Prendo dal sito del corriere di oggi questo articolo di Michele Farina. Mi ha messo addosso tanta tristezza.
NELL’INFERNO DI HAITI
In tre settimane oltre 500 vittime. Camioncini trasformati in ambulanze, flebo appese ai rami
HAITI – Love è steso sul pavimento del deposito medicine, gli occhi svuotati, una maglietta bianca con le vele azzurre. Avrà 10 anni. Lo zio che l’ha portato in spalla tutto il giorno fino a Port de Paix gli sta vicino, con le scarpe senza più suola. Un altro ago: sotto la mia inutile torcia il dottor Tony Alessi cerca la giugulare. L’estremo tentativo di trovare una vena per la flebo. Ma ormai è tardi, il cuore batte troppo fioco e il corpo ha ristretto i vasi, questa sera quando è arrivato Love era già solo pelle raggrinzita e occhi scavati. Le suore di madre Teresa per mezz’ora hanno cercato un varco nei piedi, nelle mani, alle tempie. «Dio neppure la giugulare» mormora Tony. L’ultimo gesto del bambino: stringe il pugno destro. «He’s gone». Se ogni morte è inaccettabile, morire di colera a 10 anni dopo aver superato un terremoto e un uragano forse di più. In tre settimane le vittime a Haiti hanno superato quota 500, con 7mila casi ufficiali. Ma è certo che sia un censimento in difetto. Come difettosa è la risposta delle autorità.
VESTITI BENE – Il colera può uccidere in 6-7 ore prosciugando il corpo a forza di vomito e diarrea, ma dal colera basta poco per salvarsi: fluidi reidratanti, sodio. Qualche sacca di flebo endovena. Così sull’ondeggante camioncino di padre Rick – diventato ambulanza all’aperto e mezzo anfibio lungo l’allagata strada nazionale numero 1 – stamattina ho visto rinascere un vecchietto sdentato che sembrava moribondo, la piccola Denise, un altro ragazzino di nome Love, una signora anziana ormai più di là che di qua: i parenti la portavano sopra la testa su una vecchia branda con le molle arrugginite, una gonna improbabile con figure di Topolino. I malati sulla strada erano vestiti bene. Un po’ come tutti, quando si va dal medico o in ospedale. L’abito buono perché non si sa mai. Solo che qui nel nord di Haiti spesso gli ospedali sono un disastro e i medici un miraggio. Il colera li ha resi più sfuggenti.
CADAVER KIT – Quattro giorni fa è arrivato l’appello di suor Patsy delle Sorelle della Misericordia: all’ospedale di Port de Paix, 200 mila abitanti, i malati di colera erano abbandonati. «Di notte non c’è un medico, un’infermiera. Siamo andate noi con le nostre flebo ad aiutare. Ma la situazione è insostenibile». Così padre Rick Frechette, direttore di Nph Haiti, è partito con i suoi ragazzi e due camioncini di aiuti dall’ospedale Saint Damien a Port-au-Prince, costruito dalla Fondazione Francesca Rava. Sacchi di riso, acqua, materassi di gomma piuma, fluidi per il colera. Prima notte sul cassone del camion a Gors Morne, in riva a un rigagnolo diventato fiume per le forti piogge. Al buio non c’è modo di passare. Ci proteggiamo dalla pioggia con i sacchi di plastica , i cadaver kit che serviranno a seppellire le vittime del colera. All’alba da oltre il fiume arrivano i primi pazienti, caricati su moto che sfidano la corrente. Vengono assistiti su uno dei camioncini. L’altro, a trazione integrale, prosegue.
LA FLEBO E IL RAMO – I ragazzi locali ci guidano nel trovare il punto migliore per il guado. Cominciamo a prendere a bordo malati di colera e parenti, con posti aggiuntivi su una jeep. Denise portata in braccio dallo zio. Le sacche di fluidi appese a un ramo d’albero che in mano a padre Rick diventa uno strano bastone pastorale. Sei ore per una trentina di chilometri tra colline di banani e scarpate. Fino al mare. Port de Paix. Il centro di assistenza delle suore di Madre Teresa è un avamposto contro l’epidemia. Una cinquantina di malati. Flebo, pulizia. «Il colera è dappertutto» dice sorella Patsy. L’ospedale pubblico fino a domenica non aveva un reparto apposito. Pazienti mischiati. E dalla sera alla mattina l’abbandono totale. Lo visitiamo nel pomeriggio: Medici senza frontiere finalmente ha creato un centro colera in un’ala fatiscente.
CHIESA OSPEDALE – Anche la chiesina è piena di brande. Ci torniamo la sera, 10 minuti di macchina. Le suore portano un bimbo di 2 anni che si è aggravato. Troviamo un medico e due infermiere locali, queste ultime sedute a una scrivania mentre in una sala contiamo le flebo funzionanti: 2 su 15. «Ma non c’è paragone rispetto alle notti precedenti» dicono le suore. Il medico ci chiede di andare a comprare un rasoio con cui rade la tempia del piccolo e trova una vena buona per la flebo. Love non sarà così fortunato: arriva dalle suore quasi completamente disidratato. Tony, dottore italo-americano volontario dal Connecticut, è subito pessimista. Ma anche lui ci prova fino alla fine. Love viveva a Corail. Lo zio racconta che ha cominciato a star male al mattino: lungo la costa in barca e poi a piedi lo ha portato a Port de Paix. Un giorno di viaggio. Senza incrociare nessuno che potesse salvarlo.
