Un’interessante e breve (viste la complessità e la vastità della problematica) ricostruzione delle ultime tappe del dialogo interreligioso da parte di Gianfranco Ravasi su Avvenire del 31 dicembre 2016.
«A ognuno di voi è stata assegnata da Dio una regola e una via, mentre se Egli avesse voluto avrebbe fatto di voi una comunità unica. Ma non ha fatto questo per provarvi in quello che vi ha dato. Gareggiate, allora, nelle opere buone, perché a Dio tutti voi tornerete. Allora egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia». È questo un passo suggestivo del Corano ( V, 48) nel quale si riconosce che la diversità delle “regole” e delle “vie”, cioè dei riti, delle dottrine e delle norme morali, è contemplata da Dio nel suo progetto sull’umanità.
E si afferma che sarà solo alla fine dei tempi, cioè nell’escatologia, che tutti ritroveranno un’unità attraverso un’illuminazione divina. Siamo partiti dal Corano – che agli occhi di molti appare come il testo sacro più integralistico – per affermare che il dialogo interreligioso in realtà appartiene all’anima profonda di tutte le religioni, in particolare delle tre monoteistiche. Per noi cattolici alla base c’è il Concilio Vaticano II, con la fondamentale dichiarazione Nostra aetate, promulgata il 28 ottobre 1965. In essa, come è noto, non solo venivano prese in considerazione le varie religioni non cristiane ma si riservava un’attenzione particolare proprio all’islam (n. 3) e all’ebraismo (n. 4) e si ribadiva con fermezza che «non possiamo invocare Dio Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini, creati a immagine di Dio» (n. 5). È in questo spirito che già l’anno prima, il 19 maggio 1964, Paolo VI istituiva un Segretariato per i non Cristiani, che Giovanni Paolo II, con la costituzione Pastor bonus del 28 giugno 1988, ha trasformato nell’attuale Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. In questa delicata, ma anche necessaria e affascinante, esperienza di dialogo è indispensabile navigare evitando due scogli opposti che ininterrottamente si presentano davanti ai credenti delle diverse religioni.
Da un lato, infatti, c’è la Scilla dell’integralismo identitario esclusivo che ha appunto nel fondamentalismo il suo vessillo spesso insanguinato: la cronaca tragica di certi Paesi dell’Asia e dell’Africa, ma anche le esplosioni inattese di queste degenerazioni religiose nello stesso Occidente ne sono una terribile testimonianza. Aveva ragione lo scrittore Jorge Luis Borges quando già nel 1962, nei suoi Labirinti, osservava che «è più facile morire per una religione di quanto lo sia viverla assolutamente». D’altro lato c’è, però, la nebbiosa Cariddi del sincretismo incolore che relativizza ogni Credo stemperandolo in un’innocua melassa spirituale. L’autentico dialogo è, infatti, l’incontro attento e rispettoso (dià-) tra due lógoi religiosi dotati di una loro identità teologica e culturale.
Non è possibile riassumere in poche righe la molteplicità delle esperienze vissute e delle espressioni teologiche che questo dialogo ha realizzato, pur nella complessità e nelle difficoltà che si sono registrate, anch’esse comunque appartenenti al progetto di Dio che – come afferma il passo della sura V – ci ha «messo alla prova in quel che ci ha dato». Desideriamo soltanto segnalare, in ambito cristiano, il delinearsi di una vera e propria “teologia delle religioni” che Heinz Robert Schlette, discepolo del famoso teologo Karl Rahner, ha definito come «un terreno dogmaticamente nuovo, paragonabile alle zone in bianco degli antichi atlanti». Si sono così aperti diversi itinerari di ricerca, alcuni collegati a percorsi già battuti nei secoli scorsi. Il caso della tradizionale prospettiva “esclusivista”: Cristo è l’unico mediatore di salvezza, implicitamente o esplicitamente riconosciuto, e la Chiesa è direttamente o indirettamente l’unica istituzione di salvezza. Celebre è il motto Extra Ecclesiam nulla salus, formulato dallo scrittore cristiano del III secolo Origene e dal vescovo di Cartagine Cipriano: la salvezza è universalmente offerta attraverso il canale della Chiesa che – per usare le immagini di questi autori – è la casa-città di rifugio, è l’arca che sottrae al diluvio, è la madre nutrice di vita.
La perentorietà della formula, adottata da vari Padri della Chiesa e da alcune affermazioni del magistero ecclesiale medievale (in particolare dal Concilio di Firenze del 1442), è stata sottoposta successivamente a un complesso processo interpretativo, soprattutto per la definizione del concetto di “Chiesa” e quindi dell’ampiezza del suo spazio salvifico. Si è così introdotta una visione di indole più “inclusivista”: i valori positivi delle religioni non cristiane sono destinati a trovare compimento nel cristianesimo (così il teologo e cardinale Jean Daniélou); chi accoglie con coscienza pura la grazia divina e vive con fedeltà il suo impegno morale e spirituale, a qualsiasi religione (o a nessuna religione) appartenga, è in pratica un «cristiano anonimo » (il citato Karl Rahner). L’incontro interreligioso di Assisi del 1986 fu l’icona vivente di questo nuovo atteggiamento, già fatto balenare dal Concilio Vaticano II nel citato documento Nostra aetate (n. 2). Ma negli ultimi anni è apparso un terzo modello, di tipo “pluralistico”, che al precedente paradigma “cristocentrico” ha sostituito quello più generale “teocentrico”.
La proposta fu avanzata dal teologo presbiteriano John Hick, secondo il quale la salvezza promana da Dio, “Realtà ultima”, e quindi ogni religione con la sua verità è uno spazio di salvezza. È evidente che questa prospettiva, mettendo tra parentesi la funzione specifica di Cristo, relativizzava la religione cristiana, riconducendola a una forma spirituale tra le tante, senza la sua identità specifica. È per questo che si giunse nel 2000 alla dichiarazione vaticana Dominus Jesus in cui la Chiesa cattolica riaffermava l’unicità della salvezza in Cristo, almeno in modo “inclusivo”.
Nel frattempo però sono state elaborate altre proposte di taglio “relazionale”, nello sforzo di porre l’identità cristiana in relazione creativa con le altre tradizioni religiose: i nomi di teologi come Jacques Dupuis, Claude Geffré, Hans Küng, Michael Amaladoss hanno superato i confini delle facoltà teologiche, suscitando un dibattito molto effervescente, ma anche alcune reazioni cattoliche ufficiali negative, trattandosi talora di proposte radicali, drastiche e in qualche caso provocatorie. Abbiamo voluto descrivere sommariamente questa mappa teologica piuttosto articolata e variegata per far comprendere quanto sia necessario, ma anche complesso, il dialogo interreligioso sia tra i monoteismi sia nello spettro più vasto dei fenomeni religiosi.”
Credi nella Forza?
Mi era sfuggita questa notizia alla fine del 2016: lo jedismo non è una religione secondo la British Charity Commission. Ne ha scritto su La Stampa Giancarlo Loquenzi. Se poi qualcuno vuole approfondire suggerisco la Bbc.
“Non è facile essere un Cavaliere Jedi oggigiorno. E non tanto per colpa del lato oscuro che incombe o per la malvagità dei Sith, i nemici di sempre. Nei nostri tempi secolarizzati l’avversario peggiore può nascondersi nelle pieghe della burocrazia inglese e rivelarsi invincibile.
Lo scontro si è svolto davanti ai commissari della British Charity Commission a cui il Tempio dell’Ordine degli Jedi si era rivolto in cerca delle detrazioni fiscali garantite alle religioni riconosciute, e i Cavalieri hanno dovuto soccombere. I circa 170 mila devoti della Forza che vivono nel Regno Unito si sono visti respingere, con una memoria di dieci cartelle ampiamente argomentata, la loro richiesta di essere riconosciuti come un culto originale e per questo godere delle «charity law» inglesi.
Daniel Jones, Master del Tempio (nel 2009 venne cacciato da un negozio Tesco perché rifiutava di togliersi il cappuccio da Jedi), non si è scoraggiato e ha detto che i suoi Cavalieri continueranno a fare del bene e a tenere in equilibrio la Forza anche in mancanza di uno status legale. Si è anche detto convinto che nel giro di qualche anno le regole dovranno riconoscere la natura religiosa del jedismo.
Stando alle cronache la religione Jedi è nata sull’onda di un malizioso inganno, quando nel 2001, per la prima volta, il censimento inglese chiese ai cittadini a quale religione appartenessero, molti non gradirono la domanda e misero nella casella il nome Jedi. Alla fine risultò che almeno 400 mila inglesi si riconoscevano nell’ordine di monaci guerrieri, armati di spada laser e devoti alla Forza e alle sue regole. Più o meno quanti dissero di appartenere a Scientology.
Ma il tempo fece giustizia dell’idea che si trattasse soltanto di un folto gruppo di buontemponi miscredenti. Nei censimenti successivi il numero dei fedeli calò ma rimase poi stabile sui 170 mila, mentre nuovi templi Jedi si aprivano in altri angoli del mondo.
Il Tempio dell’Ordine degli Jedi è cresciuto e si è consolidato nel tempo, con una sua gerarchia e una sua specifica dottrina. Al centro c’è pur sempre la Forza, «un potere metafisico e onnipresente che ogni Jedi ritiene corrispondere alla natura profonda dell’universo». L’ordine ammette di aver tratto spunto per il suo credo dalla saga di Star Wars e dalle idee di George Lucas, ma «non venera» il film o il suo autore, piuttosto crede nel jedismo come «una religione in se stessa», non basata sulla fiction, ma su miti anteriori e capaci di guidare i fedeli nella vita reale. Il Tempio si fonda su un Credo, Tre Principi (Focus, Conoscenza e Saggezza), 16 Insegnamenti e 21 Massime.
Tutto questo però non è bastato alla Commissione per accordare al jedismo lo status religioso. «Mancano gli elementi spirituali e non-secolari tipici di una religione» si legge nelle motivazioni. E inoltre, pur riconoscendo un intento benefico e caritatevole all’interno della comunità dei fedeli, «il Tempio non ha dimostrato di poter promuovere la crescita etica e morale di un più vasto pubblico». La Commissione ammette di non essere chiamata a decidere sulla verità o meno di un credo religioso, ma stabilisce che una religione debba distinguersi da una filosofia o da un «stile di vita» in virtù di una «convinzione spirituale che abbia un contenuto formale e distinto, coerente e serio».
Forse sarebbe stato più convincente affermare il potere mistico della Forza, descrivendo, in opposizione, il suo lato oscuro. Yoda lo spiega bene al giovane Luke Skywalker. «Rabbia, paura aggressività, sono il lato oscuro. Non è più potente, ma più rapido, più facile, più seducente». I commissari di Sua Maestà avrebbero fatto forse meno fatica a riconoscere qualcosa di «coerente e serio» nei nostri tempi bui e minacciosi, sperando magari che qualche Cavaliere senza tasse e senza paura sapesse portare un raggio di luce”.
La musica del bosone
Guido Emilio Tonelli è professore ordinario di Fisica Generale presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa. Domenica 22 gennaio ha scritto su LaLettura del Corriere della Sera questo interessante articolo che ho trovato qui.
“Quella specie di cinguettio l’hanno sentito tutti: qualcuno ha avuto l’idea di trasformare in suono il segnale registrato dai due interferometri di Ligo e l’impatto mediatico è stato enorme. Il 14 settembre 2015 la grande infrastruttura di ricerca statunitense ha rivelato una minuscola, ma inequivocabile, variazione di distanza nel sistema di specchi illuminati da fasci laser di potenza. Era il segnale che i ricercatori sognavano di vedere da vent’anni: un fremito sottile dello spazio-tempo, una leggerissima perturbazione dovuta al passaggio di un’onda gravitazionale. Einstein l’aveva ipotizzato nel 1916 ma c’era voluto quasi un secolo di sviluppo della tecnologia per verificare le sue previsioni.
Il segnale ha avuto una durata di 0,2 secondi e la forma caratteristica di un’oscillazione che aumenta di frequenza e di ampiezza in circa otto cicli. Si passa dai 35Hz dei primi cicli ai 250Hz degli ultimi. È la sequenza tipica di onde gravitazionali emesse da un sistema binario: i due corpi ruotano su orbite sempre più piccole e veloci fino al collasso in un unico corpo celeste. Le frequenze del segnale si trovavano nella banda dell’udibile ed è stato naturale trasformarle in suono. Ne è uscito qualcosa che assomiglia al cinguettio di un uccellino, un trillo che diventa sempre più acuto.
Quella sequenza di suoni così delicati racconta in realtà un’immane catastrofe cosmica: uno sconquasso di 1,4 miliardi di anni fa, quando, in una lontanissima galassia, due enormi buchi neri sono entrati in collisione. I due corpi, ciascuno pesante più di trenta Soli, hanno dapprima spiraleggiato, vorticosamente, e alla fine della folle danza, si sono fusi viaggiando l’uno nella braccia dell’altro, alla velocità spaventosa di 180.000 km/s. Nella pazzesca accelerazione degli ultimi istanti il sistema ha irraggiato un’immane quantità di energia, l’equivalente di tre masse solari, sotto forma di onde gravitazionali che hanno perturbato il cosmo intero per giungere fino a noi.
Il cinguettio dello spazio-tempo percosso dalla fusione di due buchi neri è l’ultimo esempio, in ordine di tempo, della trasformazione in suono di fenomeni fisici o di dati di vario tipo. Una pratica che si va estendendo nei campi più variegati della ricerca. È basata sulla cosiddetta sonificazione, cioè l’utilizzo di algoritmi che associano dati numerici a note e strumenti musicali appropriati. Il primo esempio di sonificazione di successo si deve forse al professor Hans Geiger e al suo studente Walther Müller, inventori del più popolare rivelatore di particelle ionizzanti che da loro prese il nome. L’interazione di una particella col contatore, segnalata dal caratteristico clic, rendeva lo strumento di immediata comprensione anche per i non specialisti e giocò un ruolo importante nel determinarne la diffusione.
La trasformazione in suoni di fenomeni fisici o di dati ad esso correlati non è un semplice divertimento, o un pretesto per costruire lavori musicali piacevoli e intriganti. In realtà l’orecchio umano ha potenzialità discriminatorie enormi. Ci bastano poche parole al cellulare per riconoscere la voce di un amico e distinguerla da altre col timbro quasi identico. Tutti noi siamo in grado di trovare regolarità e strutture nei suoni o di percepire anomalie semplici. Chi ha orecchio educato, come i direttori d’orchestra, è in grado di percepire distintamente la più piccola delle incertezze su centinaia di suoni che evolvono in tempi, ampiezze e frequenze diverse.
Ecco che la trasformazione in suoni di dati scientifici potrebbe aprire la strada non solo a una fruibilità più diretta degli stessi, ma anche alla scoperta di ulteriori informazioni, talvolta imprevedibili o inaspettate. È questo il lavoro che sta a cuore a giovani ricercatori come Domenico Vicinanza, musicista e compositore italiano, con dottorato in fisica delle particelle, che lavora in Inghilterra al Geant, una rete europea dedicata alla ricerca e alla formazione. I primi contatti con Domenico risalgono a cinque anni fa, quando mi contattò, al tempo in cui ero responsabile dell’esperimento Cms al Cern e tutti i nostri sforzi erano concentrati nella caccia al bosone di Higgs. Domenico proponeva di sonificare la scoperta del bosone di Higgs mentre noi eravamo lì, nell’incertezza più totale, con la paura che anche il nostro sarebbe stato l’ennesimo tentativo infruttuoso. Ma l’idea piaceva e quindi si cominciò a collaborare. Il risultato si chiama LHC Open Symphony ed è un brano leggero e allegro per piano, marimba, xilofono, flauto, doppio basso e percussioni. Quando lo riascolto il cuore mi si riempie di gioia, come quando abbiamo visto per la prima volta la particella che inseguivamo da decenni”.