Lenin? Hitler?

Un pezzo molto bello di Adam Krzeminski su Internazionale, molto interessante in particolare per le quinte. Il giornalista è esperto di relazioni tra Germania e Polonia, lavora per il settimanale polacco Polytika dal 1973 e collabora con Die Zeit, Der Spiegel e la Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Gli indignati non riescono a fornire un progetto preciso della nuova economia, della nuova società odogmatism.jpg dell’uomo nuovo, che dovrebbero sostituire i modelli dell’ancien régime. Tutte le terapie proposte sembrano parziali e nessuna ispira una fiducia assoluta. Dopo il 1917 la Russia aveva trovato la sua formula magica: mettere tutto il potere nelle mani dei commissari politici e del partito unico, nazionalizzare il più possibile. Nel 1932 negli Stati Uniti si è preferito il New Deal: più Stato e commissioni pubbliche per rilanciare l’economia. Nel 1933 la Germania ha applicato una logica simile con in più l’obiettivo bellico: riprendere ai nemici e redistribuire al suo popolo, con le armi come motore di ripresa dell’economia e con le conquiste che    avrebbero ammortizzato i costi. Un Reich, una nazione, un capo supremo. Dopo il 1945 non è stato difficile trovare nuovi mantra. A Est le parole d’ordine erano: nazionalizzazione, industria pesante, pianificazione economica centralizzata, l’individuo non è nulla il partito è tutto. A Ovest si parlava invece di approfittare degli aiuti, di creare delle comunità con gli ex nemici, di dare vita a un’economia sociale di mercato, di concentrarsi sul pluralismo e sul libero mercato anche se controllato e tassato per finanziare le prestazioni sociali che avrebbero assicurato l’equilibrio sociale. Questo modello ha dimostrato la sua efficacia in Europa, ha garantito la ricchezza e le libertà individuali di cui hanno beneficiato tutte le ideologie uscite dalla tradizione del Diciannovesimo secolo: il liberalismo, il conservatorismo, il socialismo. Negli anni Settanta lo Stato assistenziale, nella sua forma socialdemocratica o democratico-cristiana, era il modello assoluto per gli abitanti dei paesi del “socialismo reale”.

Oggi questo modello è in crisi. L’economia è basata sulla fiducia nelle sue regole, sul fatto che il valore di una merce può essere convertito attraverso il denaro in un’altra merce. Prima della crisi i principali protagonisti dei mercati finanziari si sono fidati delle tecnologie di avanguardia, che avrebbero dovuto minimizzare le probabilità di crollo. Ma quando questo si è verificato, si è fatto ricorso ai filosofi stoici dicendo che il futuro è imprevedibile e si è chiesto aiuto ai governi. A sua volta la popolazione ha fatto ricorso alla retorica religiosa, criticando la cupidigia e l’avarizia (uno dei peccati capitali nella religione cristiana) e chiedendo il pentimento. Oggi è impossibile tornare ai modelli utilizzati in passato. E non vi è una risposta semplice e univoca. Le ideologie classiche hanno perso il loro potere di persuasione. Certo, si può sempre difendere la tesi che l’avvento dell’era post-ideologica è solo una manifestazione della cosiddetta ideologia neoliberista dominante, che avrebbe deliberatamente confuso le differenze fra destra e sinistra, fra socialismo e conservatorismo per aumentare la sua egemonia. Tuttavia oggi è molto diffuso il sentimento che non sono le ideologie ad animare la storia ma  dei fattori completamente diversi, cioè i mercati. Le ideologie tradizionali si sono costruite nella certezza giunta con l’Illuminismo che il mondo è una materia malleabile e plasmabile dall’uomo secondo le sue volontà e sulla base di piani razionali. Tuttavia per spingere la gente a credere in un progetto lo si deve sostenere con una storia appassionata, una storia quasi biblica di espulsione dal paradiso e di arrivo nella terra promessa. Per i conservatori questa storia era il ritorno al periodo eroico; per i marxisti una società senza classi; per i nazionalisti uno Stato nazionale unito dalla solidarietà; per i liberali un regno di libertà. Gli intellettuali invece, tradizionali produttori di ideologia, non credono nell’esistenza di una leva talmente potente da sollevare le fondamenta del mondo. La fine dell’ideologia non è ovviamente la fine della politica. Quest’ultima segue la sua strada, ma ha il fiato corto. I tradizionali partiti ideologici, come i cristiano-democratici, i socialdemocratici, i liberali e i conservatori, sono sempre più deboli. L’erosione ideologica indebolisce l’adesione politica. In un contesto in cui i partiti politici fanno fatica a mettere in evidenza le loro differenze, viene meno l’accettazione stessa del sistema dei partiti e tutte le controversie assumono un carattere artificiale, finendo per alimentare solo il narcisismo dei principali attori politici. Chi emerge da questo contesto è il classico politico populista, senza alcun progetto e visione per il futuro; del resto sa bene che non è questo che interessa ai suoi elettori. Nei movimenti ideologici di un tempo la rabbia era concentrata, il risentimento poteva facilmente dare vita a un ethos collettivo. Il populismo attuale è solo un modo per dare sfogo alle frustrazioni e alle tensioni; provoca solo rivolte e distruzione, e non porterà di certo a un nuovo Lenin, Stalin o Hitler. Se guardiamo alle catastrofi prodotte dall’era ideologica del Ventesimo secolo non siamo nella situazione peggiore. Ma neppure nella migliore, perché la crisi ideologica si accompagna a una crisi fondamentale della fiducia nella politica. I cambiamenti di persona sembrano casuali. E l’attività politica, anche se non porterà al vertice dello Stato dei tiranni, non sarà neanche capace di generare dei veri statisti.

Libri

E dopo aver rivisto per l’ennesima volta, a notte fonda, Fahrenheit 451 di Truffaut… “Non riesco a saziarmi di libri. E sì che ne posseggo un numero probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come con le altre cose: la fortuna nel cercarli è sprone a una maggiore avidità nel possederne. Anzi coi libri si verifica un fatto singolarissimo: l’oro, l’argento, i gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti, il destriero dall’elegante bardatura e le altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una serie di familiarità attiva e penetrante; e il singolo libro non insinua soltanto sé stesso nel nostro animo, ma fa penetrare in noi anche i nomi di altri, e così l’uno fa venire il desiderio dell’altro.” (Francesco Petrarca, Estratto dalla lettera a Giovanni Anchiseo)

 

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Meglio non azzardarsi

ludopatia.jpg«Mio padre – prende la parola un’altra figlia, che ha in serbo parole dure ma le pronuncia con tono amorevole, fissando papà – non c’era mai. Non è stato al mio fianco quando sono stata tanto malata in ospedale, non era con me quando ero felice né quando avevo un problema. Ogni giorno che ha passato giocando lo ha sottratto a me. Lo abbiamo perso entrambi. Adesso mio padre c’è. E ogni giorno che sta lontano dal gioco è un giorno che entrambi guadagnamo».

E’ uno dei passi dell’articolo di Nicoletta Martinelli. In questi giorni se ne sta parlando e scrivendo molto e quindi è più facile essere senibili all’argomento; sarà per questo che solo oggi ho notato che quando devo fare il login per scrivere su questo blog c’è la pubblicità del gioco on-line. Sicuramente è anche per questo che non ho mai accettato di metter dei banner pubblicitari che mi potrebbero far guadagnare un po’ di soldini. Oltre all’articolo che ho segnalato e che merita la lettura (non è neppure lungo), segnalo il servizio delle Iene di qualche mese fa