge verso la vita. Insomma, che l’universo sia prodotto da un Big Bang o da un rimbalzo cosmico come un Big Bounce poco importa: possiamo usare le parole della scienza in analogia per dire come in Cristo, l’uomo che ha amato fino in fondo, la creatura che ha accolto totalmente le potenzialità offerte da Dio realizzandole fin nelle estreme possibilità umane e facendo della sua stessa esistenza l’apertura totale a questa relazione e a questo amore, entrando nel buco nero della morte ha ribaltato il tempo. Ecco perché diciamo che «Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre» (Eb 13,8). Ecco perché il credente non torna indietro a celebrare un sepolcro ma è sospinto verso la vita («va’ dai miei fratelli», Gv 20,17).”

Le 12 tesi di Spong. 2

Pubblico la seconda tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teisti, non ha senso cercare di intendere Gesù come “l’incarnazione di una divinità teista”. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, in bancarotta.
Il cristianesimo è nato da un’esperienza di Dio associata alla vita di un ebreo del I secolo chiamato Gesù di Nazareth. Quali siano state le dimensioni precise di quella esperienza è difficile da dire. I vangeli sono stati scritti tra 40 e 70 anni dopo la condanna a morte di quest’uomo, cosicché non sappiamo come articolarono realmente tale esperienza quelli che furono i suoi primi discepoli nella prima generazione della storia cristiana. La maggior parte di questi era morta prima che si scrivessero i vangeli. Fin dove possiamo sapere, i primi discepoli erano convinti che tutto quello che avevano sempre pensato su Dio lo avevano sentito presente nella vita di Gesù. Questo è stato il nucleo del messaggio ed è così che è iniziato il cristianesimo. Pare che al principio i seguaci di Gesù si limitassero a proclamare il nucleo della propria esperienza: “Dio era in Cristo”. Questo è tutto ciò che l’apostolo Paolo dice all’inizio della sua vita cristiana (2Cor 5,19). (…). Dopo, tuttavia, intorno all’anno 56 o 58, quando scriveva ai romani (…), Paolo suggerì che nella resurrezione Dio avesse elevato l’umano Gesù fino a renderlo Dio (Rm 1,1-4). (…). Con il tempo, questa sarebbe diventata un’eresia, l’adozionismo, ma fin qui era arrivato il pensiero sulla natura divina di Gesù a metà e alla fine degli anni cinquanta del I secolo. Il problema era quello già indicato. La mente umana poteva concepire Dio solo in termini teisti. (…). Se questa era la definizione di Dio, allora la questione era: come era entrato questo Dio esterno nella vita di Gesù perché la gente ne sperimentasse in essa la presenza? Questa era la domanda a cui sentivano di dover rispondere e le risposte, nella misura in cui venivano sviluppate, cominciarono, nel corso degli anni, a configurare il cristianesimo in modi nuovi.
Quando il Vangelo di Marco, il primo, venne scritto, intorno all’anno 72, venne introdotta nelle menti dei Battesimo-di-Gesuseguaci di Gesù una nuova spiegazione del legame tra lui e Dio. Nel primo capitolo, Gesù, adulto e pienamente umano, è condotto al fiume Giordano perché lo battezzi un uomo chiamato Giovanni Battista. Nel suo racconto del battesimo, Marco dice che i cieli – il regno di Dio – si aprirono. Si concepiva l’universo come una superficie coperta da una cupola gigantesca. Il cielo era il tetto che separava il regno di Dio da quello degli umani (…). Così, un buco apparve nel tetto e il Dio che viveva lassù semplicemente mandò lo Spirito Santo sull’umano Gesù (…), uno spirito che, in ultima istanza, ridefiniva la sua umanità. Marco dice che, in quel momento, la voce di Dio proclamò dal cielo che Gesù era suo figlio, il figlio in cui si era compiaciuto. (…). Si cominciò a pensare a lui come a un essere umano pieno di Dio. A questo stadio si trovava la comprensione cristiana di Gesù negli anni settanta del I secolo.
Questo processo è andato avanti nella nona e nella decima decade, quando sono stati scritti i vangeli che chiamiamo di Matteo (intorno all’anno 85) e di Luca (89-93). In questi due vangeli, si pensava a Gesù non solo come a un essere umano permeato da Dio, ma come a una presenza di Dio nella sua forma umana.
Il momento in cui si dice che il Dio teista si è unito a Gesù si è andato spostando indietro: dalla resurrezione, che è quando Dio adotta Gesù secondo Paolo, al battesimo, che è quando Dio entra in Gesù secondo Marco, fino ad arrivare al concepimento (…). È stato allora che la tradizione della nascita verginale si è incorporata al racconto cristiano. (…). Nel pensiero cristiano, si è passati a pensare allo Spirito Santo come al padre biologico di Gesù. La sua umanità era ormai permanentemente compromessa. (…). Per quanto importante sia tale cambiamento, non sarebbe stato tuttavia il punto d’arrivo di questo sviluppo cristologico. Quando si completò il quarto Vangelo, verso la fine degli anni novanta dell’era cristiana (anni 95-100), si disse che Gesù era già parte di Dio; era il Verbo di Dio che era con Dio dal principio della creazione. (…). Giovanni stava affermando che il Dio teista che è nell’alto dei cieli aveva assunto forma umana in Gesù e che in lui Dio abitava tra noi. (…). Si erano così poste le basi tanto della dottrina dell’Incarnazione quanto di quella della Santissima Trinità. (…).
Tuttavia, se l’idea di un Dio nell’alto dei cieli è in bancarotta, lo è ugualmente, di conseguenza, l’idea che questo Dio teista si sia incarnato nel Gesù umano. (…). Ebbene, ciò significa che l’esperienza che tale spiegazione intendeva esprimere non è reale né valida? Non credo. Ma significa, questo sì, che bisogna cercare nuove parole che la spieghino. Le antiche non funzionano più. (…). Allora, (…) cosa c’è stato intorno a Gesù da far sì che la gente credesse di aver incontrato Dio in lui? Questo è quanto la ricerca della verità ci chiama oggi a scoprire. (…). L’esperienza di trovare Dio in Gesù deve essere stato qualcosa di originale e trasformatore. (…). Forse le persone hanno visto e sperimentato nella sua vita “la Fonte della Vita”, nel suo amore “la Fonte dell’Amore” e nel suo essere “il Fondamento dell’Essere”. Forse hanno sentito in lui e da lui la chiamata a vivere in pienezza, ad amare generosamente e ad essere tutto ciò che ciascuno poteva essere. Forse con questa esperienza sono arrivati a capire che si erano incontrati con la santità nelle dimensioni dell’umano. (…). Forse l’esperienza è reale e, una volta respinte le spiegazioni antiquate e irrilevanti, la realtà di tale esperienza può allora proporsi ancora una volta. Che realtà è stata quella che ha portato i seguaci di Gesù a sviluppare dottrine come quelle dell’Incarnazione e della Trinità? Come descrivere oggi tale realtà? Possiamo ancora pensare a Gesù, oggi, come essere divino senza intenderlo come incarnazione di una divinità soprannaturale che vive al di là del cielo? Quando è stata formulata la dottrina dell’Incarnazione, la gente pensava in termini dualisti. Il divino e l’umano si opponevano. Ma supponiamo che il divino e l’umano non siano due regni separati, ma una sola realtà continua. Forse il cammino verso la pienezza e anche verso il divino consiste nel farsi profondamente e pienamente umani. Forse l’impulso biologico verso la sopravvivenza non è il valore supremo per gli umani; forse questo valore supremo consiste piuttosto nel trascendere la necessità di sopravvivere e nell’essere capaci di donare se stessi nell’amore per gli altri.
Forse quando oltrepasseremo i limiti della nostra sicurezza tribale, di genere, di orientamento sessuale, di razza, di credo o di status, sperimenteremo un’umanità non legata all’istinto di sopravvivenza. Forse si incontra Dio nella libertà di permettere – e, in realtà, di accettare – la responsabilità di aiutare gli altri a essere quello che ciascuno è stato creato per essere, senza imporre loro le nostre idee. (…).
Interpretata letteralmente, l’Incarnazione non ha senso in un mondo il cui pensiero non è più dualista. Ma è infinitamente significativa quando la si vede non come una spiegazione ma come un’esperienza. Possiamo recuperare questo concetto cristiano per il XXI secolo? Credo di sì. Se il cristianesimo deve sopravvivere, credo che dobbiamo farlo. E il cristianesimo potrebbe risultare molto più profondo di quanto avevamo immaginato.”

Pentecoste, tra Balducci e Michielin

Sta calando la notte su questa domenica di Pentecoste. Venerdì sera non ero in Duomo a Udine, non sono riuscito ad andarci. Mi sono messo a leggere, allora, una vecchia riflessione di padre Ernesto Balducci. La lettura è stata lenta, interrotta da numerose pause di riflessione per far risuonare in me quelle parole e meditare. Ma prima di riportarle, racconto un episodio di tre anni fa; durante una lezioni sul terrorismo e i fondamentalismi religiosi, una studentessa mi ha chiesto: “Prof! Ma lo Spirito Santo, cos’è?”. Ecco, in questo periodo c’è una canzone che non parla direttamente dello Spirito, eppure mi pare così adatta… Si tratta de “L’amore esiste” di Francesca Michielin:
Può nascere dovunque, anche dove non ti aspetti, dove non l’avresti detto, dove non lo cercheresti. Può crescere dal nulla e sbocciare in un secondo, può bastare un solo sguardo per capirti fino in fondo, può invadere i pensieri, andare dritto al cuore, sederti sulle scale, lasciarti senza parole. L’amore ha mille steli, l’amore è un solo fiore.
Può crescere da solo, esaurire come niente perché nulla lo trattiene o lo lega a te per sempre. Può crescere su terre dove non arriva il sole, apre il pugno di una mano, cambia il senso alle parole.
L’amore non ha un senso, l’amore non ha un nome, l’amore bagna gli occhi, l’amore scalda il cuore, l’amore batte i denti, l’amore non ha ragione.
E’ grande da sembrarti indefinito, può lasciarti senza fiato. Il suo abbraccio ti allontanerà per sempre dal passato. L’amore mio sei tu, l’amore mio sei…
Può renderti migliore e cambiarti lentamente, ti dà tutto ciò che vuole e in cambio ti chiede niente, può nascere da un gesto, da un accenno di un sorriso, da un saluto, da uno scambio, da un percorso condiviso…”

Così invece “cantava” Ernesto Balducci:
“…Lo Spirito contesta tutte le nostre pretese di unire il mondo con qualcosa che non abbia le misure stesse della creazione. Quindi lo Spirito è innanzi tutto contestazione, è rifiuto di dare valore assoluto al relativo. Se io penso alla mia storia! Se penso alla fatica immane che si è dovuta vivere per abbattere ciò che credevamo assoluto…! A questa costituzione degli assoluti che non sono tali tutto ci ha sospinto: e la cultura profana e l’eredità laica della cultura occidentale e le teologie cattoliche, tutto ci ha portato verso la deformazione del relativo in assoluto. E quante presunzioni, quanti razzismi impliciti, quanti orgogli camuffati di pietà abbiamo accumulato nel cuore! A livello della società quante barriere abbiamo creato! E a livello dei popoli quante discriminazioni ci sono ancora, forse più forti di ieri, perché hanno mutato nome, ma sono diventate più robuste per i meccanismi economici che le contengono come un cemento armato. Lo Spirito Santo viene come un uragano e abbatte tutte le barriere. Lo Spirito fece cadere il Tempio, fece cadere la legge giudaica, e aprì la via della salvezza a tutti i Gentili. Ma noi abbiamo eretto nuovi templi, nuove leggi, nuove sinagoghe, e lo Spirito deve soffiare di nuovo per ridarci l’ansia dell’universalità effettiva, non quella astratta dei filosofi illuministi, ma quella concreta che passa attraverso la partecipazione sofferta, generosa alla condizione umana. Altrimenti anche l’universalità del Vangelo diventa per noi un pretesto presuntuoso. Essa non si dichiara, si prova. Essa non si definisce, si sperimenta. Al livello dell’esperienza dobbiamo dire: no, il nostro Vangelo non è universale. Esso non conosce la «scienza delle voci», lo Spirito che fa di una sola voce molte voci, che adempie l’attesa latente in tutti i popoli, anche dei più diversi, è uno Spirito che noi imprigioniamo continuamente. Esso è l’Antipotere, passa attraverso la croce del Signore. Lo Spirito Santo è lo Spirito di Gesù il crocifisso. Perciò non possiamo appellarci allo Spirito Santo come ad un mistero che serve a crearci tralicci provvidenzialistici quando incontriamo dei burroni e non sappiamo come sorpassarli. Lo Spirito Santo non è il tappabuchi delle nostre miserie, non è il Deus ex machina delle nostre impotenze: è la contestazione in radice della nostra libidine di potere, anche spirituale. Ci riconsegna totalmente al principio della creazione, ci riporta alle radici dell’essere e ci dà la capacità di ascoltare ciò che di nuovo ferve nel cuore dell’uomo. Non dobbiamo legare lo Spirito Santo ad un partito politico, a una cultura, a una egemonia, dobbiamo, anzi, costantemente sapere che lo Spirito passa dall’altra parte, fuori delle mura delle nostre città, non entra nelle nostre chiese, parla con la bocca dei lontani, solleva profeti che non hanno il colore del nostro volto né le nostre tradizioni culturali, che non hanno nemmeno le nostre credenziali, che anzi puntano il dito su di noi eredi dei profeti divenuti ormai archivisti dello Spirito Santo. Questa apertura all’impossibilità è la disposizione evangelica vista dalla Pentecoste. Lo Spirito Santo che, sì, è docilità e contestazione delle false universalità, continua resurrezione dell’afflato dell’universalità, del bisogno di agire per l’uomo, per l’uomo nella sua universalità concreta, storica, determinata e non per l’uomo in genere. Quando facciamo le nostre politiche non pensiamo né agli handicappati, né ai malati, né agli anziani. Pensiamo sempre agli uomini validi, quando facciamo i nostri progetti. Oppure quando pensiamo al futuro del mondo ci pensiamo a partire dai livelli di consumo che abbiamo realizzato senza ricordarci che essi sono cinquanta volte di più di quelli di cui godono o soffrono i meno privilegiati del pianeta, da cui abbiamo preso materie prime, ricchezze per farne il piedistallo del nostro benessere. Sentire costantemente questa provocazioni vuol dire, forse, non avere il piglio del guidatore di popoli, ma vuol dire quanto meno acquistare sempre più la faccia dell’uomo qualsiasi, dell’uomo semplice che, sempre più deluso dalle nostre promesse, rischia di gravare la nostra storia di un peso di disperazione o di diffidenza che potrebbe essere davvero la causa più efficace della nostra rovina futura. La minaccia del futuro non è tanto nelle rivoluzioni quanto nell’inerzia dello spirito, in una specie di paralisi collettiva delle coscienze, di sfiducia totale in qualunque parola e in qualunque messaggio. Sono andato per sentieri che non aveva programmato, obbedendo al mio sentimento interiore, ma credo di non essere stato lontano dall’intuizione di partenza, che cioè i misteri cristiani o noi li percuotiamo perché facciano discendere il loro messaggio nei solchi delle nostre esperienze storiche, oppure anch’essi diventano lontani da noi, occasioni di cerimonie che ormai hanno perso di senso perfino nella coscienza di noi credenti”.
Ernesto Balducci – “Il mandorlo e il fuoco” vol. 2 – anno B