Parlare del tempo, inteso come meteo, è sempre stato per me un po’ più di un passatempo (mi si perdoni il giochino di parole). La previsione non mi basta, mi interessa capire, osservare, crearmi delle aspettative; forse anche per quei due anni passati a Scienze geologiche, in cui i temi della climatologia e della circolazione atmosferica erano tra quelli che maggiormente mi coinvolgevano. Il 12 novembre il Corriere della Sera apriva la sua homepage con un “Gelo ovunque” che mi ha fatto molto sorridere: non c’era traccia di nevicate a bassa quota, né di temperature generalmente sotto lo 0. Ciò mi ha fatto pensare a quanto spesso ormai il meteo occupi i primi posti tra le notizie importanti di telegiornali e quotidiani, spesso senza giustificazione. Abbiamo smesso di dare nomi (idioti, mi si conceda) alle perturbazioni, però si è iniziato a numerarle ed è sempre forte il tam tam sull’arrivo di un nuovo fronte atlantico o artico o africano… in caso di emergenze partono dirette di ore e ore… i film di genere catastrofico (tempeste, uragani, tifoni, allagamenti, esondazioni, ma anche terremoti, incendi ed eruzioni… a quando il film su Fukushima?) hanno sempre una buona resa al botteghino. Tutto questo mi è venuto in mente mentre leggevo un passo di Rumore bianco di Don DeLillo:
“Quindi gli parlai della recente serata a base di lava, fango e infuriare d’acqua, che i ragazzini e io avevamo trovato tanto emozionante.
– Ne volevamo ancora, sempre di più.
– E’ naturale, è normale, – rispose lui, con un rassicurante cenno del capo. – Succede a tutti.
– Perché?
– Perché soffriamo di svanimento cerebrale. Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l’incessante bombardamento dell’informazione.
…
– Il flusso è costante, – riprese Alfonse. – Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché capitino da un’altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California. Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri perché nell’intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a condannarli.
…
Il Giappone è una buona fonte di documentari sui disastri. L’India invece rimane largamente poco sfruttata, pur disponendo di un potenziale tremendo con le sue carestie, i monsoni, i conflitti religiosi, le catastrofi ferroviarie, gli affondamenti di imbarcazioni, eccetera. Ma sono disastri che tendono a non venire riferiti. Tre righe di giornale. Niente documentari fotografici, niente collegamenti via satellite. Ecco perché la California è così importante. Non soltanto godiamo di vederli puniti per il loro stile di vita sibarita e le idee sociali progressiste, ma sappiamo anche che non ci perdiamo niente. Le telecamere sono lì, sul posto. Nulla di terribile sfugge al loro esame.”
Un dato e una domanda. Il dato: il libro è del 1985! La domanda: qual è la nostra California?
