Scatto la storia

Ancora un pezzo splendido dall’Osservatorio Balcani e Caucaso: chi ama la storia, la fotografia, o semplicemente le storie lo saprà apprezzare. E’ la storia di uno scatto di 20 anni fa esatti. A scrivere è Mario Boccia, l’autore della foto.

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“Seduti fuori un piccolo bar, in via Radojka Lakić (partigiana nata nel 1917 e fucilata nel 1941) io e Edoardo aspettiamo il caffè. Qui, in piena guerra, ho gustato il miglior Nescafè della mia vita, preparato con cura maniacale, con lo zucchero sbattuto a mano, per mascherarlo da espresso con la crema. Per noi giornalisti, costa tre marchi tedeschi. Troppi, ma ben spesi.

Una giornata di lavoro sta per finire. La tregua sulla città regge. Dalle loro postazioni sulle montagne, i militari serbi non stanno sparando. La guerra sembra lontana anche se, a pochi chilometri da qui, gli ex-alleati croati e musulmani si combattono aspramente. Mostar est è allo stremo, assediata da soldati che pregano a Medjugorje. La pulizia etnica è spietata e reciproca ovunque. Nemmeno i villaggi più sperduti sono risparmiati. Perfino Pocitelj, sulla strada che costeggia la Neretva verso il mare, è rasa al suolo. Era il villaggio degli artisti e dei pittori. Hanno piantato una croce bianca alta cinque metri davanti alla moschea bruciata. Per intimidire, non per pregare.

L’altro ieri il “Bošnjacki Sabor”, un parlamento autoproclamato, tutto musulmano, ha respinto l’ennesima proposta di cessate il fuoco della diplomazia internazionale, basata sulla partizione su base etnica del paese. Oggi il parlamento bosniaco ufficiale ha ratificato quella decisione.

L’arrivo del caffè coincide con un sibilo agghiacciante sopra di noi, seguito da un’esplosione che fa male. Prendo le macchine fotografiche e corro dov’è caduta la granata, in via Maresciallo Tito (partigiano, presidente Jugoslavo e fondatore del movimento dei non allineati, nel 1961). Un altro sibilo mi paralizza le gambe. Sento vibrare il muro sul quale mi sono appiattito. Il secondo colpo ha colpito l’altro lato dell’edificio. Mi affaccio dall’angolo: la strada è deserta. Metto il ventotto e misuro la luce, piatta e senza ombre. Mi avvicino, ma un muro scheggiato e un po’ di calcinacci non significano niente. La foto non c’è. Penso ai feriti che ho visto. Non ai morti, ma alle urla dei feriti leggeri, con le schegge in corpo e le ossa fratturate.

Un uomo grida di mettermi al riparo. Vicino la “Vječna vatra” (la fiamma eterna di Sarajevo che dal 6 aprile 1946, anniversario della liberazione, ricorda i caduti nella guerra contro i nazisti), sull’altro lato della strada, c’è un androne. Una decina di persone sono lì dentro, strette in silenzio. “Rimani qui”, dice. Occhi che mi guardano, espressioni tese di gente dignitosa. Questa è la foto. Stringo la macchina, l’obiettivo è giusto, ma esito. Un’altra esplosione. Scappo fuori, senza avere avuto la forza di scattare. Lo rimpiango. Non ho retto quegli sguardi. Mi sentivo un estraneo. Privilegiato e giudicato per aver scelto di essere lì (forse sono arrossito). Almeno ora sono sotto tiro, come gli altri. Guardo quello che succede attraverso una lente. La macchina è uno scudo che protegge e tiene a distanza.

Un altro sibilo, meno forte, l’esplosione tarda (un paio di secondi?), è più lontana. Vedo movimento verso il mercato. Mi avvicino, monto il duecento, seleziono un tempo veloce, controllo la luce. Una ragazza mi corre incontro. Inquadro, scatto e maledico di non avere impostato il motore sullo scatto continuo (per non sprecare pellicola). Troppo tardi, ormai mi è addosso e mi supera, ignorandomi. E’ finita.

Scatto ancora. Una coppia che corre, una donna dall’altro lato della strada, ma tutto sembra di meno. Ho in testa lo sguardo della ragazza che corre. Quella ragazza non correva per paura, ma per rabbia. Essere entrambi sotto tiro non ci mette sullo stesso piano. La sua rabbia la posso intuire, ma non condividere. Lei è a casa sua e stanno sparando sulla sua città, le sue abitudini, la sua vita. Io sono un ospite volontario (e retribuito). Parte della sua rabbia deve essere anche per me, che ho rubato l’intimità di quella corsa. Che ci faccio qui? “Dovere di cronaca”, certo, ma ripeterselo non è sufficiente. Lo stomaco si contrae di nuovo per un’esplosione più vicina, e i pensieri spariscono.

Passano alcuni minuti. Ora c’è silenzio. Penso che uno scatto buono forse l’ho fatto. Non ho mai smesso di camminare, di guardarmi intorno. Non ho visto feriti, per fortuna. Mi sono sempre sentito uno sciacallo, dopo quelle foto.

Cerco di ragionare. Pochi giorni fa il primo ministro serbo bosniaco Vladimir Lukić, a Pale, ci aveva rilasciato un’intervista rassicurante. Sembrava estraneo a quello che succedeva nel resto della Bosnia. Per lui la guerra era una storia residua di terre contese tra croati e musulmani, poi si sarebbe ufficializzata la divisione del paese. E adesso? Perché hanno ripreso a sparare su Sarajevo? Volevano contestare la decisione del “Bošnjacki Sabor”? Qualcuno scriverà che queste granate sono solo un monito. Si può morire per un “monito”? Che pensava la ragazza che correva? Perché non intervistare lei, piuttosto che i soliti tromboni? Non devo pensarci adesso, sono qui per scattare foto e raccontare fatti.

Torno verso il bar. I caffè sono ancora sul tavolo. Edoardo mi chiama urlando e insultandomi. Per sdrammatizzare, faccio un piccolo coup de théâtre: prima di entrare prendo i piattini con le tazzine piene. Voglio dire che va tutto bene con un gesto. Anche nel bar è pieno di gente, come nell’androne. Entro e le mani iniziano a tremare forte, non posso farci niente. Il caffè, ormai freddo, schizza fuori. Tutti ridono. Almeno è servito a questo.

Edo mi abbraccia (sento ancora quella stretta). Una ragazza con un occhio bendato mi offre una grappa. Si chiama Amra. Sorride. Poi saprò che il padre le è morto davanti pochi mesi fa, proteggendola con il corpo, quando una granata esplose mentre uscivano di casa, in via Mehmed Pascià Sokolović (Gran Visir ottomano che fece costruire il ponte sulla Drina a Višegrad, nel 1571. Suo fratello era Makarije Sokolović, Patriarca cristiano ortodosso di Peć).

Le targhe stradali, color rosso bruno, raccontano storie di resistenza e inclusione. Non potrebbe essere altrimenti. Siamo a Sarajevo.”

(Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso)

Pensiero d’Oriente in Italia

Avete un quarto d’ora di tempo? Un tempo calmo, rilassato, non rubato a mille impegni, di quelli che si portano dietro pure il senso di colpa del furto. Bene, chi vuole può dedicare quel tempo alla lettura di questa intervista di Sabrina Conti a Tamotsu Nakajima, Presidente Nazionale del Soka Gakkai (Società per la realizzazione del Valore). Va detto che in rete si trovano anche molti articoli contrastanti su questa corrente. Metto il link del Cesnur e quello a un articolo de L’Espresso di luglio, invitando a leggere i numerosi, variegati e vivaci commenti…

 

simbolo-della-soka-gakkai.jpgIl buddismo ha origini antichissime, ma la vostra comunità è stata fondata negli anni ’30 in Giappone da Tsunesaburo Makiguchi

Prima di tutto bisogna considerare la storia del buddismo che vediamo ora e quella che era in origine. Questo non è facile. Difficile fare chiarezza in questo. Spesso il risultato è frutto di un ragionamento, non della effettiva realtà derivata da fatti realmente accaduti e che hanno portato ad un mutamento.  La laicità, che altro non vuol dire se non che non ci sono Preti o Bonzi, è frutto di varie fasi della storia. Ecco perché è inutile analizzare un solo aspetto. Ecco il Soka Gakkai nasce sicuramente nel 1930, prima della fine della seconda guerra mondiale.

Portare l’Oriente in Occidente, voi avete fatto questo; ma la cultura Orientale è ricca di introspezione di momenti di ricerca all’interno di sé.

Ed il buddismo è semplicissimo: causa ed effetto; quale è stata la causa dell’attuale situazione?  Che cosa è stato fatto perché ci accadesse ciò? Ogni cosa dipende da questo: sia passato, presente o futuro. Anche noi siamo laici, prima avevamo i preti. Ma ad un certo punto, essere preti è diventato come un lavoro. Il buddismo è uguale per tutti: solo con la pratica si riesce realizzare quello che professa il buddismo. Anche i preti praticavano, come tutti.  Ma se questo diventa lavoro non c’è più illuminazione. Tanti preti pensano: noi siamo superiori, ed i credenti pensano noi siamo inferiori. Molti non spiegano, danno dei dogmi, senza raccontare le origini.

Forse, volendo dare una colpa, alla perdita delle origini, la si può ricercare nel consumismo, nell’allontanamento dalla natura, nella perdita di coscienza verso ciò che ci circonda e che è all’origine della Vita. Voi come vivete questo rapporto col Creato?

Nel buddismo l’essere vivente e l’ambiente che lo contiene non sono due realtà separate” altrimenti non si comprende questo principio fondamentale del buddismo.  Bisogna migliorare l’ambiente, per migliorare le persone stesse. Le persone sono nate dalla natura. Sono un elemento della natura, e non esseri superiori che hanno il diritto di dominarla. Questa convinzione deriva dall’uso dell’intelligenza errato, da tutto quello che l’uomo ha creato e che lo fa credere superiore. L’intento del buddismo è vivere in armonia con le persone, tra le persone, e con l’ambiente. Bisogna vivere ogni giorno singolarmente e gioire della vita. E’ appunto questo il punto critico a cui mi riferivo prima. La nostra società è quella del nulla, delle apparenze: questo viene trasmesso sin dalla prima infanzia. Sembra difficile vivere cercando al proprio interno l’energia positiva e propositiva.

Che buddismo seguite?

La nostra è la scuola buddista fondata da Nichiren Daishonin. Molte cose sono rimaste ai nostri giorni esattamente come aveva insegnato lui: l’oggetto di culto, la recitazione della Legge mistica “Nam-myoho-renge-kyo”, e l’atteggiamento fondamentale di lottare contemporaneamente per felicità degli altri e per la propria. Poi il risultato dipende dalla sincerità, dalle azioni e dal comportamento di ogni praticante. In origine si pregava solo per sé, ognuno si impegnava a realizzare la propria illuminazione.  Ma nel buddismo la pratica – come dicevo prima – significa pratica per sé e per gli altri.  È fondamentale sviluppare il desiderio di star bene tutti insieme e non solo se stessi. È questo il cambiamento dalle origini, di cui parlavamo prima. Ed è per questa ragione che si passa attraverso l’oggetto di culto e delle parole. La nostra pratica buddista è molto semplice: la mattina e la sera io recito due capitoli del Sutra del Loto e Nam-myoho-renge-kyo. In questo modo, attraverso questa causa, nasce l’effetto, con la comunità di pensiero, l’energia si muove. In realtà, nessuno mi regala niente, sono io che poi devo realizzare tutto attraverso i miei sforzi. Se io ho la capacità riesco, se non ho capacità non riesco. Ognuno ha la capacità, ognuno è potenzialmente un Budda: natura ed apparenza sono tutto in uno.

Chi si avvicina a voi crede già in questo?

Noi seguiamo l’insegnamento e l’esempio dei nostri Maestri (Tsunesaburo Makiguchi, Josei Toda e Daisaku Ikeda), ma loro non sono i nostri guru, non li adoriamo. Sono un esempio. Il Maestro è uno che pratica il Buddismo e che indica la strada.

A parte l’esempio che può dare nella vita di tutti i giorni, passerà dei messaggi che lui trova dentro di sé e li trova perché ha fatto un percorso?

Senz’altro. Proprio così, il maestro sta facendo un percorso nella sua vita per diventare profondamente buddista. Non è facile praticare realmente il buddismo, e realizzare, mano a mano che si va avanti. Ognuno ha il suo modo di praticare. L’esempio è fondamentale: si guarda l’altro non con invidia ma come esempio, se lui è arrivato posso farlo anche io. La vita è da utilizzare, ci vogliono speranza e gioia, non disperazione. Quello che ognuno passa ora è stato vissuto prima da un altro, le difficoltà vanno superate e le persone incoraggiate. Cerchiamo di comportarci bene, la legge c’è. Che uno sappia o no la legge c’è. 

Vi avvicinano più giovani o persone adulte che hanno già un loro vissuto e, con quale realtà è più facile approcciarsi?

Cambia a seconda dei  periodi. Quando c’era il movimento dei giovani, in tanti cercavano qualche cosa in più. Una via da seguire.

E sono rimasti o si sono adeguati agli schemi precostituiti dalla Società?

Tante persone cercano un ideale da realizzare tutta la vita. Se non riescono a mantenere quell’ideale a metà strada si adagiano. E prendono strade più comode. La comodità, forse è illusione.

Apparenza?

Sì.

Si nasce, cresce e muore e basta così? In pochi pensano che la vita abbia uno scopo, un percorso di ricerca.

La gente ha paura di quello che non vede tangibilmente, questo è un biscotto ma se io non lo vedo … tanti anche vedendo il biscotto non lo mangiano.

Essere un Maestro, come Lei, cosa significa?

Io sono sempre un apprendista, ho i difetti come gli altri, ogni giorno devo imparare. Io non capisco mai abbastanza il buddismo. Ad esempio questi sono gli scritti di Nichiren Daishonin, il fondatore della nostra scuola buddista.  Lui esprime delle teorie ben precise sul buddismo: sono lettere mandate ai credenti, e noi abbiamo tradotto dal giapponese all’inglese e dall’inglese all’italiano. perciò il passaggio della traduzione un po’ cambia. Sono 172 pezzi in cui incoraggiava i credenti. Il buddismo non è negli scritti, il buddismo è come vive la persona, come ha vissuto. Il Sutra è composto di parole, è un insegnamento. È importante come si utilizza il Sutra nella vita stessa. Noi viviamo la vita ogni attimo. La situazione cambia sempre nessuna cosa è ferma, io stesso cambio ogni attimo. Un attimo prima sono riuscito a fare una cosa, l’attimo dopo non si sa. Siamo noi che influenziamo attimo dopo attimo. Il nostro lavoro è aiutare la persona quando è in difficoltà. Il buddismo pensa a come poter essere utile a quella persona.

Accade che i buddisti scelgano un altro credo?

Quello che ho potuto vedere, succede che sperimentano qualche altra cosa e poi tornano a praticare il buddismo di Nichiren Daishonin.

Vivendo nella società ci saranno problematiche comuni al resto della società, ad esempio il divorzio. Sembrerebbe impossibile che accada questo evento in una coppia buddista che dovrebbe vivere nell’armonia.

Tutto è lasciato libero. Se si rivolgono a me esponendo le difficoltà rispondo, aiuto, ma se non lo fanno, non posso fare nulla.  Comunque sia il momento che stiamo vivendo ora è nulla in confronto al passato, ai miliardi di persone che sono vissute prima di noi. Noi abbiamo un legame perché siamo qui in questo momento. Come italiani abbiamo pure un legame tra storia e vita attuale. Quello che noi sentiamo crea un legame, noi creiamo movimenti per la pace per la cultura. Tutto bello, ma noi dobbiamo ragionare su come agire nella vita quotidiana: coi vicini, il lavoro, i quartieri … Non sempre “contro qualcuno” ma “con qualcuno”. Chi arriva nella nostra comunità, sente il meccanismo dell’essere vicini e in più, sente l’importanza del legame, di aiutarsi l’uno con l’altro.

L’Italia è un paese difficile per il buddismo?

Fortunatamente è molto difficile, ma hanno delle necessità gli italiani, delle necessità differenti dagli altri Paesi, ed hanno molto cuore, sono umani.

Come vi siete posti con la strage dei monaci in Birmania, un martirio di pacifici e silenziosi uomini uccisi con una violenza tanto grande?

Ogni singola persona, in ogni singolo istante, vive sia una parte molto buona ma, al contempo, molto cattiva: bene e male sono due facce della stessa medaglia. Per noi buddisti questo punto di vista non è difficile da comprendere. Si parla di diritti umani. Ogni singola persona ha diritto.

E quindi come si spiega la diversità nel mondo?

Noi professiamo pace ed educazione.  Attualmente c’è solo egoismo o egocentrismo. Non ci si preoccupa di nulla … domani mi candido, domani tolgo l’Imu … di fronte ad un guadagno immediato personale … non importa il peggioramento.  Il buddismo parte sempre dalla comunità.

La vostra comunità è in crescita?

Si ma bisogna migliorare la qualità e la pratica.  Se tu vuoi cambiare una società confusa non è sufficiente la quantità ma il come. Ognuno deve guardare se stesso.

Voi aiutate nel sociale?

Noi facciamo solo attività religiosa in Italia, all’estero si fanno anche altre cose. Nello specifico in Italia cerchiamo di combattere contro le armi nucleari.  Abbiamo una università in California che non è una università “religiosa”. Il presidente Ikeda è stato insignito dall’ONU di un riconoscimento per la pace. Nei primi anni settanta ha riaperto il dialogo con Cina. La Soka Gakkai è anche intervenuta in aiuto alla popolazione della Cambogia.

Come vi ponete con le altre religioni, quali sono i punti di confronto?

Io non so, per cui prima devo sapere. Almeno cerco di ascoltare tutto quello che dice l’altra persona senza pregiudizi.

Con i cattolici che rapporto avete?

Cerchiamo di dialogare ma c’è qualche difficoltà.

Attuate dei progetti insieme?

Con la comunità di Sant’Egidio, abbiamo raccolto le firme per la moratoria sulla pena di morte.

Voi non vi occupate di politica?

No qui no, in Giappone sì: diciamo ai giovani di seguirla. La politica va intesa come interesse per le cose del Paese. Le singole persone devono interessarsi di tutto. La democrazia è una bella cosa, ma chiede impegno.

I giovani si possono aiutare?

I giovani d’oggi sono bravissimi. Io ho insegnato a scuola – 50 anni fa. Ogni anno gli studenti sono diversi. Dai 16 ai 22, 23 anni sono veramente in gamba. Hanno qualche cosa in più sono saggi anche se con poca esperienza. Ecco credo che tutte le credenze debbano aiutare i giovani.

E la donna?

La donna ha una sensibilità diversa nell’Occidente; cultura che forse nell’oriente è più sviluppata anche fra gli uomini. Qui si sono mantenute la storia e la tradizione. Nel buddismo non c’è differenza. È una domanda frequente questa che lei mi fa. Gli uomini seguono la famiglia: nonno padre nipote… le donne seguono la prosperità. Le donne hanno più forza. La loro vita è attaccata al quotidiano, educano i figli. L’educazione famigliare è fondamentale. Non intendo l’essere mammoni. Le donne hanno forza ovunque. Anche nella Soka Gakkai, sono le donne che portano avanti l’attività buddista, tranquille e costanti, gli uomini a volte la portano avanti solo per mettersi in mostra ma, per fortuna, il 60% dell’istituto è composto da donne.

Qual è il problema più grande oggi?

Egocentrismo, ognuno pensa per sé, per i suoi parenti ed amici. L’egoismo. L’ignoranza nel senso di non sforzarsi per conoscere di più. Sforzo considerato inutile. Chi domina la società vuole mantenere ignorante il popolo. Così dura di più … da sempre è così.

Questa migrazione dei popoli, questo mischiarsi può essere una chiave di salvezza per l’umanità?

Un aiuto sì, conoscersi di più scambiando le culture. Anche la tecnologia se usata bene è senz’altro positiva. Ma in molti casi non viene sfruttata correttamente, e l’essere umano rischia di diventarne solo schiavo. L’umanità deve prendere coscienza e ragionare. Le persone devono riappropriarsi dell’intelligenza.

La dittatura dell’essere

Oggi ho voglia di solleticare il pensiero, cercare di ragionare sul perché in seconda stiamo parlando di senso critico, di drizzare le antenne, di porci in maniera attenta davanti alla realtà… E’ un brano che può interessare anche le quinte in riferimento alla globalizzazione e a taluni fenomeni di massa che a volte si palesano. La fonte? “1984” di George Orwell. Faccio notare che il libro è stato scritto nel 1949! Quanto risente del recente passato bellico? Quanto riesce a intravedere del lontano futuro?

1984_2_george_orwell.jpg“O’Brien accennò un sorriso. «Tu sei una falla nel nostro disegno, Winston. Sei una macchia che dev’essere cancellata. Non ti ho detto forse, appena un minuto fa, che noi siamo del tutto diversi dai persecutori del passato? A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà. Noi non distruggiamo l’eretico perché ci resiste: fino a che ci resiste, ci guardiamo bene dal distruggerlo. Noi lo convertiamo, ci impossessiamo dei suoi pensieri interni, gli diamo una forma del tutto nuova. Polverizziamo in lui ogni male e ogni illusione. Lo riportiamo al nostro fianco non solo apparentemente, ma nel senso più profondo e genuino, nel cuore e nell’anima. Ne facciamo uno dei nostri, prima di ucciderlo. È intollerabile, per noi, che anche un solo pensiero partecipe dell’errore possa esistere in qualche parte del mondo, pur se nascosto e innocuo. Anche nello stesso istante della morte non possiamo consentire alcuna deviazione. Nel passato, l’eretico marciava verso il rogo restando eretico, proclamando alta la sua eresia ed esultando in essa. E persino la vittima dei repulisti russi poteva recare il germe della rivolta, e anzi la rivolta stessa, chiusa nel cranio, mentre s’incamminava al luogo dove l’avrebbero fucilato. Noi invece rendiamo perfetto il cervello, prima di farlo saltare. Il comandamento dei vecchi regimi dispotici era: Tu non devi. Il comandamento di quelli totalitaristi era: Tu devi. Il nostro comandamento è: Tu sei. Nessuno tra coloro che portiamo qui ha mai fatto prova di resisterci. Ognuno viene completamente mondato e purgato. Persino quei tre miserabili traditori nella cui innocenza tu hai creduto una volta – Jones, Aaronson e Rutherford – dovettero cedere, infine. Presi parte io stesso ai loro interrogatori. Sono stato io stesso testimone del loro graduale logorio, delle loro lamentele, delle loro invocazioni, dei loro gemiti, dei loro pianti disperati e miserevoli… In fine non ci fu più dolore, né paura, ma soltanto pentimento. Quando avemmo definitivamente terminato con loro, non rimaneva di loro che il guscio. Non c’era, in loro, che doloroso pentimento per quel che avevano fatto e amore per il Gran Fratello. Era davvero commovente vedere quanto l’amavano. Chiesero essi stessi di esser fucilati al più presto possibile, per fare in modo che le loro menti si mantenessero immacolate.»”