Rewind: sabato

Ecco il sabato
Sabato Santo, il giorno dell’attesa
Il Sabato Santo è il giorno più femminile dell’anno, perché è il giorno dell’attesa. Solo la donna sa cosa vuol dire attendere, perché porta in grembo la vita per nove mesi e la si dice per questo in dolce attesa.

Annibale_Carracci_-_Holy_Women_at_Christ'_s_Tomb_-_WGA4454
Annibale Carracci, 1600 ca., olio su tela, 121×146 cm, Ermitage

Attesa e attenzione hanno la stessa radice, per questo le donne sono attente ai dettagli sino a rischiare di perdersi in essi, perché ogni talento ha la sua ombra. Solo la donna sa cosa vuol dire tessere la vita, prendersene cura e donarla al mondo. Solo la donna conosce questo accadere in lei e ne stupisce nel corpo e nell’anima. Il Sabato Santo è infatti il giorno delle donne. Alle donne è affidato il compito di prendersi cura, cioè di ‘attendere’ al corpo di Cristo, prima che inizi il sabato ebraico: con i profumi e le essenze ne preparano la sepoltura provvisoria, in tutta fretta, in attesa di quella definitiva dopo l’obbligatorio riposo sabbatico. In qualche modo anticipano, inconsapevolmente, la risurrezione con quel gesto umanissimo della mirra e dell’aloe, che avevano funzione non solo di profumare ma di rallentare la corruzione del corpo. È proprio della donna dare la vita, è proprio della donna profumare e preservare dalla corruzione, è proprio della donna prendersi cura del corpo. Ed è a una donna che viene dato il lieto annuncio della risurrezione, della vita preservata dalla morte che si scopre sconfitta, quando credeva ormai di aver vinto la partita su un cadavere, che è il Corpo più vivo della storia umana. Le parole di Luca, apparentemente soltanto descrittive, svelano il motivo per cui alle donne per prime è dato l’annunzio, loro così attente a quel corpo perché in attesa di quel corpo: «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato».
Il silenzio del sabato per gli uomini è sconfitta e disfatta. Tutto è finito. Per gli uomini che cercano sempre soluzioni efficaci ai problemi, la morte non ha soluzione: Cristo è stato un’illusione, non è la soluzione al problema, che differenza vuoi che facciano gli aromi e gli oli profumati (solo Nicodemo fa eccezione, proprio quello a cui nottetempo Gesù aveva spiegato che bisogna rinascere dall’alto). Per le donne c’è qualcosa di diverso, intuiscono che Cristo è come loro, che danno ai loro figli il loro sangue e il loro corpo, perché i figli abbiano la vita. Il punto per loro non è trovare la soluzione al problema, ma accompagnare chi ha il problema, non lasciarlo solo. Il chicco di grano muore a sé, come chi è in dolce attesa, per dare frutto: la donna questo lo sa nel corpo e quindi anche nell’anima, il suo dischiudersi è dolore che dà la vita. L’uomo invece vede la morte con freddo realismo: senza soluzione, e basta. Altro che risurrezione. Anche nella nostra vita molte cose devono morire (e noi moriremo), perché appartengono al mondo vecchio, mortalmente ferito dal peccato.
Ma su questo se ne innesta uno nuovo, inaugurato da Cristo, che fa risorgere la vita e la restituisce intatta, prendendosene cura come fa una donna incinta: il realismo del cristianesimo non ha nulla a che fare con le favole. Si muore realmente e con tutte le sofferenze del caso, ma si risorge altrettanto realmente, per intervento del Padre a cui la vita è affidata. Questa buona notizia, l’unica buona notizia nel naufragare continuo delle cose umane, è data a una donna, a Maria di Magdala, perché sono le donne che sanno dare la vita e sono loro che devono trasmettere agli uomini il messaggio che la vita è ricominciata. Sono loro ad attendere preparando aromi e oli, non sono in fuga, c’è ancora qualcosa da fare per il corpo di Cristo: preparano la loro umanissima ricetta di risurrezione.
Tutto questo avviene nel giardino del sepolcro, così come nel giardino la donna aveva mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, decidendo che poteva essere lei a dare la vita in proprio, senza il consenso di Dio, e quindi avrebbe potuto anche non attendere la vita, non attendere alla vita. Nello stesso giardino tutto viene riparato: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio». Quella donna si era alzata prima dell’alba, probabilmente dopo ore insonni, ed era andata di fretta al sepolcro. Ecco perché il sabato è donna, perché la donna ha atteso trepidante tutto il sabato e quando può scatta in avanti, corre in fretta, come una molla compressa, per curare la vita, anche quella più ferita, si alza quando è ancora buio, per nutrire la vita, come le madri che allattano nel cuore della notte.
Non si cura del fatto che il sepolcro è chiuso da una pietra che non potrà mai spostare, a lei quello che interessa è stare il più vicino possibile al suo amore, essere lì presente, fisicamente. Proprio a lei, innamorata folle, allora viene concesso il privilegio di essere chiamata per nome («Maria!») dal risorto, e così riconoscerlo. Una nuova vita viene attesa dagli uomini, scegliendo il nome che ne inaugurerà l’inedito essere al mondo.
La nuova vita di Cristo risorto si mostra pronunciando il nome di Maria come nessuno lo ha mai pronunciato, con un tono tale che sentiamo risuonare tutta la meraviglia del nostro essere, che non solo è amato così come è, ma è voluto dall’eternità e per l’eternità proprio da chi non può morire più, perché è risorto una volta per tutte. Come quando lo sposo dice alla sposa nel Cantico dei Cantici: «Sei tutta bella», e quel ‘tutta’ non indica solo la totalità del corpo ma la totalità del tempo, bella in ogni tempo, passato presente e futuro. Lei che era andata a prestar cura a un corpo senza vita si ritrova a essere chiamata per nome, per prima, dalla Vita stessa, che non può più morire. E la sua vita rifiorisce, dall’alto. Lei ora sa che non può più appassire, grazie a quella Vita che pronuncia il suo nome come nessun amore umano potrà mai fare.
In quel giardino la donna che era in attesa, era in realtà la donna attesa. Lei che voleva in qualche modo ridare vita a quel corpo con i suoi profumi, rinasce dall’alto, a partire dal suo nome. Lei per prima viene a sapere la buona notizia, sin dentro al suo nome, perché piena di fede e di cure, che poi è lo stesso. Lei la prima a dare la notizia, la buona notizia, perché lei è la prima, vigile, scattante, ad aspettarla quella notizia per un intero trepidante malinconico sabato d’attesa.”

Le 12 tesi di Spong. 5

Pubblico la quinta tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

miracoloLe storie dei miracoli del Nuovo Testamento non possono più essere interpretate, nel nostro mondo post-newtoniano, come avvenimenti soprannaturali provocati da una divinità incarnata. Nella Bibbia, i miracoli non sono esclusivi di Gesù. (…). Credo che si possa ora dimostrare che quasi tutti i miracoli attribuiti a Gesù possono essere spiegati come versioni estese di storie di Mosè, di Elia e di Eliseo, o come applicazioni alla vita di Gesù, in senso messianico, dei segnali del regno di Dio in Isaia. (…). Cosicché i miracoli sarebbero segnali che interpretano Gesù, non avvenimenti soprannaturali che infrangono le leggi della natura. Conviene prendere nota che Paolo sembra non aver saputo assolutamente nulla di miracoli associati al ricordo di Gesù. (…). I miracoli associati a Gesù vengono introdotti nella tradizione cristiana con Marco, agli inizi dell’ottava decade del I secolo. (…). I testi dei racconti di miracoli nei vangeli, che costituiscono la base su cui parlare del potere soprannaturale di Gesù, sono pieni di simboli che servono a interpretare. (…). Se solo aprissimo gli occhi per vedere come i racconti di miracoli del Nuovo Testamento non debbano essere letti letteralmente come avvenimenti soprannaturali, ci avvicineremmo molto di più a ciò che gli evangelisti avevano in mente quando cercavano di usare il testo di Isaia 35 in maniera che trovasse compimento nei vangeli. (…).”

Le 12 tesi di Spong. 2

Pubblico la seconda tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teisti, non ha senso cercare di intendere Gesù come “l’incarnazione di una divinità teista”. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, in bancarotta.
Il cristianesimo è nato da un’esperienza di Dio associata alla vita di un ebreo del I secolo chiamato Gesù di Nazareth. Quali siano state le dimensioni precise di quella esperienza è difficile da dire. I vangeli sono stati scritti tra 40 e 70 anni dopo la condanna a morte di quest’uomo, cosicché non sappiamo come articolarono realmente tale esperienza quelli che furono i suoi primi discepoli nella prima generazione della storia cristiana. La maggior parte di questi era morta prima che si scrivessero i vangeli. Fin dove possiamo sapere, i primi discepoli erano convinti che tutto quello che avevano sempre pensato su Dio lo avevano sentito presente nella vita di Gesù. Questo è stato il nucleo del messaggio ed è così che è iniziato il cristianesimo. Pare che al principio i seguaci di Gesù si limitassero a proclamare il nucleo della propria esperienza: “Dio era in Cristo”. Questo è tutto ciò che l’apostolo Paolo dice all’inizio della sua vita cristiana (2Cor 5,19). (…). Dopo, tuttavia, intorno all’anno 56 o 58, quando scriveva ai romani (…), Paolo suggerì che nella resurrezione Dio avesse elevato l’umano Gesù fino a renderlo Dio (Rm 1,1-4). (…). Con il tempo, questa sarebbe diventata un’eresia, l’adozionismo, ma fin qui era arrivato il pensiero sulla natura divina di Gesù a metà e alla fine degli anni cinquanta del I secolo. Il problema era quello già indicato. La mente umana poteva concepire Dio solo in termini teisti. (…). Se questa era la definizione di Dio, allora la questione era: come era entrato questo Dio esterno nella vita di Gesù perché la gente ne sperimentasse in essa la presenza? Questa era la domanda a cui sentivano di dover rispondere e le risposte, nella misura in cui venivano sviluppate, cominciarono, nel corso degli anni, a configurare il cristianesimo in modi nuovi.
Quando il Vangelo di Marco, il primo, venne scritto, intorno all’anno 72, venne introdotta nelle menti dei Battesimo-di-Gesuseguaci di Gesù una nuova spiegazione del legame tra lui e Dio. Nel primo capitolo, Gesù, adulto e pienamente umano, è condotto al fiume Giordano perché lo battezzi un uomo chiamato Giovanni Battista. Nel suo racconto del battesimo, Marco dice che i cieli – il regno di Dio – si aprirono. Si concepiva l’universo come una superficie coperta da una cupola gigantesca. Il cielo era il tetto che separava il regno di Dio da quello degli umani (…). Così, un buco apparve nel tetto e il Dio che viveva lassù semplicemente mandò lo Spirito Santo sull’umano Gesù (…), uno spirito che, in ultima istanza, ridefiniva la sua umanità. Marco dice che, in quel momento, la voce di Dio proclamò dal cielo che Gesù era suo figlio, il figlio in cui si era compiaciuto. (…). Si cominciò a pensare a lui come a un essere umano pieno di Dio. A questo stadio si trovava la comprensione cristiana di Gesù negli anni settanta del I secolo.
Questo processo è andato avanti nella nona e nella decima decade, quando sono stati scritti i vangeli che chiamiamo di Matteo (intorno all’anno 85) e di Luca (89-93). In questi due vangeli, si pensava a Gesù non solo come a un essere umano permeato da Dio, ma come a una presenza di Dio nella sua forma umana.
Il momento in cui si dice che il Dio teista si è unito a Gesù si è andato spostando indietro: dalla resurrezione, che è quando Dio adotta Gesù secondo Paolo, al battesimo, che è quando Dio entra in Gesù secondo Marco, fino ad arrivare al concepimento (…). È stato allora che la tradizione della nascita verginale si è incorporata al racconto cristiano. (…). Nel pensiero cristiano, si è passati a pensare allo Spirito Santo come al padre biologico di Gesù. La sua umanità era ormai permanentemente compromessa. (…). Per quanto importante sia tale cambiamento, non sarebbe stato tuttavia il punto d’arrivo di questo sviluppo cristologico. Quando si completò il quarto Vangelo, verso la fine degli anni novanta dell’era cristiana (anni 95-100), si disse che Gesù era già parte di Dio; era il Verbo di Dio che era con Dio dal principio della creazione. (…). Giovanni stava affermando che il Dio teista che è nell’alto dei cieli aveva assunto forma umana in Gesù e che in lui Dio abitava tra noi. (…). Si erano così poste le basi tanto della dottrina dell’Incarnazione quanto di quella della Santissima Trinità. (…).
Tuttavia, se l’idea di un Dio nell’alto dei cieli è in bancarotta, lo è ugualmente, di conseguenza, l’idea che questo Dio teista si sia incarnato nel Gesù umano. (…). Ebbene, ciò significa che l’esperienza che tale spiegazione intendeva esprimere non è reale né valida? Non credo. Ma significa, questo sì, che bisogna cercare nuove parole che la spieghino. Le antiche non funzionano più. (…). Allora, (…) cosa c’è stato intorno a Gesù da far sì che la gente credesse di aver incontrato Dio in lui? Questo è quanto la ricerca della verità ci chiama oggi a scoprire. (…). L’esperienza di trovare Dio in Gesù deve essere stato qualcosa di originale e trasformatore. (…). Forse le persone hanno visto e sperimentato nella sua vita “la Fonte della Vita”, nel suo amore “la Fonte dell’Amore” e nel suo essere “il Fondamento dell’Essere”. Forse hanno sentito in lui e da lui la chiamata a vivere in pienezza, ad amare generosamente e ad essere tutto ciò che ciascuno poteva essere. Forse con questa esperienza sono arrivati a capire che si erano incontrati con la santità nelle dimensioni dell’umano. (…). Forse l’esperienza è reale e, una volta respinte le spiegazioni antiquate e irrilevanti, la realtà di tale esperienza può allora proporsi ancora una volta. Che realtà è stata quella che ha portato i seguaci di Gesù a sviluppare dottrine come quelle dell’Incarnazione e della Trinità? Come descrivere oggi tale realtà? Possiamo ancora pensare a Gesù, oggi, come essere divino senza intenderlo come incarnazione di una divinità soprannaturale che vive al di là del cielo? Quando è stata formulata la dottrina dell’Incarnazione, la gente pensava in termini dualisti. Il divino e l’umano si opponevano. Ma supponiamo che il divino e l’umano non siano due regni separati, ma una sola realtà continua. Forse il cammino verso la pienezza e anche verso il divino consiste nel farsi profondamente e pienamente umani. Forse l’impulso biologico verso la sopravvivenza non è il valore supremo per gli umani; forse questo valore supremo consiste piuttosto nel trascendere la necessità di sopravvivere e nell’essere capaci di donare se stessi nell’amore per gli altri.
Forse quando oltrepasseremo i limiti della nostra sicurezza tribale, di genere, di orientamento sessuale, di razza, di credo o di status, sperimenteremo un’umanità non legata all’istinto di sopravvivenza. Forse si incontra Dio nella libertà di permettere – e, in realtà, di accettare – la responsabilità di aiutare gli altri a essere quello che ciascuno è stato creato per essere, senza imporre loro le nostre idee. (…).
Interpretata letteralmente, l’Incarnazione non ha senso in un mondo il cui pensiero non è più dualista. Ma è infinitamente significativa quando la si vede non come una spiegazione ma come un’esperienza. Possiamo recuperare questo concetto cristiano per il XXI secolo? Credo di sì. Se il cristianesimo deve sopravvivere, credo che dobbiamo farlo. E il cristianesimo potrebbe risultare molto più profondo di quanto avevamo immaginato.”

Quando Gesù tace

Bruno Maggioni è uno dei maggiori biblisti italiani. Ieri Francis, un’amica di fb, ha segnalato questo articolo di Avvenire: è piuttosto lungo ma ricchissimo di spunti di riflessione e approfondimento. L’argomento centrale è il rapporto tra Gesù e il silenzio. Mi sono permesso di evidenziare con il colore rosso due passi, il primo utile per le quinte, il secondo (brevissimo) per le seconde.
Gauguin. Getsemani“Quando si accenna al silenzio di Gesù, subito il pensiero corre al silenzio della passione. E difatti è qui che il silenzio ha raggiunto il punto più alto della sua forza espressiva. A volte il silenzio dice più della parola.
Ma i Vangeli non parlano soltanto del silenzio della passione. C’è anche il silenzio dell’uomo che resta ammutolito di fronte a Gesù, o perché la sua parola lo riempie di meraviglia, o perché la sua verità lo infastidisce. E c’è il silenzio di Gesù di fronte alle domande pretestuose, o inutili, di chi finge di interrogarlo. E c’è il silenzio che Gesù impone a chi vorrebbe parlare di Lui prima di averne intravisto la novità, che è la Croce.
Alla domanda posta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Mc. 2,1-6), se fosse meglio di sabato, salvare una vita o perderla, i farisei, che lo stavano ad osservare, non risposero: «Ma essi tacevano». Non è il silenzio di chi non sa e si pone in ascolto, ma è il silenzio di chi osserva per accusare. È il silenzio dell’uomo il quale, non avendo ragioni da opporre a una verità che lo infastidisce, ricorre alla violenza per zittire il profeta che la pronuncia. E difatti l’episodio si conclude dicendo che «I farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio per farlo morire» (3,6). È questo un silenzio ostinato, immobile, consapevole, frutto di un cuore indurito, che non intende per nessuna ragione lasciarsi inquietare dalla domanda che lo pone in questione. Un silenzio irritante, uno di quei pochi casi in cui gli evangelisti annotano l’indignazione di Gesù: «Guardandoli tutti attorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori». Indignato e rattristato: la rabbia e la compassione. Dietro l’ostinazione che suscita lo sdegno, Gesù scopre il vuoto di quelle persone, e ne prova pena. Un uomo che si chiude all’ascolto, si chiude alla vita.
Di fronte alle domande insincere Gesù oppone il silenzio. Così di fronte ai farisei che gli chiedono “un segno dall’alto”: «E lasciatili, risalì sulla barca e si avviò all’altra sponda» (Mc. 8,13).
Dopo la purificazione del tempio (Mc. 11,27-33), pongono a Gesù una domanda importante («con quale autorità fai queste cose?»), ma insincera; ed egli non risponde. È inutile rispondere se non c’è la sincerità della ricerca. Gesù non sta al gioco di un dialogo per finta.
Commovente e maestoso è poi il silenzio di Gesù di fronte a Erode (Lc. 23,8-11), che lo interroga “con molte domande”. Ma sono domande curiose, superficiali, perché non sorgono dal desiderio della verità, ma dalla speranza di vedere qualche prodigio. E Gesù non risponde.
Più degli altri Vangeli, quello di Marco ricorda in più occasioni che Gesù imponeva il silenzio a chi voleva divulgare la sua messianità. Non permetteva ai demoni di parlare, «perché lo conoscevano» (Mc. 1,25.34). Ordina al lebbroso di non dire niente a nessuno (1,44). Raccomanda con insistenza che nessuno venga a sapere della risurrezione della figlia di Giairo (5,43). Anche ai discepoli comanda severamente di non parlare a nessuno della sua messianità (8,30). Ma poi, di fronte al sommo sacerdote e al sinedrio, sarà Lui stesso a proclamarla apertamente (14,61). Il fatto è che sono mutate le circostanze: prima la sua messianità correva il rischio di essere fraintesa, durante la passione non più. Il Messia non corre più il rischio di essere separato dalla Croce. Al contrario, è chiaro a tutti che la sua messianità va letta proprio a partire dalla Croce, sia per riconoscerla (15,39) come per rifiutarla (15,29-32). Non basta il coraggio dell’annuncio a fare un vero discepolo. Occorre anche lo spazio del silenzio necessario per cogliere la novità di Gesù. Altrimenti si parla di Lui senza comunicare quella novità che sorprende, di fronte alla quale non trova posto l’indifferenza (come sempre, invece, di fronte a ciò che è scontato), ma solo il sì e il no.
Stupisce il silenzio di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro (Gv. 11). Gesù lascia cadere nel silenzio la domanda delle sorelle: «Signore, ecco, il tuo amico è malato» (11,2). Gesù tace di fronte a una domanda che nasce dall’angoscia, a una domanda posta da una persona amata. Questo comportamento può sembrare sconcertante. In realtà è lo specchio del silenzio di Dio, un silenzio che lo stesso Gesù incontra nella sua preghiera nel Getsemani e nella sua domanda sulla Croce.
Il racconto del Getsemani (Mc. 14,32-42) è apparentemente un dialogo. Gesù parla cinque volte, sempre rivolgendosi a qualcuno: ai discepoli o al Padre. Ma nessuno gli risponde, quasi fosse un monologo. Le cinque parole di Gesù cadono nel vuoto, persino la sua preghiera al Padre.
Ma vogliamo commentare questo testo con una poesia di padre Davide Turoldo. Le sue ultime poesie sono state raccolte in un volume dal titolo Canti ultimi (Garzanti, Milano 1991). Ultimi perché sono gli ultimi canti della sua vita, ma ultimi anche perché dicono l’esperienza ultima dell’uomo, la più profonda, la più rivelatrice: l’uomo davanti alla morte, l’uomo nella sua nuda verità. Padre David ha vissuto la sua lunga esperienza di dolore con lo sguardo fisso alla Croce di Gesù. Nella sua poesia l’esperienza di Gesù e la propria si sovrappongono, vicendevolmente rischiarandosi. Fra le sue poesie più belle è forse da annoverare questa rilettura del Getsemani: «Ti invocava con tenerissimo nome:/ la faccia a terra/ e sassi a terra bagnati/ da gocce di sangue:/ le mani stringevano zolle/ di erba e fango:/ ripeteva la preghiera del mondo:/ “Padre, Abba, se possibile”…/ solo un ramoscello d’olivo/ dondolava sopra il suo capo/ un silenzioso vento…».
Il motivo del silenzio di Dio è ricorrente nella poesia di Turoldo: lo scorge nella passione di Gesù e lo ritrova in se stesso: «Ma non una spina Tu/ gli levasti dalla corona… e non una mano/ gli schiodasti dal legno…». L’esperienza del silenzio di Dio non dice la debolezza della fede, ma la profondità e l’umanità della fede, e porta al centro dell’uomo e della storia, là dove Dio e l’uomo sembrano contraddirsi, dove Dio sembra assente o distratto, dove la morte sembra avere l’ultima parola sulla vita e la menzogna sulla verità. Ma se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà, cioè come un diverso modo di parlare.
Difatti nel Getsemani il Padre ha parlato: non con il miracolo che libera dalla morte, ma con il coraggio di affrontare la morte, attraversandola. Se all’inizio Gesù è angosciato e impietrito, alla fine, dopo aver pregato, Egli è tornato sereno e pronto: «Alzatevi, andiamo! Colui che mi tradisce è vicino» (14,42).
Il momento più espressivo del silenzio di Gesù è la passione. Qui il silenzio è veramente più denso delle parole. Nella passione Gesù parla poche volte, mai per difendersi, ma soltanto per spiegare la sua identità. Il silenzio è una parola importante per spiegare chi Egli è.
Sollecitato dal sommo sacerdote a rispondere alle molte accuse, Gesù tace (Mc. 14,60). È il silenzio di chi anche nell’umiliazione conserva intatta la sua dignità. È il silenzio di chi è lucidamente consapevole dell’insincerità dei giudici, che fingono un interrogatorio, in realtà avendo già deciso la condanna: inutile difendersi. La verità tace di fronte alla violenza, non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha già detto tutto ed è inutile ridire. Soprattutto è il silenzio del giusto, che di fronte alle accuse non si difende, perché ha posto interamente la sua fiducia nel Signore, che non abbandona.
Questo silenzio di Gesù suggerisce diverse allusioni anticotestamentarie. La più nota è Isaia 53,7: «Maltrattato accettò l’umiliazione e non aprì la sua bocca». Di fronte agli uomini che lo condannano a motivo della sua giustizia, il silenzio del servo del Signore esprime dignità; e di fronte a Dio esprime accettazione e fiducia: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Sl 39,10). Questo silenzio di Gesù è stato poi ripreso e interpretato in un inno della prima comunità cristiana: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2,23).
Nei racconti della passione, accanto ai personaggi espressamente nominati, è sempre presente – apparentemente in ombra, ma in realtà luminosissima – la figura del Giusto sofferente, che Gesù rivive e ingigantisce. È una figura senza tempo, presente in ogni momento della storia e in ogni luogo. Gesù ne è la gigantografia. È la figura dell’uomo che annuncia la verità e proprio per questo è colpito. Come già notato, un tratto importante di questa figura è il silenzio. Non esprime indifferenza, ma dignità. Ed è un silenzio che parla più di molte parole.
La scena degli oltraggi (Mc. 14,65) è di sorprendente densità. Non c’è una parola di troppo, né un aggettivo, né una ridondanza, né una qualche parvenza di retorica. Ma proprio per questo la figura di Gesù insultato e percosso è scolpita al vivo, come su una pietra. In una specie di gioco a mosca cieca, col volto coperto, schiaffeggiato, Gesù deve indovinare chi lo colpisce. Ha preteso di essere Messia e profeta, lo dimostri! Ma Gesù sta in silenzio e non indovina. E così da una parte, la pretesa di essere il Messia che siede alla destra di Dio e viene sulle nubi del cielo; dall’altra il silenzio di un pover’uomo che neppure (sembra) sa indovinare chi lo percuote. L’evidenza contro la pretesa, qui sta il contrasto che tanto fa ridere. Ma qui sta anche la ragione che fa credere. Il silenzio di Gesù può infatti essere letto in due modi: come la prova della totale infondatezza della sua pretesa messianica, o come la rivelazione della sorprendente e affascinante novità del suo essere Messia. Un Messia che sta al gioco e indovina chi lo percuote è una assoluta ovvietà. Un Messia, invece, che sta al gioco a modo suo e non indovina chi lo percuote, ma rimane nel silenzio, svela tutta la sua differenza, una differenza teologica, la differenza che corre tra il modo con cui l’uomo immagina Dio e il modo in cui Dio è veramente.
Anche nel racconto giovanneo del processo romano si fa menzione del silenzio di Gesù (19,9). Egli ha risposto alla domanda sulla sua regalità, persino indugiandovi per metterne in chiaro la diversità. La novità di Gesù non può fare a meno della parola che la spiega. Ma ha anche bisogno del silenzio. Gesù rimane in silenzio nei due momenti culminanti: quando la sua regalità è derisa (19,1-3), e quando essa è mostrata in pubblico (19,5). Proprio quando la sua regalità, derisa e rifiutata, aveva maggior bisogno di una parola o di un segno, Gesù non dice una parola, né compie un gesto.
Ma l’annotazione esplicita del silenzio di Gesù Giovanni la riserva per la domanda più importante (19,6): «Di dove sei?». Qui non è più in discussione semplicemente la sua regalità, ma il mistero più profondo della sua origine. E su questo Gesù tace. Non collabora, lasciando Pilato solo di fronte alla domanda che lo turba: o perché è inutile dire dal momento che tutto è già stato detto; o perché la risposta va cercata nei fatti che Pilato vede e non nelle parole che potrebbe sentire; o perché è una domanda alla quale può rispondere soltanto chi la pone. Di fronte al mistero che lo interpella e lo inquieta, ogni uomo deve trovare personalmente la risposta. È una decisione personale che non si può delegare a nessuno, una risposta che neppure Dio può dare al tuo posto.
Nei racconti di Marco (15,24-39) e Matteo (27,32-50) attorno al Crocifisso sono in molti a parlare: i passanti, i sacerdoti, le guardie, i due ladroni. Tutti parlano di Gesù e contro Gesù, ma Lui tace. Rivolge una domanda al suo Dio (‹‹Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?››) che cade nel silenzio. Muore con un grido senza parole: ‹‹Ma Gesù, dato un forte grido, spirò››. E sullo sfondo, più nitida che mai, la grande figura del Giusto sofferente, evocata dal Salmo 22.
Il Padre parlerà, ma dopo, con la risurrezione. La Croce è il momento in cui tocca al Figlio manifestare tutta la sua fiducia nel Padre. Tocca al Crocifisso manifestare fino a che punto un Figlio di Dio condivide l’esperienza del silenzio che l’uomo incontra davanti al suo Dio. Tocca al Crocifisso rivelare fino a che punto giunge l’amore di Dio. Tutta questa sorprendente rivelazione è racchiusa nel silenzio di Gesù sulla Croce.”