Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

Vescove? No, thanks

La notizia girava ancora ieri, ma non ho avuto tempo di postarla. L’avevo preannunciata in qualche classe lunedì mattina. Ecco l’esito, tratto da Rainews24.

chiesa anglicana, donne vescovo, welby, canterbury“Il sinodo della Chiesa d’Inghilterra ha votato contro la nomina di vescovi donne. Il tema aveva diviso la comunità anglicana. L’attuale arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, e il suo successore Justin Welby sono entrambi a favore dell’ordinazione di donne vescovo. A vent’anni dall’introduzione delle donne sacerdoti, la questione continua a creare divisioni tra tradizionalisti e liberali. Attualmente le donne costituiscono un terzo del clero della Chiesa d’Inghilterra. Il Sud Africa ha approvato nei mesi scorsi l’ordinazione della prima donna vescovo, mentre la Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti, che fa parte della Comunione anglicana, è addirittura guidata da una donna. Resta il fatto che in ogni caso la Chiesa d’Inghilterra non si e’ per ora spaccata anche se è prevedibile che da parte dell’ala riformatrice non mancheranno le critiche verso quanto è accaduto. “Dobbiamo portare a termine il lavoro e dobbiamo farlo adesso”. Un messaggio chiaro e forte quello di Justin Welby, nuovo arcivescovo di Canterbury designato, che assumerà ufficialmente la guida della Chiesa d’Inghilterra il prossimo marzo e che oggi è intervenuto nella discussione fiume in corso a Londra dove da ieri è riunito il sinodo generale per votare sull’ordinazione delle donne vescovo, invitando a votare a favore. “E’ arrivato il momento di portare a termine il lavoro e votare a favore di questa misura”, ha detto Welby in un accorato intervento. “Ma la chiesa d’Inghilterra ha anche bisogno di mostrare come sviluppare la sua missione nella diversità e non nella divisione”.

Quello dibattuto a pochi passi dall’abbazia di Westminster è un tema di cui nella chiesa d’Inghilterra si parla dal 1966, data in cui si considera appunto ‘aperto’ un forum di discussione. Quasi un decennio più tardi, nel 1975, il sinodo generale stabilì che non vi fossero “impedimenti fondamentali” all’ordinare donne vescovo. E’ del 1985 la prima nomina di donna diacono e nel 1992 l’ordinazione delle donne prete riceve l’approvazione dei due terzi del sinodo.”

Da manager ad arcivescovo di Canterbury

Proviamo a conoscere un po’ meglio, attraverso un articolo del Corriere, il nuovo primate della Chiesa anglicana.

“Di quale pasta sia fatto il nuovo capo spirituale degli anglicani lo si era capito un giorno welby, chiesa anglicana, canterburydella scorsa estate quando il presidente della Barclays, sir David Walker, presentandosi con un certa baldanza davanti ai Lord si trovò investito da una domanda che era una sciabolata al cuore: «Ma voi banchieri perché siete così tanto avidi? Perché vi arricchite speculando coi soldi degli altri?». Justin Welby, all’epoca era il vescovo della diocesi di Durham ed era pure uno dei rappresentanti nella Camera alta a Westminster della Chiesa d’Inghilterra. Tutti sapevano che il cinquantaseienne figlio di un commerciante di whisky nonché amico della famiglia Kennedy e di Jane Portal, una delle segretarie di Winston Churchill, aveva (e ha) il dente avvelenato con i padroni e con padrini della City. Ma che un tipo così, nonostante gli studi a Eton e Cambridge (storia), nonostante l’educazione doc, nonostante il suo passato di perfetto «business man», lanciasse pubblicamente la sua sfida al numero uno di un colosso del credito come Barclays, pochi pensavano che potesse accadere. E ancora meno erano quelli che, essendo vacante la cattedra di arcivescovo di Canterbury dopo l’uscita di Rowan Williams, puntavano sull’ascesa di questo signore al soglio massimo anglicano. E, invece, la Crown Nominations Commission, dopo tanto dibattere nella cristianità inglese, alla fine ha chiamato proprio lui: sarà dunque «il fustigatore» della City a comandare (dopo sua maestà, che ne è il vertice simbolico) il gregge dei fedeli.

Chi l’avrebbe mai azzardata, quel giorno dell’estate olimpica, una previsione simile? Scherzi del destino. Nella capitale mondiale della finanza la Chiesa d’Inghilterra sceglie di essere governata da un uomo (sposato e padre di cinque figli) e da un vescovo-lord che della riforma bancaria e della necessità di controlli rigidi su ciò che i «maghi» dei tassi e dei mercati combinano nel segreto delle loro «stanze di guerra», fa il suo moderno vangelo. E non per improvvisa ispirazione divina ma perché Justin Welby la conosce bene la City e conosce bene i «peccati (sue parole) che le grandi company commettono». Ha lavorato nel Miglio Quadrato e ha servito il capitalismo internazionale. Già, storia interessante quella del neo arcivescovo di Canterbury. «La chiamata di Dio» (sempre sue parole) l’ha avvertita tardi. Dopo la laurea e i dottorati di ricerca, Justin Welby, non ancora presule, aveva trovato impiego nelle aziende petrolifere (alla Elf francese ella Enterprise Oil Plc). Ne era diventato un manager, viaggiava fra Londra, Parigi e l’Africa, nelle aree di estrazione nel Niger («ho visto molti colleghi arrestati per corruzione»), era diventato un apprezzato «trader» dei famigerati titoli derivati. Poi nel 1987 la tragedia che gli cambiò la vita: muore la sua bambina. Il dolore, la riflessione, l’ordinazione nella Chiesa d’Inghilterra.

Justin Welby ha cominciato subito a predicare contro le brame della finanza allegra e ladrona, osservata tanto da vicino: in un saggio del 1997, dal titolo «L’etica dei derivati» già spiegava la struttura e l’inganno dei futures, degli swaps, dei contratti «pronti contro termine», e concludeva: «Sono strumenti potenti, necessitano di monitoraggi severi». Una voce mai arrivata ai piani alti della City: ben 10 anni prima che la finanza venisse travolta dalle sue stesse diaboliche creature. Il nuovo arcivescovo di Canterbury adesso risfodera i suoi insegnamenti. Può farlo: top manager e top bankers spregiudicati sono nel mirino. Inneggia al movimento «Occupy London», gli antagonisti che si accamparono davanti a St Paul: «Hanno ragione, in questa finanza c’è davvero molto che non va bene». Il censore più pericoloso la City lo trova in casa. E non può prenderlo sotto gamba.”