Un ricordo di Samuel Ruiz

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Nel settembre 2003 ho avuto il privilegio di ascoltare a Udine, al convegno “Da vittime a protagonisti della storia; persone, comunità, popoli del pianeta” organizzato dal Centro Balducci di Zugliano, la testimonianza di don Samuel Ruiz, scomparso lo scorso gennaio. Posto qui sotto un estratto del ricordo tracciato da Claudia Fanti per Adista

“Con lui se ne è andato uno degli ultimi grandi profeti della Chiesa della liberazione: Samuel Ruiz García, Tatic Samuel, padre degli indios, si è spento il 24 gennaio, all’età di 86 anni, in un ospedale di Città del Messico (soffriva da alcuni anni di diabete e di problemi cardiaci), assistito dal suo “fratello di lotta” Raúl Vera López […]

Nato a Irapuato, nello Stato del Guanajuato, nel 1924, Samuel Ruiz giunse in Chiapas, nel Sudest messicano, nel 1959, chiamato a ricoprire la carica di vescovo della diocesi di San Cristóbal, il più giovane del suo Paese. Vi sarebbe rimasto quarant’anni. La realtà poverissima della Regione, in cui gli indigeni vivevano in condizioni di schiavitù, lo colpì come uno schiaffo. Era andato a evangelizzare, don Samuel, ma, secondo le sue stesse parole, fu lui ad essere evangelizzato […]

Prese così avvio un’esperienza pastorale nella linea della liberazione che lo rese popolare in tutto il mondo, attirandogli, come è avvenuto per tutti i grandi profeti, molto amore e molto odio: un processo di costruzione di una Chiesa autoctona, liberatrice, evangelizzatrice, animata da uno spirito di servizio, in comunione e sotto la guida dello Spirito”. Sono, questi, i sei tratti distintivi della Chiesa chapaneca fissati dal Terzo Sinodo Diocesano, convocato da Ruiz nel 1995 e conclusosi nel 1999, sullo sfondo delle grandi opzioni pastorali della diocesi: la creazione, nello spirito della collegialità conciliare, di strutture di comunione più vicine allo spirito evangelico; l’accompagnamento pastorale integrale al popolo di Dio nella concretezza della sua realtà terrena; la ricerca del dialogo e della riconciliazione come unico cammino per risolvere i conflitti. E, naturalmente, l’opzione per i poveri, quell’opzione che il Concilio, alle cui sessioni Ruiz aveva preso parte, non aveva saputo cogliere, malgrado la sollecitazione di Giovanni XXIII e gli sforzi del card. Lercaro. […]

Nel 1994, quando prese il via l’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), il vescovo venne accusato di essere il responsabile della rivolta – in linea con il pregiudizio razzista che riconduce sempre ogni iniziativa india a un qualche attore non indigeno – e minacciato dal governo di arresto per sedizione. Ma don Samuel non si lasciò intimidire. E, dal 1994 al 1998, esercitò il ruolo di mediatore nel conflitto tra Ezln e governo federale, attraverso la Commissione Nazionale di Intermediazione (Conai), prendendo parte alla firma, il 16 febbraio del 1995, degli “Acuerdos de San Andrés”, poi completamente disattesi dal governo. Malgrado il suo impegno a favore della pace, l’allora presidente Zedillo, nel 1998, lo accusò di promuovere una «pastorale della divisione» e una «teologia della violenza». La gerarchia ecclesiastica non fu da meno. Il card. Juan Sandoval Íñiguez, per esempio, individuò una delle cause della ribellione armata in Chiapas proprio nella divisione creata dalla strategia pastorale di don Samuel, dominata da un «tipo di teologia della liberazione ispirata al marxismo» (Milenio, 25/1). Invano Girolamo Prigione, nunzio apostolico in Messico dal 1978 al 1997, si adoperò per farlo cacciare: il protagonista di tante crociate contro la Teologia della Liberazione e la Chiesa più fedele allo spirito del Concilio e di Medellín non ha potuto vantare tra i suoi trofei – fra i quali spicca in particolare l’opera di distruzione del lavoro pastorale di mons. Sergio Méndez Arceo a Cuernavaca – la rimozione del vescovo degli indios dalla diocesi di San Cristóbal per «gravi errori dottrinali, pastorali e di governo». Tuttavia, allo scopo di frenare il processo diocesano, viene inviato nel 1995 a San Cristóbal il domenicano mons. Raúl Vera Lopez, come coadiutore con diritto di successione, destinato, quindi, secondo il diritto canonico, a sostituire mons. Ruiz. Ma il Vaticano non poteva prevedere che il contatto con le comunità indigene e con il lavoro svolto nella diocesi avrebbero trasformato don Raúl nel più fedele alleato del vescovo di cui avrebbe dovuto correggere le presunte deviazioni. E così, a “conversione” consumata, Roma corre ai ripari, trasferendo mons. Vera Lopez direttamente all’altro capo del Paese, a Saltillo, ai confini con gli Stati Uniti. A succedere a don Samuel – che, per non fare ombra al suo successore, preferisce lasciare il Chiapas e trasferirsi a Querétaro, nel Messico centrale – viene infine chiamato un altro vescovo del Chiapas, mons. Felipe Arizmendi, già vescovo di Tapachula, moderatamente conservatore, ma non abbastanza da non comprendere, poco per volta, la necessità di dare continuità al lavoro svolto […]

Lo stesso Arizmendi, in una sua riflessione dal titolo “L’eredità di Samuel Ruiz”, elenca peraltro alcuni degli aspetti dell’opera di Ruiz «che non devono andare perduti, per le loro radici evangeliche», malgrado alcuni di essi appaiano “delicati”, per la difficoltà «tanto di intenderli secondo il Vangelo quanto di applicarli in comunione ecclesiale»: la promozione integrale degli indigeni, l’opzione per i poveri e la liberazione degli oppressi, la libertà di denunciare le ingiustizie di fronte a qualunque potere arbitrario, la difesa dei diritti umani, l’inculturazione della Chiesa, in direzione della creazione di «Chiese autoctone, incarnate nelle differenti culture, indigene e meticce», la promozione della dignità della donna e della sua corresponsabilità nella Chiesa e nella società, la teologia india come «ricerca della presenza di Dio nelle culture originarie», il diaconato permanente. Ma quanto poco tale eredità venga apprezzata dalla gerarchia non ha mancato di farlo notare, persino all’indomani della scomparsa del vescovo, il vicedirettore di Radio y Televisión dell’arcidiocesi di Città del Messico, José de Jesús Aguilar, il quale, intervistato da Formato 21, ha ricordato Samuel Ruiz come «una figura controversa» che «si lasciò condurre dal principio della Teologia della Liberazione», per quanto «lo andò adattando a tutti gli insegnamenti del magistero ecclesiale»; un vescovo «ammirato da gente che non appartiene alla Chiesa cattolica, proprio per questo rischio di vivere la fede cattolica in altra maniera». A rendere al vescovo il «migliore omaggio», come ha evidenziato La Jornada (26/1), sono stati però quelli che più contavano per don Samuel, gli indigeni del Chiapas (dove il corpo è stato trasportato), giunti da ogni angolo dello Stato per sfilare di fronte al feretro del loro Tatic, nella cattedrale di San Cristóbal. Ripercorrendo a ritroso, così, la strada battuta in quarant’anni, a piedi o a cavallo, da El Caminante – come si identificava don Samuel – in visita alle più sperdute comunità indigene della regione. Ora, ha scritto dom Pedro Casaldáliga in un suo messaggio, «el caminante vescovo del Chiapas è giunto al Grande Villaggio, nella Pace, e da lì continuerà ad essere, ora con piena libertà, vero profeta nella società e nella Chiesa, in mezzo ai popoli della nostra Amerindia. (…). Con San Bartolomé de las Casas, con Taita Leonidas Proaño e con Tatic Samuel Ruiz, tutti noi andremo avanti nelle lotte nelle speranze del Vangelo del Regno».

 

Una tragedia vicina

Ancora da Avvenire traggo una toccante testimonianza raccolta da Lucia Bellaspiga sulle foibe

«La gente spariva di notte». L’incubo è rimasto negli occhi di Piero, che allora aveva nove anni e, di notte, vide portar via suo padre, legato col filo di ferro: erano le due tra il 3 e il 4 maggio 1945, quando nella sua casa di Gallesano, alle porte di Pola, in Istria, fecero irruzione in quattro, tre in divisa scalcinata e berretto con la stella rossa di Tito, uno in abiti civili che parlava italiano: «Seguici in caserma, ti dobbiamo interrogare». La guerra è appena finita, i tedeschi sono sconfitti, e mentre il resto d’Italia festeggia la liberazione dal nazifascismo e l’arrivo degli alleati anglo-americani che portano ventate di rinascita, nella Venezia Giulia la “liberazione” avviene per opera degli jugoslavi: al nazismo succede il comunismo. E le foibe. «Mentre gli altri italiani scendevano in strada gioiosi, noi conoscevamo i giorni dell’ira e delle vendette. E andavamo a dormire col terrore di non svegliarci nel nostro letto». ingresso_foiba.jpgSuo padre era “colpevole” di avere un negozio di generi alimentari, altri di essere stati maestri di scuola, postini, messi comunali, sacerdoti, carabinieri… L’ordine era di de-italianizzare Istria, Fiume e Dalmazia, e il genocidio fu scatenato in due ondate: la prima dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando sparirono in foiba settecento persone nella sola Istria, la seconda a guerra finita, dal maggio del 1945 in poi, quando gli jugoslavi occuparono l’intera Venezia Giulia fino a Trieste. «Nel ’43 in famiglia avevamo avuto il primo di sette lutti – racconta oggi Piero Tarticchio, 75 anni, artista e scrittore, testimone in centinaia di scuole italiane di quanto avvenne sull’altra sponda dell’Adriatico – quando don Angelo Tarticchio, cugino di papà, venne arrestato, torturato, mutilato orrendamente e poi, ancora vivo, gettato in foiba con una corona di filo spinato calcato sulla testa per dileggio. La sua salma fu recuperata dai vigili del fuoco di Pola insieme ad altre 243…». Al funerale dello zio sacerdote Piero andò tenendo per mano suo papà: «Ricordo che me la stringeva forte. Non poteva prevedere che un anno e mezzo dopo sarebbe toccato a lui». La storia di Piero – come avviene in altri olocausti – è tragicamente ripetitiva: nelle case gli sgherri di Tito che irrompono, il furto volgare di tutto ciò che possono arraffare, il pretesto di un interrogatorio sulla base di accuse assurde, un padre o una madre trascinati via e spariti nel nulla. Come rivelano montagne di documenti, gli alleati anglo-americani sapevano e lasciavano fare. Racconta Tarticchio: «Milovan Gilas, teorico del Partito comunista jugoslavo, nei suoi diari annota “dovevamo fare in modo che gli italiani se ne andassero da quella terra e così fu fatto”. Nel 1992 lo ribadì in un’intervista a Panorama, confermando una pulizia etnica decretata ufficialmente». Negli occhi del piccolo Piero, e di centinaia di bambini come lui, l’ultima immagine del padre spinto fuori con il calcio del fucile e mai più tornato. Nelle orecchie il pianto delle donne: «Ancora oggi non riesco ad ascoltare le donne che piangono, sto male…». E in tutte le case, poi, una madre che i figli di allora, sopravvissuti alla mattanza, oggi raccontano così: «Con un coraggio impressionante andò al comando della polizia segreta di Tito a Carlovac a chiedere notizie del marito. Ricordo un particolare: dopo la deportazione di papà il mio solo privilegio fu di dormire con la mamma nel lettone e lei, sapendo del mio trauma, mi lasciava toccare il lobo del suo orecchio…. aveva un orecchino di oro e perla, al ritorno da Carlovac non lo aveva più». Per qualche settimana suo padre fu recluso nel castello di Pisino, a 30 chilometri in treno da casa, e tutti i giorni madre e figlio si recavano là sotto: «C’era un’inferriata e a uno a uno i prigionieri si sporgevano e salutavano. Un mattino nessuno si affacciò più». Un vecchio raccontò che erano stati caricati sui camion e portati a Fiume per il processo, ma a Fiume non giunsero mai. «Tutti gli anni, nel giorno dei Morti, mi reco in Istria – racconta Tarticchio – e porto un mazzo di fiori in un cimitero qualsiasi… Sono bellissimi i cimiteri istriani, andateli a vedere. Scelgo la tomba più disadorna, la tomba di uno sconosciuto, non guardo nemmeno se è di un italiano, è il solo modo che ho per onorare mio padre. Sulle foibe però non vado, fa troppo male: i lager sono diventati veri santuari, sulle foibe nemmeno una croce». Come tutte, anche la storia di Piero finisce con la diaspora. «La mamma, saputo che rischiavamo lei i lavori forzati, io il collegio di rieducazione comunista a Maribor, raccolse le 143 lire che ci restavano e mi portò via a piedi di notte, strisciando sotto i reticolati, fino a Pola, poi da lì sulla motonave Trieste l’addio per sempre alla mia amata terra che il Trattato di Parigi il 10 febbraio, oggi Giorno del Ricordo, nel ’47 cedette alla Jugoslavia: l’Italia intera aveva perso la guerra, ma solo noi pagavamo il suo debito». Iniziava così l’esodo dei 350mila. Per 57 anni la loro storia fu negata da quell’Italia per cui avevano perso tutto, e che anche oggi ha la memoria corta: «Ho sfogliato 31 libri di storia per i licei, solo due raccontano le foibe… Ma quale memoria pretendere da un’Europa che dimentica anche se stessa, che nega le proprie radici cristiane e stacca i crocifissi dai muri?».

Un non cattolico a capo della Pontificia Accademia delle Scienze

Traggo da Avvenire di oggi questo interessante articolo di Andrea Lavazza sul dialogo Scienza/Fede

Metodico e asciutto, come ci si attende – fin troppo banalmente – da un professore svizzero, dice che per lui la nomina è «un grande onore e che l’accoglie come il riconoscimento per il contributo dato alle attività dell’istituzione di cui fa parte da trent’anni». Nessun cenno, anche di fronte a un’esplicita domanda di Avvenire, al fatto di essere un cristiano riformato e, come tale, il primo a sedere alla presidenza della Pontificia accademia delle scienze.

Ma la scelta di Benedetto XVI di porlo sullo scranno occupato fino alla sua morte, nello scorso agosto, dal fisico Nicola Cabibbo ha suscitato a caldo interesse e consensi proprio per la novità costituita dall’apertura a un non cattolico di un organismo della Santa Sede. Premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1978, Werner Arber ha 81 anni e vanta una luminosa carriera nella ricerca, che prosegue anche oggi all’università di Basilea.scienza-fede.jpg

Fisico passato prestissimo alla microbiologia, deve la massima onorificenza scientifica alla scoperta e all’applicazione degli enzimi di restrizione, meccanismi di difesa dei batteri, che hanno provocato una rivoluzione nella genetica. Arber ama spiegare il complicato processo con una favola che inventò sua figlia Silvia, allora decenne, dopo aver ascoltato un racconto semplificato del padre: «In ogni batterio c’è un re, alto e magro, con molti servi, bassi e grassi. Papà chiama il re Dna e i servi enzimi. Il re è come un libro che contiene tutte le istruzioni per i servi. Papà ha scoperto un servo che usa le forbici; quando entra un invasore, lo taglia a pezzi per difendere il re. Gli scienziati raccolgono servi con le forbici e li usano per scoprire i segreti del re. Per questo papà ha vinto il Nobel». Uomo di scienza e di fede, non vede contrasti tra i due ambiti. «Molti pensano che la Chiesa abbia un atteggiamento negativo verso la ricerca. Ma non è questa la mia esperienza. Anzi, la Chiesa cattolica vuole essere informata sulla conoscenza scientifica più solida e avanzata e farvi ricorso». Di fronte alla prospettiva di uno scontro tra visione scientifica e visione religiosa, lo studioso sottolinea come «il Vaticano e le università pontificie sostengano attivamente il dialogo tra la scienza e la Chiesa attraverso, ad esempio, il progetto Stoq (Scienza, teologia e ricerca ontologica)».

Certo, il dialogo è perseguito, ma i risultati? «Spesso si ottengono ottimi frutti». Intellettuale rigoroso, Arber preferisce l’asciuttezza che non lasci spazio a enfasi o ambiguità. Se il discorso si sposta sui rischi che certa scienza può portare all’uomo e alla sua dignità (dalla distruzione di embrioni alla selezione prenatale fino alla clonazione), preferisce vedere il lato costruttivo: «L’impegno comune tra mondo della scienza, mondo dell’economia e società civile (che è rappresentata sia dai leader politici sia dalla Chiesa stessa) possono spesso evitare gli abusi nell’applicazione della conoscenza scientifica».

Netto, il nuovo presidente della Pontificia accademia, è anche sulle sfide che naturalismo ed evoluzionismo portano a una concezione della vita che voglia mantenere spazio per la specificità dell’essere umano. «L’anima e la dignità dell’uomo – risponde – fanno parte del regno delle credenze. Non possono dunque essere oggetto di un’investigazione scientifica». Tuttavia, ciò non significa opporre alla ricerca sul mondo naturale un fideismo che immunizzi una parte dell’esistenza dalle acquisizioni della scienza.

«Al contrario, non ho mai sperimentato una contraddizione tra l’essere uno scienziato e credere nelle verità del cristianesimo, né difficoltà nel tenere insieme questi due ambiti. Piuttosto, può essere che le mie intuizioni scientifiche abbiano per qualche aspetto e in qualche misura influenzato le caratteristiche della mia fede. Ma ciò lo considero soprattutto un arricchimento». La teoria genetica che Arber è andato delineando in mezzo secolo di studi l’ha portato a ritenere che «la natura si prenda attivamente cura dell’evoluzione». Un’affermazione che, scorporata dal rigore dei dati molecolari, ha portato qualcuno a definirlo «un Nobel scettico su Darwin» e arruolarlo tra i sostenitori del cosiddetto “disegno intelligente”. In particolare, l’avere scritto che «sebbene sia un biologo, devo confessare di non comprendere l’origine della vita» e che «la possibilità dell’esistenza di un creatore, di Dio, per me rappresenta una soluzione soddisfacente al problema» l’ha fatto arruolare tra i creazionisti anche in una controversia pubblica negli Stati Uniti.

Tanto da dover precisare di aderire alla «teoria neo-darwiniana dell’evoluzione biologica, che ho contribuito a confermare e precisare a livello molecolare». E oggi tiene a ribadire, con la massima onestà intellettuale, senza timore di scontentare gli uni o gli altri, che «è un dato di fatto che la scienza, con i suoi mezzi, non possa né provare l’esistenza di Dio, né provare che Dio non esista».