Pubblico dal sito di Limes questo articolo comparso su La Repubblica del 5 ottobre. Non è di facilissima lettura perchè dà alcune cose per scontate, ma cercando di andare oltre i molti nomi citati si afferra qualcosa di quanto sta succedendo:
Vecchi e nuovi alleati per la prigione Myanmar
di Raimondo Bultrini
Il sorprendente flusso di informazioni e immagini via Internet dall’interno della Birmania ha scavalcato per 10 giorni le spesse mura di questo Paese Prigione producendo un’ondata emotiva di un’intensità senza precedenti. Ma presto al moto di spontanea partecipazione per la struggente lotta dei monaci scalzi e dei cittadini in longgi sotto il diluvio monsonico è subentrato un inevitabile senso di impotenza e sconfitta sia fuori che – soprattutto – dentro i confini geografici dell’Unione di Myanmar.
Ora che le manifestazioni sono state disperse a Rangoon e altrove dai lacrimogeni e dai proiettili dei soldati guidati dal generalissimo Than Shwe – autoisolato dentro un bunker della nuova capitale ribattezza Naypyidaw, Città dei Re – altre notizie dal mondo hanno inevitabilmente retrocesso le cronache birmane nelle pagine interne dei quotidiani e tra le notizie brevi dei telegiornali.
Metaforicamente è come se le sbarre si fossero di nuovo richiuse alle spalle di 50 milioni di esseri umani, condannati senza appello dai tempi del golpe di Ne Win del 1962 da un manipolo di ufficiali corrotti e superstiziosi, alternatisi nel tempo alla guida di governi dittatoriali definiti Consiglio Rivoluzionario, Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine (SLORC) e – infine – Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (SPDC).
Molti si domandano a cosa debba la sua imbattuta longevità il più impenetrabile regime militare dell’Asia, sopravvissuto alla caduta in disgrazia a turno dei suoi uomini di vertice, come lo stesso Ne Win, Sein Lwin, Saw Mong (che “vide” Gesù Cristo in Tibet prima di proclamarsi reincarnazione di un antico re guerriero) e Khin Nyunt (agli arresti per corruzione). Se a lungo si è attribuito il merito agli inconfessabili alleati delle mafie che gestivano per loro conto i traffici di oppio del Triangolo d’Oro e all’appoggio incondizionato di Pechino, in questa fase storica di globalizzazione sono usciti allo scoperto nuovi e sorprendenti partner attratti dalle risorse naturali del paese, dai suoi passaggi di terra e di mare verso mercati redditizi, dall’affidabilità del suo esercito in termini di sicurezza strategica.
Da decenni il mondo sa che molti villaggi birmani sono veri e propri campi di concentramento dove si scavano a mani nude i rubini, i diamanti e la giada venduti nei mercati di Singapore, Seoul, Pechino, Amsterdam o New York, dove si costruiscono col lavoro forzato i gasdotti e le dighe per rifornire di energia le industrie di Bangalore, Kunming e Bangkok.
E’ il crudo contesto economico e geopolitico che ha condizionato e – salvo improbabili scrupoli di coscienza della nuova generazione dei militari – condizionerà anche in futuro la sorte dei 50 milioni di birmani, karen, shan, karenni, kachin e mon, per citare alcune delle innumerevoli etnie coinvolte senza troppe speranze in una guerra contro 400mila uomini armati e motivati dai benefici concessi alle truppe fedeli.
Nei giorni in cui i monaci venivano arrestati e picchiati, la vecchia alleata Cina – spinta dagli Usa a chiedere blandamente ai generali di non esagerare con l’uso della violenza – non era la sola a bloccare una risoluzione di condanna delle Nazioni Unite. Il presidente russo Vladimir Putin definiva le repressioni “un fatto interno” mentre i suoi inviati firmavano a Naypyidaw un trattato che permetterà a due imprese nazionali – la governativa Zarubezhneft e la privata Itera Oil – l’esplorazione in joint venture con l’indiana Sun Group e la birmana MOGE dei giacimenti di gas naturali al largo del Mare delle Andamane. Non a caso le stesse parole di Putin verranno usate dal nuovo comandante dell’esercito indiano che ha stretto un’alleanza con i tadmadaw (i soldati birmani) per impedire ai Naga e alle altre etnie ribelli dell’Assam e di Manipur di rifugiarsi oltreconfine. A firmare il trattato di Naypyidaw nello stesso giorno delle rivolte c’era il ministro del Petrolio indiano Murli Deora, membro della compagine governativa del Congresso di Sonia Gandhi che anni fa insignì Aung San Suu Kyi del prestigioso premio Nehru “Per la Comprensione Internazionale”.
L’amicizia tra Delhi e Rangoon (prima del cambio di capitale) risale formalmente all’ottobre del 2004 quando Than Shwe fu ricevuto con tutti gli onori dopo 24 anni di gelo diplomatico. Il cambio di prospettiva geopolitica da parte della progressista India fu certamente accelerato dalla scoperta che la Cina – a forza di spingersi verso Occidente grazie all’amicizia con i generali – aveva piazzato basi di monitoraggio davanti a casa propria, nelle isole Coco in pieno Oceano Indiano. Senza contare i progetti di superstrade che da Kunming nello Yunnan porteranno un giorno le merci cinesi fino al Golfo del Bengala e da qui in Medio Oriente ed Europa, sfruttando eventualmente il porto di Chittagong – qualora il Bangladesh aderisse al progetto – o un altro eventuale porto lungo le coste centro-settentrionali del Myanmar.
Che i diritti umani passino in secondo piano nella spietata competizione di mercato tra India e Cina lo dimostra la posta in gioco nella gara tra tutti i paesi vicini per accaparrarsi dalla giunta – tra gli altri – i diritti di sfruttamento dei giacimenti di gas chiamati A1 e A3 Shwe (in omaggio al generalissimo?) al largo del porto di Sittwe nello stato di Arakan.
Se la Cina ha il vantaggio di un legame storico con la giunta e la possibilità di sfruttare in senso inverso l’eventuale gasdotto per gli acquisti dai paesi africani e del Medio Oriente, alla gara di Sittwe concorre anche un altro paese limitrofo guidato da una giunta installata dopo un golpe militare, la Thailandia , dove vivono gran parte dei tre milioni di birmani spinti a emigrare dalla fame.
Da anni il governo di Bangkok è il principale partner commerciale della Birmania soprattutto in termini di volume di acquisti, non la Cina come molti ritengono. Vende tecnologie e importa energia con diversi progetti in ballo oltre al gas, come le due grandi centrali idroelettriche sul fiume Salween per le quali – ancora una volta – è in competizione con la Cina. I thai non fanno mistero che un’eventuale adesione al cartello occidentale per le sanzioni contro la giunta potrebbe favorire Pechino. Lo stesso vale per ognuno dei tredici paesi – alcuni insospettabili – che operano nei progetti di sfruttamento delle risorse energetiche birmane, dall’Australia all’Inghilterra, dal Canada all’Indonesia, alla Corea del Sud, alla Malesia, senza contare la francese Total e l’americana Unocal, coinvolte in polemiche e scandali finiti nelle aule dei tribunali internazionali.
Sull’onda delle proteste domate nel sangue per l’elevatissimo aumento del carburante, ben pochi si sono posti il problema del paradosso – come sottolinea l’analista della sicurezza Alfred Oehlers sulla rivista Irrawaddy – per cui la Birmania tanto ricca di materia prima importi a prezzi esorbitanti gran parte del combustibile raffinato, specialmente il diesel usato per gran parte degli automezzi e dei generatori che suppliscono la cronica carenza di elettricità nelle città e nelle campagne. All’interno del paese esistono due mercati, uno legale gestito dal ministero per l’Energia che distribuisce a prezzi di rimessa il combustibile per gli uffici dell’amministrazione statale, uno semi-clandestino gestito spesso dai comandanti dell’esercito che rivendono le loro quote a prezzi molto più alti sul mercato nero.
Molti avanzano l’ipotesi che l’ultima impennata di aumenti sia servita per favorire le imprese di un tycoon molto vicino al generalissimo Than Shwe. Quanto fosse calcolato il conseguente rischio di rivolta è difficile da stabilire. Di certo la famosa Convenzione Nazionale per la Democrazia in corso da anni per riscrivere la costituzione e ridimensionare eventualmente i poteri della giunta, è ora rinviata a data da destinarsi.